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Mese: Settembre 2014

Dublino: qualche consiglio tra pinte, scogliere e folletti

Passeggiando per Temple Bar si può incontrare James Joyce seduto a sorseggiare una pinta, sentire Bono Vox canticchiare lungo il fiume Liffey, osservare Oscar Wilde affacciarsi malinconico alla finestra della sua casa su Merrion Square e vedere la procace Molly Malone trascinare il suo carretto gridando “Cockles and mussels, alive, alive, oh!”.

Statua di Molly Malone.
Statua di Molly Malone.

Tutto questo e altro ancora è Dublino, città di santi e beoni, capitale della verde Repubblica d’Irlanda.

Se pensi a Irlanda e alla sua capitale, pensi ai trifogli, a San Patrizio, ai verdi pascoli e ai pub. Tantissimi pub. Che a onor del vero, non trovi unicamente a Temple Bar, il famoso quartiere, ma letteralmente ad ogni angolo della città, popolati dalle prime ore del pomeriggio con tanto di musica, spesso animata da qualche amatore armato di chitarra, violino e immancabile pinta, che si ritrova a suonare per puro piacere personale, allietando anche gli astanti.

Immancabile in un viaggio a Dublino è una visita al Trinity College, prestigiosa università fondata dalla regina Elisabetta I nel 1529, situata al centro della città, che lascia a bocca aperta per i suoi maestosi edifici soprattutto se fatto il dovuto confronto con quelli delle università nostrane (ma non rodetevi il fegato, pensate alla retta!). All’interno dell’università si può accedere alla mostra permanente sul Book of Kells, splendido manoscritto miniato risalente al IX secolo; maestosa anche la Long Room dell’antica Biblioteca.

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Dopo la mens sana bisogna pensare al corpore sano, immergendosi nella natura con una bella biciclettata in Phoenix Park, il parco cittadino più grande d’Europa, che contiene al suo interno la residenza del primo ministro irlandese e l’ambasciata americana. Se si è molto fortunati e molto silenziosi si possono vedere i cervi, che spesso sostano sui campi da rugby o calcio irlandese per brucare l’erba.

Per una gita fuori porta, il meglio è recarsi a vedere le Cliffs of Moher, sulla costa atlantica, ripidissime, bellissime e altissime scogliere che mischiano il blu zaffiro dell’oceano e del cielo con il verde brillante e smeraldo dell’erba; un’erba mai vista altrove, dai colori così accesi che paiono quasi fasulli, ma realissimi e potenti se illuminati dal sole.

Noticina: non esistono i parapetti, dunque mai sporgersi troppo, specialmente chi soffre un po’ di vertigini.

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Un grosso difetto di Dublino e di tutta l’Irlanda però è la mancanza di un efficiente sistema di mezzi di trasporto: a Dublino è assente la metropolitana (che sarebbe comunque effettivamente inutile, visto il centro non molto vasto), ma le linee di bus e tram, detto LUAS, non hanno corse sufficienti a coprire la vastità della periferia, che è percorsa sulla costa da una linea di treni, chiamata DART. Per quanto riguarda le strade, la rete autostradale non è sufficientemente sviluppata, colpa della crisi forse, ma anche, probabilmente, degli stessi irlandesi: basti pensare che durante la costruzione di un tratto dell’autostrada che percorre l’isola da est a ovest, sono stati spesi diversi milioni di euro per deviare il percorso prestabilito, causa un cespuglio che secondo la leggenda sarebbe casa di fate, folletti e leprecauni, che per scaramanzia nessuno voleva abbattere.

Forse voi non deviereste il vostro percorso per un cespuglio, ma per una pinta di Guinness vi consiglio di farlo, come vi consiglio di visitare lo storehouse dell’omonima birra, situato sul lungofiume proprio nella città di Dublino: lì vi verrà mostrato il processo di creazione della birra scura (ma nella sala degli assaggi vi faranno notare che è rossa in realtà!) più famosa al mondo e, compresa nel prezzo del biglietto, potrete gustarvi una pinta al bar panoramico in cima all’edificio, godendo di una magnifica vista della città.

Un piccolo appunto: il bel bicchiere in vetro in cui vi verrà offerta la birra non è incluso nel biglietto, ma se siete molto veloci…

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Intervista a Elena Serra. Marcel Marceau, l’arte del mimo e alcuni equivoci

L’appuntamento è alle 13, una pausa veloce per poi riprendere lo stage teatrale che sta conducendo a Torino, la sua città natale. Parliamo con Elena Serra, attrice, regista e docente di mimo, per vent’anni a fianco di Marcel Marceau: chi meglio di lei può raccontarci ‘una vita nel teatro’, svelandoci il maestro che si celava nel celebre attore e chiarirci le idee su un’arte spesso fraintesa?

L'attrice Elena Serra
L’attrice Elena Serra

Come sei arrivata da Torino a Parigi? Perché hai scelto di dedicarti al mimo?

In realtà è stato casuale. Ho cominciato con la danza, il teatro, la scultura e la musica; frequentavo l’istituto statale d’arte e volevo fare la costumista in teatro. Roteavo intorno a queste discipline senza mai prenderne una in mano… Quando ho scoperto, da un volantino nella mia scuola di danza, di un seminario di un mese in Toscana con Marcel Marceau, mi sono detta: perché no? E fu una rivelazione: in quell’arte per me c’erano la forza della scultura, la leggerezza della danza, la profondità del teatro e il ritmo della musica.

E da lì è iniziato tutto…

Sì, sono andata a Parigi, alla scuola di Marceau e dopo ho avuto la fortuna che mi chiedesse di accompagnarlo nei suoi workshop in America, così ho prolungato la formazione. Ho continuato prendendo appunti durante i suoi corsi, finché un giorno, a forza di avermi al suo fianco, mi chiese di sostituirlo a scuola quando era in tournée, quindi ho cominciato a insegnare.

Ricordi con Marcel Marceau. Elena Serra è alla sua destra
Ricordi con Marcel Marceau. Elena Serra è alla sua destra

Che ricordo hai di Marcel Marceau come pedagogo?

Marceau era un uomo assolutamente umile, semplice, molto bambino, ma con un carattere forte ed esigente. Aveva molto interesse per le nostre creazioni, per quello che noi giovani volevamo dire. Per lui il teatro è sempre stato – e lo è – sociale, politico: attraverso il teatro l’artista deve dire qualcosa. Ci diceva: “Tirate fuori il vostro urlo silenzioso quando siete in pubblico”.

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Questo è il lato meno conosciuto di Marceau: quando si parla di maestri dell’arte del mimo si citano Etienne Decroux e Jacques Lecoq, ma non sempre lui.

Decroux e Lecoq si sono dedicati più alla grammatica del mimo che alla scena, perciò si pensa che Marcel Marceau fosse un artista più individualista. Chi l’ha conosciuto sa che Marceau ha sempre voluto una compagnia e l’ha avuta negli anni Cinquanta; poi ha continuato da solo, ma ha fondato una scuola e a ottant’anni si è ributtato in scena con i giovani… A volte chi parla di Marceau non lo conosce bene.

Sembra così anche per il mimo: molti lo identificano con i gesti caricaturali di chi in strada si improvvisa statua immobile o finge di toccare un muro…

L’equivoco è nato perché proprio persone come Marceau hanno reso il mimo un’arte popolare, ma poi la situazione è peggiorata: su Youtube si vedono scene patetiche con guanti bianchi e maglie a righe…

Quando la parola ‘mimo’ si allontana dal teatro perde il suo valore. Il mimo è teatro e deve essere teatro. Con tutto il rispetto che ho per il teatro di strada – anch’io lo faccio, non fraintendermi – credo che gli artisti che si danno un gran da fare, buttati sul palco più difficile, la strada, debbano difendere il proprio lavoro dai ciarlatani.

Il problema è questo: quando si imita e basta, si esce dal teatro; se invece si incarna, ci si identifica, ci si trasforma e si racconta, questo è teatro.

Foto di Noemi Marcandelli
Foto di Noemi Marcandelli

Il mimo cosa può rappresentare oggi e qual è il suo futuro?

Ho sempre pensato che l’arte del mimo fosse l’arte primordiale dell’attore perché è l’arte dell’infanzia: il bambino imita l’adulto e il mondo che lo circonda per confrontarsi.

Penso che il mimo stia rinascendo dalle ceneri dei grandi maestri. Il corpo dell’attore deve sapersi trasformare per diventare strumento drammatico, perciò un attore dovrebbe conoscere più tecniche, perché più si conosce e meno si copia e quindi si re-inventa