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Mese: Novembre 2014

“Il fiume che sembra un mare” : un viaggio lungo il Volga

Chi crede che nulla sia più spettacolare dell’immensa distesa blu del mare, certamente non ha mai visto con i propri occhi il fiume più lungo d’Europa, il Volga, che attraversa la Russia europea fino a sfociare nel Mar Caspio.

Dalla capitale Mosca il miglior modo per raggiungere il Volga è prendere un treno in direzione sud-est dalla stazione Kurskaja, arrivando in poche ore a Nižnij Novgorod, alla confluenza del Volga col suo affluente Oka. La passeggiata sul lungofiume di Nižnij Novgorod è piacevole, con tanti caffè affacciati sulla riva. A dominare la città dall’alto e a regalare una vista impagabile sui due fiumi è il Cremlino, le cui imponenti mura rosse custodiscono eleganti chiese e palazzi.

Nižnij Novgorod e le mura del Cremlino
Nižnij Novgorod e le mura del Cremlino

Da Nižnij Novgorod si può proseguire verso sud con dei comodi treni notturni. Il consiglio è scegliere i platskartny, ovvero posti letto in vagoni in cui non ci sono cabine e le cuccette sono divise soltanto dal corridoio. E’ senz’altro il modo più caratteristico ed economico per viaggiare in Russia.

Platskartny
Platskartny

Dopo una notte in treno si raggiunge Kazan’, la perla del Volga, capitale della repubblica autonoma del Tatarstan. Qui la maggioranza della popolazione è di origine tatara e di religione islamica. E’ una città magica, con scritte bilingui in russo e in tataro (una lingua turca), chiese ortodosse con cupole a cipolla accanto a bellissime moschee.

Passeggiando per il coloratissimo viale principale si giunge al bianchissimo Cremlino di Kazan’, patrimonio dell’UNESCO. Al suo interno si trovano l’enorme moschea di Kul Sharif, chiese ortodosse, torri e la sede del Parlamento del Tatarstan.

La Moschea di Kul Sharif
La Moschea di Kul Sharif
Il Cremlino di Kazan' dal fiume Kazanka
Il Cremlino di Kazan’ dal fiume Kazanka

A pochi chilometri da Kazan’ il Volga diviene ampissimo, tanto che trovandosi a bordo di un’imbarcazione nel mezzo del fiume è impossibile scorgere le sponde. Una meta piacevole, raggiungibile in traghetto, è Bolgar, antica città di cui rimangono alcuni resti suggestivi, sparsi qua e là nelle distese verdi affacciate sul Volga.

I resti dell'antica Bolgar e il Volga con le sue isole
I resti dell’antica Bolgar e il Volga con le sue isole

Più a sud si trova Samara, grande polo industriale sul Volga. La città non offre niente di interessante, se non un bunker sotterraneo fatto costruire da Stalin, difficile da visitare vista l’antipatia dell’anziano custode. L’unico passatempo degno di nota a Samara è godersi la spiaggia lungo il fiume: complici la sabbia fine e gli ombrelloni sembra quasi di stare al mare.

La spiaggia di Samara
La spiaggia di Samara

Dalla città si può facilmente evadere prendendo un traghetto per esplorare l’ansa di Samara e le colline Žiguli, che danno il nome all’ottima birra locale e ad una delle automobili più diffuse in Russia: la Lada modello Žiguli, per l’appunto. Fra queste colline il Volga scorre limpido, in uno scenario verdissimo che fa dimenticare il grigiume della città. Scegliete una delle tante spiaggette sabbiose, fate un bagno nell’acqua limpida e scovate, fra le piccole dacie (casette di campagna), la stolovaja, la mensa del luogo, dove un pasto succulento, dalla zuppa al dessert, costa poco più di un euro.

Spiaggetta sulle rive del Volga nella regione delle colline Žiguli
Spiaggetta sulle rive del Volga nella regione delle colline Žiguli

Ammirando e navigando su questo fiume che sembra un mare si è sopraffatti da un misto di nostalgia e stupore, quella sensazione che i russi chiamano toskà e che forse si può capire soltanto dinnanzi alle infinite acque del Volga.

France

 

Name and Surname: Raky KONE

Age: 21

Country: France

Nationality: French

City: Toulouse

 

 

CURRENT EVENTS:

 

1. Which is the form of government ruling in your country?

Presidential Republic with a semi-presidential system.

 

2. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Of course I think it exists, as everywhere. I just think it is less evident than elsewhere, so that it doesn’t directly influence our everyday life or the political life.

 

 

3. Do you consider yourself European? [For non-European people: could you explain why you chose Europe?]

I consider myself French, and of course France is part of the European Continent and Union. That’s why I am supposed to consider myself a European citizen… Actually I can’t really see why I should do that, because being a European citizen would just be the same as being a world citizen. In effect, as a jurist I see citizenship as sharing common culture and language, but Europeans DO NOT share them. So, for me being European is just the consequence of political agreements among European countries, leading to some economical or political advantages. But I don’t feel European.

 

 

CULTURE:

 

 

1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

French is my national language. Some dialects still exist in France but are not really spoken anymore. Recently movements arose in order to promote them, through their reintroduction as taught subjects in schools or used for signage and public trasportation in cities as a part of their cultural heritage. However they’re not spoken anymore.

 

 

2. Who do you believe to be the cultural icon of your Country?

I don’t know.

 

3. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture? [For non-European people: do you perceive the existence of a “European culture”?]

The Beatles ?

 

 

Storie di ordinaria violenza

In base  all’ultimo rapporto dell’Eures – Ansa (l’istituto di statistica europeo), sono 179 i femminicidi commessi nel 2013, un anno che ha registrato la più elevata percentuale di donne vittime di omicidio mai riscontrata in Italia. Nella parte conclusiva della sua indagine, l’Ente sottolinea anche l’inefficacia e l’inadeguatezza della risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne vittime di violenza all’interno della coppia, visto che nel 2013 ben il 51,9% delle future vittime di omicidio (17 in valori assoluti) aveva segnalato/denunciato alle Istituzioni le violenze subite (Fonte: ansa.it)

Oggi, 25 novembre 2014, è la giornata nazionale contro la violenza sulle donne e in tutta Italia partirà una campagna per sensibilizzare le persone sull’argomento. Ma quali sono le facce della violenza sulle donne? Non si tratta solo della violenza fisica, che oltre ad essere spregevole è anche visibile. Molte volte, la violenza inizia silenziosamente e crea un senso di terrore e di inadeguatezza. La testimonianza che riportiamo parla proprio di questo, di una violenza psicologica che ti toglie tutto e che porta all’isolamento.

VIOLENZA DONNE: DOMANI GIORNATA MONDIALE CONTRO BARBARIE

Ritornare a vivere con tua madre a 53 anni non è facile, soprattutto se ci arrivi dopo 10 anni di matrimonio senza avere più un lavoro, soldi sul conto, il sorriso. Ti porti dietro solo la paura, l’umiliazione, le lacrime. Dopo 10 anni Maria*(nome di fantasia) torna a casa dalla sua famiglia distrutta, a pezzi. I racconti di Maria iniziano tutti allo stesso modo: “Avevo paura. Ha iniziato subdolamente a farmi dubitare di me stessa, ha iniziato allontanandomi dalle amiche, mi ha fatto lasciare il lavoro. Spendeva i miei soldi; ero arrivata al punto di nasconderli in casa, ma lui li trovava sempre. Urlava, minacciava, non mi ha mai aggredita fisicamente, ma ha distrutto tutto quello che ero.” “Non so che fine abbiano fatto i soldi, probabilmente giocava d’azzardo. Mi ha tolto tutto.”

Il dolore dopo aver trovato il coraggio di lasciarlo è troppo forte. Maria ricade nella depressione, il male oscuro che combatte da sempre. Poi il ricovero, l’autolesionismo e il desiderio di farla finita. Maria inizia così una terapia da uno psichiatra e dopo pochi mesi, due volte a settimana, inizia a incontrare i gruppi di sostegno. Quello del giovedì è il gruppo anti violenza. Maria scopre di non essere sola. Tante, troppe le storie di donne di qualsiasi età e provenienza che vengono sottomesse fisicamente e psicologicamente, costrette a subire abusi di ogni tipo.

La sua odissea non finisce qui. Maria chiede il divorzio ma lui lo nega, così si procede per il divorzio non consensuale. Iniziano gli appostamenti dell’uomo sotto casa, tanto che Maria e sua madre, di 85 anni, hanno paura ad uscire. La sorella e la nipote di Maria la portano dai carabinieri a sporgere denuncia, ma non possono fare niente, non ci sono elementi per accusarlo. Finché un ufficiale dell’arma non decide di andare in fondo a questa storia e trovare il modo di allontanare l’uomo dalla vita di Maria.

Adesso Maria si sta riprendendo. É passato un anno, ma uscire dalla spirale di autodistruzione dove lui l’aveva condotta non è facile. Ci sono giorni in cui ritornano tutte le paure e affrontare la vita è praticamente impossibile.

Storie come questa se ne sentono troppe, Maria forse si è salvata in tempo, tante altre non ce l’hanno fatta. Si legge nel rapporto: le “mani nude” sono il mezzo più ricorrente, 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Inoltre più di 330 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compagno.

 

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NO EXPO 2015, non solo antagonisti: la contestazione milanese e le critiche nazionali

Contro il Jobs Act, contro la Buona Scuola, contro l’austerità. Ma anche contro Expo. Lo sciopero sociale del 14 novembre 2014, che ha visto sfilare in 25 città italiane migliaia tra studenti, lavoratori, sindacati, a Milano è stato un’altra occasione per manifestare contro il grande evento del 2015. Gli esponenti di centri sociali e associazioni avevano già attraversato le strade della città l’11 ottobre, passando per luoghi-simbolo di Expo come Eataly, il lussuoso supermercato del cibo italiano, e il cantiere della Maltauro, società commissariata a luglio ma ancora responsabile della gestione del progetto Vie d’acqua, un canale di 22 km che dovrebbe passare tra i parchi a nord-ovest.

«In un Paese con 6 milioni di poveri, con il 46% di disoccupazione il loro modello di sviluppo è sempre quello dettato dall’austerity, delle grandi opere e del grande evento». Parla Valentina del CSOA Lambretta, più volte sgomberato e rinato in via Cornalia, ancora più vicino alle due piramidi di Expo Gate.

Il Lambretta è una delle tante realtà milanesi della Rete Attitudine No Expo, fatta di associazioni, comitati e centri sociali che dal 2007 manifestano il loro dissenso. Lo fanno dai loro spazi in città e nell’hinterland, dove organizzano assemblee, concerti e laboratori. Lo fanno nelle manifestazioni, coordinando i cortei e lanciando interventi alla cittadinanza. Lo fanno con un’opera di documentazione e informazione per approfondire problemi che in Expo sembrano trovare un’espressione evidente: miliardi di soldi pubblici in mano a privati, cementificazione di terreni agricoli, corruzione e infiltrazioni mafiose, l’illusione dei posti di lavoro. Temi che interessano tutti, al di là del credo politico o del linguaggio radicale degli hashtag.

Le perplessità dei cosiddetti “antagonisti”, spesso dipinti come contestatori isolati, sono sempre più condivise dalla popolazione civile e supportate dalle parole di studiosi e giornalisti. A volte anche dei politici.

Io non lavoro gratis per Expo

È la campagna lanciata in risposta al Programma Volontari di Expo 2015, che propone diverse modalità di partecipazione: un anno di servizio civile o un intero anno scolastico; 6 mesi, 2 settimane o un solo giorno. Ma a parte la progettazione di visite guidate, perlopiù svolta da scuole e associazioni, si tratta di un normale servizio di accoglienza dei visitatori della mostra. Si definirebbe un vero e proprio lavoro, solo non pagato.

A proposito: i famosi 37 mila posti di lavoro? Un anno fa il protocollo di Expo spa offriva contratti di apprendistato, contratti a tempo determinato e stage “riveduti” per l’occasione. Il Dossier scuola e lavoro in Expo del C.a.s.c. Lambrate (Coordinamento autonomo studenti e collettivi Lambrate) mostra le tante deroghe alle forme contrattuali con esempi pratici. Di stage retribuiti si parla nelle scuole secondarie, ma i più giovani non sarebbero adatti ai criteri di selezione, restrittivi quasi quanto quelli per i 300 contratti a tempo determinato. L’apprendistato poi formerebbe 340 tra “operatori/ specialisti/ tecnici sistemi di gestione grande evento”, 340 specializzati in compiti difficilmente spendibili in contesti diversi, ma assunti con un contratto conveniente, a livello contributivo, per l’offerente.

Per contrastare la pubblicità del Volontariato Expo come «social network dell’anno», in molti hanno aderito alla campagna su Facebook, postando una propria foto o un video.

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Expo e cibo, lo scontro tra grandi e piccole produzioni

 

Nutrire il pianeta, Energia per la vita è l’ambizioso tema di Expo 2015 per stimolare il dibattito su malnutrizione, biodiversità alimentari ed educazione a nuove abitudini di consumo. Lo spazio espositivo lo interpreta attraverso percorsi interattivi di contenuto scientifico, culturale e ludico. Inoltre Milano ospiterà Zero Hunger Challenge, la campagna di sensibilizzazione sulle politiche di contrasto della malnutrizione. Un ottimo progetto. Semmai sono le contraddizioni, forse inevitabili per una “grande opera”, a scatenare polemiche: come conciliare la riflessione sulla redistribuzione delle risorse e la fame nel mondo con la presenza di sponsor multinazionali e di Eataly, la catena di negozi del cibo italiano che dovrebbe viaggiare fino agli States? A contestare sono anzitutto contadini, artigiani e piccoli produttori di Genuino Clandestino, movimento nazionale di quasi trenta realtà unite per sostenere la sovranità alimentare e un sistema trasparente di produzione e distribuzione del cibo, fondato sulla cooperazione e la salvaguardia dell’ambiente.

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Le Vie d’Acqua, l’acqua nelle vie

 

A fronte dei danni recenti provocati dalle esondazioni dei fiumi milanesi, il sindaco Giuliano Pisapia considera la possibilità di destinare parte dei fondi per Vie d’Acqua agli interventi sulle criticità idrogeologiche, realizzando solo la parte del progetto che garantisce la messa in sicurezza del sito di Expo 2015. Forse l’«anello verde-azzurro fatto d’acqua» può aspettare: i ritardi nei cantieri rendevano già impossibile concludere i lavori per l’apertura dell’esposizione.

Non si fanno attendere invece le voci che chiedono di stornare i 45 milioni di euro per la Via d’Acqua Sud. In particolare, il collettivo OffTopic rilancia la lotta No Canal a difesa dei parchi Pertini, Trenno e delle Cave e pubblica l’e-book gratuito #NoCanal. Storia della lotta che ha messo a nudo Expo, che ripercorre la storia del progetto Vie d’Acqua. Ora funzionale alle finalità scenografiche e manutentive del sito di Expo 2015, a evento concluso sarà un’opera in cemento in un sottosuolo già contaminato.

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Le ombre sul post-Expo

Meno di 160 giorni ed Expo Milano 2015 sarà realtà. Paradossalmente è già tempo di bilanci. Quello di Roberto Perotti, docente all’Università Bicocca, svela che le promesse sul rilancio dell’economia e sui posti di lavoro si fondavano su un’analisi che escludeva che i soldi di lavoratori e imprese potessero rimanere tra i risparmi, senza tornare ‘in circolazione’.

Guardando al passato, tornano alla mente gli scandali legati a corruzione, tangenti e appalti truccati, si ripensa agli scenari desolanti di molte città che hanno ospitato l’Expo pochi anni fa, popolate di architetture eccentriche ma abbandonate, lasciate al degrado.

Intanto, sappiamo che il 15 novembre è scaduto il bando per acquisire le aree Expo 2015: nessuno si è presentato e ora Arexpo, società i cui soci principali sono Comune di Milano e Regione Lombardia, deve restituire alle banche il denaro speso per l’acquisto dei terreni privati.

Non ci resta che attendere gli sviluppi sul fronte ufficiale. La nuova mobilitazione di Rete Attitudine No Expo, invece, è annunciata già per dicembre.

Si andrà avanti fino al primo maggio 2015, per mantenere la promessa dell’11 ottobre scorso: collaborare, diffondere, organizzare iniziative per dire No a Expo.

Via Quarenghi: il cuore di una Bergamo multietnica

Se a Bergamo dici “Via Quarenghi” dici “Porettaio” e cioè “birre Poretti da 66cl a 1€”. Ma quale è il vero volto di questa via?

Si trova in pieno centro ed è considerata un vero e proprio ghetto. Il bergamasco comune è impaurito dalla gente che ci vive, pensa sia l’inferno terrestre e il covo delle peggiori droghe esistenti al mondo. Tant’è che circa a metà della via si trova il dipartimento della Polizia Locale, il grande occhio, controllore e tutore della sicurezza.

Ciò nonostante, basta farci una passeggiata per capire che le cose stanno in maniera davvero diversa: colori, profumi che ricordano posti remoti del mondo, culture che si mescolano disegnando un quadro dai confini sfumati e infine lingue diverse, dall’hindi allo swahili. La percezione è quella di vivere in più luoghi contemporaneamente. Un signore mi spiega come passeggiare per via Quarenghi lo faccia sentire a casa e un po’ meno solo; una ragazzina mi dice che le treccine ai capelli le fanno solo qui e infine un parrucchiere mi racconta che in fondo in Italia si sta bene.

Le fotografie scattate cercano di cogliere la forza del multiculturalismo e la bellezza della “diversità”. Un manifesto contro l’emarginazione e la ghettizzazione della popolazione straniera.

Tra le vie di Bucarest, i bambini di strada e la Fondazione Parada

Quando arrivi per la prima volta in una città, i passi ti conducono spontaneamente verso il centro, la parte migliore, biglietto da visita e facciata turistica. A Bucarest, invece, il centro storico ti racconta storie differenti.

Durante i miei primi mesi nella capitale (con molta probabilità a causa delle imminenti e oramai concluse elezioni presidenziali) la città è stata soggetta a continuo ammodernamento, tra strade, marciapiedi e nuove tinteggiature. Quando però si attraversa il giardino di Piaţa Unirii, a un solo chilometro dal Palazzo del Parlamento, nel cuore della città socialista che Ceauşescu cercò di costruire negli anni ‘80, non è possibile distogliere lo sguardo da coloro che dormono sulle panchine o bevono sull’erba. Sono le persone che vivono per strada, non più solo bambini ma anche adulti. Ai primi ho cercato di approcciarmi con sorrisi, saluti e sguardi buffi, sedendomi nelle vicinanze, ma nulla è servito a superare il loro sguardo di diffidenza nei miei confronti. Ho deciso allora di avvicinarmi a chi, con loro, lavora da anni: Associazione Parada Romania.

In Strada Bucur 23, Settore 4, a una decina di minuti da Piaţa Unirii, si trova il centro della Fondazione Parada, associazione che dal 2006 si propone anche su territorio italiano per la promozione e difesa dei bambini di strada. Utilizzando un approccio di tipo partecipativo, l’associazione punta alla reintegrazione sociale della gioventù di strada grazie al centro diurno, concepito come alternativa al vagabondaggio, nel quale si portano avanti attività ludiche e supporto psicologico, e grazie all’unità mobile Caravana, un servizio di assistenza stradale che si pone come intermediario tra la strada e i servizi offerti da Parada. L’unità mobile è attiva tre giorni alla settimana, incontrando diversi gruppi che abitano i canali, portando cibo, coperte e vestiti e parlando dei servizi che l’associazione può offrire, quali doccia, lavatrici e aiuto per la compilazione dei documenti necessari per lavoro e assistenza sanitaria; tutti servizi che Parada, nei due giorni della settimana in cui Caravana non esce dal centro, mette a disposizione dei suoi beneficiari.

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Ma chi sono i suoi beneficiari? Cosa si intende con “per strada”?

Una fascia di popolazione fissa, 1200-1500 persone di tutte le età, vivono senza dimora: d’estate nei parchi e lungo le vie, d’inverno nei canali sotterranei. I canali non sono le fogne. Tra la superficie e le fogne vere e proprie, nei canali scorrono i tubi del riscaldamento centralizzato, fondamentali per coloro che vogliono sopravvivere a un inverno capace di toccare i meno 20°. La strada rappresenta per questi senzatetto la libertà: negli orfanotrofi o nelle residenze messe a disposizione dal governo, la violenza è all’ordine del giorno.

Per le stesse motivazioni è nato il fenomeno dei bambini di strada dopo il Natale del 1989, giorno della caduta del regime comunista di Ceauşeascu. Dopo aver lanciato nel 1966 una campagna contro l’aborto e i metodi contraccettivi seguendo il binomio più rumeni = più potere, il dittatore tagliò le agevolazioni statali per le famiglie numerose, causando l’aumento vertiginoso della mortalità infantile, dell’abbandono di minori e del numero di bambini negli orfanotrofi. Da qui, i ragazzi non potevano scappare. Sino alla caduta del regime. Colpa dunque di Nicolae? Iuliana mi fa saggiamente notare come il numero dei bambini di strada, dal 1989 a oggi, sia costante. «Il problema è che dopo la Rivoluzione nulla è veramente cambiato. E’ subentrato il capitalismo, a gamba tesa, creando squilibri mostruosi accanto a moltissimi benefici, ma il passaggio è stato troppo repentino», proferisce Sergio.

Le strade di Bucarest non sono abitate solamente dai senzatetto. Le occupazioni, soprattutto nel centro storico della città, sono tantissime in quanto dopo l’89 numerose case sono rimaste sfitte e chi non ha una casa occupa, sperando che il proprietario non ritorni. Non è gente che vive nei canali, ma un giorno ci ritornerà: difficile dunque riuscire a fare una stima definitiva di coloro che vivono per strada poiché la strada ha regole tutte sue ed è caratterizzata da una flessibilità con la quale Parada deve fare i conti.

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«Una volta si faceva tantissima animazione lungo le vie della città, il circo, ma oggi non abbiamo la struttura per gestire tutti i bambini che l’attività potrebbe attirare. Senza contare che il personale della fondazione è dimezzato», continua Sergio. L’attività circense è stata cuore e fondamento dell’associazione, nata nel 1996 grazie a Miluod Oukili, giovane clown franco-algerino, che nel 1992 arrivò a Bucarest per fare l’artista di strada. Finì per conoscere i «boschetari» della stazione Gară de Nord e per scommettere che li avrebbe tirati fuori dai canali. Ce la fece con la maggior parte, tanto che uno di loro, allora bambino e oggi trentenne, lavora a Parada.

Per conoscere meglio la sua storia, vi rimando al film Pa-ra-da di Marco Pontecorvo realizzato nel 2008, augurandovi buona visione!

Elena from Moldova

Name and Surname:  Elena Talpa

Age: 24

Country: Moldova (living in Italy since 2003)

Nationality: Moldavian

City: Chisinau

CURRENT EVENTS:

 

  1. Which is the form of government ruling in your country?

Parliamentary Republic.

 

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Yes, corruption is still pretty widespread. Almost everything is based on favoritism and bribe. It is changing but too slowly.

It pervades all the working environments, having a negative influence even on one’s personal and social life. If you distrust institutions (economic, political, academic…) you keep building your life through “relationships” and money  and not through real studying and working hard, lowering overall society’s well being .

 

  1. Do you consider yourself European? [For non-European people: could you explain why you chose Europe?]

Yes, I do. Moldova is not part of European Union (yet ;)) but it is still part of Europe as a continent.

 

 CULTURE:

 

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

Romanian. Moldavian can be considered as a dialect, as it is a mix of Romanian and Russian. Someone considers it as an independent language but fortunately the official language is still considered Romanian, at least in the Declaration of Independence. Young people tend to speak “Moldavian” or Russian.

 

  1. Who do you consider to be the cultural icon of your country? (io la metterei un po così: Who do you considered to be the cultural icon of your country)

Mihai  Eminescu, writer and poet, that lived in the XIX century. He is considered to be the “father of the Romanian literature”.

 

  1. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture? [For non-European people: do you perceive the existence of a European culture?]

 I would say Jean Monnet, even if he was a politician and not a cultural  personality. I see him as one of the main protagonists that has had a big impact on the European belonging development and the consequent cultural development. I’m not sure whether we’ve already had real European cultural icons; national icons still have a strong presence, but I think that it is also too soon to say that. EU still needs time and only history will tell us.

Romania

Name and Surname: Andrei Loghin

Age: 25

Country: Hungary

Nationality: Romanian

City: Budapest

CURRENT EVENTS:

  1. Which is the form of government ruling in your country?

First of all, I would like to mention that I think of Romania as my country, although I am living in Hungary at the moment. The form of government is semi-presidential republic.

 

  1. Do you belive corruption exist in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

It exists, as it does in all countries to different extents. I wouldn’t say corruption is rampant – maybe not to the level that it is in African countries let’s say, but Romania is not known as a corruption-free country. I can imagine political life is greatly affected by corruption. As for my private life, I think the effect is minimal, or unknown by the public in general at least.

 

  1. Do you considere yourself European? [For non-European people: could you explain why you chose Europe?]

I do. I share the mindset of most Europeans, I believe. We love our diversity and sense of belonging, while holding on to our own uniqueness, that of each separate nation. We love Europe as a whole, although we sometimes hate on each other as different peoples. Nevertheless, it’s togetherness and diversity that keep us going as Europeans.

 

CULTURE:

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

Romanian. There are very few regional dialects, born out of geographical separation and mixture with other cultures. Young people speak in dialects too, just like most people who love in those regions.

 

  1. Who do you consider to be the cultural icon of your country?

This is a tough one. I think, for better or for worse, that we can be proud to call Dracula our own. The real historical figure, Vlad Tepes, I think was even more interesting than the fictional character based on him.

 

  1. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture? [For non-Europena people: do you perceive the existence of a “European culture”?]

Oh, wow. This is an even tougher question. I don’t generally think of ONE single European culture, as a whole, but I guess the first people that pop into my mind are da Vinci, Beethoven, and the like. Although I think most outsiders would think of Angela Merkel or Conchita Wurst nowadays first.

 

Viaggio tra i profughi siriani: dalla stazione Centrale all’Europa

di Alessandro Giuliano Andrea Turchi

La stazione centrale

Ahmad ha 23 anni. Si è fatto tre giorni di viaggio. E ora, appoggiato sulle colonne di marmo al mezzanino della stazione centrale, ci racconta dell’odissea che dalla Siria l’ha portato in Italia.   Ahmad è uno dei tanti profughi fuggiti dalla guerra e dalla disperazione. A Milano, da agosto 2013 ne sono arrivati decine di migliaia. Numeri. Per ogni numero una storia. Storie e numeri della cosiddetta emergenza profughi. Carlotta, invece, è una studentessa italiana, studia a Pavia e ogni giorno prende il treno per andare a lezione. Ogni mattina facendo le scale, si trova di fronte tante persone nelle condizioni di Ahmad. Sono giovani, vecchi e intere famiglie con i bambini che giocano ai piedi della scalinata che porta ai binari. A questa gente manca tutto. Carlotta passa davanti a loro ogni giorno, ma decide di sottrarsi all’indifferenza. Di intervenire. Oggi, insieme ad altri volontari, fa parte dell’associazione “Sos Erm che offre immediata accoglienza, soccorso e cure ai profughi che arrivano in stazione centrale. Una mobilitazione partita dal basso e che presto ha coinvolto anche associazioni e cooperative sociali. Un’azione tempestiva volta ad affrontare una situazione al limite del collasso.

Perché Milano

Chi arriva a Milano scappa dalla guerra. Ha visto la propria casa saltare in aria. Ha visto la morte negli occhi e i cadaveri di chi non ce l’ha fatta, galleggianti nel mediterraneo. La speranza è raggiungere la Germania, ma anche Olanda, Danimarca e Norvegia. Milano è un ponte. Un ulteriore punto di partenza per raggiungere nuove mete. «dei 42mila profughi ospitati a Milano nell’ultimo anno – spiega Fabio Pasiani, della cooperativa ARCA  (www.progettoarca.org) –  solo 50 hanno richiesto asilo in Italia. Per il resto, tutti cercano di proseguire la propria strada verso gli altri Paesi europei, al fine di raggiungere le comunità siriane pre-esistenti in quei territori.» Il capolinea, dunque, non è Milano. Il viaggio continua oltre le alpi.

I centri di accoglienza

L’emergenza si è presentata già un anno fa. Le ondate migratorie hanno presto affollato i locali della stazione. Dapprima le associazioni e in seguito il Comune hanno provveduto all’accoglienza e al loro smistamento nei centri deputati. Al contrario di quanto si possa pensare, la città si è trovata a dover gestire non solo gli arrivi delle persone sbarcate sulle coste del sud Italia, ma anche coloro che qui venivano mandati da altri centri dislocati nelle diverse città del nord. In pratica, il Comune di Milano è stato l’unico del nord Italia a mobilitarsi. Si colloca in quest’ottica anche la trasformazione dell’ex centro di identificazione ed espulsione (CIE) di via Corelli, in un vero e proprio centro di accoglienza. Tuttavia non stiamo parlando di hotel di lusso, ma di strutture al limite del collasso. Una condizione drammatica alla quale molti preferiscono il marmo del mezzanino o il primo treno verso il nord.

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Le istituzioni e la burocrazia

Dopo i primi arrivi in massa presso la stazione centrale, il Comune, in collaborazione con alcune associazioni, ha deciso d’intervenire nella maniera più tempestiva possibile. Purtroppo, però, in questa vicenda permangono molte le zone d’ombra: quale sia stato l’effettivo ruolo svolto dalle forze dell’ordine o dagli altri organi istituzionali, quali le leggi che abbiano regolato la schedatura dei profughi, se e dove tali norme siano state applicate e in quali casi aggirate. Cerchiamo di ripercorrere insieme alcune tappe fondamentali. L’operazione Mare Nostrum (conclusasi il mese scorso e sostituita da Triton) è entrata in vigore il 18 Ottobre 2013 al fine di salvaguardare la vita dei migranti ed assicurare alla giustizia gli scafisti. Gli 11.300 siriani (stime del Viminale) portati in salvo sulle coste italiane, secondo il regolamento di Dublino II (in vigore dal 17/3/2003), avrebbero dovuto essere schedati al momento dello sbarco, dunque nel Paese nel quale approdavano. Il fine di tale normativa era proprio quello di evitare che i richiedenti asilo fossero inviati da un Paese all’altro e di prevenire l’abuso del sistema, ovvero la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona. “Avrebbero” perché, a quanto pare, l’Italia non ha rispettato in maniera ortodossa gli accordi Europei, violando la legge e omettendo la schedatura dei profughi. Sono solo congetture certo, tuttavia ciò darebbe una ragione ai numeri: ovvero delle 50 richieste di asilo, a fronte di 60mila profughi arrivati a Milano. Anche la circolare del 2 Ottobre, emessa dal Ministro dell’Interno Angelino Alfano, che sollecitava ad applicare i trattati Europei (stiamo parlando di Ottobre 2014), sembra avallare l’interpretazione di una mancato rispetto degli accordi europei da parte degli organi competenti.

Il punto

Da alcuni mesi a questa parte il flusso migratorio verso le coste italiane è notevolmente diminuito, anche a causa delle condizioni meteo che rendono sfavorevole la navigazione. Tuttavia la vicenda non può e non deve passare in secondo piano. Se la tristemente nota realtà del “mezzanino” della Centrale di Milano appare ora più tranquilla, altrettanto non si può dire per i centri di accoglienza i quali, già al limite della capienza, rischiano il collasso. Anche perché, proprio in questi giorni a Milano partirà il “piano freddo”, il programma del Comune dedicato all’assistenza dei senza tetto, che saranno ospitati negli stessi centri. La vicenda dei profughi siriani in stazione ha suscitato sdegno per il degrado conseguentemente generatosi, ma è stata anche terreno di strumentalizzazioni politiche utili agli sfoghi di piazza: dalla caccia allo straniero, alle invettive antieuropeiste. Ma non è questa la sede per puntare il dito, bensì per porre la lente su una questione complessa che miete fin troppe vittime. La macchina burocratico-legislativa, che avrebbe dovuto regolare e favorire il deflusso (perché di questo si tratta) degli immigrati, è venuta meno al proprio compito, generando una complessa rete di ostacoli legati anche al continuo “scarica barile” tra le autorità. Il mancato coordinamento, anche a livello internazionale, ha avuto come unico risultato il caos arginato dalla volontà, dalla civiltà e dall’iniziativa di cittadini ed associazioni che per primi si sono mossi ed hanno sollecitato le istituzioni a fare altrettanto.Nella parzialità del quadro ricostruito dobbiamo prendere coscienza di alcuni elementi ineludibili. La volontà di chi sbarca non è quella di rimanere nel nostro Paese. L’Italia è il ponte tra il Mediterraneo e l’Europa. Un Paese che, però, non sembra in grado di adempiere ad un compito semplicissimo: assicurare a chi arriva un’accoglienza e un normale scorrimento verso gli altri Paesi dell’U.E. E, ancora una volta, torna in mente l’immagine del nostro territorio come una grande stazione. Un enorme scalo ferroviario che non guida né partenze né arrivi.

Hospital Blues – Ex Ospedale al Mare

Se per il resto del mondo Venezia è considerata una delle città più belle, altro non è per me che un semplice luogo di transito. La mia destinazione finale si trovava infatti in fondo al lungomare sul Lido, all’ex Ospedale al Mare, il cui complesso di edifici è stato via via lasciato a se stesso nel corso dei primi anni del 2000.

Un tempo si trattava di un nosocomio tra i più importanti in Europa, famoso per le cure elioterapiche e per la posizione strategica che favoriva l’esposizione all’aria di mare e alla luce solare, elementi che contribuivano alla cura dei pazienti; oggi deve il suo abbandono a un declino economico causato da tagli alle spese sanitarie e conseguente chiusura di un reparto dopo l’altro in favore di altri interessi e spese, pubblici e non. Una fine che nessuno si sarebbe mai aspettato, visti gli anni d’oro e la passata eccellenza dell’intera struttura dell’Ospedale al Mare.

Ogni edificio e ogni stanza sembrano un piccolo mondo a loro stante; qualcuno, forse gli studenti dell’Accademia di Belle Arti, ha scelto alcune di queste stanze come palcoscenico per le sue installazioni artistiche. Altre stanze sono semplicemente vuote, altre ancora sono state abitate da qualche occupante di passaggio. Mi perdo tra le mille scale fino a trovare a fatica l’uscita di alcuni dei tanti edifici, attirata da un corridoio dopo l’altro.

Tre giorni a Stoccolma

Pensi a Svezia e pensi… a cosa pensi? Freddo, neve? Nobel, Ikea? Spesso ignorati e considerati esclusivamente come oasi di civiltà e d’avanguardia, senza alcun appeal turistico, i paesi scandinavi possono rivelare piacevoli sorprese dal punto di vista culturale e paesaggistico, come ho potuto osservare a Stoccolma, capitale della Svezia, ricca di una storia e di una cultura sconosciuta ai più, con scorci che non ci si aspetterebbe. Tenendo presente che la Svezia in generale, e Stoccolma in particolare, è un paese abbastanza costoso (10 Corone-SEK- equivalgono a poco più di 1 €, un pasto completo è sulle 400 SEK), è comunque possibile sfruttare al meglio e in poco tempo questa città, senza arrecare troppo danno al portafoglio. Brevemente, ecco quello che si può scoprire in soli 3 giorni low-cost di questo freddo e regale paese.

Primo giorno: dall’aeroporto di Skavsta, arrivati col bus alla Stazione Centrale, inizia l’esplorazione della città, usando la comoda Tunnelbana, cioè la metro. Per i tre giorni di visita, si può acquistare una Travelcard da 72h: 230 SEK. La prima cosa da vedere è senza dubbio Gamla Stan, il centro storico situato sull’isola centrale di Stoccolma, la cittadella risalente al XIII secolo, con tutta la sua babele di stradine e vicoli, in salita, in discesa, circondate da negozi di souvenir, ma anche botteghe di artigianato; un luogo unico che ricorda le città di mare mediterranee, più che una pulita e ideale città nordica. Il fascino di questo luogo culmina nella piazza di Stortorget, su cui si affaccia, tra l’altro, il museo del Nobel, con i suoi palazzi pittoreschi e le sue case piene di colori.

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Stortorget

Da Gamla Stan si arriva fino al palazzo reale, Stockholms slott, nel punto più alto di questo quartiere-isola: una costruzione semi-circolare sede di diversi musei, ma non della famiglia reale, che già da tempo risiede, anche se non ufficialmente, in un’altra residenza privata. Ogni giorno, verso mezzogiorno, fuori dal palazzo avviene il cambio della guardia, banda musicale, guardia a cavallo e inno compresi. Sempre a Gamla Stan si può visitare la cattedrale di Stoccolma, o Storkyrkan, la chiesa di San Nicola, in stile barocco con uno  splendido e inquietante complesso scultoreo rappresentante San Giorgio e il drago.

Secondo giorno: musei a Stoccolma ce ne sono tanti, ma uno veramente degno di nota (e di visita) è il Vasa museet, situato su un’isola dell’arcipelago di Stoccolma(biglietto per adulti 130 SEK): al suo interno è esposto, praticamente intatto, un vascello da guerra del XVII secolo affondato a pochi kilometri dal porto al suo viaggio inaugurale; una sorta di Titanic ante litteram. Le condizioni del fondale marino consentirono negli anni ’60 il recupero per intero della nave, attorno al quale venne in sostanza costruito il museo. Non è possibile, ovviamente, salire a bordo, ma una serie di passerelle a più piani permettono di osservarlo da vicino, lasciando sbalorditi per la ricchezza delle decorazioni (che dovevano essere a colori) e per lo stato di conservazione pressoché perfetto: il 98% sono parti originali, dopo 333 anni passati sott’acqua!

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Il museo si può raggiungere col battello (se apprezzate l’ironia della cosa) ma è anche possibile ritornare a piedi al centro città con una serie di ponti che collegano le varie isole: passando per Östermalm, il quartiere più ricco e ‘in’ della città, sempre con la metropolitana ci si può recare a Riddarholmen, un’isola adiacente a Gamla Stan, dove si trova la Riddarholmskyrkan, il pantheon dei re svedesi. Dal lungomare di Evert Taube Terrass, passeggiata dedicata all’omonimo musicista folk svedese, con tanto di statua in suo onore, si ammira il prolungarsi via mare della città e l’imponente municipio Stockholm stadshus, dove ogni anno si tiene la cena ufficiale in occasione della cerimonia di premiazione del Nobel.

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Statua ad Evert Taube

 

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Stockholm Stadshus

Per la sera e lo shopping, ideali sono la zona a nord di Gamla Stan, il Norrmalm, più alla moda ed elegante, o il Södermalm, più alternativo, ricco di negozi e boutique vintage.

Terzo giorno: se non siete superstiziosi e siete poco impressionabili, andate a Skogskyrkogården. Dietro questo nome impronunciabile, si cela un sito iscritto all’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità. Cos’è? Un cimitero. Novantasei ettari di prato che ricordano un campo da golf, se non fosse per le lapidi nascoste dietro i pini e gli alberi, con una sensazione (senza dubbio) di quiete e un’ambientazione da Campi Elisi; lo sconsiglio di sera, dove i lumini delle tombe possono far pensare a fuochi fatui che è preferibile non inseguire. Inoltre, se avete la pazienza di cercare(la sottoscritta non l’ha avuta), qui si trova la tomba della diva Greta Garbo.

Infine, se vi siete ripresi dall’atmosfera lugubre della visita precedente, c’è sempre spazio per un po’ di sana gastronomia: nel ricco quartiere, già citato, di Östermalm, si trova la SaluHall, il mercato coperto in stile art nouveau, dove è possibile assaggiare vero cibo svedese, aldilà delle famose polpette vendute in un qualsiasi negozio Ikea: l’aringa affumicata è da provare! Il clima da fiaba è assicurato e per chi subisce il fascino delle città del nord, con quell’aria malinconica ma razionale.

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Saluhall

La forza delle parole e di David Grossman

Alle 18.00 di giovedì 13 inizia ad accumularsi gente all’ingresso del Teatro dal Verme, per mettersi in coda e aspettare l’apertura delle porte alle 19.30. Il teatro ospiterà infatti dalle 20.30, l’evento d’inaugurazione del Milano BookCity Festival 2014 “La forza delle parole” dove il giornalista Edoardo Vigna intervisterà l’ospite d’onore, lo scrittore David Grossman. Il teatro si riempie velocemente e alle 20.50 siamo pronti ad iniziare: dopo il discorso introduttivo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, consegna a Grossman i sigilli della città e lascia il palco in favore di Vigna per iniziare l’intervista.

L’intervista affronta vari argomenti, si parte da cosa le parole significano per Grossman e dell’importanza del linguaggio per uno scrittore e non. Grossman, perfettamente a suo agio, racconta un aneddoto di Bruno Shulz, scrittore e pittore polacco che morì nei campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale: “Mi immagino che il linguaggio fosse come un serpente che venne tagliato in tanti pezzettini, che formarono le parole e vennero distribuiti alle persone. Sembrano elementi separati, ma se trovi la giusta combinazione accade la magia, si crea una connessione incredibile e imprescindibile”. La successiva domanda richiede a Grossman di trovare tre parole che vorrebbe tramandare all’uomo del 2114 per descrivere la società odierna: Distacco/ alienazione, incertezza e speranza, per descirvere i poteri contradditori di questa società.

Si prosegue con domande sulla sua infanzia in Israele e su come abbia vissuto la guerra e i conflitti che tutt’oggi dilaniano il suo popolo e Grossman, tra una battuta e l’altra, descrive come conobbe la Shoà alle elementari e come affrontò la guerra dei 6 giorni nel ’67, il sollievo quando capì che avevano vinto e la profonda amarezza per i conflitti che si generarono in seguito. Nell’ultima parte dell’intervista Grossman parla del suo nuovo libro “Applausi a scena vuota” dove un comico inizia il suo monologo e finisce per raccontare la sua infanzia e il momento che lo ha cambiato per sempre, lasciando intuire al lettore come la coscienza sia insieme problema e soluzione dei pensieri che tormentano l’anima (Non svelerò oltre del libro, ma lo consiglio vivamente!). Viene anche qui analizzato come il linguaggio del comico cambia dall’inizio del libro, dove il protagonista indossa la maschera sarcastica, al racconto della sua infanzia, dove assume connotati più intimi e dolci. Si conclude così l’apertura del Milano BookCity Festival, e non poteva esserci inizio migliore.

 

In copertina, David Grossman all’evento per i 10 anni della Fronteiras do Pensamiento [ph. Fronteiras do Pensamiento CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

Francia

Name and Surname: Olivier de La Brosse

Age: 27

Country: France

Nationality: French

City: Aix-en-Provence

 

CURRENT EVENTS:

 

  1. Which is the form of government ruling in your Country?

My country is a republic where the president has a lot of power because he’s elected directly by the citizens (Presidential Republic).

 

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Corruption is quite widespread within French political élite, such as among entrepreneurs. This is why French people don’t really believe in politics. It’s hard for us to trust their words because we know that they are capable to lie. Nevertheless, when we look at other countries we consider France not to be a very corrupted country thanks to the effective control upon our political system.

 

  1. Do you consider yourself European? [For non-European people: could you explain why you chose Europe?]

I consider myself European because I’m French but I’m also partly Hungarian and Italian. I speak three European languages apart from French and I’m well aware of the fact that the culture of my country is deeply related to European culture and influence. I also have friends and family all over Europe.

 

 

CULTURE:

 

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

My national language is French. There are dialects in my country, students at school study Basque and Breton. I think that Occitan isn’t used anymore and only linguists considers it nowadays.

 

  1. Who do you believe to be the cultural icon of your country?

There are many cultural icons in France. I strongly believe that Georges Brassens is the most appreciated cultural personality by every generation.

 

  1. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture? [For non-European people: do you perceive the existence of a “European culture”?]

Goethe.

Romania

Name and Surname: Alexandra Iancu

Age: 22

Country: Romania

Nationality: Romanian

City: Bucharest

 

 

CURRENT EVENTS:

  1. Which is the form of government ruling in your country?  

Semi-presidential republic.

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Corruption exists in all the areas of Romania. It starts from the most important authority governing this country and it gets everywhere. Almost everything is based on corruption here. As a matter of fact, last week, Mr. Victor Ponta, a young(!) candidate running for the presidential elections (of this year) paid thousands of people to come to Bucharest from all over the country, they filled a stadium and were asked to give him a round of applause. Of course, this big sham was recorded by the media, in order to create the impression that a lot of Romanians would go for him and elect him as a future president. I was told by my parents that this used to happen during the Ceausescu regime, the communism. Obviously, corruption has a tremendous power upon our lives. No matter how fair we try to be, we always get stuck somewhere because of all the others who made an ideology out of BRIBE… Or just because we cannot live differently. I used to judge people around me before living abroad. I thought we were the only ones living like this. But I realized Romania is not the most corrupted country in the world. People get to be corrupted because we, as a nation, are poor. We need money in order to survive these huge costs, doctors cannot afford NOT receiving little “gifts” from their patients. How could a person receiving 200 euros par month (minimum salary) live decently when a kilo of lemons is 17 RON (4 euros)? The salaries of a resident start from 200 euros!

  1. Do you consider yourself European? [For non-European people: could you explain why you chose Europe?]

I definitely consider myself European even if I have the feeling that I’m not living in an European country.

 

CULTURE:

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

My language is Romanian. There are variations of language here, in Moldova, in Transilvania, in the west. Young people know about them but they don’t really use them unless they live in those specific areas.

  1. Who do you consider to be the cultural icon of your country?

Unfortunately, all the role models promoted here now are not so “cultural”. Romania is “feeding” its public with the Barbie dolls who can easily get famous by marrying rich guys. In my opinion, the most representative cultural icon for us is Nadia Comaneci, one of the most famous gymnasts in the world. And Simona Halep at the moment, a young tennis player who has just been ranked the 3rd in the WTA ranking, after winning a lot of games in the last months.

  1. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture? [For non- European people: do you perceive the existence of a “European culture”?]

Chopin. It’s quite strange that not even one actual name comes to mind…

Il Delta del Danubio e la sua Sulina, piccolo porto peschereccio

Sei seduto in una barca di legno, su un’asse ricoperta da un panno, e ai lati si adagia una distesa di acqua speculare al cielo. Sei praticamente circondato dalle nuvole, riflesse ed effettive, gli unici tratti che interrompono l’illusione sono gli arbusti e il volo di una moltitudine di uccelli neri sull’orizzonte. Il silenzio è totale, poiché il motore della barca è spento, fino a che non senti quattro, cinque colpi doppi sulla superficie dell’acqua. Sono i pellicani che si alzano in volo, sbattendo le ali e saltando con le loro zampe palmate, e questa non è una seduta psicanalitica ma l’esagerato Delta del Danubio.

Dopo aver girovagato per metà Europa, toccando dieci Paesi, il Danubio, secondo fiume più esteso del nostro continente, si getta finalmente nel Mar Nero, nel nord-est della Romania e al confine con l’Ucraina. Dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, il Danubio si divide nella città di Tulcea in tre bracci, Chilia, Sulina e Sfântu Gheorghe, creando un territorio in costante trasformazione di 4187 kmq caratterizzato da paludi, sabbia, isolotti galleggianti e canneti, che occupano ben 1563 kmq di tale superficie. Il Parco Nazionale del Danubio è oltremodo arricchito dalla variegata popolazione di uccelli, più di 300 specie, e dalle oltre 160 specie di pesci.

Sulina, piccolo villaggio di pescatori sul Mar Nero, è stata la nostra meta e punto di partenza per esplorare il delta. Per arrivarci bisogna prendere un traghetto da Tulcea e godersi le sponde del fiume per 5 ore. La cosa migliore da fare è arrivare al porto senza aver prenotato una pensione: saranno le famiglie del posto a chiedere di potervi ospitare poiché il turismo è la principale risorsa economica della zona e la gente del luogo deve prepararsi al nebbioso e inattivo inverno. Questo fotoreportage è dunque dedicato a questo piccolo villaggio e al ritmo della vita danubiana.

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Arcipelago delle Azzorre, ultima terra occidentale d’Europa

«Mi spiace, ho speso tutti i soldi per una chitarra nuova», proferì il mio (oramai ex) ragazzo.

«A me i delfini fanno impressione», dichiara un’amica.

«Eh?», anonimo passante alla pensilina dell’Atb.

La misantropia, si sa, prima o poi colpisce tutti. Per quanto mi riguarda, bussò alla porta della mia affabilità nell’estate del 2012, al momento della decisione del viaggio di laurea e della conseguente ricerca di compagni di viaggio. Di soldi ne avevo, un ragazzo pure e gli amici non mancavano… eppure, la pesantezza del posteriore di tutti mi fece acquistare un solo biglietto per le Azzorre, le verdissime isole portoghesi al centro dell’Atlantico.

Le scelsi per poter nuotare con i delfini e per poter vivere uno dei pochissimi luoghi europei ancora incontaminati, incontrando e conoscendo la spontaneità degli abitanti e la loro sincera benevolenza… ma se ritorno con il pensiero alle Azzorre, più che i visi e le voci, ritornano il fragore dell’oceano, la terra vulcanica nera e giovane, il fertile vigneto basso e inerpicato tra le pietre e il lago sconosciuto alle cartine.

Shqiperia. Immagini dall’Albania

Fotoreportage di Stefano Banfi, Lorenzo Caimi e Riccardo Schiavo

Albania è la proiezione nel futuro, coi suoi stridenti contrasti, di una capitale che si ammoderna a passi da gigante. Un immenso market di cinquanta università private e l’arte di arrangiarsi nella micro-economia di strada. La vita lenta fuori dai bar, nei parchi e nelle periferie. Profumo di agnello grigliato e pannocchie. Una mucca portata a pascolare in un campo da pallone, nel bel mezzo della giungla urbana. I giovani sono cresciuti con l’Albero azzurro e Solletico. L’italiano parlato quasi ovunque. Assorbito davanti alla televisione e spesso consolidato in Italia, da un lavoro all’altro, da una città all’altra della penisola.

Per 45 anni, a settanta chilometri da Otranto, si è stagliato uno dei regimi comunisti più duri dell’est Europa, a lungo ispirato alla Cina di Mao. Un fortino di statalismo e ideologia. Il prezzo da pagare, ancora oggi, è un retaggio di corruzione, clientelismo e grigi palazzoni. E poi, i duri conti con la memoria. Un po’ ovunque, piccoli bunker ricordano i tempi in cui l’attacco esterno era una paranoia quotidiana. La “pyramida“, in origine museo dedicato a Enver Hoxha, fa ora da pisciatoio al bar poco distante.
A cento chilometri sopra Tirana si apre l’impervio nord, legato a consuetudini secolari, fuori dal tempo e dalla storia. Sentieri scoscesi sfociano in piccoli villaggi. Case spartane arroccate sulla montagna, immerse nella vegetazione. Cittadine come Puka fanno da baricentro alla miriade di minuscole realtà rurali, da sempre uguali a se stesse. L’inderogabile legge dell’ospitalità e le sopravvivenze del Kanun, il codice medievale che regola le dispute di sangue con la vendetta. L’orgoglio di un’esibizione con strumenti musicali auto costruiti. Il ritrovo di un’intera comunità per una messa in mezzo ai boschi.
Tra le valli del nord come a Tirana, chiese cattoliche, ortodosse e moschee si amalgamano. Il suono delle campane e il richiamo dei muezzin. La religione non è una polveriera come altrove.
Visi, scene, colori, personaggi ed espressioni d’Albania, senza pretesa d’oggettività ed esaustività, nelle foto a venire.
Nei pressi di Pukë. Accogliendo gli ospiti
Nei pressi di Pukë. Suonando il cifteli
Nei pressi di Pukë. Aspettando la celebrazione
Nei pressi di Pukë. Messa nei boschi
Nei pressi di Pukë. Anziana nella sua casa
Pukë. Il pastore Plaki e i suoi due nipoti
Pukë. Preparando infusi
Pukë. Minareto
Tirana. Traffico mattutino per le vie del centro
Tirana. Uno dei tanti pannocchiari che affollano le strade della città
Tirana. Allevamento, palazzi e campi da gioco
Tirana. Nei vicoli presso Rruga Durres
Tirana. Policia
Tirana. Nella zona dei ministeri
Tirana. Ritratti al parco
Tirana. Giocando a domino
Tirana. La piramida
Tirana. Enrik Prendushi, ex-prigioniero politico del regime
Tirana. Moschea Etem Bei, la più antica d’Albania
Tirana. Chiesa cattolica
Tirana. Cattedrale ortodossa
Tirana. Visione notturna di piazza Skenderbeu
Tirana. Fuori dalla moschea
Tirana. Zoampognaro
Tirana. Tramonto nel grande parco cittadino
Kruja. Uno dei 750000 bunker in aperta campagna
Kruja. Ragazzini su un carretto

In copertina: Tirana, statua dell’eroe nazionale Skenderberg

Sulle rotaie con l’Intercity: dalla Lombardia alla Calabria

7 agosto 2014. Suona la sveglia delle 5 e 30 del mattino: tra meno di mezz’ora la vacanza estiva inizierà, e non lo farà con la sabbia o la menta di un fresco Mojito, ma con le rotaie della Stazione Centrale di Milano.

Da Milano a Vibo Valentia, passando per Napoli, l’Intercity scivola lungo l’Italia intera per 15 ore, intervallando i campi di girasole al russare del vicino, le gallerie degli Appennini al rumore dei libri sfogliati. In mezzo a un’Italia in viaggio su un treno troppo stretto e inadeguato, spesso ci si ritrova a condividere il pavimento con zaini e valigie, a combattere l’afa al posto dell’aria condizionata o a barcollare nei corridoi alla ricerca della circolazione perduta.

Ma non solo. I passeggeri e i loro sguardi, rubati o meno, che rimbalzano da un finestrino all’altro, in attesa della loro fermata.

Street food 我爱你! (Street food I love you)

Dalla mia permanenza in terra cinese, posso dire di aver compreso quanto i cinesi di tutte le età e di tutte le classi sociali abbiano un unico minimo comune denominatore: mangiare a tutte le ore.
Sarà che la dieta mediterranea prevede 3 o al massimo 5 pasti principali, ma vedere ristoranti cinesi piccoli e grandi, pieni di clienti ininterrottamente dalle 7 alle 22, dal lunedì alla domenica, presenta una certa originalità. Per di più, sembrano godere di particolare successo tutti quei venditori ambulanti che si alternano a vicenda sugli stessi hot spot: al bordo dello stesso semaforo, secondo il passare delle ore, sarà quindi possibile acquistare delle crêpes salate fin dal sorgere del sole, dei noodles freddi a pranzo, della frutta fresca nel pomeriggio, degli spiedini di carne in serata e delle paste dolci in nottata.
Insomma, nessun popolo ama lo street food quanto quello cinese.
Cercherò ora di raccogliere tutti gli street-food più caratteristici che mi è capitato di trovare durante le mie sortite pechinesi e perfino lungo il tragitto casa-università, ogni giorno e a tutte le ore.
Ravioli o dumplings o jiaozi
Piatto tipico della festività del Capodanno Cinese, per la loro forma simile a quella della antica valuta cinese, il tael, che lo rende un simbolo di felicità e prosperità (lo stesso principio che si cela dietro alle nostre lenticchie),
Sono stati resi popolari nella vita di ogni giorno dai tipici mini-ristorantini di quartiere, caratterizzati da arredamento carente, pochi posti a sedere, coperto essenziale e gestione familiare.
Comunemente si mangiano in abbinamento a salsa di soia (a volte mista ad aceto), peperoncino tritato o aglio.

Tipico aspetto di questi venditori di jiaozi, o jiaozazzari, popolare quanto improbabile ma quanto mai diffuso calco linguistico sull’italiano “paninaro”

Secondo la loro modalità di cottura, i ravioli cinesi si suddividono in:
– ravioli al vapore, nelle varianti jiaozi (dalla pasta sottilissima), xiaolongbao (dalla pasta più soffice e spessa) e shaomai (simili ai jiaozi, ma chiusi in maniera differente), che differiscono tra loro solo per la forma, mentre il ripieno più diffuso è solitamente composto da carne di maiale e verdure, anche se non è difficile trovare le varianti ai gamberi e vegetariane.

Le tre varianti dei ravioli a vapore (da sx verso dx xiaolongbao, shaomai e jiaozi)

– ravioli alla piastra o jianjiao, preparati partendo dai ravioli al vapore ma successivamente ripassati con olio o sulla piastra. Questo secondo step di cottura li rende meno umidi dei ravioli al vapore ma più gustosi e saporiti.

Ravioli alla piastra

– ravioli bolliti o shuijiao. Vengono proposti in diverse varianti di ripieno, sono più delicati e profumati della loro versione al vapore.

Il popolo dello street food cinese si divide di fatto tra coloro che preferiscono i ravioli al vapore e quelli che preferiscono la variante bollita.

Un piatto di ravioli al vapore
Crêpe salata cinese o jianbing
Letteralmente jianbing 煎饼 sta per pancake, o sfoglia di pane cotta in olio, che è essenzialmente la definizione della crêpe occidentale, sennonché noi siamo più abituati a vederla nella variante dolce.
Ciò non toglie che questo piatto saporitissimo sia consumato dai cinesi prevalentemente a colazione.

Venditore di jianbing
Diffusissima nel nord della Cina, questa particolare crêpe è preparata a partire da una massa a base di farina, e cucinata sulla piastra oppure modellata a mano prima di essere ripassata sull’olio.
Viene ripiegata come un piccolo panino e condita secondo i propri gusti con uova, salsa di soia, salsa di piccante, cipollotto, coriandolo, prosciutto, patate.

La preparazione del jianbing direttamente sulla piastra
Spiedini o chuanr
Quando comincia a calare il sole, è facile vedere i bordi delle strade riempirsi dei tavolini dei venditori di chuanr: semplici spiedini di carne, interiora, verdure, tofu, pesce, cucinati al momento sul carbone (più raramente su forni elettrici) e proposti in varianti più o meno aromatizzate.
Questo piatto è di derivazione islamica, è cominciato a diffondersi a partire dalla regione dello Xinjiang, per poi riscontrare grande successo nella Cina settentrionale.
La carne può essere aromatizzata secondo proprio gusto, ma la proposta più comune prevede sale, sesamo e cumino. Nelle zone più turistiche della capitale, come gli hutong e Wangfujing è possibile trovare le varianti più strambe a base di insetti, rettili o altri animali esotici.

Un venditore di chuanr all’opera
Malatang
La malatang 麻辣汤, è un piatto originario della regione di Sichuan, regione per antonomasia della cucina cinese, nota soprattutto per la piccantezza dei suoi piatti. Questo piatto è essenzialmente una versione street food del famoso spicy hot pot, ovvero una zuppa, o tang 汤, di gusto piccante, mala 麻辣, all’interno della quale vengono cotti diversi tipi di ingredienti, dalla carne al pesce, dalla verdura al tofu, sotto forma di spiedini, ai quali è possibile aggiungere della salsa di sesamo.
Il quartiere di Sanlitun pullula di venditori di malatang, e sebbene sia un piatto adatto a riscaldare le serate invernali, i clienti che usano riunirsi attorno al malatang non mancano neanche nelle serate estive.

Tipica tavolata attorno al malatang
Liangpi
I liangpi 凉皮 è un piatto originario della regione dello Shaanxi e dello Xi’an, particolarmente popolare durante i mesi più caldi dell’anno. Il nome letteralmente significa “pelle fresca”, e fa riferimento alla particolare consistenza dei noodle utilizzati per questo piatto: molto sottili, quasi trasparenti, mangiati freddi. La versione più comune consiste in noodles conditi con cubetti di tofu, cetriolo tagliato a listarelle, aglio, salsa di soia, aceto, salsa di sesamo, e volendo, salsa piccante.
Nelle ore più calde di queste giornate estive, questo piatto è facilmente reperibile presso venditori ambulanti in carrettino, che ne preparano una porzione al momento.
Si dice sia nato in periodo di carestia, come piatto di recupero a partire del residuo acquoso ricco di amido in seguito al risciacquo della pasta, utilizzato quindi per condire noodles.

Una porzione di liangpi
Menzione speciale meritano tutti quei mini negozietti di quartiere che si dedicano esclusivamente alla preparazione di alimenti a base di farina: “pizze” nella variante dolce e salata, cracker al sesamo, biscotti salati, mantou, frittelle di melanzane e verdure, dolci,spuntini vari e fritti misti; l’equivalente cinese delle nostre rosticcerie.
A me, nonostante l’ora (qui sono le cinque di pomeriggio), forse per assorbimento delle abitudini alimentari cinesi, sta venendo fame.
E a voi?

Presenze mafiose su territorio milanese: gli incendi dolosi

«Qui, la mafia non esiste».

Espressione tipica di qualche anno fa nel Nord d’Italia, oggi si presenta spogliata dall’ipocrisia e nella sua variante aggiornata: «La mafia opera solo in Borsa e nella Finanza», espressione che dunque descrive una criminalità organizzata privilegiante attività di riciclaggio e che relega al passato minacce e violenze fisiche. Tale prospettiva delinea un modus operandi contraddistinto dall’invisibilità e dalla pacatezza, del tutto in linea con l’analisi di Falcone: «Prima arrivano i loro soldi, poi i loro uomini e i loro metodi».

E difatti, i loro uomini, sono già da tempo arrivati a Milano! l’inconsapevolezza sopra rappresentata -quantomeno a livello di una parte di cittadinanza- è un grave errore confutato dalla pratica: l’uso di violenza intimidatrice è altamente presente su territorio milanese; basta uno sguardo alla cartina sottostante per rendersene conto.
Frammento proveniente dal link seguente: http://goo.gl/maps/CoEz
Frammento proveniente dal link seguente: http://goo.gl/maps/CoEz
Gli episodi di violenza segnalati sulla mappa sono relativi a incendi dolosi (simbolo fiamma; 39 casi), atti intimidatori effettuati tramite bombe, colpi d’arma da fuoco e danneggiamenti vari (simbolo freccia e stella verde; 18 casi) e omicidi (simbolo omino arancione; 4 casi) avvenuti negli anni 2011, 2012 e 2013.
Proprio perché gli incedi stanno diventando nella realtà cittadina una spia significativa della vivacità delle attività mafiose estese al di là degli ambienti finanziari, è necessario tracciare un percorso, negli anni, tra le zone e le vie di Milano incendiate dai clan.
Ma la difficoltà nasce nel censirli. La Prima Relazione Semestrale del Comitato Antimafia di Milano denuncia la negazione da parte delle vittime di qualsiasi intimidazione precedente all’incendio e conclude affermando che
«E’ evidente su base logica che tali dichiarazioni sono invariabilmente false e reticenti, frutto della paura se non in alcuni casi di omertà. Non è infatti verosimile l’immotivato compimento di reati anche gravi di danno, compiuti con le modalità tipiche del racket delle estorsioni e del controllo mafioso del territorio, senza motivo e senza connessa richiesta di denaro o utilità» (Sito di Libera – sezione Lombardia)
Secondo la suddetta Relazione, il 2011 è stato caratterizzato da un elevato numero di incendi dolosi a danno dilocali notturni, come il “Fox River” di via Winckelmann in zona 6, “Cappados” di viale Monza in zona 2 e il “Sugar Lounge” in zona 9 del Quartiere Isola, locale appartenente alla famiglia ‘ndranghetisca dei Falchi (inchiesta “Redux-Caposaldo”, marzo 2011).
Altro episodio significativo fu l’incendio al centro sportivo “Affori” di Ripamonti, in via Iseo, in concessione dal Comune alla società “Milano sportiva”. A seguito dell’indagine “Redux-Caposaldo” si scoprirono legami tra l’ente sportivo e la famiglia ‘ndranghetista Falchi, con conseguente revoca della concessione da parte del Comune. Il 9 ottobre 2011 ignoti diedero fuoco al centro e, nonostante il corteo spontaneo di circa mille persone avvenuto dei giorni successivi, le intimidazioni continuarono, presentandosi a novembre come depredazione di 5000 litri di gasolio e a dicembre come danneggiamento di lavandini, tubature e docce.
Centro Sportivo “Affori”.
Nel 2012 vengono incendiati il locale notturno “Lilì la tigresse” in zona 3, dieci automobili in via Graf 12 della zona 8 e si registarono quattro incendi a danno di commercianti, tra cui il più eclatante nella notte fra 17 e 18 luglio ai danni del paninaro Loreno Tetti (via Celoria, Città Studi), testimone di giustizia nel processo “Redux-Caposaldo” contro il clan Falchi per le loro attività estorsive nei conftonti di venditori di bibite e panini. In zona Barona, invece, una bomba carta ha danneggiato il “Comitato di quartiere per le case popolari” e un proiettile è stato trovato fuori dalla sede come ulteriore minaccia.
Furgone di Tetti.
Nel medesimo anno avviene l’omicidio di Giuseppe Nista, 44 anni, fratello di Domenico Nista collaboratore di giustizia contro il clan Paparo di Cologno Monzese. Giuseppe venne ucciso il 10 maggio a Vimodrone, in via dei Mille, da due killer che spararono da una moto in corsa.
Altro omicidio avverà invece in centro a Milano: in via Muratori, proprio dietro Porta Romana, Massimiliano Spelta, 43 anni, e sua moglie Carolina Sulejni, 22 anni, saranno freddati da due killer calabresi legati alla ‘ndrangheta. Il movente è una partita di coca non pagata, non da parte di Spelta, che era incaricato di importarla da Santo Domingo, ma da parte di uno dei due ‘ndranghetisti complice di Spelta.
Nel gennaio 2013 è la volta dell’Oasi Wwf di Vanzago: «Sospettiamo che dietro questo grave episodio ci siano mire speculative sulla zona, e un chiaro avvertimento di sapore mafioso» dichiara Paola Brambilla, presidente del Wwf Lombardia.
A febbraio, invece, una ditta famigliare e il suo magazzino vengono dati alle fiamme in via Menotti e via Masoto di zona 4; mentre medesima fine fanno due furgoni di una ditta che lavora all’Ortomercato in via cesare Lambroso.
Questi numerosi attentati dimostrano la strategia dei clan calabresi: garantirsi l’impunità giuridica attraverso la violenza e l’intimidazione nei confronti di quei soggetti non sottomessi alla regola dell’omertà, secondo una linea di pensiero che travalica l’isolato e apparentemente a sè stante mondo della finanza.

Il Carnevale di Valencia e il suo saluto alla Primavera

Fotografie di Mila Crippa.

Considerata una delle Feste più caratteristiche e antiche della Spagna, il Carnevale di Valencia o Festa des Las Fallas, esplode tutti gli anni a metà marzo salutando la Primavera tramite il rogo di giganti sculture in legno e pupazzi di cartapesta, denominati per l’appunto fallas.

Costruiti durante i restanti giorni dell’anno da famosi falegnami, i fallas vengono bruciati in piazza da secoli per depurare la città dalle negatività e da ogni peccato. A salvarsi dalle fiamme della notte di San Giuseppe, sono solo quelle sculture prescelte dalla giuria popolare e che in seguito occuperanno posto tra i vincitori delle precedenti edizioni al Museo delle Fallas di Valencia.

Ma non solo i roghi, pure i concerti, le danze, i costumi storici valenciani e gli spettacoli pirotecnici animano la città spagnola, regalando un evento di forte richiamo turistico e ampia partecipazione popolare.

 

Ferrara e le sue piazze, metamorfosi durante il Festival di Internazionale

Twitter esordisce così la sera di domenica 5 ottobre 2014: «L’ottava edizione del festival di Internazionale a Ferrara si chiude con 71mila presenze». Ora, immaginatevi 71mila giovani che corrono (chi a piedi e chi in bicicletta) da una conferenza all’altra, passando per un documentario o una presentazione di un libro. Se riusciste ad immaginarvelo, ancora non basterebbe!

Un weekend (3-4-5 ottobre) con i giornalisti di tutto il mondo, all’insegna della voglia di usare il cervello per analizzare e discutere di tematiche politiche, sociali e culturali più attuali e dove la piazza diventa il vero protagonista del festival poiché qui, proprio in piazza, i 71mila giovani cervelli si sono confrontati, scontrati e migliorati. Ed è proprio in piazza, di nuovo, che il nostro caro o non caro (lascio decidere a voi!) presidente del consiglio Matteo Renzi è stato intervistato da giornalisti di varie riviste estere, schivando qua e là lanci disperati di uova da parte di chi ha voluto contestare la sua presenza.

Il fotoreportage di conseguenza si focalizza sulla piazza e sui giovani più che sulle conferenze sancite dal programma. Ho cercato di scattare fotografie che in qualche modo rimandassero al festival stesso, per questo motivo in quasi tutti gli scatti l’attore principale è un volantino giallo sul quale era stampato il programma dei tre giorni e che svolazzava tra le mani di tutti i partecipanti. Un colore come il giallo ha saputo dare più vivacità agli scatti e ha saputo rispecchiare perfettamente l’atmosfera che si respirava tra le vie meravigliose di Ferrara.

Milano, città in continua espansione, città di grandi progetti

La zona nord della città, antica dimora di campagna degli Arcimboldi, nel corso della storia ha subito alcuni significativi cambiamenti. Dall’inizio dell’ottocento con il progressivo abbandono di villa Bicocca, diventò il cuore delle industrie milanesi, con un polo che contava ventimila lavoratori ed alcune tra le industrie più importanti del Paese, lentamente scomparse o migrate, all’attuale quartiere “riqualificato”.

Ponendo l’attenzione allo stato attuale, successivo alla riqualificazione che sembra colpire ogni quartiere periferico milanese, si riesce a notare solamente lo sconforto che prende un quartiere costruito per vivere cinque giorni alla settimana, grandi uffici, grandi costruzioni e la collina dei Ciliegi a monito che tutto ciò che diventa superfluo un giorno finirà e verrà sepolto sotto strati di terra.
L’errore fondamentale è causa della desolazione totale, si può probabilmente trovare nella decisione di raggruppare quasi tutte le attività nei grandi poli commerciali che si trovano a pochi chilometri, il silenzio fa da padrone a questa zona, rotto dalle campanelle dei tram che passano senza nessun passeggero a bordo, gli uffici si svuotano e l’Università viene abbandonata, regalando nella loro grandezza unita alla maestosità del grigio ed imponente Teatro degli Arcimboldi, un’immagine surreale da tranquillo weekend di paura.
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Norte del Chile. Iquique

Poco meno di 230.000 abitanti. Risulta agli occhi di un viaggiatore esterno una sorta di Dubai spersa sulle coste scozzesi. Il bizzarro paragone si spiega girando la testa di circa 180° gradi per accorgersi di questo strano spettacolo. Alla costa rocciosa, costellata da case di legno di piccole dimensioni sormontate da fitti nuvoloni grigi, si affiancano infatti alti grattacieli che vanno a creare una barriera tra il mare e le dune di sabbia, le quali, imponenti, indicano la fine della città e l’inizio del deserto cileno.

E per quanto la città risulti gradevole con punte di delizia, l’idea di solitudine non ti abbandona mai, assediato come sei dall’immensità dell’oceano a est e dalle sterminate dune sabbiose del deserto a ovest. Questo senso di solitudine è confermata dalle chiacchiere con gli Iquiqueñi che nascono, crescono e vivono tutta la vita a Iquique. Niente di più facile, le città più vicine sono rispettivamente Arica (4 ore di pullman) e Antofagasta (8 ore di pullman).

Solitudine che non ti abbandona nemmeno quando raggiungi Tarapacà, pueblito a due ore dalla città completamente sperso nel mezzo del deserto. Strade lunghe e dritte che finiscono nel nulla, nella bocca dell’orizzonte. 35 gradi sotto il sole del pomeriggio che passano ai 10 scarsi della notte, stellata e stupenda, quella di S. Lorenzo. Canti, danze, folklore indigeno e religiosità importata si mischiano a fiumi di liquori, chancho (maiale) e birra sino a tarda notte.

Sabbia, freddo, alcol, danze, folklore e cieli carichi di stelle, il massimo che il deserto sudamericano ti possa offrire in una singola notte.

Deserti cileni
Carretera costera Arica, Iquique
Speculazioni costiere
Il colorato porto di Iquique
Per le strade di Iquique
El lobo dancante. Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà.
La dama. Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà
Danze folkloristiche. Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà
El lobo. Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà
Una dei numerosi colectivos arrivati dalla città
El viejo. Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà
Hasta la noche! Le celebrazioni per San Lorenzo continuano sino a tarda notte
Se sigue! Le celebrazioni si raccolgono intorno ai fuochi
Nunca parar! Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà
Campeggi in mezzo al deserto. Non si improvvisa nulla, di notte il freddo colpirebbe duro Fiesta de San Lorenzo de Tarapacà

Suicidi. Come ne parlano i giornali e come dovrebbero parlarne: un rapporto dell’OMS rivolto ai media

Molti giornalisti sono in parte responsabili di numerosi suicidi. Questa affermazione potrebbe sembrare eccessiva, ma se continuerete a leggere, capirete che non lo è. Nel trattare situazioni delicate, come per esempio il suicidio di un attore famoso o anche quello di un noto imprenditore, per rendere “più accattivante” la notizia, spesso certi giornalisti vanno alla ricerca del particolare inaspettato o del dettaglio intimo e privato: tutti elementi che non dovrebbero essere divulgati (e non solo per motivi di privacy). Come se non bastasse, alcuni si spingono oltre, fino a ricostruire meticolosamente e morbosamente la scena del crimine, illustrando per filo e per segno le dinamiche dell’accaduto.

Oltre alle numerose violazioni della privacy ai danni delle vittime e dei parenti, si presta poca attenzione alla sensibilità del pubblico e, in particolare, alle conseguenze che una narrazione così costruita, comporterebbe su soggetti psicolabili e potenzialmente in grado di imitare l’episodio. A qualcuno tutto ciò sembrerà, ancora una volta, un’esagerazione, ma in realtà è una questione fondamentale del giornalismo. Tuttavia per capire quanto sia attuale e importante, occorre prendere coscienza che il suicidio è un fenomeno grave e diffuso, pertanto sarebbe preferibile cercare di prevenire queste situazioni, anche con accortezze di carattere editoriale.

Il suicidio, un piaga globale

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha recentemente diffuso dei dati riferiti all’anno 2012, riguardo ai suicidi nel mondo: ogni anno sul nostro pianeta circa 804mila persone si tolgono la vita – una ogni quaranta secondi. Nel 2012 il suicidio è stato la seconda causa di morte tra le persone di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Dai dati in possesso risulta che il Paese con il minor numero di suicidi al mondo è l’Arabia Saudita, seguita da Siria e Kuwait. I Paesi con il tasso più elevato sono invece Guyana, Corea del Nord e Corea del Sud. In Europa, Azerbaijan, Armenia e Georgia risultano essere meno colpite dal problema. L’Italia è al sesto posto. Lituania, Kazakistan e Turkmenistan, i Paesi con il triste primato su scala europea. Come emerge da questa analisi, è un morbo che affligge tutto il mondo e dal quale il nostro Paese non è immune.

 no-suicidio

L’influenza dei media e gli errori più comuni

Da anni si discute sulla modalità di racconto di queste notizie in relazione alla sensibilità degli utenti, ovvero i lettori. Moltissimi studi (tra cui quello di Pirkis e Blood del 2010) hanno ormai comprovato che una relazione c’è ed è molto pericolosa: parlare nel modo sbagliato dei suicidi porta certamente alcune persone all’emulazione. Ma chi sono i soggetti a rischio? I più vulnerabili fanno parte di una fascia di popolazione giovane e che soffre di depressione; tuttavia questo genere di notizie, se affrontate nel modo sbagliato, possono essere pericolose anche per altre categorie di persone. Molti fattori hanno notevole influenza. Anzitutto il linguaggio: ha effetti disastrosi se non è adeguato, se si sensazionalizza il suicidio (vedi titoli che parlano di “epidemia di suicidi”) oppure lo si normalizza (usare il termine fuori contesto, come per “suicidio politico”); se si ricorre alla formula “commettere suicidio”, con l’uso del verbo commettere che suggerisce l’idea del suicidio come reato, lo criminalizza, cosa che allontana i potenziali suicidi dal chiedere aiuto.

Il modo poi di trattare le varie tragedie è, a tratti, scandaloso: spesso il fatto è sbattuto in prima pagina. Si crea una narrazione che ogni giorno si arricchisce di nuovi elementi e allunga a dismisura i tempi della vicenda; si cerca di ricostruire fin nel minimo dettaglio cosa è successo al momento della fatalità, giungendo a dar vita, seppur inconsapevolmente, a una “guida” che indica passo passo come attuare l’estremo gesto. A volte, poi, la ricerca dello scoop porta a reperire quanto più materiale possibile, allegando anche video o immagini della scena del crimine, cosa che rende ancor più chiara l’idea o il metodo usato, facendo visualizzare meglio come il gesto è stato compiuto e, dunque, come si può compiere. Infine, il modo di parlare dei suicidi delle persone famose spesso ingloba i difetti precedentemente elencati, aggiungendo un ulteriore elemento da evitare assolutamente: glorificare la scelta della persona, avvicinando il gesto a un atto di disperata liberazione e renderla, pertanto, una scelta giustificabile e quasi ragionevole.

Il modo migliore per trattare l’argomento

L’OMS ha stilato un rapporto molto chiaro e pratico: Preventing suicide – a Resource for Media Professionals («Prevenire il suicidio – Una risorsa per i professionisti dei media»), dove sono date precise indicazioni, riassumibili in pochi punti:

  • Cogliere l’opportunità di educare il pubblico riguardo al suicidio;
  • Evitare un linguaggio che sensazionalizzi o normalizzi il suicidio, o lo presenti come una soluzione ai problemi;
  • Evitare la descrizione del metodo usato in un suicidio completato o tentato;
  • Evitare di fornire informazioni dettagliate che riguardino il luogo;
  • Usare la parola “suicidio” attentamente nei titoli;
  • Esercitare estrema cautela nell’uso di foto e video;
  • Usare particolare cura nel riporta i suicidi di persone note o celebrità;
  • Mostrare la dovuta considerazione per le persone toccate dal suicidio;
  • Provvedere a dare informazioni su dove cercare aiuto;
  • Riconoscere che anche i professionisti dei media possono essere colpiti dalle storie di suicidi.

Adottare questo approccio, e in particolare segnalare associazioni o siti che aiutano le persone a rischio o chi è stato toccato dalla tragedia, può davvero fare la differenza. Molti giornalisti si sono già espressi a favore di questo rapporto, anche in Italia. Eppure, ancora, non di rado capita di leggere sui nostri giornali notizie che trattano un argomento così delicato in maniera superficiale e, dunque, pericolosa. Forse per la fretta o per esigenze commerciali o, più banalmente, per la gloria dello scoop, c’è chi continua sulla strada sbagliata… e non vorremmo pensare a una forte inconsapevolezza dell’importanza delle parole e del mezzo che usa.