Skip to main content

Mese: Luglio 2014

Le due facce di Nanluoguxiang

La passeggiata per Nanluoguxiang 南锣鼓巷 (letteralmente “la via dei gong e dei tamburi del Sud”), è una delle destinazioni turistiche più famose e apprezzate all’interno della città di Pechino.
Situata nel distretto di Dongcheng e facilmente raggiungibile in metropolitana, Nanluoguxiang è un hutong  lungo circa 800 metri, costruito durante la dinastia Yuan (1271–1368), anche se è sotto la dinastia Qing (1644–1912) che ha assunto il nome odierno.
ph. Dimitris Argyris [CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]
Quando si parla di hutong, ci si riferisce alla tradizionale morfologia urbanistica più facilmente riscontrabile nella Cina settentrionale e quindi nella capitale Beijing. Si tratta di agglomerati di caseggiati disposti di maniera adiacente e parallela l’uno con l’altro, formando un caratteristico reticolo di viuzze e dedali color grigio mattone, testimonianza di una Cina urbana di altri tempi.
Il termine hutong, “piccola via, stradina”, è apparso però solo durante la dinastia Yuan, essendo di derivazione mongola e dal significato originale di “città”.
Hutong visto dall’alto
Durante l’età imperiale, lo sviluppo abitativo dei cittadini pechinesi si è originato a partire dal fulcro della vita sociale, politica e religiosa della capitale: la Città Proibita. Da qui, le abitazioni si sono sviluppate in maniera concentrica, a seconda del rango e dell’ordine dei loro proprietari. In particolare, gli aristocratici godevano dell’onore di una maggiore vicinanza alla Città Proibita e le loro proprietà si trovavano a oriente e a occidente di essa. La struttura architettonica di riferimento era per tutti il siheyuan, lett. “cortile delimitato per i quattro lati”.
Come il nome suggerisce, le quattro maggiori costruzioni dell’abitazione delimitavano il cortile della proprietà, con una apertura di norma verso sud, per garantire un maggior ingresso di luce.
La suddivisione degli spazi abitativi dello siheyuan considerava l’esposizione alla luce solare come tratto distintivo, secondo i rapporti regolamentati dall’etica confuciana: l’edificio settentrionale, maggiormente esposto, serviva da camera privata del capofamiglia; gli edifici a est e ovest, mediamente illuminati, erano abitati dai bambini e dai membri minori della famiglia; l’edificio meridionale, quello più scarsamente illuminato, serviva da abitazione per la servitù e da ingresso.
Le donne non sposate e la servitù di sesso femminile risiedeva in appositi locali sul retro: le donne non sposate godevano di una posizione sociale quasi nulla, per questo motivo, la loro abitazione era quella a ricevere meno luce rispetto a quella degli altri membri della famiglia. Il fulcro della vita di tutto i giorni era il cortile, abbellito spesso da piante e decori.
Struttura di uno siheyuan
Questa ordinata e rigida ripartizione etico-architettonica ha inevitabilmente legato la sua fortuna alla ricchezza e allo status dell’aristocrazia imperiale cinese. Col declino di essa, lo sviluppo urbanistico è avanzato anarchicamente disordinato: su ogni cortile hanno cominciato ad affacciarsi più abitazioni, ognuna per ogni famiglia, che condivideva con i propri vicini sia la propria vita quotidiana che i propri spazi vitali minimi. Ancora oggi è possibile ammirare, nell’arco di pochi metri, austeri e ricchi siheyuan (spesso adibiti a musei o luoghi commemorativi) e vivaci e disordinate casupole adiacenti l’una con l’altra, nate dalla presa di possesso di quelle vetuste e privilegiate costruzioni, dando quindi agli hutong la tipica conformazione labirintica per la quale sono famosi oggi.
Nanluoguxiang stessa diventa paradigma di questa contraddizione.
La via principale è costeggiata da vecchie abitazioni ristrutturate e adibite a moderni negozi, ristoranti, pub, gallerie di arte… nuclei pulsanti di modernità racchiusi da antichi involucri di grigio mattone. La strada è piena di turisti stranieri alla ricerca di souvenir e acquisti vantaggiosi e, paradossalmente, dai cinesi più giovani che affollano le catene di ristorazione più marcatamente occidentali come Starbucks e simili.
Ma il vero tesoro di Nanluoguxiang si trova nelle poco trafficate vie laterali. Provare a discostarsi dalla via principale e dalla tensione consumistica che la pervade, infilandosi in una delle vie laterali, permette al visitatore di intuire il battito lento di una Beijing inconsueta.
Basta infatti camminare per gli hutong più interni per dimenticare di trovarsi in una delle più grandi metropoli della Cina, con i suoi 21 milioni di abitanti. Non più taxi e scooter alle calcagna, ma bambini e anziani che condividono lo stesso ritmo lento e misurato, gli uni nel saltare la corda e nell’inventarsi nuovi giochi tra il dedalo di mattoni, gli altri, impegnati nelle loro faccende di casa e nel mantenimento dei rapporti con i propri vicini.
L’ordine frenetico della città, con le strade a 4 corsie, le linee della metropolitana, il reticolo del trasporto urbano, lascia il posto a un pigro accatastarsi di oggetti sulle porte di casa, vicinissime tra loro. I portoni socchiusi dei siheyuan diventati insediamenti popolari, sembrano invitare all’ingresso ma allo stesso tempo ammoniscono il visitatore sulla sacralità di questi piccoli tempi famigliari, dove le reliquie sono gli oggetti di vita quotidiana disseminati sul marciapiede e un denso silenzio accompagna la propria passeggiata.
Nessun rumore tipicamente urbano, solo il chiacchiericcio dei bambini e il vociare degli anziani di porta in porta. Una vera e propria immersione in una vita popolare di altri tempi, che continua fieramente a sopravvivere in questa fortezza placida e austera. Una guerra silenziosa tra i valori di una quotidianità lenta e antica e il progresso a tutti i costi ai quali la Cina di oggi vuole ambire.
E mai come altrove, passeggiare qui porta inevitabilmente a schierarsi verso l’uno o l’altro fronte.
Porte di abitazioni ricoperte di simboli augurali

E come Edward St. John Gorey: orrori vittoriani e brividi infantili

“A come Amy che cadde dalle scale.

B come Basil aggredito dagli orsi.

C come Clara che sta svanendo ormai”.

 

Questo macabro abbecedario è opera del disegnatore e scrittore americano Edward St. John Gorey, scomparso nel 2000 a 75 anni.

Amante dei gatti (ne aveva a decine), delle pellicce e del balletto classico, lo schivo e senz’altro originale artista dell’Illinois di ispirazione surrealista autodefinitosi ‘asessuato’, che prediligeva i disegni a pennino e inchiostro, produsse più di 100 libri di disegni e poesie.

Osservando le sue illustrazioni si entra in un mondo in bianco e nero che rammenta l’Inghilterra vittoriana ed edoardiana, con figure oscure che ai più ricorderanno i film di animazione di Tim Burton, con una poetica sviluppata forse già dai suoi primi lavori, con le illustrazioni di Dracula di Bram Stoker e La guerra dei mondi di H.G. Wells.

Oltre che disegnatore, Gorey era anche scrittore e poeta, accompagnando le sue illustrazioni a didascalie e brevi racconti: famosa è appunto la serie dell’alfabeto, con il suo libro più famoso The Gashlycrumb Tinies: or, After the Outing del 1963, che affianca ad ogni lettera una morte infantile assurdamente violenta.

 

E’ infatti l’infanzia uno dei temi prevalenti del lavoro di Gorey: pur avendo sempre affermato che i suoi libri non erano per bambini(e anzi, mal li sopportava), non si può fare a meno di percepire nelle sue tavole un richiamo alle fiabe infantili nel senso più grimmiano e crudo possibile; illustra le paure tipiche dell’infanzia- il buio, i mostri- con un vago gusto onirico che lascia perplessi e insicuri sulla sensazione che si dovrebbe provare: sgomento o curiosità?

The Gashlycrumb Tinies, illustrazione in prima pagina

Dopo aver pubblicato il suo primo lavoro The Unstrung Harp nel 1953, scrisse numerosi libri sotto vari pseudonimi, quasi sempre anagrammi del suo nome (Ogdred Weary, Dogear Wryde, miss Regera Dowdy), e pubblicò molte illustrazioni e vignette sul The New Yorker e sul The New York Times.

Nel 1978 vinse un Tony Award per i costumi con la produzione di Broadway di Dracula e nel 1980 creò l’introduzione a cartoni animati della serie televisiva Mystery!, che vide come presentatore per diverse edizioni l’attore Vincent Price (voce narrante nella versione originale del cortometraggio Vincent di Tim Burton, ispirato proprio all’attore, che ricorda molto da vicino lo stile dei disegni di Gorey).

La casa di Gorey a Cape Cod (Massachussets) è oggi un museo, dedicato alla vita e al lavoro dell’artista, ma anche al suo più grande amore e interesse: la società che si occupa della casa-museo sovvenziona infatti ogni anno numerose associazioni a difesa degli animali.

Da Shirakawa a Carpineti: un viaggio di 10000 km tra usi e costumi assolutamente identici

Arrivare nella cittadina di Shirakawa non è facile: posizionata a 500 metri di altitudine, è situata nella prefettura di Gifu, in una zona del Giappone poco popolosa poiché impervia a causa dell’abbondanza della vegetazione e delle precipitazioni che, nei mesi invernali, si tramutano in neve, la quale, scendendo copiosa, attacca al terreno fino a raggiungere un’altezza di tre metri.

E allora perché andarci? La storia potrebbe aiutarmi a rispondere alla lecita domanda: insediamento databile, presumibilmente, all’8000 a.C., non se ne sa nulla fino al XII sec. d.C. quando Kanenbo Zenshun, discepolo del monaco buddhista Shinran, vi introdusse tale religione. La sua storia continua dunque sulle orme di una normale cittadina di campagna fino a quando, dopo la guerra nel Pacifico, a seguito dello sviluppo economico, il villaggio di Shirakawa fu letteralmente assalito da una serie di lavori per la costruzione di dighe: fu per questo che gli edifici in stile Gassho divennero rinomati e cominciarono a essere venduti in tutto il Giappone, tanto che, con la costruzione di edifici contemporanei, le autorità locali chiesero il trasferimenti delle antiche case nel villaggio Gassho di Shirakawa.

Correva l’anno 1972. Non passò molto tempo prima che il villaggio fosse designato come un’area di conservazione per un gruppo di importanti edifici storici, divenendo, nel 1976, patrimonio Unesco.

Ma cosa sono le case in stile Gassho?

Per capirlo è necessaria una precisazione: la cittadina di Shirakawa è gemellata con quella di Alberobello. Il motivo è dato dal fatto che, come in Italia, anche in Giappone queste case hanno un tetto molto particolare che, al posto dei mattoni pugliesi, assembla giunchi di bambù per creare un tetto resistente alla pioggia e ai terremoti. L’azione del montaggio, poi, viene fatta in giornata da una squadra di circa 50 uomini che, in una divisione comunitaria del lavoro detta “yui” permette di rimuovere la vecchia copertura e posizionare quella nuova nel giro di una giornata.

All’interno, invece, i tetti sono sorretti da travi annodate (e non bloccate) tra di loro per permettere una maggiore oscillazione e flessione della copertura durante i terremoti. Le travi della soffitta, poi, sono compattate tra di loro dalla fuliggine che sale dal fuoco posizionato a piano terra, attraverso una serie di piani sovrapposti in cui si trovano il dormitorio, la cucina e l’essiccatoio, fino al sottotetto.

Un accorgimento intelligente ma non unico al mondo: la mia fida compagna di viaggio, la nonna, mi fa notare che anche al suo paesino d’origine, sulle colline reggiane, i “metati” per essiccare le castagne erano fatti allo stesso modo.

E, strada facendo, le cose in comune tra due Paesi così diversi si fanno sempre più numerose. Dalla “vasura” che, nel dialetto emiliano, indica quell’oggetto che anche in Giappone viene usato per dividere il frutto della castagna dalla sua buccia; alla “mina”, unità di misura prestabilita per conteggiare la quantità esatta di prodotti quali riso, farro, avena.

E che dire del rito del té, vera a propria filosofia di public relation? Come ogni emiliano che si rispetti, nel paese della nonna tale rito non si compie tuttavia col te ma con l’alcol: a Natale e alle festività è infatti uso offrire il vino o il liquore locale Sassolino ad amici e parenti in giro per le case.

Una forma di rispetto reciproco che si manifesta anche nel rapporto con gli animali: per il Giappone è il manzo che, durante la sua vita, viene accudito a base di birra e massaggi con l’intento di produrre una carne sopraffina, mentre per l’Emilia Romagna è il maiale che, alimentato con prodotti di alta qualità, viene usato davvero per tutto, al fine di non buttarne via niente. Un tuffo nel passato, insomma, durante il quale la nonna mi ha pazientemente spiegato usi e costumi di Carpineti, tanto vicino a Shirakawa nonostante i 10000 km che separano i due paesi.

Perugia: Rocca Paolina

Perugia si trova nel cuore dell’Umbria, nel torace della penisola italiana a 400 km da Milano e da Napoli, é un’incantevole città che accoglie ed ammalia i visitatori che raggiungono il centro storico sito a 450 metri sul livello del mare, passeggiando a perdi fiato tra vicoli in salita.

Memore delle sue origini etrusche ne conserva la porta Marzia, la porta Trasimena, la porta Sole e l’Arco di Augusto.

É città ricca di monumenti storici come i centralissimi Palazzo dei Priori, ancora sede del Comune e della Galleria Nazionale dell’Umbria e la Fontana Maggiore costruita da Nicola Pisano e figlio in Piazza IV Novembre.

Perugia è racchiusa quasi per intero dalla cinta muraria medievale e presenta nell’acropoli una curiosa fortezza: la rocca paolina.

10956213_10204898212007121_1545123251_n

La sua storia

Tutto incomincia dal 1540 a seguito della cosiddetta “Guerra del Sale” in cui il popolo di Perugia insorge contro lo Stato Pontificio guidato da Paolo III Farnese noto mecenate committente, per esempio, del Giudizio Universale di Michelangelo.

Da quel momento si riafferma il dominio pontificio sulla città che viene dimostrato con la distruzione di interi quartieri (quello dei Baglioni che era una famiglia ostile al pontefice e il Borgo di San Giuliano), dai quali Paolo III ricavò lo spazio e i materiali per la costruzione della rocca il cui progetto venne affidato ad Antonio San Gallo.

La rocca è una struttura militare di grande pregio artistico, in cui l’architetto è riuscito a incastonare anche l’antica Porta Marzia etrusca. Costituita da tre parti essenziali: il palazzo del Papa, il caratteristico “corridore”, una struttura alta e stretta dotata di un percorso scoperto e di due coperti che si collega con la “tanaglia”, struttura solamente militare protesa verso la campagna.

Così il Farnese dava a Perugia un aspetto inespugnabile e proteggeva la città da attacchi nemici che potevano provenire dai borghi limitrofi.

Nata da macerie, a sua volta è stata distrutta e ricostruita a più riprese nel corso del XIX secolo, epoca durante la quale vi è stata una riqualificazione urbana ed è stato costruito ciò che ancora oggi possiamo osservare: i giardini Vannucci e Piazza Italia con l’Albergo Brufani, il palazzo Cesaroni.

Della costruzione medievale rimangono soltanto i sotterranei del palazzo papale che negli anni ’30 del XX secolo sono stati ripuliti; soltanto negli anni sessanta essa è stata riaperta al pubblico.

Nel presente

Oggi appare come una città sotterranea alla quale si accede anche mediante scale mobili.

Viene chiamata con un acronimo CERP ossia Centro Espositivo della Rocca Paolina poiché l’amministrazione comunale ha deciso di rivalutare questo spazio facendone una delle arterie più vitali della città. Ospita manifestazioni culturali e turistiche, infatti si può facilmente incappare in esposizioni artistiche e in bancarelle di speciali prodotti enogastronomici. Nel sito della Provincia di Perugia si sottolinea come essa abbia «l’obiettivo di crescere sempre più verso un’organizzazione dinamica degli spazi, in grado di fare del Cerp un punto di riferimento insostituibile per Perugia e per l’Umbria».