Lo spreco alimentare: altra colpevolezza dei Paesi Sviluppati
Nonostante sia il fallimento del mercato e delle politiche occidentali, oltre che una questione etica e sociale, lo spreco alimentare è un argomento sottostimato, se non addirittura ignorato. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, il 2010 è stato nominato Anno europeo contro lo spreco alimentare, mentre il 2013 anno dello Spreco Zero.
L’iniziativa, appoggiata e sostenuta dal Parlamento europeo, è stata promossa da Last Minute Market, spin off dell’Università di Bologna – fondato da Andrea Segrè, direttore del dipartimento di scienze e tecnologie agro-alimentari dell’ateneo bolognese – che si prefigge come obiettivo il recupero sostenibile e solidale degli sprechi alimentari, ridistribuendo a onlus ed enti caritatevoli merci invendute sul limite della scadenza e pasti non consumati in mense pubbliche e private.
Nel corso del Vertice mondiale sull’alimentazione del 2009 indetto dalla FAO si stabilì di aumentare la produzione agricola del 70% entro il 2050 in modo da poter sfamare i 2,3 miliardi in più di persone. Sarebbe però sconsiderato puntare sull’agricoltura per risolvere il problema della fame senza trovare alcuna alternativa all’inefficienza della filiera agroalimentare. I dati FAO sulla disponibilità degli alimenti sottolineano, difatti, come la produzione agricola mondiale potrebbe nutrire abbondantemente 12 miliardi di esseri umani[1], il doppio della popolazione attuale.
Gli sprechi sorgono numerosi in tutta la filiera, ma produzione e consumo sono gli anelli in cui lo spreco è maggiore.
Per quanto riguarda lo spreco dei campi, nel 2009 circa il 3% della produzione agricola è rimasta nei terreni, ovvero pressappoco 17.700.568 tonnellate di prodotto agricolo[2]
Le motivazioni dello scarto sono di tre diverse tipologie: estetiche, per le quali bisogna eliminare i prodotti brutti, per esempio rovinati dalla grandine; commerciali, che implicano il rifiuto di quei prodotti fuori pezzatura; e, infine, di mercato: se al contadino è liquidato un costo inferiore a quello della raccolta, a lui conviene lasciare marcire i frutti nei campi.
Ma che fine fanno questi scarti? La stragrande maggioranza è destinata alla distillazione per la produzione di alcol etilico, al compostaggio e biodegradazione, e all’alimentazione animale. Abbiamo dunque uno spreco nutrizionale degli alimenti in quanto il prodotto alimentare è destinato a un uso differente dall’alimentazione umana.
La situazione peggiora quando arriviamo all’ultimo anello della filiera: noi consumatori. Secondo i dati diffusi da ADOC, le famiglie italiane sprecano solitamente il 17% del prodotto ortofrutticolo acquistato e il 35% di latte, uova, carne e formaggi. Impressionante è, infine, sapere come il cibo che più frequentemente raggiunge intatto le spazzature italiane sia il pane: mentre una volta questo prodotto aveva una valenza sociale significativa, tempi in cui i nostri nonni lo riciclavano in zuppe e insalate, oggi pare non esista più il tabù del pane buttato.
Complessivamente, in Italia, ogni anno si spreca cibo per un valore di 39 miliardi di euro, quasi il doppio del valore complessivo dell’Imu pagato nel 2012.[3] Come mai in un periodo di così forte crisi finanziaria ci si possono permettere tali negligenze? Alla base di questi sprechi ci sono numerose disattenzioni che portano il consumatore ad acquistare una quantità di prodotti superiore al necessario. In realtà queste noncuranze sono frutto di studiate strategie di commercio: quando il mercato è saturo, trova come unica soluzione di sopravvivenza quella di farci consumare il più possibile. Dunque lo spreco non è episodico, ma sistematico e si basa sulla diffusione dell’idea che il benessere si esprima a livello di quantità di consumo (invece che considerare la produzioni di rifiuti un indice di arretratezza). Il suo vero perno è il prezzo, in quanto deve essere sufficientemente basso perché il consumatore sia invogliato ad abusare del cibo e a sprecarlo senza rimorsi.
Trovare soluzioni per ridurre gli sprechi alimentari è dunque un dovere dei cittadini occidentali e, soprattutto, una problematica che non può più essere ignorata: entro il 2025 si prevede che il 50% della popolazione mondiale andrà ad abitare in aree urbane e ciò significherà una maggior distanza fisica e psicologica tra il produttore e il consumatore. L’attitudine allo sperpero deve essere combattuta con una maggior divulgazione di consapevolezza alimentare e biologica, con particolare riguardo a ciò che il consumatore può fare nel suo piccolo. L’«intelligenza biologica» – come ama definirla Segrè – deve aiutare il consumatore a scardinarsi dall’attuale sistema economico per riavvicinarlo a un’economia domestica e modernizzata, permettendo al consumatore di riappropriarsi del ruolo di individuo attivo della società.
Cosa iniziare a fare di concreto? Gas – Gruppi di Acquisto Solidale, che si basano sul principio della spesa etica.
[1] Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo, a c. di A. Segrè e L. Falasconi, Milano, Edizioni Ambiente, 2011, p. 47.
[2] Ancora Il libro nero dello spreco in Italia, p. 59.
[3] Il cibo buttato vale due IMU, A.Gavazzi, «GENTE»,05/03/13.
Andrea Segré attualità, Last Minute, Market, spreco alimentare