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Mese: Gennaio 2015

Robin Goods e il nuovo modo di fare shopping

Cercate qualcosa che vi guidi nello shopping e vi aiuti a trovare le migliori offerte in zona? Oppure non sapete che locale scegliere per la sera mentre passeggiate per le vie del centro? La risposta potrebbe essere Robin Goods!

Primo Modica, uno degli ideatori, ci ha raccontato di come questa innovativa applicazione possa fare al caso vostro: «La nostra app è proximity marketing, utile sia ai consumatori, sia a chi offre dei servizi. Per gli utenti è un amico che ti aiuta negli acquisti; per il negoziante aumenta la visibilità della vetrina commerciale».

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Cosa vuol dire proximity marketing? «È un modo di attirare l’attenzione dell’utente quando è vicino all’oggetto o al servizio che deve essere venduto, mettendolo a conoscenza che esiste ed è nelle vicinanze».

Il funzionamento è molto semplice e intuitivo: «Chiunque potrà scaricare questa applicazione, che geolocalizza la posizione e mostra le offerte in zona seguendo le categorie da selezionate dall’utente, dove si potrà trovare di tutto: dagli articoli sportivi all’alta moda, dai ristoranti ai bar».

L’idea alla base è la seguente: trasformare il passante in un cliente in pochi istanti, inoltre offrire ai negozianti una dashboard (una pagina web interattiva) tramite la quale potranno caricare le offerte e sceglierne la durata, che può durare mesi, settimane o anche soltanto pochi minuti.

«Si potrà sfruttare il fattore compulsivo dello shopping, così il commerciante evita la dispersione di potenziali acquirenti, come quelli che per esempio rispondono con il classico: “Bello… Ripasso dopo!”».

Per Robin Goods lavorano attualmente cinque ragazzi, tra cui un ingegnere informatico (Primo Modica), un informatico puro (Nicola Stievano), un designer (Giovanni Piemontese), un ingegnere gestionale (Gianluca Giustiziero) e un business developer (Roberto Dell’Ariccia).

Il progetto originale nasce in seno a InnovAction Lab, un’importante iniziativa che aiuto lo sviluppo di nuove startup. In seguito, allo Switch2product, il progetto è stato inserito tra le cinque migliori idee del concorso.

Quest’estate la startup ha partecipato al Dublin Web Summit, una delle più grosse convention mondiali sul web e la tecnologia, dove sono già state lanciate importanti novità come Spotify, Huber, Dropbox e molte altre.

«È stata un’esperienza molto formativa e stimolante. – ci racconta Primo – Ti aiuta a creare contatti con altre startup, ma soprattutto con gli investitori. Devi essere molto bravo a esporre il tuo progetto in poco tempo e a convincere gli altri». Ma il sogno non finisce qui, perché hanno altri programmi quest’anno per concretizzarlo: nei prossimi mesi partiranno con la versione alpha, per validare il prodotto. Il progetto è molto ambizioso e se dovesse realizzarsi sarebbe una rivoluzione per il mondo dello shopping.

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L’idea c’è e va avanti. Perciò ricordatevi tra un anno, quando sarete per le vie di Milano a caccia delle offerte migliori per i regali di Natale, che Pequod ha creduto subito in questi ragazzi e che voi potrete dire che conoscevate Robin Goods prima di tutti gli altri.

Il monastero buddhista Yonghegong: scrigno di spiritualità nella capitale

Incoscienti pedoni che camminano a testa bassa sugli smartphone, indelicate spintonate in metropolitana, lotte senza quartiere per un taxi libero nell’ora di punta, è questo il pane quotidiano di un occidentale residente a Pechino. Lungi dall’aspettarsi la compostezza confuciana del mandarino in una metropoli moderna, è pur vero che il rapporto con la popolazione locale può risultare spesso impersonale, quando non distaccato e conflittuale.

Approcciare alla più intima essenza del popolo cinese è tuttavia possibile visitando luoghi ancora permeati della sensibilità autoctona, espressione di una spiritualità millenaria, altrove intorpidita dai dettami di una società freneticamente mutevole come quella cinese.
Uno di questi luoghi è il monastero Yonghegong, o Lama Temple, nel distretto di Dongcheng.

Interno del monastero Yonghegong, da notare la vivacità dei decori e dello stile architettonico buddhista.
Interno del monastero Yonghegong, da notare la vivacità dei decori e dello stile architettonico buddhista.

Costruito nel 1694 dall’imperatore Kangxi, deve al suo successore Yongzheng la conversione da corte imperiale a monastero buddhista lamaista e ospita tuttora una comunità di monaci tibetani.
Consta di cinque cortili sui quali si affacciano diversi edifici, ciascuno contenente diverse opere sacre buddhiste, tra le quali spiccano la scultura del Buddha Sakyamuni predicante con  i discepoli Ananda e Kasyapa, le statue di bronzo dei Buddha delle Tre Ere e la statua del Buddha Maitreya, alta ventisei metri di cui otto sottoterra, ricavata da un unico tronco di sandalo.

L’imponente statua lignea del Buddha Maitreya.
L’imponente statua lignea del Buddha Maitreya.

Qualunque approccio occidentale nel visitare questo luogo allontanerebbe il visitatore dal percepire la peculiare atmosfera del Yonghegong. Piuttosto che macchina fotografica e audio guida, è preferibile dotarsi di una discreta arrendevolezza al lento fluire dei visitatori locali e del tempo.
Conseguentemente, verrà naturale partecipare al rituale dell’accensione dell’incenso prima dell’ingresso in ciascuno dei diversi edifici del monastero, al fine di purificarsi prima dell’accesso ai diversi tesori buddhisti. Una fragranza, quella dell’incenso, che arricchisce il silenzio sovrano tra le mura del monastero, che sebbene siano alte pochi metri, ne preservano l’atmosfera sacrale.

All’interno del monastero, è difficile non perdersi nell’osservare i rituali dei visitatori locali, come le ripetute prostrazioni davanti alle sculture votive, effettuate con lo stesso dignitoso raccoglimento da giovani e anziani, eleganti uomini di affari e modeste famigliole. O ancora, l’incedere lento e misurato, scandito dal gorgogliare delle preghiere dei monaci tibetani, avvolti nelle caratteristiche tuniche color ocra. Senza dimenticare l’usanza della messa in movimento delle ruote di preghiera tibetane, o la benedizione di piccoli oggetti votivi, ultimo passaggio prima di varcare le porte del monastero e immergersi nuovamente nel mondo esterno.

Una realtà esterna frenetica e convulsa, che pare riesca solo a lambire questo scrigno di spiritualità incastonato nella capitale. Il paradosso è come sempre dietro l’angolo: l’accesso alla avveniristica metropolitana e la giungla cittadina di cui è espressione sono a pochi passi dall’ingresso del monastero.

In copertina ph. The Erica Chang [CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

Il giorno dopo il giorno della memoria

Niente più docufilm sui campi di concentramento, niente più dibattiti in televisione: adesso è tutto finito e se ne risentirà parlare tra un anno. È l’errore più grande che possiamo commettere. A differenza di quel lontano 27 gennaio 1945, oggi i cittadini europei non sono più strappati ai loro cari e alla loro vita, non esistono più ghetti con mura per non far scappare le persone, non partono più treni carichi di deportati diretti in Germania e Polonia. È tutto finito e dell’odio di ieri resta solo il ricordo.

Ne siamo sicuri?

In questi tempi di crisi la disperazione avvicina molte persone a posizioni più estreme di quelle che abbraccerebbero in altre condizioni, e trovare l’idea di un capro espiatorio diventa molto più allettante.

È vero, non ci sono più innocenti strappati ai loro cari e alla loro vita, però molti caccerebbero ugualmente quegli stessi innocenti anche se la loro vita e i loro cari sono qui: il motivo di tanto accanimento è, in ogni caso, una paura della diversità che porta a intolleranza ed emarginazione, col rischio di creare nuovi ghetti, senza vere barriere, se non quelle della paura e dell’ignoranza altrui; molti vorrebbero treni più carichi di migranti verso la Germania, per esempio, per “risolvere” la questione. Dopo tutte le atrocità commesse dall’uomo, non solo nei campi di concentramento, ci dimentichiamo che a commetterle non è stato solo Hitler, un “demonio” in terra, ma molta gente comune: ognuno faceva una piccola parte per mandare avanti la grande macchina dello sterminio.

Lo ribadisce Fabiana Boi nel suo articolo del 25 gennaio su Bossy.it: non mi soffermerò a sottolineare che “il male è banale, dato che può essere commesso da chiunque”. Voglio solo ricordare che anche oggi siamo umani, che anche oggi milioni di ebrei, zingari, slavi, omosessuali e lesbiche restano morti, privati della loro umanità e del loro diritto all’esistenza.

La prossima volta che anche uno solo di noi riterrà che una persona diversa debba restare isolata dai “normali” per non contaminarli, che penserà che gli omosessuali sono persone malate per le quali bisogna trovare una cura, che vorrà mandare “a fare una doccia” uno zingaro appena gli passa di fianco, beh questa persona dovrà ricordare, ricordare cosa è successo quando altre persone prima di lui lo hanno pensato e hanno convinto molti a pensarla ugualmente.

Oggi è il giorno dopo il giorno della memoria, l’odio c’è ancora e ci sarà sempre, ma dobbiamo ricordare ogni giorno chi siamo e cosa potremmo fare, anche senza rendercene conto.

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Dall’architetto agli architetti. L’open source è una risorsa aperta a tutti

Un modo di progettare nuovo nonostante le sue origini antiche. Un modo di progettare ufficiale nonostante la partecipazione (anche) di non addetti al lavori.

È l’architettura open source, quella che permette di costruire case e città “dal basso”, la protagonista del nuovo libro dell’architetto Carlo Ratti “Architettura Open Source – Verso una progettazione aperta”, edito da Einaudi: la sua esperienza negli Usa, dove al Massachusetts Institute of Technology dirige dal 2004 il MIT Senseable City Lab, e il lungo lavoro sulle città e la tecnologia, culminato in un intero padiglione alla Biennale di Venezia del 2006, porta oggi l’architetto a considerare un modo di progettare tanto antico quanto innovativo.

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Nel volume vengono infatti sviscerati i momenti salienti in cui l’architettura open source si è sviluppata, e quali mezzi sono oggi a nostra disposizione per poterne beneficiare.

La prima parte è costituita dalla dimostrazione della inadeguatezza della figura dell’architetto “prometeico”, quel “faccio-tutto-io” nata dal Movimento Moderno di inizio del secolo XX con figure del calibro di Le Corbusier. Ratti fa risalire questa sopravvalutazione del singolo a Vasari e alle sue Vite, quando se un edificio non era immediatamente riconducibile al nome di un architetto allora quell’edificio non era degno di considerazione: ne è conseguita l’idea di un’architettura gonfiata oltre ogni limite.

Ma a fronte del fallimento dell’architettura Moderna vengono esaminate anche alcune figure che avevano capito in anticipo: Rudolfsky in Usa con l’architettura senza architetti e il suo ritorno alla tradizione vernacolare, Cedric Price in Uk e Giancarlo de Carlo in Italia, il quale già negli anni Sessanta prevedeva la partecipazione degli abitanti al progetto edilizio.

 

Nella seconda parte si illustrano poi i vantaggi delle nuove tecnologie della rete: Linux, software Open Source, Wiki sono infatti piattaforme aggregative che, accorciando le distanze, permettono alla popolazione 2.0 di aggregarsi in una vera piazza, quella digitale, e scambiarsi idee e pareri in vista della realizzazione di un progetto condiviso.

Nascono così gli effetti dell’open source: stampanti 3D, la costruzione come educazione, ma soprattutto i Fab Lab, quei Fabrication Laboratory in cui la dotazione tecnologica, costituita da macchine a taglio laser, stampanti 3D e frese consentono a chiunque di produrre o aggiustare (quasi) qualunque cosa.

Ratti si dimostra a favore dell’abbandono del copyright per il Creative Commons, licenze che permettono ai creatori di scegliere e comunicare quali diritti riservarsi e a quali diritti rinunciare a beneficio dei destinatari.

 

Molti sono stati i pareri espressi: la constatazione del fallimento dell’architettura moderna sollazza chi gli archistar proprio non li sopporta, mentre il massiccio utilizzo che si farebbe del web è un palese tentativo di riattivare non solo la partecipazione con la tecnologia attuale ma anche l’intervento delle nuove generazioni, forse non esperte di architettura ma sicuramente più ferrate nella modalità open di un progetto on line.

D’altro canto non sono mancate le perplessità: c’è chi ha azzardato il rischio di proporre un mondo virtuale che annullerebbe l’architettura fisica riducendola a uno schermo. Un altro rischio ventilato è stato quello di cadere dalla padella alla brace, passando cioè dalla “macchina per abitare” di Le Corbusier al “computer in cui si vive”. Nostalgici contro innovatori: chi avrà ragione? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

In copertina: la torre di Carlo Ratti e Bjarke Ingels a Singapore.

A Hungarian in Southern France

Name and Surname: Veronika Viranyi

Age: 25

Country: Hungary

Nationality: Hungarian

City: Berettyoujfalu

SOMETHING ABOUT YOUR COUNTRY

Which is the form of government ruling in your country?

Republic (they say…)

Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Absolutely. That’s the only thing that actually exists under the name of politics. My private life is not bothered by it, but my family feels the disadvantages of this incorrect attitude.

1421665329000Veronika

   Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

Hungarian. Dialects do exist, but there are not many variations. Usually their use depend on where people come from, especially from the country or the villages. But when someone moves to the capital or to other big cities gives it up most of the time. I notice it myself, when I go home to my family, after a couple of days I switch back to my dialect, but there are not too many noticeable differences.

1421665329000-1Traditional Hungarian clothes in the countryside

Who do you believe to be the cultural icon of your country?

If I can name only one is Liszt Ferenc, but I have to name more like Kodaly Zoltan Bartok Bela, Jozsef Attila, Ady Endre, Radnoti Miklos, Marai Sandor  (but there are more internationally unknown composers, and poets who would be worth to mention).

WHAT ABOUT EUROPE?

Do you consider yourself European?

I’m from Europe, so I am European. I didn’t have the possibility to compare myself to other cultures yet.

Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture?

I think that all the most important artists, all those personalities that we consider to be icons of the world of art, are representative of Europe, as you can perceive the influence of Europe in their work. That’s why I’m not able to name only one person.

Ho visto Nino Di Matteo

Il contesto è accademico, i contenuti riguardano la società, la gente, il popolo italiano che ogni giorno si trova a dover sopportare (o supportare!) le conseguenze della corruzione che nel nostro Paese sembra trovare sempre terreno fertile. Siamo nell’aula 208 dell’Università “Statale” di Milano, quella che da qualche anno porta i nomi dei giudici Falcone e Borsellino. La stessa aula dove ieri è intervenuto il PM che da anni conduce le indagini sulla mafia e sulla trattativa che lo Stato ha intentato con essa negli anni più atroci del nostro passato recente. Insieme a Di Matteo, anche il Procuratore aggiunto di Palermo Petralia, il consigliere della Corte di Cassazione Bruno Giordano e il giornalista de L’Espresso Lirio Abbate.

Tema della conferenza: gli strumenti giuridici per la lotta alla criminalità organizzata. Come spesso ci siamo trovati a scrivere sulla nostra rivista, il fenomeno mafioso non si sviluppa e circoscrive soltanto in seno alle associazioni criminali, sarebbe meglio dire che queste stesse associazioni hanno ormai ingurgitato altri “ambienti” della società. Ma forse, in questo modo la cronaca delle due ore trascorse ad ascoltare gente che sta facendo una cosa folle in Italia in questo momento storico, ovvero cercare di dare un senso alla parola “giustizia”, rischia di essere un resoconto che si trascina a fatica in un pantano di concetti assodati e di scontata retorica.

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L’aula 208 dove ieri si è tenuto l’incontro

E invece vi racconterò che ho ascoltato Di Matteo, uno che sta portando avanti un processo che vede tra gli imputati lo Stato per cui lui stesso lavora (mi sono detto che forse non dev’essere una bella posizione). E non dev’essere nemmeno tanto piacevole sapere, come afferma lui stesso, “che l’onorevole Silvio Berlusconi è chiamato in causa per fare le riforme e gli atti processuali riferiscono che lo stesso abbia ricevuto protezione da parte degli uomini di Cosa Nostra”.

Occorre anche soffermarsi sul tema principale che riguardava gli strumenti, anche e soprattutto legislativi, in termini di lotta alle mafie. Si è ricordato come l’Italia abbia una legislazione antimafia molto avanzata, e di come, al contempo, andrebbe rinnovata, adeguata ai tempi e all’evoluzione criminale. Gli addetti ai lavori hanno evidenziato l’importanza di norme fondamentali per l’azione giudiziaria (il 416bis, le innovazioni introdotte nel codice di procedura penale a partire dal 1988/89), ma hanno anche sottolineato come spesso, l’azione del legislatore, sia tesa alla burocratizzazione delle procedure, come se ci fosse un interesse a rallentare l’azione della magistratura. E si è tornati al punto di partenza, imprescindibile.

Si è parlato, dunque, di azioni. Viviamo in un luogo, l’Italia, dove spesso l’azione dello Stato arriva in ritardo oppure è limitata all’operato di pochi uomini, quando non addirittura di una persona soltanto. Ho visto Antonino Di Matteo. Ho visto un uomo che forse sa molte più cose di quelle che dice o che può dire, anche se quest’ultime sarebbero già abbastanza per farci riflettere sulla situazione del nostro (quanto mai presunto) Paese civile. Ho visto molti ragazzi osservarlo estasiati e attenti. Ho visto un magistrato che sta lottando per accendere coni di luce in fasci, troppo spessi, di ombre.

Edera e vetri rotti – Ex Ospedale Psichiatrico Giuseppe Antonini

La maggior parte delle volte raggiungere edifici abbandonati e in decadenza può risultare difficile; non è certo il caso dell’ex Ospedale Psichiatrico Antonini, quello che fino a poco tempo fa chiamavo (e chiamano) il manicomio abbandonato di Mombello, a Limbiate (MB).

Alcuni edifici facenti in passato parte del complesso dell’Antonini – sto parlando dell’enorme complesso di Villa Pusterla Arconati Crivelli, ancor prima quartier generale di Napoleone – sono stati recuperati e oggi utilizzati: la stessa Villa Pusterla è divenuta sede dell’Istituto Tecnico Agrario Castiglioni negli anni ’80; l’ospedale Corbelli, che ospitava bambini e ragazzi per separarli dai degenti adulti ricoverati all’Antonini, è sopravvissuto all’abbandono e al suo ruolo di accoglienza di pazienti psichiatrici, con attività ambulatoriali e residenziali, non lontano dagli edifici rimasti invece a loro stessi.

Proprio per questo motivo raggiungere quel che è rimasto di questo ospedale psichiatrico, così a contatto con realtà funzionanti ed efficienti, non è affatto difficile. A separare abbandono da quotidianità c’è solo una rete da cantiere. Al di là del davanzale di una finestra adorna di vetri rotti ed edera che cresce libera, si può veder passare qualcuno – un funzionario dell’ASL vicina, gli studenti che escono da scuola e tornano a casa.

Un tempo famoso ospedale psichiatrico, dal 1867 al 1978 (anno dell’entrata in vigore della Legge Basaglia atta al superamento della logica manicomiale), degli iniziali trecento fino ad arrivare a migliaia di pazienti psichiatrici sono rimaste stanze e letti vuoti, materassi disintegrati dall’umidità e la parola fine scritta ironicamente su una delle tante pareti spoglie e piene di frasi.

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Isabelle il Capriolo: Isabelle è un Capriolo

“L’ostacolo siamo noi stessi. Tutto è difficile prima di diventare facile”

Isabelle il Capriolo è un’associazione teatrale, di promozione e bene sociale nata a Ranica (BG) nel 2007 da un’idea di Sophie Hames e Luciano Togni. La decisione di iniziare a lavorare “da soli” è nata dalla necessità di arrivare ad avere in mano qualcosa di ufficiale, uno strumento giuridico riconosciuto a manifesto delle proprie idee.

La scelta del paese nel quale insediarsi è stata un susseguirsi di coincidenze fortuite, come la collaborazione con la Banda del paese, l’aver trovato una sede disponibile per l’attività dell’associazione e un’amministrazione comunale aperta al progetto, in grado di ascoltare gli obiettivi proposti.

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Dopo tante fatiche e battute infelici come: “Isabelle il Capriolo sopra un letto di polenta” (ironia di un amico per i due attori vegetariani), il progetto inizia a prendere piede nel territorio. Innanzitutto con la collaborazioni con altri enti e associazioni presenti nel territorio della provincia di Bergamo: dalle bande, iniziative nelle scuole per le “classi difficili” e bambini con difficoltà di espressione, alle case di riposo diurne con la rieducazione all’emotività degli anziani. L’ultimo progetto avviato da poche settimane riguarda un laboratorio di teatro con i ragazzi immigrati rifugiati. Oltre a questo, l’associazione vanta di numerosi spettacoli teatrali di vario genere, nonché le cosiddette “attività non remunerate, ma valutate”: come l’ospitare nella propria sede altri progetti (tra cui il giovane e nascente gruppo di giocoleria Pirouettes Ensamble e il sostegno del nuovo spazio giovanile Linkiostro). Attività che portano innanzitutto a interessanti collaborazioni, ma anche a degli sconti sulle spese degli spazi affittati dal comune.

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Dall’intervista ai due attori: «La produzione del lavoro in sé consiste nella crescita artistica, che passa attraverso gli spettacoli teatrali. Qualcosa funziona e qualcosa no. Può essere che passi tre mesi a cercare di mettere insieme qualcosa e poi ti rendi conto che non va. Puoi anche provare uno spettacolo per sei mesi per poi metterlo in scena una volta sola. C’è bisogno di una continua crescita per affinare l’obiettivo creativo, arrivare a fare spettacoli che ti rappresentino e allo stesso tempo abbiano successo. In generale è un lavoro difficile da quantificare e occorre stare sempre in allerta e pronti a qualsiasi ostacolo; alla fine riduci il tuo stile di vita per il teatro..è una sorta di vocazione! La difficoltà sta ne resistere e continuare a crederci, soprattutto per la mentalità circostante per cui chi fa teatro lo fa per divertirsi. Manca il riconoscimento professionale».

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Per l’imminente futuro Isabelle ha innanzitutto l’obbiettivo di montare uno spettacolo da proporre ad un concorso teatrale di Brescia, per compagnie lombarde tra cui sono stati selezionati, «arrivare a leggere almeno quattro libri al mese e viaggiare! Abbiamo bisogno di viaggiare e lasciarci contaminare».

Auguriamo a Isabelle il Capriolo tanta merda, e che vengano tutti a cavallo!

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I monasteri affrescati della Bucovina, viaggio nel nord-est della Romania

C’era una volta Ştefan cel mare, Stefano il Grande, cugino del temuto Vlad Ţepes l’Impalatore (Dracula), dai lunghi e ondulati capelli biondi, il più grande principe della Moldavia (regno 1457- 1504) famosissimo in tutta la Romania per le sue innumerevoli vittorie contro gli eserciti polacchi, ungheresi e ottomani. Per la sua resistenza e vittoria contro i turchi a Ştefan non bastarono di certo qualche dozzina di pacche sulla spalla: per aver salvato la cultura e le tradizioni rumene il principe decise di erigere quaranta monasteri e chiese, alcuni dei quali considerati oggi patrimonio dell’umanità. Per questo a metà dicembre sono andata a curiosare nella Bucovina meridionale, regione che si estende all’estremo nord della Romania, a confine con l’Ucraina, una delle zone più povere del paese, dove si gira e lavora ancora con carretti trainati da maestosi cavalli.

Monastero di Humor
Monastero di Humor

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I bellissimi monasteri di Ştefan si distinguono per i loro straordinari affreschi e i quattro principali possiedono un colore prevalente capace di distinguerli gli uni dagli altri. Il Monastero di Humor è difatti caratterizzato dalle tonalità del rosso e marrone. Circondato da bastioni, al suo interno si erge una torre che a detta delle guide bisogna scalare per poter ammirare il paesaggio circostante: probabilmente hanno ragione, ma noi non ci siamo riusciti in quanto le suore avevano appena passato la cera.

Monastero di Vononeţ
Monastero di Vononeţ
Giudizio Universale
Giudizio Universale

Costruito in soli tre mesi a seguito di un’importante vittoria, il Monastero di Voroneţ è l’unico a essere associato in tutto il mondo a un peculiare colore, il cosiddetto “blu di Voroneţ”, creato coi lapislazzuli! Rispetto a quello di Humor, si nota la manata di restauro passata nel 2011 e grazie alla quale si può apprezzare il Giudizio Universale sull’intera parete esterna occidentale.

Monastero di Moldoviţei
Monastero di Moldoviţei

Il Monastero di Moldoviţei, tra torri cancelli e prati ben curati, vanta invece la tinta del giallo e il mantenutissimo Assedio di Costantinopoli del 626 d.C. che raffigura un esercito di persiani e avari vestiti peraltro in abiti turchi, forse per ricordare ai fedeli il nemico attuale. Ma la sua vera bellezza risiede nella quiete monastica del convento che lo circonda: per poter apprezzare anche questo aspetto, consiglio difatti di visitare la Bucovina nei mesi di bassa stagione, lontani dalle code, gli scatti e i rumorosi gruppi di turisti organizzati.

Monastero di Suceviţa
Monastero di Suceviţa

Dopo una tortuosa strada di montagna, si raggiungono i 1100 m di quota e il Monastero di Suceviţa, caratterizzato da un bianco muro occidentale: leggenda vuole che l’artista cadde dall’impalcatura nel dipingerlo e che gli altri pittori si rifiutarono di prendere il suo posto, pensando bene che il ferro e le corna non sarebbero stati sufficienti. Iella a parte, le sfumature verde e oro dei suoi affreschi si guadagnano il primo posto nella classifica dei monasteri più suggestivi della regione.

Prima di tornare a Bucarest, perché non fare una piccola deviazione di circa 200 km verso Iaşi? Le due ore passate di sfuggita nella “città dalle cento chiese” ci permettono di visitare solo l’orologio del vecchio Palazzo di Giustizia; chiuso in realtà al pubblico, ma accessibile con un sorriso a 20 LEI. Se sarete abili a conquistare la simpatia del guardiano, potrete ammirare gli ingranaggi dell’orologio all’opera, che incastrandosi gli uni tra gli altri, inseguiti dai rintocchi, vi trasmetteranno la sensazione di stare di fronte a uno dei marchingegni più antichi del mondo.

Ingranaggi dell’orologio del 1906.
Ingranaggi dell’orologio del 1906.

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In copertin: Monastero Voronet [ph. Rolly 00 CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

Charlie Hebdo, Parigi due settimane dopo

Il colore di Parigi è il grigio. Lo sono i suoi tetti, visti dalla scalinata del Sacré Coeur, con cui la città assume quel color cenere di sigaretta che non ti scordi. É grigio il cielo invernale, livido con le sue nuvole che si specchiano nelle pozzanghere.
Ma non é grigio l’umore dei parigini, grandeur e orgoglio ancora intatti.
L’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo del 7 gennaio ha forse cambiato solo inizialmente le abitudini e i pensieri di chi a Parigi ci vive e ci lavora, o quelle dei turisti, ma dopo due settimane la città continua la sua solita vita.
Solo qualche segnale, qualche dettaglio, come quando un soprammobile viene cambiato di posto su una mensola, fa trapelare quanto accaduto.
Le edicole sono stracolme di copertine di riviste che ricordano l’attentato e la manifestazione di solidarietà dei giorni seguenti, mentre del giornale stesso nemmeno l’ombra, esaurito alla velocità della luce il giorno dell’uscita.
Il numero dei militari e dei poliziotti nei quartieri considerati a rischio, cioè quelli con il maggior numero di residenti di origine maghrebina o araba, come Belleville o Clignancourt, é calato rispetto ai giorni subito dopo l’attacco, ma qualcuno é ancora presente, mitra ben in vista, specialmente fuori dai luoghi di culto, mentre non se ne vedono proprio al parco di Buttes-Chaumont, noto per essere un luogo di ritrovo della cellula parigina di Al-Qaeda.
I canonici luoghi del turismo, come i musei o Notre-Dame, hanno incrementato la sorveglianza e ovunque, persino nei negozi sugli Champs élysées, campeggia il cartello del controllo anti terrorismo, che però nella maggior parte dei casi equivale a un’occhiata veloce nella borsa delle donne e nei casi più scrupolosi a una veloce tastata.

Segnale della vigilanza anti terrorismo
Segnale della vigilanza anti terrorismo

Place de la République, dove si é concentrata la manifestazione di solidarietà, porta ancora i segni della folla oceanica riunitasi per dire Je suis Charlie, la Marianna vestita di striscioni con Charlie, Charlie e ancora Charlie.

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Charlie in fondo è ovunque, impossibile non sentirne la presenza, impossibile non notarlo.
Eppure se cerchi di chiedere opinioni, pareri, alla parte meno Charlie di Parigi, la conversazione si fa schiva, il francese diventa stentato e lo sguardo sfuggente.
Parigi è divisa in due: da una parte il centro dove l’orgoglio e il dolore parigino sono ancora forti, e dall’altra i quartieri che si avvicinano alle banlieue, dove difficilmente senti parlare francese e dove Charlie sembra non sia mai esistito.
E intanto, alla fermata della metropolitana Hotel de Ville, i treni si fermano e vengono svuotati perché sono state trovate abbandonate a una stazione più avanti delle valige sospette.
“Succede tutti i giorni dopo gli eventi trascorsi” dice una bionda ragazza francese.
Ma Parigi è Parigi, la metro riparte e nessuno ha più paura.

Appeso sulla porta di un negozio
Appeso sulla porta di un negozio

Intervista a Milly Moratti


Un’intervista a Milly Moratti non solo per capire chi è questa interessante personalità di Milano, ma anche per comprendere l’interessante progetto del Chiamamilano (http://www.chiamamilano.it). Chiamamilano come esperienza di partecipazione civica per creare legami fra il territorio ed i suoi cittadini. Il progetto prende forma nei suoi spazi virtuali, il sito, e soprattutto reali come la sede in Via Laghetto 2, edificio del Comune messo a disposizione affinché divenga il fulcro di una forza centripeta che spinga gli studenti, i cittadini tutti a partecipare per rendere Milano una città migliore.

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A German in Southern France

Name and Surname: Sabine Schuster

Age: 22

Country: Germany

Nationality: German

City: Passau

 

                                          SOMETHING ABOUT YOUR COUNTRY

  1. Which is the form of government ruling in your country?

(Parliamentary) democracy

spiaggia sul Danube Beach on the shore of Danube

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Yes I think it exists in political life but for me it is not visible and it doesn’t influence my private life.

Veste Oberhaus su Passau (Vecchia fortezza)Old Fortress, Passau

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

My mother language is German.

Yes, dialects exist in my country. They are also used by young people but often they’re considered old-fashioned. Today dialects are not used by young people as much as they were used many years ago.

sabineSabine

 

  1. Who do you believe to be the cultural icon of your country?

Johann Wolfgang von Goethe.

Goethe_(Stieler_1828)Johann Wolfgang von Goethe

                                           WHAT ABOUT EUROPE?

  1. Do you consider yourself European?

Yes, I do.

  1. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture?

Leonardo da Vinci.

640px-Leonardo_da_Vinci01 (1)Da Vinci’s statue in Florence, Galleria degli Uffizi

 

Milano expo 2015 e la sharing economy

Avete mai sentito parlare di car pooling, cohousing, coworking, fab-lab? Forestierismi di questi tempi molto comuni, diventati protagonisti di eventi e progetti a favore di città sostenibili.

La stessa Milano con il progetto ShareExpo ha deciso di scommettere su queste alternative, candidandosi come città italiana della sharing economy e approvando il progetto elaborato da un comitato e costituito da rappresentanti della società civile e da aziende. Progetto che invoglierà i visitatori durante i sei mesi di Expo a usufruire di servizi collaborativi come il car sharing per i trasporti o come il social eating per quanto riguarda il campo della ristorazione. L’obiettivo è anche quello di fornire uno stimolo progettuale ed ottenere un adeguamento normativo o un superamento dei vincoli burocratici che impediscono l’effettiva attuazione dei servizi collaborativi nella città.

Venerdì 2 gennaio infatti la giunta di Palazzo Marino ha approvato una delibera d’indirizzo per “promuovere e governare lo sviluppo delle economie di condivisione e collaborazione” sull’esempio di altre città del mondo (Amsterdam, Hong Kong, Sidney). In programma vi è l’evento del prossimo 15 Aprile che avrà una durata di mezza giornata con l’obiettivo di condividere le opportunità legate alla sperimentazione della sharing economy nella Città e Provincia di Milano durante Expo 2015.

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Ma cosa c’è dietro a questo fenomeno? Termini come car sharing o food sharing” sono solo inglesismi che nascondono realtà troppo complesse per il panorama italiano o sono fenomeni concreti in via di sviluppo? Per dare una risposta effettiva al quesito si deve prima fornire una definizione chiara dell’argomento finora trattato; il denominatore comune che raggruppa questi progetti e servizi è la sharing economy, o “economia della condivisione o collaborativa”, che comprende tutte quelle piattaforme digitali che, facendo incontrare domanda e offerta, permettono di utilizzare un bene – che sia una macchina o un appartamento – senza possederlo. Un modello socio-economico basato sull’accesso a beni e prodotti, anziché sul loro possesso in esclusiva, tramite le pratiche di condivisione, baratto, prestito, cambio e scambio, commercio, locazione, donazione e noleggio, amplificato dalle infrastrutture partecipative fornite dalle piattaforme informatiche.

In Italia i fenomeni più noti sono il car sharing, il bike sharing e gli affitti brevi ma le esperienze italiane censite su collaboriamo.org, piattaforma in cui si delineano ogni giorno le realtà mutevoli della cooperazione online, sono ormai 140 e vanno dai portali per il baratto alle piattaforme per la raccolta fondi su internet (crowdfunding), passando per il coworking o per il social eating, cioè appuntamenti culinari in abitazioni private pianificati su social network dedicati. Che si tratti di sharingper la condivisione di beni, servizi, informazioni, spazi, tempo o competenze, di bartering, ossia di baratto tra privati ma anche tra aziende o di crowdcon pratiche come il crowdsourcing e crowdfunding o di makingossia di autoproduzione dall’hobbismo alla fabbricazione digitale (fablab), dal 2011 a oggi in Italia i numeri sono più che triplicati, in particolare nell’ambito del turismo, dei trasporti, delle energie, dell’alimentazione e del design.

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Condivisione dunque è la parola chiave di questo fenomeno in espansione, che oltre a creare un’alternativa all’economia capitalistica e industriale come lo studioso Yochai Benkler sostiene, crea anche un nuovo approccio culturale all’utilizzo di determinati servizi.

Usufruendo del servizio offerto dal sito BlaBla Car, per esempio, non si compie soltanto un viaggio low-cost dimezzando i prezzi con sconosciuti ma si attua un’esperienza unica a livello umano. Un altro esempio può essere quello del Social Street (http://www.socialstreet.it/), dove un quartiere intreccia le vite dei residenti nella condivisione di beni, esperienze e competenze con il proprio vicinato. In via Fondazza infatti uno dei suoi abitanti, Federico Bastiani, era stanco di sapere così poco delle persone del suo quartiere, perciò ha creato un gruppo Facebook dedicato a via Fondazza e ai suoi abitanti, nel tentativo di creare una community formata proprio dai suoi vicini: il successo è stato immediato. «Regole predefinite non ce ne sono – dice Federico – Facebook è solo un mezzo per far incontrare le persone».

Queste azioni non solo offrono un servizio ma sono volte al recupero del senso di comunità in tutte le sue accezioni. Una comunità non solo da un punto di vista locale e globale, ma soprattutto più umano e sociale, una comunità che risponde alle proprie esigenze e non a quelle del mercato. Progetti molto simili di collaborazione tra persone si ritrovano anche a Trento, dove all’interno della “Casa alla vela” si sviluppano veri e propri esempi di cooperazione tra cittadini comuni, decisi a non sottostare alle decisioni altrui e a sviluppare un vero e proprio esperimento di co-housing intergenerazionale. In questo immobile infatti convivono rispettivamente cinque signore anziane, cinque studenti universitari e due assistenti familiari e tutti insieme danno vita a un progetto innovativo che ha l’obiettivo di fornire una soluzione di socialità e convivenza agli anziani che allunghi il loro tempo di autosufficienza, allontanando la prospettiva della casa di riposo. Il tutto con costi accessibili, poiché affitto, vitto, bollette e spese del servizio di assistenza vengono divise per cinque e con l’aiuto degli studenti universitari che abitano al piano superiore e tengono compagnia, organizzano feste di compleanno e aiutano nella cura dell’orto.

Con la sharing economy si vanno a toccare tutti gli ambiti della vita nella città, dalla ristorazione all’ospitalità, dal trasporto al lavoro, con l’obiettivo di renderle più sostenibili e vivibili. Un’utopia che si sta realizzando con la collaborazione di tutti i cittadini.

Ma che futuro ha un’economia fondata su questi principi? Girovagando sul web fonti statistiche certe non se ne trovano, spesso ci si imbatte in dichiarazione di esperti che spingono verso un passo antecedente la sharing economy: un cambio totale di mentalità, abbandonare l’egoismo per farci plasmare dalla condivisione e della collaborazione, anche intergenerazionale. Certo è che, andando avanti di questo passo, con questa nuova sensibilità, tali tendenze avranno un impatto determinante sul nostro futuro. La tendenza più ampia sembra essere quella “progettazione per la condivisione”: solo in questo modo si potrà assistere a un ampio impatto sul modo in cui le merci vengono consumate. Tramite Internet sarà più semplice condividere una gamma crescente di prodotti e servizi e tenere sotto controllo gli accessi degli utenti, aspetto che permetterà di ridurre drasticamente i rischi della condivisione.

Insomma, una progettualità ampia che ci porrà di fronte a un fenomeno del tutto nuovo e profondamente lontano dallo stile di vita a cui siamo abituati ad assistere.

 

“Nuove Premesse”: L’incontro con sogni e progetti da realizzare

Redazione

Sul nostro sito è nato un nuovo modo di raccontare il presente: la sezione “Nuove Premesse”.

La scuola, l’università, lo stage e poi, ancora, il tempo determinato e il precariato, per i più audaci la necessità di spiccare il volo verso nuove e più accessibili oasi del lavoro e del benessere economico.  Un percorso molte volte già scritto e ineludibile,  costellato dalle tinte fosche di un futuro quanto mai incerto e minaccioso.

Se vi ritrovate in questo schema  forse la vostra unica colpa è quella di essere nati nel posto sbagliato al momento sbagliato, o forse no. O forse, semplicemente, è andata a finire che ci siamo infilati dentro al tunnel di una crisi, che se prima era solo economica, adesso riguarda il nostro legame con la realtà circostante. Il comune denominatore: la paura.   

In un’intervista risalente al 1987, il giornalista Tiziano Terzani, a chi chiedeva circa le origini della sua fortuna da inviato in Asia, dichiarava “c’è una cosa in cui credo fortemente. Bisogna uscire dagli schemi con cui si è abituati a vedere il mondo adulto… dico sempre ai miei figli di cercare fuori dalle gabbie di piccione precostituite: il banchiere, l’avvocato ecc.. Inventatevi un ruolo vostro!”

Ora, non sappiamo, in termini strettamente economici e politici, quanto durerà e come si evolverà la situazione che stiamo vivendo. Tuttavia ci teniamo a raccontare le storie di persone che, nonostante i tuoni e i fulmini all’orizzonte, si imbarcano verso nuove sfide e si approcciano alla realtà seguendo le loro passioni. 

Annalisa, comunicarsi nel disegno

Il disegno e l’arte come espressione di sé e raffigurazione del mondo. Chissà se nel nostro tempo, sia ancora data la possibilità di esprimersi secondo modalità di comunicazione che nulla hanno a che fare con il web e con i social media. Oppure se, in una società fondata sull’economicismo, sulla monetizzazione di qualsiasi cosa, ci sia ancora spazio per fogli e carboncino.

Abbiamo incontrato Annalisa Zungri, che studia lettere alla Normale di Pisa e nel tempo libero dipinge, anche se ci tiene a sottolineare che il suo non è semplicemente un hobby: «Disegnare è qualcosa senza il quale non sarei in grado di riconoscermi, una parte decisiva della mia personalità» ci dice.

Oggi ve la presentiamo perché in questo momento storico, in cui sono in molti ad accantonare aspirazioni e passioni soltanto perché poco spendibili a livello puramente economico, vale la pena raccontare storie che hanno al centro “l’utilità dell’inutile”. Imprimere sul foglio le emozioni proprie e donarle agli altri conservandole nel codice collettivamente segreto dell’arte.

Annalisa fa del suo lavoro uno “specchio dell’anima”. Ne fa un modo di comunicare. Le sue linee e i chiaroscuri il suo canale primario.

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L’artista Annalisa Zungri

L’idea è chiara e si esprime senza alcuna titubanza nel desiderio di perfezionamento, di modelli da seguire e reinterpretare. «Quello che detesto del mio modo di disegnare – racconta lei – è che ho un’innata tendenza ad estetizzare, per cui anche quando provo a disegnare qualcosa di brutto risulta sempre come sospeso in un’atmosfera, che tende a valorizzarne una qualche bellezza».

E vale veramente la pena perdersi  nelle linee della sua matita. Nei ritratti di figure umane, negli elementi che costituiscono il suo modo di disegnare. «Spesso mi chiedo se ci siano delle attinenze tra il modo in cui disegno, il modo in cui vedo il mondo, e il modo in cui penso: alcune volte mi sembra di cogliere queste “corrispondenze” in una passione sconsiderata per il dettaglio».

Tra i suoi riferimenti troviamo i grandi disegnatori italiani, da Manara a Schiele, da Pazienza a Dix. Ma nel dolce naufragare del foglio bianco non mancano le grandi bussole dell’arte contemporanea: Frida Khalo, Beardsley, Grunewald, Khnopff.

Dicevamo non essere un hobby questo, ma un elemento innato, una passione che cerca di rinnovare se stessa, stimolata dalle letture e dalle esperienze umane anche distanti tra loro, non per questo meno affascinanti. «Al liceo lessi, in una biografia di Schiele, che questi usava disegnare senza gomma, fissando sul foglio le figure e strappando, stralciando, gettando via tutto, nell’eventualità di un solo “errore”, e questo è un modello di determinazione a cui da allora ho sempre mirato. C’è poi  una perla di saggezza di mio padre, che anni fa mi spiegò che non ha senso definire ogni dettaglio, ogni linea, altrimenti si priva lo spettatore del piacere dell’immaginazione, del vagheggiare oltre le forme fissate sulla carta».

Il disegno come forma d’arte, espressione di sé. E se è vero che il sonno della ragione produce mostri, specie in questo rinnovato clima di smarrimento sociale, soltanto il risveglio dei sensi potrà salvarci dall’incubo del disorientamento.

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“Kumiko”

“In quale oceano in quale notte
la sto perdendo
chiesi al delfino

Disse il delfino:
nell’acqua nera
dove quello che unisce separa
dove il silenzio è un boato
dove sei perso anche tu”

Michele Mari

MILANO: UNIVERSITA’ CHIUSA

Di Alessandro Giuliano e Andrea Turchi

Immaginate di essere studenti universitari. Immaginate di recarvi nella vostra sede perché quel giorno dovete sostenere un esame, un colloquio di ricevimento con un professore, o anche semplicemente per usufruire delle aule e biblioteche messe a disposizione per studiare. Ecco, immaginate di trovare a sorpresa i cancelli della facoltà sbarrati, chiusi. Sul portone un foglio in formato A4 con su scritto che quella sede resterà chiusa per tre giorni e che tutte le attività che si sarebbero dovute svolgere in esse, sono trasferite nelle altre sedi. E’ quanto è accaduto stamani presso la sede centrale dell’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Allo sconcerto e alla rabbia di professori e universitari per la sgradita sorpresa, dato che non c’è stato alcun preavviso da parte del rettore, si è unita quella dei alcuni collettivi coinvolti direttamente nella vicenda.

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 La vicenda

Per oggi era previsto un evento nel quale si sarebbe trattato il tema dell’alimentazione, secondo un canone alternativo rispetto a quello maggiormente sponsorizzato da EXPO, attraverso dibattiti seguiti poi, nella serata, da un aperitivo Bio a chilometro zero, in collaborazione con un GASP (gruppo di acquisto solidale e corporale) e da un concerto. C’è da specificare che l’iniziativa era organizzata da alcune realtà cittadine extra universitarie, come il Centro Sociale Cantiere e collettivi universitari, come Lapsus e The Take, come ci dice una ragazza facente parte di quest’ultimo. Rispettando la praxis, gli organizzatori hanno chiesto alcuni giorni fa al Rettore l’autorizzazione per usufruire degli spazi universitari e, non ricevendo alcuna risposta, hanno comunque scelto di mettere in campo l’iniziativa.

Battenti chiusi in Festa del Perdono. Cinque camionette della polizia in Largo Richini e altrettante in Piazza Santo Stefano, due luoghi che delimitano la sede dell’Università. Università chiusa fino a Domenica 18 Gennaio. Questa è stata la risposta del rettore. Queste le risoluzioni del Prefetto di Milano.

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 La gravità

Sono molti, troppi forse, gli aspetti sgradevoli di quanto è accaduto oggi. La negligenza di un’istituzione che non ha saputo fornire le risposte adeguate a chi chiedeva un luogo per il confronto e la discussione. L’ indifferenza per qualsiasi studente che, pagando le rate della retta, si aspetterebbe di poter usufruire regolarmente dei servizi. L’ abbietta modalità con la quale si è comunicata la chiusura. Ed anche il fatto stesso che una struttura pubblica resti chiusa con la sommaria e non giustificata motivazione di un rischio di sicurezza deciso autonomamente, anticipatamente e senza alcun confronto con le parti, tanto meno con tutti gli studenti, certo non può che negare il ruolo stesso dell’Università e della tanto discussa ultimamente libertà di espressione e dibattito.

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Edimburgo, turisti cinesi e papaveri rossi

Edimburgo è un romanzo storico che prende vita. È uno straordinario ambiente gotico – dickensiano. E’ il contrasto di una facciata esterna di rocciosa, con motivi di nero fumo e lucido di pioggia, e l’intimità ambrata di pub e sale da té. Il tutto dominato da uno splendido castello, conclusione di un lunghissimo viale Royal Mile che si sviluppa e articola lungo tutto il centro città.

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La città fregiata patrimonio dell’Unesco, seconda nel Regno Unito solo a Londra come numero di visitatori, risulta agli occhi dei viaggiatori orgogliosa della sua identità, delle sue tipicità. Il salotto cittadino è un brulicare di botteghe connesse alle punte d’eccellenza scozzesi: il commercio legato al whisky e al cashmere la fanno da padrona; i turisti, moltissimi cinesi, acquistano con avidità. È proprio da qui, dalle fiorenti attività di Scozia e dall’incontro con turisti di tutto il mondo, che probabilmente trova fecondità il seme del separatismo, nasce la convinzione di potercela fare da soli, di riuscire a creare la Scozia, sganciata una volta per sempre dal giogo londinese della corona. O almeno questo è quello che affermava un nutrito numero di sostenitori separatisti, radunatisi a centinaia sotto l’Holyrood Palace, residenza ufficiale in Scozia della Regina d’Inghilterra

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Abbandonato il colorato carosello di Sant’Andrea, si prosegue, lasciandosi alle spalle comignoli, tetri angoli bui e palazzi medioevali.

La città continua a presentarsi come una giostra su più piani collegati da un dedalo di antiche strade. Talvolta lo strato cittadino inferiore è collegato a quello superiore da passaggi pubblici sviluppati in verticale, che prendono le forme di un sinistro torrione.

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Tutto qui è connesso, tutto è collegato; persino i cimiteri fungono da braccio di connessione tra zone: attraversando il campo santo, tra tombe ottocentesche e chiese gotiche, si può aggirare un intero circondario. Osservando la città, dalle sue diverse alture, il mare fisso a nord-est, rimane l’elemento blu imprescindibile dell’orizzonte cittadino. L’altura più bella e più verde è quella di Calton Hill, dove ha sede il giardino pubblico della città, in cui si trova un piccolissimo osservatorio che destina il suo prezzo d’ingresso (4 sterline) al fondo per i veterani di guerra.

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Nella capitale scozzese, addobbata di croci bianche e sfondi blu, smaniosa di essere indipendente, ancora vive un’anima molto british: quella che lavora, viaggia, frequenta musei con il papavero rosso, portato nell’occhiello della giacca. Fiore che rappresenta qualcosa di più di un gesto di solidarietà nei confronti dei vecchi veterani britannici; rappresenta un passato di coesione e di battaglie comuni, che la città leale alla corona non vuole dimenticare, non vuole perdere.

Il ritorno dell’animazione tradizionale: Hullabaloo

Esiste una data, nel mondo del cinema d’animazione occidentale, che nel corso degli anni ha assunto sempre più il ruolo di spartiacque tra il vecchio e il nuovo. Immaginate qualcosa di simile al 476 d.C per il Medioevo, o il 1492 per l’Età moderna.

Ecco, parliamo del 1995, anno dell’uscita al cinema di Toy Story, primo lungometraggio d’animazione costruito interamente a computer con quella tecnica che in gergo tecnico è detta CGI (computer-generated imagery).

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Intendiamoci, non è che prima del ’95 non avessero mai visto un computer in California. La Disney aveva ampiamente fatto uso delle novità in campo tecnologico con i lavori precedenti. Ma il computer si era solo affacciato al mondo dell’animazione, per lo più potenziandone i mezzi tradizionali.

La tecnica di riferimento restava invece quella del disegno animato, in grado di dare l’illusione del movimento mettendo in rapida successione differenti disegni realizzati a mano. Erano altri tempi, era l’epoca degli inbetweeners (giovani per lo più apprendisti, incaricati di realizzare i “disegni di mezzo” tra una posa e l’altra).

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Tutto questo, con l’avvento del digitale, cominciò a essere messo da parte. La nascita della Pixar Animation Studios (staccatasi dalla LucasFilm e finita poi sotto la guida di Steve Jobs) e il suo connubio con la Disney nel 2006, avrebbero definitivamente messo la parola fine alla storia dell’animazione tradizionale. O almeno questa sembrava la strada più ovvia.

Del resto, al di là di facili sentimentalismi, l’animazione digitale offre una sconfinata serie di vantaggi tra cui un costo ridotto e una resa grafica di qualità infinitamente superiore. Un esempio per tutti: La Principessa e il Ranocchio, discreto lungometraggio del 2009 in tecnica tradizionale, ha avuto come budget di produzione ben 105 milioni di dollari, proprio l’ammontare dei finanziamenti per un lavoro di qualità notevolmente superiore, Frozen.

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Insomma, nessuno può negare che l’epoca delle matite sia ormai passata, ciò nonostante l’animazione tradizionale si batte per continuare a mantenere un posto nella produzione animata, un posto marginale, ma di qualità, quello che nel tempo sono riuscite a ritagliarsi tecniche alternative come la stop-motion o la performance capture.

E se da un lato l’animazione europea mostra di non avere problemi in questo (Ernest & Celestine, La bottega dei suicidi), in America la mancanza di produttori disposti a scommettere ancora sulla vecchia tecnica ha dato inizio al primo progetto di crowdfunding per un cartone animato. Il progetto è partito da alcuni celebri disneyani Robert Lopez, Bruce Smith e Rick Farmiloe che si sono uniti nella realizzazione di Hullabaloo, cartone animato dall’atmosfera steampunk che vede come protagoniste due giovani scienziate.

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Sul successo o meno di questo nuovo progetto, non possiamo per ora pronunciarci. Vero è che sempre più spesso della diatriba tra il cinema d’animazione computerizzato e quello tradizionale si cerca di fare un’allegoria della lotta tra il bene e il male, tra un passato mitico e un futuro automatizzato, quando la realtà delle cose è, naturalmente, molto più semplice, e molto meno epica.

Il successo o meno di un’animazione, il segreto della sua riuscita o del suo fallimento, sta davvero poco nella tecnica e molto, invece, nella sua storia. Un’animazione senza originalità, senza struttura e senza un’anima difficilmente farà presa sullo spettatore, specie quello più piccolo. Così si spiegano i fallimenti clamorosi di animazioni in CGI dalla grafica impeccabile ma anche di quelli che strizzano l’occhio al passato. In questo senso va detto che le prime immagini di Hullabaloo non sono troppo incoraggianti, ma è davvero troppo presto per parlare.

Qui sotto il video diffuso dagli animatori, e le prime immagini:

 

A Singaporean from London in Romania

Name and Surname: Jonathon Satrio Wood

Age: 24

Country: Singapore

Nationality: British Citizen

City: London

SOMETHING ABOUT YOUR COUNTRY

  1. Which is the form of government ruling in your country?

Singapore is a multi-party democracy, however there is one party – People’s Action Party – that has won the elections. The President is the head of the state while the Prime Minister is the head of government, however the President’s role is mainly ceremonial. The first Prime Minister was Lee Kuan Yew, who ruled from 1959 to 1990, followed by Goh Chok Tong, who was in power from 1990 to 2004 and then Lee Kuan Yew’s son Lee Hsien Loong became Prime Minister from 2004 until the present day. It is sometimes referred to as a ‘benevolent dictatorship’.

1Here is my favourite place in Singapore, Arab Street. The old Arab quarter. Now it is a trendy part of town with boutique shops. The government is also going to ban shisha tobacco so a lot of traditional shisha bars will have to shut down

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Officially there is no corruption in Singapore. But as we can see by two Prime Ministers in the last 50 years being father and son there is some degree of nepotism. There is also censorship employed by the People’s Action Party against any criticism of them as well as civil suits against the opposition for libel and slander towards the success of the party. Singapore was ranked 140th out of 167 countries by Reporters Without Borders in their 2005 Press Freedom Index. The censorship does effect criticism of Singapore’s government but also affects people’s private lives as television shows, music and books are censored for their content.

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

There are four official languages in Singapore, English, Mandarin, Malay and Tamil, but English is the one used the most. Malay is officially the national language, but is mostly ceremonial so Singapore won’t cause friction with neighbouring Malaysia and Indonesia who speak Malay based languages. The English spoken in Singapore is also known as Singlish, as words from Chinese, Malay and Tamil are also used with English.

  1. Who do you believe to be the cultural icon of your country?

Lee Kuan Yew would be the cultural icon of Singapore as he is the founder and architect of modern Singapore.

2This is a portrait of Little India, the Indian district. There are really good curry restaurants here. In 2013 there was a riot there after a Chinese bus driver ran over an Indian construction worker. Most construction workers in Singapore are from India and Bangladesh and feel like they are second class citizens, so the riot was a result of their built up anger being released.

3Here’s instead picture of  Chinatown, no discrimination here because the government is majority Chinese!

WHAT ABOUT EUROPE?

  1. Why did you choose Europe?

I do not consider myself European as I have more in common with Asian culture but I chose to live in Europe to have more freedom than I would have in Singapore.

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This is an Oktoberfest celebration at the Swiss Club in Singapore. There are many different private sports clubs based on nationality such as the American Club, British Club, Dutch Club and Australian and New Zealand Association, and the Japanese Association. These have been there since British colonisation and were a way for Europeans and other colonial powers to separate themselves from locals.

  1. Do you perceive the existence of a  “European culture”?

I don’t believe there to be a common European culture as every country has a distinct personality that is different from each other. It would be wrong to generalise an entire continent as one culture.

Sui diritti dei lavoratori ai tempi di Amazon

Più di 9 milioni di euro, 5.529.380 sterline di preciso: questo è quanto Amazon ha perso nel periodo natalizio per la campagna di boicottaggio lanciata da Amazon Anonymous, per sollecitare l’azienda americana a intervenire sulle condizioni dei suoi lavoratori e sensibilizzare i clienti alla realtà nascosta dietro un click. Dal 2011, infatti, è stato svelato il lato oscuro del colosso dell’e-commerce: contratti precari e stipendi inadeguati, turni massacranti e monitoraggio a distanza. In origine fu l’inchiesta del quotidiano The Morning call, che dalla Pennsylvania denunciava ad esempio i provvedimenti disciplinari contro coloro che, stremati dal caldo, svenivano sul posto di lavoro . Ma dal 2013 l’azienda di Jeff Bezos è sotto il fuoco incrociato dei media europei: dall’inchiesta della Bbc sulla salute psico-fisica dei lavoratori nel Regno Unito al libro En Amazonie. Un infiltrato “nel migliore dei mondi” del freelance Jean Baptiste Malet, assunto in un magazzino francese nel Natale 2012, alla videoinchiesta della tv tedesca Ard che raccontò in prima serata le intimidazioni che gli operai immigrati dovevano subire da vigilantes vicini ad ambienti neonazisti.

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Jeff Bezos, fondatore di Amazon, già person of the year del Time nel 1999, eletto business man del 2012 dalla rivista Fortune.

Fuori i sindacati: il paradosso degli “imprenditori dipendenti”

Proprio in Germania, nel 2013, fu organizzato il primo sciopero contro l’azienda statunitense e lo scorso 12 dicembre hanno incrociato le braccia circa 2.300 dipendenti tedeschi. Il sindacato VerDi reclama stipendi più alti e nuove forme contrattuali, che equiparino l’addetto alla logistica al venditore al dettaglio, nonché una regolamentazione su orari e pause. Sempre senza successo: in Amazon i sindacati non sono previsti perché, stando a un articolo girato nella intranet aziendale, «promuovono attivamente la diffidenza verso le autorità di vigilanza e creano anche un atteggiamento poco collaborativo tra gli associati». Detto altrimenti, Amazon “invita” i dipendenti a dichiararsi «imprenditori indipendenti» per evitare la loro sindacalizzazione.

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Dal quotidiano locale di Piacenza La Libertà (18 dicembre 2013): Filcams-Cgil e Fisascat Cisl denunciano l’ostruzionismo di Amazon rispetto alla presenza dei sindacati nello stabilimento di Castel San Giovanni.

 

I nuovi maratoneti di Piacenza

Assenti le sigle sindacali anche nel nuovo stabilimento della multinazionale a Castel San Giovanni (PC). Se l’apertura del primo capannone, nel 2011, era stata accolta come un progetto avveniristico, l’inaugurazione del 2013 rinnova l’entusiasmo: 75 mila metri quadrati e 1000 posti di lavoro, da raddoppiarsi entro il 2016. Per il sindaco Carlo Capelli «Amazon ha rappresentato un’opportunità per dare lavoro a tante persone, soprattutto giovani». Molti dei questi trentenni assunti tramite agenzia interinale si dicono soddisfatti del nuovo lavoro, come Andrea, prima avvocato. «Non mi mantenevo più e così ho scelto Amazon. Ti assicuro che sto meglio – dichiara al Corriere della Sera –. Ho il mio stipendio, i buoni pasto, la palestra, la piscina». E un contratto di 1.050 € al mese, 8 ore di lavoro al giorno per cinque giorni a settimana. Altri però sottolineano che il passaggio al tempo indeterminato comporta uno stipendio inferiore e un rapporto “confidenziale” con i manager che spesso non giova agli operai, ora coccolati con feste e tornei di ping pong, ora indotti ad accettare più facilmente le richieste di lavoro straordinario. Non mancano, poi, le conferme su fatti noti: i 20 minuti di pausa e di briefing mattutino non pagati; i 10-20 km al giorno percorsi nel supermagazzino; il controllo dell’efficienza con i messaggi sul display della pistola scanner, che incitano ad essere più veloci. «Siamo completamente disorientati lì dentro rivela un anonimo lavoratore nessuno di noi sa come comportarsi». C’è chi parla di sfruttamento e chi accoglie qualsiasi occasione in tempi di crisi. Quel che è certo è che nel nostro paese è facile trovare situazioni simili per gli alti standard di produttività, l’assenza di rappresentanze sindacali e la deregolamentazione del lavoro. Come testimoniano le numerose rivendicazioni del settore logistico, che in Italia ha trovato una forma organizzativa di riferimento nella cooperativa.

Il circolo vizioso delle false cooperative, ovvero lo sfruttamento made in Italy

Non è necessario, quindi, guardare oltreoceano per individuare un modello di gestione del personale lavorativo che porta all’indebolimento dei suoi diritti: il fenomeno delle cooperative “spurie” risponde pienamente ai requisiti. Si tratta di false cooperative: non c’è traccia di tratti distintivi come la mutualità e lo svolgimento di assemblee regolari, dato che molte non hanno consigli di amministrazione ma amministratori unici. Gli pseudo-committenti ottengono gli appalti sbaragliando la sana concorrenza di aziende rispettose delle leggi con la riduzione del costo del lavoro. Un gioco al ribasso vinto sulla pelle dei lavoratori, soprattutto degli immigrati vincolati al permesso di soggiorno, e muovendosi su più fronti (dell’illegalità): dall’evasione fiscale e contributiva, con l’applicazione di contratti pirata cui “sfuggono” delle ore di lavoro e permettono di pagarne alcune con indennità di trasferta (esentasse), al ciclo di nascita-morte-resurrezione delle aziende in poco più di un anno, il tempo necessario a riciclare il capitale sporco dei traffici illeciti. Due delle vertenze maggiori del settore hanno coinvolto proprio la città di Piacenza: sono i casi di TNT (2011), in cui il lavoro in nero era la normalità, e di IKEA (2012-2013), dove la cooperativa San Martino sospese 33 facchini, tutti aderenti al sindacato SiCobas.

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Immagini dei picchetti e degli scontri fuori dallo stabilimento Ikea a Piacenza (2013).

 

Il lavoro invisibile dell’e-commerce

Dal 2008 ad oggi, le irregolarità nel campo della logistica si sono diffuse ampiamente nei poli strategici del Nord Italia e in Emilia Romagna. A Bologna, i lavoratori dell’Interporto  sono riusciti a far rispettare le norme previste dal contratto nazionale attraverso una forma di boicottaggio molto concreta, il blocco delle merci, che crea danni notevoli nel settore che riguarda la mobilità delle stesse.
L’operazione promossa da Amazon Anonymous è stato un tentativo di connettere le lotte avvenute nella produzione materiale con l’attivismo in rete. Che abbiate o meno sfruttato i super-sconti sulla vastissima offerta online per i vostri regali natalizi, gli scandali legati ad Amazon ci ricordano che il sistema apparentemente più equo dell’e-commerce è il risultato ultimo di una serie di operazioni, tra stoccaggio, smistamento, imballaggio e spedizione della merce, che coinvolge persone i cui diritti non sempre sono rispettati, immerse in dinamiche economiche non sempre trasparenti.

Dagli Appennini alle Ande, un viaggio in Sud America

Un viaggio lungo tre settimane, dal profondo nord dell’Argentina passando per le foreste della Bolivia ai monti del Perù. Un pezzo di Sudamerica, quella parte del mondo ricca di tesori, tesori della cultura più che dei governi.

Da Buenos Aires alle cascate dell’Iguazù, nel nord ovest dell’Argentina, una delle sette meraviglie del mondo, patrimonio dell’umanità; dalle lande desertiche dell’Argentina alle Salinas Grandes, un enorme deserto di sale, 6000 km quadrati; dalla Bolivia, coi suoi tramonti, la povertà e foglie di coca ruminate lentamente, al Perù, sulle cui alte cime, a Machu Picchu, restano le testimonianze di una grande civiltà perduta nei fumi del tempo e delle guerre, con quei conquistatori che portarono modernità e devasto.

Posti, volti, storie che rimangono negli occhi, forse impossibili da raccontare a parole e allora ci si prova per immagini, scatti che vogliono invitare a visitare un pezzo di continente dall’altra parte dell’Oceano.

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Cardiff e i suoi castelli

Cardiff è la capitale e principale città del Galles, nel Regno Unito. E’ la città dello scrittore per bambini Roald Dahl e del Wales Millennium Centre, l’avveniristico teatro dedicato alla danza e all’opera. Per i più nerd, è la città della serie tv della BBC Torchwood (spin-off del Doctor Who).

Non è una di quelle città del Regno Unito che scegliereste come prima meta per un viaggio in Gran Bretagna: certo prima c’è London calling, o la Liverpool dei Beatles, o Edimburgo e i suoi paesaggi, ma commettereste un errore a non prendere in considerazione per una visita questa città o più in generale lo stato del Galles!

Prima di tutto perché è la capitale più giovane d’Europa; dinamica al pari di Londra, col vantaggio che è più piccola e godibile e meno caotica. E’ una grande meta Erasmus, piena di giovani provenienti da tutta Europa, attiva nella cultura e nell’arte.

In secondo luogo, in particolare per gli appassionati, Cardiff è la città dello sport per eccellenza, con una grande varietà di eventi a livello locale e internazionale, sia per il calcio, sia per il rugby, sia per il cricket.

Infine Cardiff e il Galles sono i castelli: magnifiche costruzioni risalenti al Medioevo che nel corso dei secoli sono giunti fino a noi, intatti e resistenti come un tempo.

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Famigerato è il Castello di Cardiff (in gallese Castell Caerdydd): nato come un forte romano nel 55 d.C., divenne una residenza degli invasori normanni. Nei secoli, passò di matrimonio in matrimonio, nelle mani di diverse famiglie nobili della regione, fino alla sua acquisizione  da parte della città di Cardiff, che ne è oggi amministratrice. Durante la seconda guerra mondiale, nei tunnel sottostanti il castello vennero costruiti dei rifugi anti aerei, nei quali la popolazione di Cardiff si rifugiava dagli attacchi dei nemici.

Uno dei punti più riconoscibili della città è la torre dell’orologio del castello, risalente a metà Ottocento, al cui interno vennero costruite delle stanze da letto e camere per la servitù; in poche parole, una camera da letto costruita in una torre: il sogno di tutti!

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A nord della città si trova Castell Coch, o Castello Rosso;  posto sulle rovine di un’architettura antecedente, fu eretto nel XIII secolo e ristrutturato nell’Ottocento secondo i gusti e i canoni vittoriani. Il nome del castello viene dalla colorazione delle mura esterne, ma non meno degne di nota sono le sale interne al castello, in cui fregi e decorazioni sono ancora intatti e brillanti.

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Meno conservato ma ugualmente maestoso è il castello di Caerphilly, una cittadina a sud-est di Cardiff,  che con i suoi 120000 metri quadrati conquista il titolo di secondo castello per dimensioni in tutta la Gran Bretagna (Indovinate il primo? Esatto, quello di Windsor!). Il palazzo è circondato da fossati e laghetti pieni d’acqua, così  che sembra davvero di essere tornati al Medioevo. Lunghe mura percorrono i confini dell’area del castello ed è posibile ristorarsi all’ombra di una delle torri, pendenti a causa di un assedio durante la guerra civile inglese.

Se cercate un’atmosfera da Trono di Spade, da Robin Hood o anche solo da fortezza della fine del XIII secolo, siete nel posto giusto!

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Il pianoforte a pollice

Oggi vi parlo di uno degli strumenti africani più diffusi in Occidente. È quella scatoletta con attaccate sopra tante lamelle di metallo, la classica cosa esposta al negozio etnico che tutti prendono in mano e iniziano a spolliciare con gran foga ed entusiasmo. Ecco, quella “cosa” in realtà è uno strumento musicale e  ha un nome: si chiama sanza.

La parola sanza o sansa o zanza (che significa “ legno”, in lingua Bantu – o in arabo sang, “cembalo” – quello che preferite) è probabilmente il termine più diffuso in Occidente per descrivere lo strumento. In Africa, data la sua diffusione, è conosciuto con un gran numero di nomi differenti – solo per citarne alcuni: m’bira (Zimbabwe), obudongo (Uganda), likembe (Zaire), Chitata (Mozambico). È molto diffuso anche nel Golfo di Guinea, nelle Antille, in Guyana, in Brasile e altre zone dell’America latina. Qui fu introdotto dagli schiavi africani e viene chiamato kalimba, lulimba, pokido o lukeme. Di nomi direi che ve ne ho dati, sceglietene uno e usatelo!

Lo strumento è formato da una serie di linguette di metallo o di canna posizionate su un risuonatore (che va dalla tavoletta di legno, alla cassetta di legno, a una zucca scavata). Le linguette sono attraversate da una sbarretta nella parte superiore, l’altra estremità è libera per essere pizzicata. Di solito per il pizzico vengono utilizzati i pollici (da qui il nome “pianoforte a pollice”). Il suono è determinato dalla linguetta orizzontale e può essere modificata facilmente facendola scorrere avanti o indietro. A volte il suono viene modificato avvolgendo del filo di ferro su ogni linguetta, ottenendo un effetto di ronzio.

In una catalogazione da veri studiosi possiamo inserire questo strumento nella categoria degli idiofoni a pizzico. Gli idiofoni sono tutti quegli strumenti in cui il materiale di cui sono fatti, per solidità o elasticità, produce il suono senza bisogno di supporti (come membrane o corde). “A pizzico” perché, le lamelle fissate ad un’estremità, vengono flesse e poi lasciate ritornare nella posizione iniziale “di riposo”. Ed è così che viene prodotto il suono.

È molto diffuso tra le popolazione dell’Africa sub-sahariana ed è lo strumento dei griot (una sorta di cantastorie e poeta che ha il compito di conservare e diffondere la tradizione orale degli antenati). Secondo la mitologia questo strumento era presente già ai tempi della creazione del mondo e, a quanto pare, ogni lamella rappresenterebbe una fase della creazione. Diffusa moltissimo in Zimbabwe presso le comunità shona, la m’bira e il suono prodotto vengono tradizionalmente associate ai riti di contatto con gli antenati. Il termine stesso deriva da una cerimonia religiosa detta bira. In queste comunità un buon suonatore ha molta considerazione e rispetto, è una sorta di eletto protetto dagli spiriti ancestrali. Egli di solito è anche un ottimo cantante: si esibisce seguendo dei modelli melodici adatti allo strumento, con piccoli testi ripetuti e momenti di improvvisazione.

A Moroccan in Southern France

Name and Surname: Karim Mennis

Age: 23

Country: Morocco

Nationality: Moroccan

City: Casablanca

                                                   SOMETHING ABOUT YOUR COUNTRY

  1. Which is the form of government ruling in your country?

In Morocco, we have a constitutional monarchy. The king has almost all the power in his hands but we also have elections, which determine the leader party and elect the president of the government and the ministers according to the results achieved by each party. The last election was won by the Islamic party.

stemma dal 1957Stemma nazionale marocchino

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Yes, corruption exists in my country in a massive scale but it’s decreasing thanks to the effort of the king and his Islamic government. No, it doesn’t affect my life directly because I am in Europe almost all the time.

  1. Could you explain why you chose Europe?

We chose Europe because it’s where my people traditionally go for studying or working. My two grandfathers took part into the Second World War in Europe, my father studied  Law in Europe and I am studying Finance.

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WHAT ABOUT EUROPE?

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

The national language is Arabic, the Moroccan Arabic dialect. Of course dialects exist, that’s how we communicate every day . We also have a second language, it’s not a national language but a big part of Moroccans use it, even if not all the Moroccans know it. It is called Amazigh, and it is the language used by the first Moroccans twelwe centuries ago before the arrival of Islam to Morocco. When Islam came, Arabic arrived with it.

  1. Who do you believe to be the cultural icon of your country?

The actor Hamidou Benmessaoud is an icon of Morocco. He was famous in Hollywood.

amidouHamidou Benmessaoud

  1. Do you perceive the existence of a “European culture”?

Yes, in Morocco we have a perception of European culture in various fields: TV, food, cinema, way to dress, study programs… basically everywhere!

Del discorso di fine anno di Vladimir Putin (e del suo 2014, in breve)

Cosa ci ricorderemo del 2014? Non possiamo di certo dire che sia stato un anno povero di eventi. La cara vecchia penisola non ci ha fatto mancare niente: i detrattori della politica nostrana hanno – come sempre – trovato pane per i loro denti e anche per gli appassionati di cronaca non c’è stato un attimo di tregua fra processi, delitti ed investigazioni. Tuttavia, dovendo (e volendo) fare una selezione degli eventi clou dell’anno appena passato l’Italia resterebbe un po’ da parte, messa in ombra dal sempre più tormentato Medio Oriente e da una new entry che ha sconvolto inaspettatamente la politica estera mondiale: l’Ucraina. La delicatissima situazione dello stato slavo dell’Europa dell’est ha coinvolto le potenze mondiali, ha messo sulla scacchiera questioni economiche, risorse minerarie, ha ridisegnato i confini degli stati, oltre che devastato una nazione ed il suo popolo. In questo marasma inestricabile un personaggio emerge prepotentemente, rivelandosi ancora più controverso, discutibile e controcorrente di quanto già non fosse: Vladimir Vladimirovič Putin.

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Vladimir Vladimirovič Putin a cavallo

Criticato, disprezzato o elogiato, l’ex-agente del KGB dal passato misterioso ha fatto parlare di sé più di qualsiasi altro leader mondiale. Di certo non deve essere stato facile difendere le sue posizioni riguardo l’Ucraina con Stati Uniti ed Europa a dargli contro e a punirlo con pesanti sanzioni. Non deve essere stata piacevole nemmeno la fredda accoglienza riservatagli al G20 a Brisbane, dove è stato aspramente attaccato per aver definito un grave errore la decisione dell’Ucraina di Porošenko di isolare economicamente l’est separatista e filorusso. Ma Putin ha stretto i denti e, senza nemmeno aspettare il sontuoso pranzo finale, se n’è andato in anticipo dall’Australia – dopo aver coccolato un tenero koala – preferendo tornare dove la gente lo sa davvero apprezzare, ovvero nella sua amata Russia.

World Leaders Gather For G20 Summit In Brisbane
Putin abbraccia un koala a Brisbane

Infatti, nonostante la burrascosa annata, il consenso del capo del Cremlino rimane altissimo in patria, perdendo qualche punto soltanto in seguito al crollo del rublo del mese di dicembre. Soprattutto grazie alla conquista della Crimea il presidente Putin, che già godeva di un forte sostegno, è diventato una sorta di mito intoccabile, un eroe nazionale al quale sono addirittura dedicati gadget e t-shirt. Può essere difficile da credere, ma si trovano addirittura delle cover per smartphone con il volto del presidente e la scritta “Grazie per la Crimea” (per i più diffidenti, ecco uno dei tanti siti su cui si può acquistare il merchandising, ufficiale o meno, di Putin: http://www.vsemayki.ru/catalog/sort/sell/putin?page=1).

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Souvenir putiniani: t-shirt con scritta “Il mio presidente”

Insomma, se il 2014 ha messo a dura prova lo zar Putin, gli ha regalato anche delle soddisfazioni e dei successi che l’amato presidente ha voluto rimembrare e condividere con la sua fedelissima nazione nel consueto “Discorso di Capodanno ai cittadini della Russia”. A pochissimi minuti dalla mezzanotte del 31 dicembre, un impeccabile Putin, nel buio pesto della notte moscovita illuminata dalle luci del Cremlino, pronuncia i suoi auguri al popolo russo commentando l’anno appena trascorso.

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Putin pronuncia il Discorso di Capodanno

Ripercorriamo i passaggi salienti del suo discorso. Il presidente ha da sempre posto l’enfasi sui valori tradizionali, come quello della famiglia, e infatti esordisce ricordando la gioia del condividere i momenti di festa con i propri cari, scambiandosi doni e attenzioni, pensando soprattutto al benessere delle persone amate. Anche Putin è un essere umano, è uno di noi, e come noi sa apprezzare il piacere delle cose semplici e dell’intimità familiare.

Ma poiché, a differenza nostra, è anche il Capo dello Stato più grande del mondo, ci tiene a sottolineare che è proprio dal benessere dei cittadini che dipende “la prosperità della nostra Russia. Ancora più forte del valore della famiglia nella retorica putiniana è infatti l’amore per la patria, che quest’anno il presidente sottolinea col sorriso dichiarando che esso è “il sentimento più potente che ci sia, che si è manifestato nel sostegno fraterno agli abitanti della Crimea e di Sebastopoli, quando essi hanno preso la ferma decisione di tornare alla propria casa.

Il patriottismo di Putin non si esaurisce in questa entusiastica apertura: il capo del Cremlino prosegue ringraziando sentitamente i suoi compatrioti per “la solidarietà, la profonda sincerità, l’onore dimostrati, oltre che le responsabilità di cui si sono fatti carico per migliorare le sorti del proprio paese, per la prontezza nel difendere gli interessi della Russia, per essere insieme a lei sia nei giorni di trionfo che durante le prove più dure”.

Ma i nobili sacrifici del popolo russo sono stati ripagati? Putin richiama prontamente alla memoria le Olimpiadi invernali di Soči, con cui si era aperto il 2014, e che “fino a pochi anni fa erano soltanto un sogno”. Si capisce subito che il termine orgoglio non basta per descrivere ciò che egli prova nei confronti del suo Paese in questa occasione, infatti continua dicendo che “il sogno non si è semplicemente avverato; noi abbiamo non soltanto organizzato le migliori Olimpiadi invernali della storia, ma le abbiamo anche vinte, per merito di tutti i cittadini russi, sia di chi vi ha partecipato, sia di chi ha sostenuto gli atleti”. Putin non accenna alle polemiche sugli sprechi, il disastro ecologico e sulla violazione dei diritti che hanno accompagnato l’evento. Del resto, le Olimpiadi le hanno vinte loro!

Con le parole suadenti del presidente ed il suo tono di voce inebriante, i problemi che hanno afflitto la Russia nell’anno appena trascorso sembrano lontani, insignificanti. Putin conclude ricordando ai cittadini che nel 2015 ci saranno altre sfide da affrontare, ma che essi saranno in grado di superare “per amor proprio, dei propri figli e soprattutto per amore della Russia.

E dopo un discorso così penetrante, a noi comuni mortali rimane da aggiungere che il Putin del 2014, oltre che di far parlare di sé, è decisamente capace di parlare alla Russia.

Di seguito il video del discorso 

https://www.youtube.com/watch?v=oR_aSSwtnTA

(Video del discorso originale di Putin del 31 dicembre 2014)