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Mese: Febbraio 2015

Che ne sai tu di un campo di grano (per l’Expo)?

Per chi non lo avesse ancora chiaro, il tema di Expo 2015 è l’alimentazione. “Nutrire il pianeta, energia per la vita” recita lo slogan che ormai da mesi è entrato in tutte le case degli italiani come un dolce refrain. Sono diverse le iniziative che in queste settimane stanno conducendo la città verso concetti nuovi e diversi di vivere lo spazio urbano.
La semina del grano rientra in questo contesto. Cinque ettari di terreno nel cuore di Milano, tra la Stazione FS di Porta Garibaldi e Via Melchiorre Gioia, in cui verrà piantato il grano (rigorosamente biologico). Oggi la prima fase – simbolica – della semina. Numerosi cittadini milanesi si sono ritrovati per dare il via a questo nuovo progetto di “agricoltiura urbana” nato dall’idea dell’artista americana Agnes Denes. Un’iniziativa che nei prossimi mesi vedrà la coltivazione e la raccolta del grano, a cui seguirà la trasformazione, dell’intera area, nella “biblioteca degli alberi”: un grande parco lasciato in eredità da Expo, nella zona della città protagonista, grazie all’esposizione, di un cambiamento radicale.

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Un momento della semina di oggi a Milano

Peccato però che lo spirito ecologista, gioioso e positivista dell’uomo moderno che cerca il contatto con la natura, sia alquanto smorzato da ciò che accade in altri spazi della città. Abbiamo parlato spesso su Pequod dei punti critici di questa manifestazione planetaria. E non si tratta soltanto di malaffare o criminalità. Molto spesso abbiamo a che fare con scelte politico-amministrative che lasciano qualche perplessità e che, nel caso specifico, stridono in maniera evidente – talvolta al limite del paradosso – con i tentativi di mettere al centro l’essere umano e il cittadino, estromettendo interessi privati.

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il progetto di “Porta Nuova”

Lunedi scorso abbiamo raccontato della nuova TEEM  (la tangenziale est esterna di Milano – in fase di realizzazione in vista del grande evento) e delle ripercussioni che questa nuova infrastruttura ( o colata di cemento, chiamatela come volete) potrebbe avere sull’agricoltura nella fascia meridionale della provincia milanese e dell’alto lodigiano dove si coltiva, pensate un po’, il grano. Come se non bastasse, durante il corso dell’iniziativa promossa dal Comune, sono intervenute nuove manifestazioni di protesta da parte del Comitato Parco Sempione, contro la realizzazione del Teatro Continuo Burri, una nuova struttura che dovrebbe sorgere proprio all’interno dello stesso parco. Una colata di cemento di circa 300 tonnellate, per una base di 180 mq e un’altezza complessiva di oltre 7 metri che – come spiegano gli stessi attivisti- verrà collocato all’interno del cannocchiale prospettico tra il Castello Sforzesco e l’Arco della Pace. Uno tra i più suggestivi elementi paesaggistici della città.
Le polemiche sulla gestione urbanistica e strutturale di Expo, dunque, non si placano. E insieme agli scandali legati alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose, un’altra falla sembra essere legata al tema di cui questa manifestazione si fa portavoce: l’ambiente, la vita e il futuro del pianeta. Appunto.

Jukebox Umano: m’illumino di non-sense

«Siamo un duo musicale, composto da quattro persone».

Jonathan Locatelli e Antonio Capuzzo ci raccontano del loro originalissimo progetto: un mix esplosivo di musica, cabarèt e teatro. Un gioco intricato tra musica e parole, un puzzle di testi e musica di famose canzoni italiane, sta alla base del loro punto di forza: i medley.

Gli altri componenti di questo duo sono: Matteo Postini, il manager e Alessandra Beltrame, fotografa e videomaker. «Soprattutto sono il nostro punto di vista esterno: ci possono consigliare “dal fuori”».

Jukebox Umano non è nato dal nulla, si può dire che sia l’evoluzione del precedente duo musicale Goffredo&Joboaldo: riproponevano cover di canzoni italiane.

«Il progetto è nato perché io e Anto siamo così nella vita: ci piace scherzare, fare i burloni, storpiare canzoni, giocare con le parole e quando abbiamo visto che questo, oltre ad essere un divertimento, ci riusciva pure bene abbiamo pensato di proporlo a un pubblico (anche su consiglio di esterni).

Abbiamo iniziato proprio durante le nostre serate tra amici, dove a un certo punto prendevamo in mano la chitarra e iniziavamo a suonare un po’ di tutto, in maniera molto informale, nei parcheggi dei locali. Vedevamo che comunque c’era molta presa nell’eterogeneo pubblico che ci attorniava di volta in volta».

Per quanto riguarda il salto da Goffredo&Joboaldo a Jukebox Umano: «Siamo dovuti andare a Casa Blanca per un’operazione chirurgica e siamo diventati transessuali».

La differenza sta nell’impegno: da un duo di «Scappati di casa» (contenente già una bella dose di non-sense), nato da un’amicizia, a un progetto più strutturato in cui la differenza sta anche nella costruzione dei pezzi (tra cui i medley, cavalli di battaglia del duo).

Il passaggio è avvenuto in maniera molto spontanea, e soprattutto grazie all’intervento di Matteo Postini. Incontratisi a un concerto in una birreria, una sera in cui i due ragazzi erano particolarmente brillanti (Jonathan era vestito da donna), nacque l’idea di collaborare insieme: Jukebox Umano e CTRLmagazine (di cui Matteo e Alessandra fanno parte), il «Nostro papà» come dice il duo.

Il magazine si occupa di pubblicizzare le date, i grafici curano le locandine. «Ci vogliono bene tutti in redazione».

Jukebox Umano è, davvero, il carisma di due persone, che viene portato sul palco: credetemi, suonerebbero le stesse cose e farebbero gli stessi sketch in un qualunque venerdì sera tra amici.

Il loro mettersi completamente a nudo, come persone, per il pubblico è un rischio ma anche un grande punto di coraggio e di forza: «Noi abbiamo questa componente di VERITA’, mi piace dire, che secondo me arriva nell’animo più profondo di ogni singolo uomo (detto con voce grave e suadente). E poi facciamo ridere! C’è bisogno di ridere».

Dopo un anno e mezzo di attività? «Ci siamo sciolti perché non ci sopportiamo più», dicono ridendo sotto i baffi.

I ragazzi hanno iniziato a fare le prove da qualche mese, cosa che prima non facevano mai e si presentavano ai concerti improvvisando tutto: «Siamo più produttivi, curiamo i dettagli». Da poco hanno iniziato a concentrarsi maggiormente sulla parte teatrale, lavorando a dei corti assolutamente non-sense da introdurre durante i concerti, concentrandosi anche sulla dizione «E quelle altre cose da attori».

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Cacciate il grano per il Jukebox Umano!

Il nuovo anno della Capra, tra tradizione e hi-tech

È da poco iniziato l’anno della capra, e in Cina si sono conclusi i festeggiamenti per il nuovo anno, con un imponente movimento di ritorno verso le grandi città di lavoratori e studenti che sono tornati a rivitalizzare le strade delle metropoli lasciate deserte durante le festività.

Quando in Cina si parla di Chunjie 春节 o Festa della primavera, in occidente noto come capodanno cinese, si pensa subito al Chunyun 春运, lett. “trasporto di primavera”, il più grande movimento migratorio al mondo a cadenza annuale, che interessa studenti e lavoratori che dalle grandi città tornano presso le proprie famiglie e villaggi d’origine per trascorrere le vacanze .Un movimento che inizia dalla terza settimana di gennaio e finisce alla fine di febbraio con circa 3,6 miliardi di viaggiatori stimati dal governo, una cifra superiore al numero effettivo della popolazione cinese dato con quasi tre viaggi stimati per cittadino cinese, distribuiti per le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e le autostrade nazionali.

Una rappresentazione grafica del movimento di viaggiatori durante il Chunyun (via Baidu).
Una rappresentazione grafica del movimento di viaggiatori durante il Chunyun (via Baidu).

Motore principale di questo grande movimento di persone è la grande occasione di ricongiungimento familiare che il Chunjie rappresenta, motivo per il quale è una delle feste più sentite dalla popolazione cinese. Le festività per il nuovo anno durano per due settimane consecutive, dalla sera della vigilia, in cui si consuma un ricco banchetto in famiglia, alla sera del quindicesimo giorno del primo mese lunare del nuovo anno, con la Festa delle Lanterne.
Tra le attività tipiche del Chunjie si annoverano la preparazione della casa all’arrivo del nuovo anno, con addobbi di colore rosso su porte e pareti, segno di buon auspicio; il banchetto della vigilia, in cui non possono mancare i jiaozi, che per la loro forma simile al tael una antica moneta cinese, sono considerati simbolo di ricchezza e fortuna; la visione del Gran Galà di Capodanno, appuntamento irrinunciabili per le famiglie cinesi e trasmesso dalla tv nazionale CCTV, che quest’anno ha raggiunto un picco di 690 milioni di spettatori.

Gli addobbi e i paramenti di colore rosso utilizzati per preparare la casa al nuovo anno.
Gli addobbi e i paramenti di colore rosso utilizzati per preparare la casa al nuovo anno.

Il rosso benaugurale ritorna nel colore hongbao, buste decorate contenenti somme di denaro più o meno importanti, che vengono consegnate in dono ad amici, parenti e colleghi durante gli avvenimenti lieti, come l’inizio del nuovo anno. Una pratica che vuole essere un augurio di felicità e prosperità, oltre che una dimostrazione di rispetto e stima, e particolarmente cara al popolo cinese, tanto da essersi aggiornata con le nuove tecnologie.

Un esempio di hongbao telematica.
Un esempio di hongbao telematica.

Da qualche anno difatti, è possibile inviare le hongbao in maniera telematica, attraverso i maggiori social network e provider di pagamenti telematici cinesi.  Secondo la Tencent, società che gestisce l’app Wechat, i cinesi si sono scambiati durante queste festività di capodanno oltre un miliardo di hongbao in-app, a fronte di sole 20 milioni di buste rosse dello scorso capodanno.
La società Alipay ha comunicato che attraverso la sua app per pagamenti Alipay Wallet, solo nella vigilia di capodanno i cinesi si sono scambiati in dono hongbao telematiche per un valore di circa 642 milioni di dollari. Una bella dose di prosperità sia per gli utenti che per il business delle telecomunicazioni al servizio della tradizione.

Aida, come sei bella

“…Vi dissi però che sono occupato. Indovinate!…A fare un’opera pel Cairo!!! Auf. Io non andrò a metterla in scena perché temerei di restarvi mummificato”.

(16 luglio 1870. A Sant’Agata, mentre sta lavorando con Ghislanzoni, Verdi scrive all’amico bussetano Giuseppe Piroli)

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Oggi vi parlo dell’Aida di Giuseppe Verdi (in scena al Teatro alla Scala di Milano, dal 15 febbraio al 15 marzo, diretta da Zubin Mehta per la regia di Peter Stein). È un’opera in quattro atti, con la musica di Giuseppe Verdi e il libretto di Antonio Ghislanzoni. Andò in scena per la prima volta il 24 dicembre 1871 al Cairo, in una cornice molto fastosa e mondana alla presenza di molti principi e regnanti. Verdi non ci andò: era già alle prese con la prima italiana destinata invece alla Scala (1872). Non per questo il compositore si disinteressò alla messa n scena dell’opera, anche se lo fece con un certo distacco.

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Camille Du Locle, funzionario dell’Operà, era sempre alla ricerca di nuovi soggetti da proporre al più illustre dei suoi amici, e in questo caso pescò una vera bomba: per l’apertura dei canale di Suez, prevista per la fine del 1869, il khedive d’Egitto Ismail Pascià aveva deciso di dare al Cairo anche un nuovo teatro d’opera, per la cui inaugurazione era necessaria un’opera nuova. Si trattava quindi di trovare un soggetto accattivante, ed è qui che entrò in azione l’amico Auguste-Ferdinand Mariette, egittologo francese. Non si sa bene se fu la sua fantasia, o decifrando un papiro antico, o ascoltando il racconto di qualche vecchio egiziano; fatto sta che l’archeologo aveva pronta una misteriosa vicenda d’amore e di guerra giocata fra la figlia di un faraone, un prode guerriero egizio e una seducente schiava.

Aida, la figlia del re di Etiopia, vive come schiava a Menfi perché gli egizi l’hanno catturata durante una spedizione militare contro l’Etiopia e ignorano la sua vera identità. Suo padre, re Amonasro organizza un’incursione in Egitto per liberarla dalla prigionia. Fin dalla sua cattura, Aida si è innamorata del giovane guerriero Radamès, che è a sua volta innamorato di lei. La pericolosa rivale di Aida è la figlia del Re d’Egitto, Amneris. Indovinate chi sceglie Iside come comandante dell’esercito che combatterà contro Amonasro, il padre di Aida? Il suo amore Radamès, ovviamente. Intanto la principessa cattivona minaccia Aida che ha il cuore diviso tra amore per suo padre, la sua patria e il suo amante. Il padre di Aida viene fatto prigioniero ma nasconde la sua vera identità, incontra Aida e le svela che gli etiopi stanno nuovamente armandosi e le impone di chiedere a Radamès quale sarà la via che percorrerà l’esercito egiziano. Patatrac! Tutti vengono scoperti, gli etiopi, gli amanti. Alla fine muoiono sepolti vivi. Una tragedia strappalacrime.

L’occasione celebrativa che aveva dato il via all’opera doveva essere rispettata: quello che Verdi chiamava il bataclan (fasto, grandiosità, ricchi movimenti coreografici), doveva fare la sua figura. Ma Verdi sapeva molto bene che, per quanto si soffi nelle trombe, le sfilate e tutto quell’ambaradan sarebbero risultati un po’ amorfi, se non ci si metteva dentro una storia appassionante di uomini e di donne che si amano, si odiano, si combattono, si ammazzano. Il fascino di Aida sta proprio qui: i fasti e i clamori del trionfo non sono ancora del tutto spenti, mentre noi siamo già spettatori di un intimo dramma d’amore che ci coinvolge nelle incomprensioni tormentate di tre anime che appartengono a tre mondi diversi.

Ma non solo! Così come sulla scena il primissimo piano dell’amore si alterna (quasi a confondersi) con il campo lungo del cerimoniale, così nella partitura il discorso continuativo del dramma musicale lascia spazio ed esalta quegli “appuntamenti” tradizionali del melodramma, come le romanze e i duetti.

https://www.youtube.com/watch?v=8ymt0eI0wR8

Pequod meets AEGEE: Croatia VS Italy

Last week we went to Spain with Marta. This week is all about Croatia. It’s ridiculously close to Italy, but we don’t know a lot about it, about its culture and about its people. That’s why Pequod had a chat with Rina and Martina, two Croatian students who have just finished their Erasmus semester in Bergamo, Italy.

1. What’s your name? How old are you? Where do you study? What do you study?

– Rina Legović, 23, Rijeka, Law

– Martina Grdović, 24, Zagreb, Law

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Rina and Martina

 

2. Describe your country in three words (or phrases, or ideas, or places, or people…).

Rina: nature, cuisine, history – it’s a country that needs to be discovered!

Martina: historical heritage, natural beauty, pleasant climate.

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Martina sent us this picture of Zadar, Croatia

 

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This is Rina’s picture of Rijeka, Croatia

 

3. Why did you choose Italy? Use one word to describe what Italy represents for you.

Rina: I chose Italy because of the language and the culture. For me, Italy is a SECOND-HOME.

Martina: I wanted to improve my Italian and also enjoy Italian lifestyle. For me, Italy means FRIENDLINESS.

4. First three things that come up to your mind when you think about Europe. Do you consider yourself European?

Rina: Diversity, culture, travel. Yes, I consider myself European.

Martina: Home, certainty, beauty. I consider myself European.

5. Say something about Erasmus.

Rina: It has been an overwhelming experience, sometimes even surreal (heh)

Martina: Once you go Erasmus, it’s always Erasmus:) It’s a possibility to study abroad, but also to become friend with people from all over the world, to travel and to change your way of thinking.

6. Croatia, Italy, Europe: similarities and differences.

Rina: Our mentality is rather like the Italians’ one. The similarities are related to the cultural heritage, cuisine, people’s temperament. Certainly there are differences, sometimes concerning the little everyday things, other times are bigger, even crucial. However Erasmus taught me how to overcome these differences and free the mind from any prejudice.

Martina: We have similar humor, food and climate, but Italians are more relaxed, open and easy- going.

TEEM, la semina dell’asfalto darà i suoi frutti?

Scarpe da running che affrontano una strada impolverata disegnata nei campi coltivati, lo scorcio di un’antica cascina che, addobbata da salici piangenti, si adagia lungo il lento scorrimento del canale Muzza. Nei primi mesi estivi la distesa imponente di grano, fa da sipario allo spettacolo della natura, che con i suoi suoni, colori e ritmi contestualizza strutture secolari, attribuendo spiritualità ad una chiesetta quattrocentesca e preservando il suo secolare affresco.  Tutto questo era presente a poco più di quindici chilometri da Milano, già era, passato imperfetto, ma non troppo passato. Perché la modifica è ora più che mai in atto.

Il motivo? La viabilità. E’ infatti in fase di realizzazione un progetto assai portentoso, la TEEM (Tangenziale Est Esterna Milano), opera infrastrutturale per gran parte in via di conclusione. Il 23 luglio 2014 è stato aperto al traffico il primo tratto di 7 km[1] Pozzuolo Martesana-Liscate, denominato Arco TEEM. Il progetto finale darà vita ad un intricato complesso di svincoli di connessione autostradale a cavallo di due provincie (Milano – Lodi), unendo l’autostrada del sole all’altezza di Melegnano alla barriera di Agrate, crocevia delle direttrici A4 Torino Venezia e A8 Varese Malpensa. Dunque osservando le mappe, il gigante di cemento lungo 32 Km inghiottirà quasi 10 milioni di metri quadrati di aree agricole. Unendo ed intersecando le fondamentali e più importanti strade a scorrimento veloce che collegano il capoluogo lombardo alla parte orientale della regione. Ed è proprio da una di queste interconnessioni tra il nuovo progetto e la strada statale Paullese, che contestualizziamo il nostro racconto. A Paullo, l’ultimo comune della provincia di Milano, sorgerà uno dei caselli che garantirà l’accesso e/o l’uscita della TEEM, i lavori anche qui procedono spediti.Foto3

Per realizzare tutto questo tra il 2012 e il 2013 fu fatta partire la macchina amministrativa degli espropri, ai danni di numerose aziende agricole coinvolte. E’ cosi è del 2012 la testimonianza di due agricoltori… “Sono arrivati un anno fa. Ci hanno detto che o prendevamo quello che ci offrivano loro oppure entravano e facevano lo stesso i lavori. Così si sono portati via quasi il 30 per cento della nostra terra”. Dunque a fronte di una spese dell’intera opera calcolata intorno ad oltre i 1.500 milioni di Euro, denuncia la Coldiretti Lombarda attraverso il suo Presidente- Ettore Prandini – gli agricoltori non hanno visto un soldo, gli unici indennizzi versati sono a quei pochi che per necessità hanno dovuto accettare le pesanti condizioni degli espropri”. In pratica – spiega la Coldiretti Lombardia – a fronte di un valore di mercato che nel Lodigiano raggiunge i 15 euro al metro quadrato e che nel Milanese può raggiungere anche i 40 euro al metro quadrato, la Teem vuole andare nelle aziende e prendersi tutta la terra che vuole pagandola la metà: 8,70 euro al metro in provincia di Lodi e 11,57 euro al metro in quella di Milano, senza contare i danni all’attività produttiva. Dunque il braccio di ferro tra due diversi mondi è in atto, il sud-est milanese legato storicamente al territorio lodigiano da una forte connotazione agricola, versus il mondo cementificato interconnesso ed iper moderno della Milano dell’Expo. Foto4

Ormai sembra chiaro la parte di Lombardia che prevarrà, ma sarà davvero la scelta più giusta? Questo agevolerà davvero la viabilità? Insomma vi sono molti punti interrogativi all’orizzonte, e poche certezze, tra le quali la perdita di quasi 18 milioni di chili di mais, mentre solo nel tragitto della Tangenziale Est Esterna sono a rischio circa duemila mucche. Tutto ciò in ossequio al tema della Fiera Internazionale, “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” … to be continued…

[1] http://www.milano-lodi-monza-brianza.coldiretti.it/milano-venerdi-18-7-a-milano-blitz-agricoltori-contro-il-cemento-che-fa-strage-di-piante-e-animali.aspx?KeyPub=GP_CD_MILOMB_HOME%7CCD_MILOMB_HOME&Cod_Oggetto=60205181&subskintype=Detail

L’Aquila rinasce

Era il 6 Aprile del 2009, quando una forte scossa di terremoto ha in buona parte distrutto l’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo.

Attualmente sono passati 7 anni da quel fatidico periodo e le condizioni non appaiono molto diverse.

Dall’autostrada che porta al Parco nazionale del Gran Sasso, in lontananza, si vedono numerose gru che emergono dal capoluogo, e ognuna di queste, per gli aquilani è simbolo di speranza, perché dimostrano l’avviamento delle ristrutturazioni e delle costruzioni dei palazzi in rovina. Percorrendo le strade del centro si distinguono sia gli stabili abbattuti dal terremoto, che ricordano le costruzioni colpite dai bombardamenti in tempo di guerra, sia gli edifici e le opere d’arte rimessi a nuovo.

Tra i vari edifici storici ristabiliti, in Piazza San Vito si trova il simbolo dell’Aquila: la “Fontana delle 99 cannelle”, costituita da 99 volti, dalla quale fuori la bocca esce uno zampillo d’acqua.

I soli esseri viventi presenti nelle vie deserte, sono gli operai che lavorano infaticabilmente nei cantieri, qualche raro abitante rimasto nella propria residenza e i cani randagi. La vita quotidiana della maggior parte degli sfollati continua poco fuori dal centro, nelle case prefabbricate e nei molti centri commerciali.

Anche se ci vorranno molti anni per completare i lavori, la pazienza agli aquilani non manca e nonostante il dolore provato, non mollano e guardano avanti, con la voglia di lottare per riacquistare la propria esistenza.

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Who is BOB? Storia di una futura star di YouTube

Ormai youtube è una realtà consolidata e si è affermato come mezzo di comunicazione alternativo alla tv e al cinema e con un proprio linguaggio.

Oggi Pequod vi porta alla scoperta di questo mondo e in particolare di uno youtuber: Giuseppe Liuzzo, in arte BOB.

Noi lo abbiamo intervistato per voi.

Giuseppe abbiamo saputo che il tuo canale ha da poco superato i 5500 iscritti ed è in rapida crescita. Cosa ti ha spinto a fare lo youtuber e a far parte di questo mondo?

L’unica spinta ricevuta è quella che mi ha fatto cadere dal seggiolone quando ero bambino!

Non mi ritengo uno Youtuber, sono con un piede dentro e uno fuori dalla community. I video su Youtube mi piacciono, li faccio perché consentono di parlare con tante persone in tutto il mondo.

Quindi come ti definiresti?

Citando e modificando le parole di Nonno Simpson posso dirvi che «Il mio BOB non è uno Youtuber! Sarà pure un bifolco, uno zotico, uno youtuber… Ma vi assicuro che non è una pornostar!».

Come mai hai scelto per il tuo canale il nome BOB? Cosa rappresenta per te?

BOB non è solo il nome del canale, ma il nome di un guru spirituale, una vocina interna che ci da sempre i “consigli sbagliati”, così detti dalla società, ma magari poi ti accorgi che tanto sbagliati non sono. È il balordo che ti impone di fare solo ciò che ti piace, lo zotico che ti costringe a licenziarti se ti trovi incastrato in un lavoro che non ami, il bifolco che ti dice di provare sempre anche se non sai cosa stai facendo.

Quindi BOB è qualcosa che rappresenta ben più di un alter-ego.

Diciamo che BOB non è un personaggio, è una filosofia. Who is Bob? Io amo dire che BOB sei tu: barba incolta anti datore di lavoro, cappellino perenne da «Hey mica devo pettinarmi» e assenza di tratti somatici, di volto… Se dentro vedi la tua faccia, mi dispiace ma… BOB sei tu!

Di che cosa ti piace trattare nel tuo canale?

Della cosa più bella del mondo: il nulla! Come ti ho detto non faccio lo youtuber, quindi non ho un palinsesto o una scaletta. Faccio quello che mi pare, sul canale si spazia da video molto leggeri (come il tutorial su come realizzare un casco con un’anguria) a video dove si parla di comunicazione, branding e grafica e video di cucina non proprio salutista!

L’uomo dietro BOB, Giuseppe Liuzzo, che lavoro fa nella vita?

Nella vita faccio il Graphic Designer, ma mia madre ancora oggi non ha ben capito il mio lavoro e non solo lei! Mi occupo di creazione di sistemi di Branding e comunicazione aziendale per diverse aziende nazionali e internazionali, progetti di grafica editoriale e web,  insegno Branding allo IED di Milano

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Nonostante tu non abbia una scaletta fissa, sei molto attivo su Youtube. Come riesci a far conciliare lavoro e passione?

Conciliare? Magari! Ho un libretto pieno di idee per i video, ma trovare il tempo di realizzarli è un’impresa.

YouTube inizia a diventare ormai quasi un lavoro full-time, ma al contrario del mio vero lavoro non porta il pane a casa, quindi saltello e perdo ore di sonno cercando di portare avanti entrambe le cose finché una delle due darà qualche risultato.

Il tuo impegno su YouTube è finanziato da qualcuno? Fai parte di qualche network?

Sono sotto un network, YAM112003 ma un network non finanzia, dà solo la partnership con google. Non ho mai avuto un finanziatore oltre a me stesso. L’unica altra fonte di finanziamento viene dalla vendita delle magliette BOB, soldi che per scelta non utilizzo per me ma per incrementare la qualità dei contenuti video.

Quali sono le potenzialità di YouTube come medium per l’intrattenimento rispetto ai canali tradizionali (tv, giornali, radio)?

Appartengo ad una generazione nata senza dual screen, touch device ma penso che la principale caratteristica che rende YouTube il medium perfetto (rispetto alla TV ovviamente) è che si adatta a te, ai tuoi orari ai tuoi gusti e ti permette di spatinare l’intrattenimento, abbattere la falsità dello studio televisivo.

Youtube, anche se non è sempre così, cerca di trasmette la realtà, dal gattino che suona il pianoforte al vlog di qualcuno che parla di fumetti giapponesi. È la prova ufficiale che ormai la vita reale è quella digitale non viaggiano nemmeno su due linee parallele, anzi, la digitale, con la sua assenza di filtri, timori e sentimenti ha largamente superato quella reale, purtroppo o per fortuna.

Concludendo ci potresti dire i nomi di tre youtuber che stimi molto e coma mai loro?

E facciamo sta marchetta: Francesco Sole, Favij e Frank Matano! No scherzo.

Sicuramente al primo posto Cucina con D, il mio socio, con lui siamo molto amici e collaboriamo in uno show chiamato ORRORI DA DISCOUNT, lui ha un canale di cucina dove propone ricette interessantissime.

Dellimellow , non solo per i suoi video, ma essendo io all’antica lo stimo come persona e di lui ammiro la costanza e la passione che mette nel mezzo Youtube, inoltre penso che abbia provato a tutti che questa piattaforma non è solo video da e per ragazzini, ma può fare informazione, può aprire dialoghi e dibattiti e ovviamente anche creare polemiche e influire seriamente sugli avvenimenti della società.

Il terzo è ultimo è Giorgio Taverniti, che spiega il misterioso mondo dei social network, della comunicazione e della tecnologia. Pur non capendo nulla di questi argomenti mi piace provare a credermi un esperto e quindi adoro i suoi video e gli argomenti che tratta: fa capire come il mondo della comunicazione digitale abbia un peso ed un’importanza enorme sulle nostre vite.

A questo punto non resta che andare alla scoperta di questo canale e ricordate: a chi parla solo di Yotobi, PiewDiePie o di Nonapritequestotubo, dite che YouTube è molto di più, YouTube è anche BOB!

Vivere l’imprevisto: un viaggio in America Centrale

Il legame fra il Messico e Matteo, protagonista di questo viaggio, nasce nel 2011, quando da studente di Scienze dell’Educazione si reca sulla costa pacifica per un tirocinio in una zona rurale. Da quest’esperienza sono nati sia la sua tesi di laurea che il suo viaggio, durato quattro mesi, alla scoperta dell’America Centrale.

Il suo è stato un viaggio all’insegna dell’imprevisto: «Nessuna programmazione, perdersi, chiedere alla gente e vivere ciò che capita, alla giornata».

Arrivato a Città del Messico a inizio settembre, dopo qualche giorno lascia questa popolosissima megalopoli per spostarsi verso il Pacifico, nella zona della Sierra Sur, dove si svolgono i demascal, riti per ringraziare la terra e le forze della natura.

Tramonto sulla Sierra Sur.
Tramonto sulla Sierra Sur.

Da lì il viaggio continua lungo la costa, per trascorrere qualche giorno nella eco aldea di un’amica, presso la comunità di Zipolite. Si tratta di una specie di abitazione in legno immersa nella foresta, non distante dalla spiaggia. Qui, fra erbe medicinali e piante da frutto, c’è tutto quello che serve per condurre una vita semplice a contatto con la natura, con tanto di spazio per la meditazione con vista sull’oceano.

Eco aldea nel bosco presso Zipolite.
Eco aldea nel bosco presso Zipolite.

Lasciato il rifugio nei boschi sotto una pioggia torrenziale, la tappa successiva è la città di Oaxaca, dove proprio in quei giorni si stanno svolgendo delle manifestazioni per i desaparecidos: 43 ragazzi di una scuola rurale messicana sono spariti e 8 sono stati uccisi dai militari nel corso di una protesta. La fuga ideale dal caos cittadino è Hierve el Agua: splendidi laghetti di montagna che si aprono sugli altipiani messicani.

Hierve el Agua.
Hierve el Agua.
Hierve el Agua.
Hierve el Agua.

La prossima meta è forse la più impegnativa del viaggio: le comunità zapatiste nel Chapas. Dopo una serie di complicate procedure, dovute alla difficile posizione degli zapatisti nello stato messicano, che non li riconosce, Matteo trascorre due intense settimane in una di queste comunità autogestite. Racconta: «Fare la legna è la cosa fondamentale, il nostro alloggio si trova a 2800 metri di altitudine ed è in mezzo al bosco»

Lasciato il Chapas, un incontro casuale fa dirottare il viaggio verso il Nicaragua, raggiunto dopo due interi giorni in pullman, attraversando il Guatemala e El Salvador. L’arrivo a Granada, sul Lago de Nicaragua, è il punto di partenza per una visita ad una stupefacente isola vulcanica “a forma di infinito”, Ometepe, vero e proprio paradiso naturalistico composto dai vulcani Madera e Concepcion (vedi foto in copertina). Il soggiorno sull’isola è un’avventura a sé: girata tutta in autostop e a piedi, Ometepe è popolata da persone meravigliose, scimmie e coloratissime farfalle. Addirittura, gli isolani dicono che nel lago ci siano squali d’acqua dolce! Il piatto tipico è il “gallo pinto”, composto da riso e fagioli serviti solitamente con uova e insalata. A sud dell’isola, quasi al confine col Costarica, una coppia di ragazzi (lei argentina, lui francese) hanno costruito una strabiliante eco aldea con materiali naturali e di recupero.

Lago de Nicaragua, vista del vulcano Madera.
Lago de Nicaragua, vista del vulcano Madera.
Ojo de Agua, fiume termale sull’isola di Ometepe.
Ojo de Agua, fiume termale sull’isola di Ometepe.

E’ tempo di tornare verso nord. Passando per le piantagioni di caffé, il prossimo obiettivo è la Costa Atlantica dell’Honduras. La Ceiba si affaccia su delle isolette da sogno, irraggiungibili a causa del maltempo. Dopo quattordici ore di attesa alla frontiera tra Guatemala e Messico, il viaggio di Matteo termina con l’arrivo al punto di partenza, la capitale messicana, come a chiudere il cerchio di questi quattro mesi di meraviglioso errare nell’America Centrale.

 

In copertina: Vulcano Concepciòn, Onetepe, Nicaragua [ph. Adalberto Hernandez Vega CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

Pioggia, vapore e velocità

Dimenticatevi del tempo, perdete ogni memoria storica e assaporate, invece, l’intensità racchiusa in ogni istante del lungo incontro con il pittore della luce.

Vivace ed emozionante sarà la scoperta dei molti colori che compongono il ritratto di Mr. Turner. Un ritratto interiore, certamente, ma realizzato con l’ingegno e la sofisticatezza di un film che richiede attenzione costante, perché è vero che il film guida gli occhi del pubblico verso i molteplici momenti della vita del pittore, ma è anche vero che non offre mai alcun indizio per l’interpretazione di questi attimi di vita.

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Dall’inizio alla fine, i mille frammenti dell’esistenza del signor Turner vengono evocati attraverso l’astuta costruzione delle scene le quali: espongono i retroscena dell’apparente e disinvolta sicurezza del protagonista (esternata ad esempio dal confronto con gli altri membri dell’Accademia); eppure evitano di offrire alcuna linea guida che riveli qualcosa di troppo.

L’intero film abbandona ogni schema. Non è presente, infatti, nessuna didascalia che introduca il dramma, o che spieghi il tempo e il luogo dell’azione. L’intero universo, custodito dal film, è lasciato alla comprensione e all’interpretazione. Padrone delle scene è dunque “il non detto”.

Nel breve scambio di battute tra William Turner Sr. e il droghiere, ad esempio, non verrà mai data risposta alla domanda sul prezzo della vescica di blu oltremare.

Misteriosi e ambigui sono i rapporti tra il protagonista e la sua famiglia. Più volte, infatti, verrà negata dallo stesso Turner l’esistenza delle figlie, persino al momento della morte di una delle due.

Solo al padre, con cui vivrà parecchi anni, è concessa un’evidente purezza d’affetto, mentre ben altra considerazione è nutrita dal protagonista nei confronti della domestica e della vedova Sophia Booth, le due donne a cui sono riservate le emblematiche scene finali del film.

Mr Turner scene from film

Dietro il volto di Timothy Spall, l’artista viene poco a poco presentato in particolari istanti di vita, la cui caratteristica è quella di impressionare i vari volti di una personalità multiforme, in continuo mutamento. E’ proprio dalla morte del padre che si assiste alla trasformazione, che porterà William Turner all’abbandono dei luoghi familiari e all’appassionante evoluzione del suo stile.

Nonostante la lunghezza del film, non si perde mai l’interesse per l’evoluzione di questo personaggio così degnamente interpretato.

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Al fianco del protagonista, cast e scenografia colorano la pellicola e creano, nel loro insieme, un’affascinante e viva ambientazione. Difficilmente si può assistere a interpretazioni così eleganti sul set, eppure straordinariamente adeguate al palcoscenico.

Mike Leigh ha diretto un film così denso di sentimenti da rammentarci che con la cinepresa si possono ancora creare opere d’arte.

Concorso poesia “BELLA”

Non dedicarmi troppo tempo,
non pormi tante domande.
Non sfiorare la mia mano
con i tuoi occhi buoni, fedeli.

Non seguirmi in primavera
lungo le pozzanghere.
Lo so: una volta ancora, nulla
verrà fuori da questo incontro.

Forse pensi: è per superbia
che non mi vuole amico.
Non la superbia – l’amarezza
tiene così alta la mia testa.

(Bella Achadovna Achmadulina, 1937-2010)

Pensate alla Russia post-staliniana, e alla seppur lieve libertà che il disgelo aveva concesso agli artisti; immaginate una donna – una poetessa – figlia di padre tataro e di madre russo-italiana. Forse così potete iniziare ad immaginare Bella Achmadulina, poetessa e traduttrice sovietica attiva nella seconda metà del Novecento, una fra le più stimate autrici dell’epoca, appartenente a quel gruppo di letterati che aveva deciso di rimanere in patria, nonostante la non facile vita degli artisti all’epoca della censura comunista. Con queste parole la scrittrice e grande conoscitrice della Acmadulina Annelisa Alleva descrive l’attività della poetessa: “Scrittura, notte, insonnia e solitudine sono le quattro tormentose sorelle che l’hanno accompagnata tutta la vita”.

Bella Achmadulina
Bella Achmadulina

Per onorare la memoria della grande e tormentata Bella Achmadulina è stato istituito nel 2012 il premio di poesia russo-italiana “BELLA”. Infatti, dato il legame dell’artista con l’Italia, dovuto alle origini della madre e ai rapporti professionali che la stessa Bella intratteneva con gli scrittori italiani, il concorso vuole incoraggiare anche la poesia in lingua italiana.

Anche quest’anno il premio si rivolge ai giovani russi e italiani fino ai 36 anni, e si articola secondo le seguenti categorie:

  1. “Poesia italiana” – per gli autori italiani dai 18 ai 36 anni;
  2. “Poesia russa” – per gli autori di lingua russa in età tra i 18 e i 36 anni;
  3. “Saggio di critica letteraria o biografico sulla poesia contemporanea».
  4. “Sfiorando Kazan” – per le poetesse della Repubblica del Tatarstan in età dai 18 ai 36 anni.

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Le opere per la candidatura al Premio in lingua italiana possono essere proposte personalmente dagli autori di opere poetiche ed anche da parte di gruppi artistici, entro e non oltre il 1 marzo 2015. I vincitori saranno proclamati il 10 aprile 2015 e riceveranno un premio di 100.000 rubli, oltre all’attestato e all’invito a partecipare alla cerimonia di premiazione, che avverrà nel mese di maggio.

La giuria italiana sarà composta da Stefano Garzonio, professore di Slavistica presso l’Università di Pisa, nonché membro del Comitato Internazionale degli Slavisti e del Comitato Internazionale per lo studio dell’Europa Centrale ed Orientale, Alessandro Niero, professore dell’Università di Bologna e traduttore, dal poeta Davide Rondoni, da Maria Ida Gaeta, direttrice della Casa delle Letterature di Roma, e dalla poetessa, saggista e traduttrice Annelisa Alleva.

Giulia Rusconi, vincitrice della sezione italiana dell’edizione 2013-2014 del Premio, alla cerimonia di premiazione
Giulia Rusconi, vincitrice della sezione italiana dell’edizione 2013-2014 del Premio, alla cerimonia di premiazione

Contatti utili per chi fosse interessato a partecipare e volesse ulteriori informazioni sulle modalità e sul regolamento:

Olga Strada, coordinatrice del premio: bella.award.it@gmail.com

Sito ufficiale del premio “BELLA”: www.bella-award.ru

Pequod meets Aegee: Spain VS Italy

Last week we interviewed two German girls and tried to find out what they think about Italy and Europe. This week we’ll do the same with a Spanish girl, who as well is spending her Erasmus in Italy. We usually think that Italian and Spanish people are similar, because of the fact that we’re both Latin peoples… Let’s find out what she thinks…

1. What’s your name? How old are you? Where do you study? What do you study?

Marta, 21, I study Business Administration in Albacete.

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Marta in Venice, Italy

 

2. Describe your country in three words (or phrases, or ideas, or places, or people…).

First, people are very warm, close to each others. Second, the sun. Third, Spain is a lively place.

3. Why did you choose Italy? Use one word to describe what Italy represents for you.

Mainly, I chose Italy because it’s similar to Spain. What I mean is that here culture, food and people are not so different than in my country. Of course there are some differences but not that much. Besides, the language is something that made the choice more attractive. In facts, even if you haven’t studied Italian before, it’s so easy for Spanish people to understand it!

For me the best short description of Italy is GOOD FOOD.

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Marta: “I took this picture in Valencia and I think Paella and Sangría are pretty Spanish things”

 

4. First three things that come up to your mind when you think about Europe. Do you consider yourself European?

Freedom, open-mind, equality. Yes, I’m European.

5. Say something about Erasmus.

Party, many foreign people to meet, new experiences.

6. Spain, Italy, Europe: similarities and differences.

As I said before, Spain and Italy have too many similarities. But there’s an important difference: MEALTIMES!

Al lavoro contro il terrorismo

Da circa quindici anni il mondo occidentale ha imparato a conoscere, non sempre in maniera proficua, il fenomeno religioso islamico in quasi tutte le sue declinazioni, alcune buone, altre molto meno. Risultano parte della nostra quotidianità gli appelli sgranati di imam furenti, le minacce di autoproclamati califfi, le stragi di gruppi paramilitari e i deplorevoli atti di terrorismo che segnano primariamente le zone colpite dall’affermazione dell’estremismo religioso – leggasi Siria, Iraq, Nigeria – e che sono arrivate anche nel cuore dell’Europa, a Parigi e Copenhagen. Ancora, abbiamo imparato a capire le differenze che caratterizzano il mondo dell’Islam al suo interno, quali sono le correnti, le varie confessioni, perfino accenni di teologia.

Nel quadro di questa nuova comprensione della religione di Maometto viene rarissimamente citato un caso del tutto particolare, che non si allinea né allo sciismo né al sunnismo, che non ha mai prodotto attentati o minacce, non ha mai attirato i riflettori su di sé: si tratta del sultanato dell’Oman, l’unico paese musulmano del mondo ad avere una popolazione di maggioranza ibadita. Che cosa significa?

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Una delle principali differenze che caratterizza le correnti dell’Islam è la scelta della guida della comunità religiosa: l’imam. Gli sciiti riservano questa possibilità ai soli discendenti dei 12 imam compagni del Profeta, i sunniti allargano la possibilità a tutti coloro i quali trovano nella tribù dei Quraish, quella dello stesso Maometto, la propria origine. Per gli ibaditi il ruolo di capo spirituale non è un attributo genetico, ma ogni musulmano, che sia sufficientemente preparato, può essere eletto imam. Vige, quindi, un principio pseudo democratico, che permette di lasciare addirittura la carica vacante, qualora nessuno venga ritenuto all’altezza, così come è possibile che l’imam venga sollevato dal proprio incarico se ritenuto non adatto. Allo stesso modo, gli ibaditi convivono pacificamente con gli altri musulmani – che, al contrario, non vedono di buon occhio gli appartenenti alle altre correnti e, nei casi di estremismo, vengono ritenuti infedeli da sterminare.

Questo spirito pacifico si è declinato dentro allo stato dell’Oman, un paese storicamente in seconda linea negli affari internazionali malgrado la posizione strategica che occupa, in un’area geografica che nel corso del XX secolo è diventata molto calda, sia per le risorse energetiche che vi si trovano, sia per le questioni che riguardano il fondamentalismo religioso.  Eppure, questo fratello piccolo delle storiche potenze del golfo, si sta silenziosamente costruendo solide basi fatte di stabilità politica e sociale, rendita petrolifera che viene reinvestita in modo da rendere la stessa il meno fondamentale possibile nell’ambito del sistema economico locale.  Negli anni delle primavere arabe anche il sultano, Qaaboos, ha avuto qualche dissidio interno da sanare, anche se l’entità e la portata delle proteste era radicalmente diversa, rispetto ai venti rivoluzionari che spiravano negli altri paesi della regione: a Mascate, la capitale del paese, in piazza i giovani reclamavano lavoro e formazione. Il governo del paese ha prontamente risposto, soprattutto in relazione alla domanda di istruzione, per poter permettere ai futuri protagonisti della vita del paese – che, certo, democratico non è – di poter continuare ad affrontare la sfida silenziosa che quotidianamente si presenta: essere un elemento di stabilità e sicurezza in una parte di mondo dove troppe correnti convergono. Molti paesi, USA e Arabia Saudita innanzitutto, hanno sostenuto economicamente il progetto di Qaaboos, proprio per poter continuare a fare affidamento sui cittadini omaniti.

Sultano Qaaboos

Questo estremo della penisola arabica rappresenta, quindi, un unicum all’interno del sistema mediorientale: è stato il primo paese ad avere una costituzione scritta, a concedere il voto alle donne, ha un sultano che, seppure regnante a colpi di decreto, vede al di là della siepe. Sia il fattore ibadismo una componente fondamentale in tutto ciò? Sicuramente la forte etica del lavoro che ne deriva – paragonabile, storicamente, al calvinismo cristiano – fa in modo che le preoccupazioni, il malcontento e gli sforzi che ne derivano, abbiano sempre una conclusione produttiva, che non permette alle dette problematiche di insinuarsi sotto la pelle della società, dove estremismo, fanatismo e terrorismo avrebbero fertile terreno su cui germogliare.

In copertina: Grande Moschea del Sultanato di Oman [ph. Richard Bartz CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

La giostra di assaggi di Wangfujing

La complessità e varietà della cucina cinese è dovuta al suo essere una sommatoria di diverse cucine regionali molto diverse tra loro, a seconda del clima, conformazione territoriale, tradizioni contadine, usi e costumi locali e imperiali.
Tratto comune della tradizione gastronomica di una nazione di oltre 1,3 miliardi di abitanti, è tuttavia l’attenzione riservata alle tre componenti色 , colore, 香xiāng profumo, 味 wèi sapore, che compartecipano alla caratterizzazione di ogni piatto, che sia di carne, pesce o verdure.
Ritrovare questa varietà nei ristoranti cinesi occidentali è quasi impossibile, vuoi per la difficoltà nel reperire i giusti ingredienti in paesi lontani dalla madrepatria, vuoi per un eccessivo “regionalismo” nelle preparazioni culinarie, con una conseguente monotematicità (e monocromaticità)  dell’offerta culinaria cinese nei paesi d’oltremare.

La via di Wangfujing, una delle più famose attrazioni di Pechino, indubbiamente riavvicina il visitatore straniero ai piatti più tipicamente colorati e vivaci della cucina cinese.
Passeggiare per questa via è un piacere per occhi, palato e olfatto, data la particolarità di cibi proposti: dai classici spiedini di carne a quelli più “estremi” di scorpione o serpente, dai profumati dolci al sesamo al chou doufu (lett. “tofu puzzolente”) fritto,  dalla trippa bovina stufata secondo l’uso locale, a molluschi e frutti di mare alla piastra, frutta caramellata, ravioli…
Con la giusta dose di curiosità, sarà facile lasciarsi andare alla frenetica giostra per le svariate bancarelle di Wangfujing, ciascuna con la propria specialità dolce o salata: tutti all’assaggio!

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SOLO e il futuro dei pagamenti

L’ultima rapporto di Bankitalia rivela che la forma di pagamento più diffusa in Italia sono i contanti. Siamo sicuri che sarà sempre così? Pequod oggi vi porta alla scoperta di SOLO, un modo innovativo di gestire i pagamenti, che potrebbe anche sostituire il sistema del denaro cartaceo.

Che cos’è SOLO?

SOLO è un POS virtuale che consente a qualsiasi merchant (professionista o impresa) di accettare pagamenti con carte di credito e di debito senza dover strisciare la carta in un supporto fisico. Il merchant condivide un link web al proprio profilo pubblico e verificato con i clienti, che possono pagare comodamente da qualsiasi dispositivo: uno smartphone, un tablet o un computer. I vantaggi? Nessun hardware da utilizzare, nessun costo fisso e nessun canone mensile per il merchant. Nessun’applicazione da scaricare e nessuna registrazione per il cliente.

SOLO ha l’ambizione di rendere più accessibile i pagamenti card not present (quelli dove non è necessario strisciare la carta di credito in un dispositivo fisico). Il team che lavora al progetto ci ha anche rivelato che sta chiudendo la beta privata e sono in procinto di attivare il servizio per i primi merchant italiani.

L’idea quindi è stata già sviluppata e anche premiata: SOLO ha già vinto la prima edizione a Milano e la Gran Finale Nazionale di Roma di InnovAction Lab 2014.

SOLO nasce dall’idea di Orlando Merone, primo founder del progetto presentato in occasione di InnovAction Lab 2014, con l’intento di abbattere le barriere per l’adozione dei POS da parte di esercenti e commercianti che vedono nella burocrazia e nella strumentazione degli ostacoli che limitano l’accettazione dei pagamenti con carta.

 

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Il Team di SOLO è supportato nello sviluppo strategico e tecnologico da Digital Magics, cofondatore della startup innovativa. Orlando Merone, Leonardo Grasso, Leonardo di Donato, Antonino Visalli e Lorenzo Fontana condividono l’esperienza del Digital Magics LAB, mentre con Edoardo Raimondi, CEO di SOLO, condividono un’amicizia consolidata da anni. Francesco Arnone e Roberto Ungaro si sono uniti al team durante il percorso di InnovAction Lab.

Il team è adeguato alla sfida: tutte le competenze necessarie allo sviluppo della piattaforma tecnologica, dal design allo sviluppo del codice, dall’architettura all’analisi dei dati, sono interne al team di SOLO. Senza dimenticare le competenze commerciali, legali e di business.

Abbiamo anche chiesto a Leonardo Di Donato, uno dei fondatori, cosa ne pensa dell’ambiente delle startup in Italia: «Prolifera di moltissime idee, proposte e opportunità. Questo fermento è dovuto alla congiuntura che si è creata tra un mercato del lavoro tradizionale vecchio e saturato e la tendenza degli Italiani alla creatività e all’impresa di piccole-medie dimensioni. Tuttavia, l’approccio a questa nuova economia è ancora approssimativo, nonché poco internazionale: spesso infatti si dimentica che solo attraverso una reale innovazione, che presuppone un investimento economico serio, si può raggiungere un successo stabile, sostenibile e duraturo. Purtroppo è frequente incontrare molte persone convinte che si possano raggiungere risultati eccellenti senza investire in risorse e persone altrettanto eccellenti. La mia esperienza personale mi ha invece insegnato che ciò che conta è l’idea, ma ciò che realmente fa la differenza è l’esecuzione di tale idea».

Per Leonardo i fattori limitanti sopracitati fanno sì che buona parte delle startup italiane facciano fatica o peggio muoiano dopo breve: «A causa della mancanza di una visione giusta, forte e condivisa nel team».

I ragazzi di SOLO stanno dimostrando sul campo il loro valore e hanno fatto in breve tempo passi da gigante, a dimostrazione che il loro team ha questa unità di scopi e di intenti che li potrà trascinare verso il successo, che non tarderà ad arrivare.

Viaggio nel paese dei morti: Père Lachaise

C’è una piccola città all’interno di Parigi. Posta su una collinetta nel XX arrondissement, nella parte est della metropoli, è cinta da antiche mura, con numerose porte che affacciano sui diversi boulevard che la circondano; è immersa nel verde, la folta vegetazione e gli alti alberi sempreverdi invadono lo spazio. E’ ricca di monumenti storici e di pregio artistico. Dall’ingresso principale delle mura, percorrendo Avenue Principale, si arriva alla piccola chapelle, mentre proseguendo per Avenue Casimir-Perier si giunge fino a una delle piazze centrali, detta le rond point, da cui si dipanano un’infinità di vie e viuzze che portano ad esplorare questo caratteristico paesino. Nonostante l’altissima densità demografica, si può dire che la popolazione è tranquilla: vi abitano un’infinità di personaggi illustri e famosi, in numero molto maggiore in confronto a Hollywood o Beverly Hills in California. L’unico dettaglio è che tutti gli abitanti sono in realtà defunti.

Stiamo parlando infatti del cimitero di Père Lachaise, il principale cimitero civile di Parigi, il più grande di Francia, uno dei più famosi al mondo.

Con i suoi 44 ettari di terreno è notevolmente più grande del cimitero monumentale di Milano (25 ettari) e del cimitero monumentale di Staglieno a Genova (33 ettari). Per rendere meglio l’idea della vastità del luogo, prendete la Città del Vaticano e posizionatela nel centro di Parigi: quella è l’estensione del Père Lachaise.

Il perimetro del Père Lachaise.
Il perimetro del Père Lachaise.
Il perimetro del Père Lachaise sul centro di Milano (il Duomo riconoscibile in basso).
Il perimetro del Père Lachaise sul centro di Milano (il Duomo riconoscibile in basso).

Per quanto in generale possa sembrare macabro farsi una passeggiata al cimitero, il Père Lachaise conta ogni anno almeno 3 milioni e mezzo di visitatori. Più che le caratteristiche artistiche del luogo (comunque notevoli) sono i suoi “abitanti” ad attirare i turisti: qui Apollinaire è vicino di casa di Honoré de Balzac, il pittore Camille Pissarro è dirimpettaio della coppia Abelardo ed Eloisa, proprio come il tranquillo monsieur personne abita di fronte ad Oscar Wilde. E poi c’è la star, quello che gli appassionati di rock da tutto il mondo vanno a trovare in pellegrinaggio in occasione dell’anniversario di morte: Jim Morrison, qui vicino di casa del collega Georges Bizet. Trovarlo non è semplice; è nascosto in mezzo ad altri, nella parte nord del cimitero.

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Un po’ di coordinate storiche: in seguito all’editto napoleonico di Saint-Cloud, secondo cui, tra le altre cose, i cimiteri dovevano trovarsi all’esterno delle mura cittadine (qualche reminescenza di Foscolo?), il cimitero venne edificato sulla proprietà del gesuita Lachaise, e venne ufficialmente inaugurato nel 1804. La prima abitante di questo immenso terreno fu una bambina di cinque anni; ci vollero molte traslazioni di personaggi illustri per convincere i ricchi parigini a scegliere il Père Lachaise come propria dimora perpetua.

Oggi, invece, la lista d’attesa per assicurarsi un posticino per l’eternità (o almeno trent’anni) accanto al pittore Caillebot, a Moliére, a Modigliani, a Chopin o a Rossini è davvero molto lunga.

Se siete interessati, affrettatevi!

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Olive Kitteridge

Come dicevamo a proposito di True Detective, i confini tra grandi produzioni televisive e cinema si fanno ormai sempre più sottili. Se poi ci troviamo di fronte un prodotto come Olive Kitteridge, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, allora si può quasi parlare di vera e propria ibridazione. Infatti, questa mini-serie HBO (andata in onda su Sky Cinema dal 23 al 30 gennaio), tratta dall’omonimo romanzo del 2008 di Elizabeth Strout, si divide in quattro parti, che vanno a coprire un arco temporale di 25 anni, con una durata totale di quasi quattro ore. Questo perché, come spiega Frances McDormand, non solo interprete di Olive ma anche ideatrice di tutto il progetto, «Olive non poteva essere raccontata nei 90 minuti di un film, per questo ne abbiamo fatto una miniserie di quattro puntate. Solo con la lunga distanza si può raccontare un personaggio femminile così complesso».

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La McDormand, dopo aver letto il libro, e prima ancora che esso vincesse il premio Pulitzer, ne comprò i diritti e, in veste anche di produttrice, decise di realizzare questo lungo film per la televisione affidandosi per la sceneggiatura a Jane Anderson e per la regia a Lisa Cholodenko. Insomma, un progetto tutto al femminile a cui l’attrice teneva particolarmente, come emerge dalle sue parole: «Avere l’opportunità, a questo punto della mia carriera professionale, di sviluppare, produrre e recitare in un’opera del calibro di Olive Kitteridge è il culmine di tutto ciò che ho imparato in questi anni di esperienza. Raccontare la storia di una donna che vive alla periferia delle vita degli altri – non solo del marito e del figlio, ma dell’intera comunità – e riuscire a rendere lo stesso impatto, è una vera soddisfazione. Per questo ruolo ho dovuto portare tutto il mio bagaglio di conoscenze – ogni ruolo che ho interpretato, la mia vita come madre, moglie, figlia e zia. Sono riuscita a incorporare tutto questo materiale nel personaggio di Olive».

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Come possiamo facilmente comprendere da queste parole, uno degli elementi più apprezzabili (e apprezzati) della mini-serie è stata proprio la profondità psicologica di personaggi e tematiche, che riesce a trasmettere sottigliezze e particolari che solitamente rimangono dispersi nell’adattamento cinematografico di un romanzo. Un progetto molto ambizioso, che rischierebbe di traballare, se non fosse supportato da un cast d’eccezione: oltre alla già citata Frances McDormand, nei panni appunto della protagonista, Olive Kitteridge, un’insegnante di matematica indelicata e scorbutica, sono presenti Zoe Kazan, la giovane, fragile e ingenua Denise, Rosemarie DeWitt, che invece interpreta Rachel, donna depressa e affetta da bipolarismo. Ma in questo quadro che sembra dipinto solo di tinte rosa, è importante far notare come anche le figure maschili siano fondamentali: Richard Jenkins è Henry Kitteridge, il marito gentile e generoso di Olive, mentre il loro figlio, Christopher, è interpretato da John Gallagher Jr.; altri personaggi non eludibili sono l’insegnante di letteratura Jim O’Casey (Peter Mullan) e l’anziano vedovo Jack Kennison (Bill Murray).

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La storia è ambientata nella fittizia cittadina balneare di Crosby, nel Maine. La bellezza della natura che ci circonda è infatti un elemento ricorrente (come già si può notare nella sigla iniziale), il quale, insieme alla pregevole colonna sonora, aiuta a creare un’atmosfera sottile e distaccata. Olive Kitteridge è una storia di depressione, di felicità, di amore, di gentilezza, di senilità, di pazienza e di gratitudine, racconta la vita umana nei suoi momenti (apparentemente) meno cinematografici e riesce ad arrivare nel cuore dello spettatore.

Buona visione e alla prossima!

 

Pequod meets Aegee: Germany VS Italy

Last Thursday at APErasmus Pequod started its collaboration with Aegee Bergamo. Taking part to Aegee Erasmus events, Pequod will interview Erasmus students, every week from a different country, who are now living and studying in Bergamo, Italy. We’ll ask our questions to more than one person, so it’ll be interesting to compare the answers… Here’s the first “Pequod meets Aegee” publication, enjoy!

 

1. What’s your name? How old are you? Where do you study? What do you study?

– Hanne, 21, Heilbronn, IT and Economics

– Miriam, 23, Mülheim an der Ruhr, Building Engeneering

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Hanne and Miriam

 

2. Describe your country in three words (or phrases, or ideas, or places, or people…).

Hanne: punctuality, ‘sauerkraut’, not too emotional.

Miriam: good workers, ‘Ruhrpott’ – the biggest urban agglomeration in Germany, friendly and nice people (challenging the stereotyps).

Ruhrgebiet
Ruhrpott’s map

 

3. Why did you choose Italy? Use one word to describe what Italy represents for you.

Hanne: I chose Italy because I like its way of living. Also, Italian language to me sounds like a melody! For me Italy is LA DOLCE VITA.                                                       

Miriam: I chose Italy because Italian culture is not too far from German culture and because it’s a very nice place to visit. If I were to describe Italy in one expression, I’d say GOOD FOOD.

4. First three things that come up to your mind when you think about Europe. Do you consider yourself European?

Hanne: mobility, freedom, different people but together. Yes, I do consider myself European.

Miriam: community, freedom, a place of travel and living. Yes, I’m a European.

EFI_twitter5. Say something about Erasmus.

Hanne: party, nice people.

Miriam: fun, many people to meet, good connection.

6. Germany, Italy, Europe: similarities and differences.

Hanne: Germans are less emotional than Italians. In Italy everything is closer. Italian mentality is different: they consider family the most important thing, they’re very close to their relatives.

Miriam: Germany, Italy, Europe – different lifestyles but one community.

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Italians to Hanne’s eyes: MAMMONI!

 

Se fare antimafia diventa un affare

Partiamo da una storia. Un racconto che testimonia, ancora una volta, l’imperdonabile assenza dello Stato e spiega la conseguente sfiducia dei suoi cittadini. Parliamo della famiglia Cavallotti. Gente che all’inizio degli anni ’90 aveva costruito un impero sul metano in Sicilia. I fratelli che ne erano a capo avevano intrapreso un percorso di project financing attraverso il quale ottenere appalti da tutti i comuni che avevano deciso di “metanizzarsi”. Un metodo che risultava conveniente per i comuni e garantiva profitti all’azienda. Una favola del capitalismo siculo costretta, ben presto, a contaminarsi nelle torbide acque della criminalità. L’impresa per poter lavorare senza patemi doveva pagare il pizzo. Fino a quando, a un certo punto della storia, gli inquirenti rintracciano il nome dei fratelli su alcuni “pizzini” del boss Bernardo Provenzano.

Mettere a posto i Cavallotti”

La magistratura scoprirà molto dopo il vero significato delle parole di quel pizzino – un promemoria criminale per estorcere denaro alla società – nel frattempo mettono agli arresti tutti i fratelli che ne facevano parte, con l’accusa di associazione mafiosa. Due anni e mezzo di reclusione e tutto il patrimonio posto sotto sequestro. I beni che, secondo la legge, dovevano rimanere sotto sequestro per sei mesi (prorogabili per altri sei), sono stati restituiti soltanto sedici anni più tardi e in una situazione economico-aziendale disastrosa.

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Beni sequestrati alle mafie

E qui inizia la seconda parte del nostro racconto. Quella che ci porta dentro ai meccanismi, alle volte poco chiari, dell’applicazione pratica delle normative antimafia. Ricordiamo, a tal proposito, che la normativa in materia di sequestro dei beni è regolata, tra gli altri, dal decreto legislativo 159 del settembre 2011. Al suo interno vengono specificate anche le modalità di amministrazione del bene sottoposto a sequestro.
Un bene può essere sequestrato preventivamente perché appartenente a soggetti che si sospetta essere mafiosi o comunque “in odore di mafia”: parliamo di case, aziende o attività commerciali riconducibili alla criminalità: il nostro codice penale prevede che, qualora ci fossero fondati sospetti, il giudice possa disporne il sequestro anche se non ci sono prove certe di colpevolezza; starà poi al titolare dimostrare l’infondatezza e l’estraneità, sua e del suo lavoro, rispetto alle accuse (la cosiddetta inversione dell’onere della prova).
Ora, nel periodo in cui si decide se confiscare o restituire il bene al legittimo proprietario, lo stesso è gestito da un amministratore giudiziario. Secondo la legge L’amministratore giudiziario riveste la qualifica di pubblico ufficiale e deve adempiere con diligenza ai compiti del proprio ufficio. Egli ha il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati nel corso dell’intero procedimento, anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi. Cioè, la legge dice: l’amministratore deve, in ogni caso, mantenere sana l’azienda, per due motivi fondamentali: se, alla fine delle indagini, il bene rimane allo Stato, lo stesso avrà in mano un’azienda sana a beneficio della comunità, in caso contrario il proprietario si vedrà restituito il bene così come lo aveva lasciato. Questo in teoria. Nella pratica, molto spesso, non è così.

Pino Maniaci è direttore della piccola tv indipendente TeleJato che trasmette da San Giuseppe Jato (PA), nota per raccontare la realtà in terra di mafia e, per questo, aver subito più volte le minacce e le intimidazioni della criminalità (l’ultima in ordine di tempo riguarda l’impiccagione dei suoi due cani). Maniaci tempo fa ha lanciato una petizione sul web, tutt’ora attiva, con la quale chiede un’audizione presso la commissione parlamentare antimafia per denunciare una situazione insostenibile.
Scrive Maniaci (https://www.change.org/p/il-business-dell-antimafia): «
Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni». TeleJato, infatti, sta portando avanti un’inchiesta in cui si è osservato, per esempio, come spesso la scelta degli amministratori giudiziari ruoti sempre attorno alla solita «trentina di nomi». E non è un caso che l’inchiesta parta proprio dalla Sicilia: nell’isola si contano infatti oltre 5000 beni sequestrati (dei 12000 sparsi in tutta Italia): «Un business – scrive Maniaci – di circa 30 miliardi di euro». Molte di queste falliscono, a dimostrazione che, forse, quella trentina di nomi non sono scelti in base alle capacità espresse. Non solo: «La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari».

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E allora torniamo lì dove avevamo iniziato. Alla famiglia Cavallotti. Una famiglia che oggi, a 16 anni dal sequestro e a poco più di un anno dall’assoluzione in Cassazione per tutti i coinvolti, si ritrova con un’azienda distrutta dallo Stato. Quello stesso Stato che avrebbe dovuto proteggere quel bene anche (e soprattutto) se la legge avesse dato loro torto. Si è scoperto che l’amministratore giudiziario a cui era stata affidata l’azienda ha venduto alcuni rami della stessa per avvantagiarne altre riconducibili a lui stesso o ai suoi familiari.
Una storia che vede la sconfitta di tutti: dell’azienda, dei suoi operai e tutti gli altri dipendenti, ma soprattutto la sconfitta delle istituzioni e dello Stato. Una riforma strutturale di queste misure, così come chiede Maniaci, e controlli costanti potrebbero rilevarsi salvifici per la nostra intera economia. Sarebbe utile pensarci ogni qual volta si evocano crisi economiche, tagli nel settore pubblico e intravediamo all’orizzonte un futuro carico di incertezze.

La strada e i suoi abitanti

“E tuttavia non v’è degradazione e turpitudine in questo abbandonarsi con primitiva spontaneità alle leggi naturali e all’istinto individuale, bensì una patetica aspirazione all’innocenza perduta, una ribellione alle aberranti sovrastrutture che soffocano nel conformismo l’istinto creativo dell’uomo”, Jack Kerouac, “on the road”.

Le ricerche statistiche documentano un aumento esponenziale degli homeless in tutte le città, in Italia sono addirittura triplicati e in Europa sono circa 50.000 le persone che si dichiarano senza fissa dimora: una vera e propria popolazione. Di fronte a questi dati, la colpa non può che ricadere sulla famigerata crisi del debito: una recessione che ha portato in strada anche chi non ha scelto di viverci e che ha costretto intere famiglie a sopportare le rigide regole del freddo e della fame.

In un’altra accezione però la strada è vita e arte allo stesso tempo e chi ha scelto di viversela ha saputo sviluppare doti di sopravvivenza che noi, nelle nostre case e sui nostri morbidi letti, neanche immaginiamo.

Questo fotoreportage nasce sostanzialmente come rivisitazione del concetto di strada, attore protagonista della vita quotidiana di ogni città del mondo. Pensateci bene, ogni città è strada e anche ogni uomo è strada, dal momento che ognuno di noi cerca di imboccarne una. Il mio tentativo è quello di dar voce a chi in strada ci è finito e a chi, invece, la strada l’ha scelta come casa, come lavoro o come fonte d’ispirazione; quindi il mendicante, il mercante e l’artista di strada.

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Indi Azan, la poetica della bellezza e la mostra In_di_segni

Spesso ci sono desideri e impulsi non comuni che ci spingono a fare qualcosa nella vita, qualcosa di più. Avere una casa, una macchina, una famiglia, tutte queste cose perfette e comuni, possono sparire di fronte al bisogno di creare qualcosa; un motore che spinge tutto: la curiosità.

E’ ciò che muove Indi Azan, la curiosità e il bisogno, quasi fisiologico, di creare qualcosa che parli di sé.

Indi, al secolo Nidia Zaninetti, è un’artista che non si faticherebbe a definire più che versatile, senza un progetto ben definito che racchiude in sé in realtà un progetto preciso: fare arte, senza distinzioni di sorta. Dalla pittura, al disegno, alla scenografia, alla poesia, all’artigianato, fra influssi di Art Nouveau e Arts&Crafts.

«Credo che l’arte sia la capacità di “arrivare” all’altro. Talvolta arriva al cuore, ai sentimenti, altre volte arriva alla mente, altre ancora arriva e basta e poi se ne va, come un profumo, lasciando semplicemente una scia».

Dopo il liceo artistico e cinque anni all’Accademia di Brera a Milano («Anacronistica e inconcludente almeno quanto me, ma ricca di stimoli e fascino»), è il momento di sperimentare, senza sosta: in teatro a fare l’attrezzista, la sarta e la stiratrice, ma anche la scenografa (disciplina in cui si è laureata nel 2012), e poi le decorazioni nei ristoranti, le carte da parati, la fotografia, ma anche le arti applicate, una passione, creando agende, quaderni e gioielli

«Non credo che l’arte si possa trovare soltanto nei musei o nelle gallerie, dovrebbe essere sempre presente nella vita quotidiana. Non me la sento di dire che un quadro ben fatto è un’opera d’arte mentre un oggetto realizzato a mano magistralmente da un artigiano non lo è. Esistono e sono sempre esistiti pittori e scultori (i cosiddetti artisti) che pur possedendo ottime tecniche sono in grado di produrre solo buon artigianato, mentre esistono e sono esistiti superbi artigiani (vasai, falegnami, ecc.) le cui produzioni più che oggetti d’artigianato sono vere opere d’arte».

Passando per diverse fasi della sua vita, in cui ha reso un affettuoso omaggio ai vari artisti e alle correnti che l’hanno ispirata, come il romanticismo inglese, il surrealismo o la pop-art, “giocando” con i loro soggetti e le loro tematiche, ha sviluppato uno stile che si crea e ogni volta si rimodella, apprendendo da ogni fase artistica avuta. il suo inconfondibile stile si potrà ammirare nei prossimi giorni (dal 9 al 22 febbraio) durante la mostra In_di_segni, al Frida, locale in zona Isola a Milano.

« I disegni che espongo sono dei semplici schizzi eseguiti con pennarello nero. Sono nati dalla precisa volontà di dimenticare le tecniche, il segno preciso e meditato e pure il colore. Lasciando andare la mano dove vuole, senza che si senta in dovere di seguire la mente. Spesso si tratta di disegni affollati, ma anche nella moltitudine tutti gli omini che si possono incontrare in questi disegni sono soli, al comando (o allo sbando) della propria esistenza, in un viaggio precario da affrontare inevitabilmente in solitaria.»

APErasmus – PEQUOD meets AEGEE Bergamo

Do you know AEGEE? Probably, those of you who have been Erasmus students know it pretty well, as in the 1980s AEGEE promoted the placement of the Erasmus project – so THANK YOU GUYS! Since then, AEGEE, whose name is related to the Aegean Sea, the birthplace of democracy – how cool is that?! – has been promoting European events creating a huge network of young people all over Europe and beyond.

As you can imagine, AEGEE Bergamo is one of the local branches of AEGEE. Born in the nineties, for all these years it has helped young people cheap-travelling all over Europe, learning foreign languages, making international friends, taking part to international events and parties and becoming real European citizens.

Last night Pequod met the incredibile staff of AEGEE Bergamo at the first APErasmus of the year. What is that? Well, take two of the smartest inventions ever (aperitivo and Erasmus), and put them together: what you get is APErasmus, an event where you can have some appetizers, have a drink and meet new people. The coolest thing is that every week the party is dedicated to a different countrylast night was German night – this means that the food, the cocktails and the decorations are related to that country, so that you get to know it better by having loads of fun!

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German appetizers from last night

We collected some comments of the people there, both Erasmus students and Italians.

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Claire and Juliette from France seem to be having fun. They are in Italy to learn Italian and for them Erasmus is “party” and “fun”.
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Alice and Anna are Chinese and study in Italy. Alice told us that she wanted to go to America in the first place, but it was too expensive. However, she says Italy is beautiful, so she doesn’t seem too disappointed. Anna is more enthusiastic – for her “Italy is the most beautiful country” – she laughs – and she’s passionate about Italian culture and films.
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We spot two Italian boys by the wall, observing the situation. We imagine they’re here because they like foreign girls. Actually, they think Italian girls are usually more attractive, but still, they enjoy speaking English.
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As everyone looks happy and has a glass in his hands, we go to the bar, also known as the place where the magic happens, and steal a minute from the busy bartender. He says Erasmus events are fun, and according to his esperience, Erasmus students all share bad taste in drinking!

While inside the atmosphere is burning, thanks to the deejays and the barmen, outside it’s snowing a lot, but people don’t mind it at all and stand in the street. Everybody’s busy chatting – English, Italian, German, Spanish and French languages are the soundtrack of this cold white night.

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While Pequod is freezing, Conrad seems comfortable even without a coat. He’s from Sheffield (UK) and speaks some Italian because he was studying it in England. He’s been in Italy for a couple of weeks, though he already thinks a lot of good things about Erasmus – good trips (he’s been in Venice and somewhere in the mountains), helpful and very nice people.

The streets are completely white and Pequod needs to get home. But don’t worry: every week we’ll be at APErasmus to meet new people from all over Europe. Read our International interview each Tuesday!

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For further information about AEGEE Europe, AEGEE Bergamo and APErasmus, visit the following pages:

http://www.aegee.org/

http://www.aegeebergamo.eu/

https://www.facebook.com/aperasmus.bg

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I luoghi della cultura a Nizza

Mettiamo di dover fare una ricerca e di ritrovarci a Nizza a inizio gennaio. Ecco, se si è fortunati si può trovare ancora un sole “grande così” e tanti spazi adibiti alla conservazione del patrimonio culturale.

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Il fascino di questa città è dato dal lungo litorale marino, ma anche dall’armonioso incontro tra antico e moderno; per esempio Place Masséna, che si colloca tra la Città Vecchia e una delle vie principali di Nizza (avenue Jean Médecin), è stata progettata all’inizio del diciottesimo secolo, ma dal 2007 è decorata con un’istallazione dell’artista catalano Jaume Plensa che ha messo in piazza i continenti: su sette piloni altissimi sono accovacciati grandi uomini, che di notte si illuminano.

foto3 Wikipedia

C’è poi un’altra architettura antropomorfa, conosciuta almeno da tutti gli studenti che si trovano a Nizza: è la cosiddetta Tête carrée, una scultura abitabile di sette piani costruita nel 2002 su progetto dell’artista Sacha Sosno e realizzata dagli architetti Yves Bayard et Francis Chapus, che ospita  gli uffici amministrativi della Biblioteca Luis Nucéra.

Questa è la principale Bibliothèque Municipale à Vocation Régionale nella quale si trova una selezione di più di 200.000 documenti; essa sta a capo del sistema comunale che include anche la Biblioteca Patrimoniale Romain Gary, che tra gli altri documenti conserva circa 1100 manoscritti, la Biblioteca Raoul Mille e undici biblioteche di quartiere.

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Alle spalle della spettacolare  Tête carrée si può intravvedere (anche in foto)  il Museo di Arte Moderna e Contemporanea, la cui collezione permanente si articola in otto sale nelle quali si incontrano il Nuovo Realismo Europeo e la Pop Art Americana.

L’artista simbolo per il Nouveau Réalism al Mamac è Yves Klein di cui vi sono più di venti opere concesse con deposito a lungo termine da Rotraut Klein e Daniel Moquay; mentre per il filone americano si possono ammirare le opere di Kenneth Noland, Jules Olitski, Larry Poons, insieme a molti altri.

Restando nel dominio dell’arte pittorica, sono degni di menzione anche il Musée International d’Art Naïf, che permette ai visitatori un’esperienza in un mondo immaginario, e infine il Musée National Marc Chagall, ossia la più grande collezione pubblica del pittore russo.

FOTO6immagine internet www.cote.azur.fr

Concludiamo la passeggiata tra le sedi della cultura citando il principale teatro cittadino: l’Opéra de Nice.  Fu costruito nel 1776 come un piccolo teatro in legno; nel 1826 abbattuto per volere de re Carlo Felice divenne un grande teatro d’opera in stile italiano; successivamente, nel 1870, divenne Teatro Comunale. Ancora, nel 1881 un terribile incendio, probabilmente a causa di una fuga di gas sulla rampa di scena, distrusse completamente il teatro. L’anno successivo venne ricostruito secondo le fattezze che ancora oggi ammiriamo.

In copertina: Place Masséna [ph. Dacoucou GNU Free Documentation License/Wikimedia Commons]

Intervista’l’musicista: il percussionista mutante

Una valigia di percussioni e tanta sensibilità musicale: il giovane bergamasco Andrea Greco si svela per noi. Un percussionista a tutto tondo che si è sempre meno identificato nel ruolo di batterista “duro e puro”, andando in cerca della musica nella sua totalità.

Consiglio di lettura: accendete dell’incenso, sedetevi su un tappeto e mettete in sottofondo i consigli musicali che Andrea ci ha lasciato – Avishai Choen, Seven Seas e/o Anoushka Shankar, Traveller (trovate i video a fine articolo).

  

Ciao Andrea, parlami del tuo percorso musicale. Quello che più ti ha influenzato, le musicassette, il primo cd che hai comprato, le band del liceo, tutto quello che ha contribuito alla tua formazione musicale.

Ho iniziato a studiare batteria a sette anni alla banda (forse perché ero un bambino iperattivo: era il modo migliore per incanalare la mia tensione).

Tralascerei le musicassette: le uniche che avevo erano quelle di Fiorello, gli 883, una musicassetta di musica celtica e una di Jimi Hendrix; sono servite più che altro a capire cosa non mi sarebbe mai piaciuto. Il primo cd l’ho comprato con la paghetta dei sette anni ed è stato In Rock dei Deep Purple, seguito da Secret Story di Pat Methney.

Per sette anni ho continuato a studiare batteria alla banda (dove le mie Etnis rosse stonavano sempre con la divisa); sono stati anni preziosi di formazione musicale, dove ho imparato i principi di condivisione e d’ascolto della musica d’insieme. Dopodiché ho cambiato maestro: Federico Duende mi ha introdotto (forse prematuramente) al linguaggio del jazz, mentre riuscivo finalmente a comprare il tanto desiderato Iron Cobra (un doppio pedale per batteria)! Così, venivo inevitabilmente traviato dal groove dei Pantera, passando per i Led Zeppelin.

E fu così che mi ritrovai a suonare nei Morningrise. Facevamo trash-metal e suonavamo alle tristi e spoglie feste liceali di fine anno; un tuffo nel death-metal e un po’ di borchie dopo, passai bruscamente a suonare in una cover band di De Andrè. Ed è qui che iniziai a interessarmi ad altri tipi di linguaggio musicale, più affini alla mia personalità. Ciò coincise anche con l’avvicinamento alla musica elettronica (un momento, per me, importantissimo e fondamentale).

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A diciotto anni feci un viaggio in Africa come percussionista di un gruppo folk: è stata un’esperienza importante in cui ho potuto integrare le percussioni in un gruppo musicale. Inoltre, l’incontro con dei musicisti africani ha fatto scoccare le scintilla tra me e la musica etnica.

Successivamente, mi staccai temporaneamente dalla batteria per dedicarmi totalmente alla Millennium Marching Band (e quindi alla tecnica sul rullante). Con loro ho scoperto il potenziale del lavoro di gruppo, dell’allineamento fisico e sonoro, la forza del sincronismo e dell’unità musicale, dove nessuno prevale: non si abbatte la personalità dell’individuo ma la si valorizza per arrivare all’uniformità.

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Più recentemente (risedendomi sullo sgabello della batteria) ho ottenuto il diploma all’Accademia del suono di Milano, dove ho studiato con Max Furian e Marco Fadda (il quale mi ha dato un imput verso il mono delle percussioni). Inoltre, sto portando avanti una collaborazione con il collettivo di Kind of Bass come dj.

E per non farmi mancare nulla, suono nei Barabba Gulasch, un gruppo di musica italo-balkan in cui abbiamo un’interazione diretta con il pubblico: tutto quello che creiamo nei nostri spettacoli è incentrato sul donare un sorriso al pubblico. Ciò sintetizza al massimo quello che secondo me è il valore terapeutico che la musica racchiude in sé.

 

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Quali sono state, o quali sono le percussioni su cui ti sei maggiormente concentrato?

Principalmente la darbouka e il cajon. Con quest’ultimo ho iniziato anche un’esperienza di costruzione, in cui sono riuscito a innamorarmi e capire a fondo lo strumento. Da qui, la mia grandissima passione e connessione con il flamenco, nonché la decisione di fare un viaggio in Andalusia per capirne i linguaggi musicali, i volti, la tradizione da cui poi si sviluppa questo genere. Quello che più mi ha colpito è l’infinita gamma di persone differenti, le diverse forme musicali che lo compongono, originate da svariate culture.

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Uno strumento musicale che avresti voluto imparare a suonare, il tuo “rimpianto musicale”?

Assolutamente, il trombone a coulisse.

Lasciami un pensiero musicale per salutare i nostri lettori.

“Io voglio fare musica per mia nonna” Ellade Bandini. E aggiungo che non bisogna aver paura di fare schifo, non bisogna mai smettere di volersi sentire un’entità multiforme e pluralista; non bisogna mai smettere di assorbire dalle subculture contemporanee e dai loro immensi valori.

Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?

Seven Seas, Avishai Choen

Traveller, Anoushka Shankar

A Turkish in Romania

Name and Surname: Reha YILMAZLAR

Age: 24

Country: Turkey

Nationality: Turkish

City: Ankara (The capital)

 

SOMETHING ABOUT YOUR COUNTRY

  1. Which is the form of government ruling in your country?

The government of Turkey takes place in the framework of a secular parliamentary representative democratic republic, whereby the Prime Minister of Turkey is the head of government, and of a multi-party system. The President of Turkey is the head of state who holds a largely ceremonial role but with substantial reserve power.

Turkey’s political system is based on the separation of powers. Executive power is exercised by the Council of Ministers. Legislative power is vested in the Grand National Assembly of Turkey. The judiciary is independent. Changes to the Constitution are not expected.

parcoSeğmenler Parkı is a good choice for me. We usually take our guitars and beers, go there and play, get drunk and chill.

  1. Do you believe corruption exists in your country? How much do you think it influences political life and your private life?

Yes, several months ago it was all on news. There were voice records all over the internet where the prime minister and his son were talking on the phone about a huge amount of money that has been stolen. It is claimed that they were keeping the money in shoeboxes and everyone was making fun of it… It remained on the agenda for quite a while.

Also, last year we had a local election. But during the voting session in some regions electricity was cut off. Most of the people think that it happened because they wanted to rig the election results. However, the funny thing was that our minister of energy showed up on television and said there were some cats near the power centers and they caused all that trouble. We made fun of it on social media for days.

barThis is one of my favourite places to get a drink, or two, or five in my case! The pub is called “Roxanne Pub” as the song from the band “The Police”.

  1. Which is your national language? Do dialects exist in your country? If they do, are they used/known by young people?

Yep. There are certain dialects in some parts of Turkey. So you can identify when someone talks if they are from the Eastern, the Western or the Southern part of Turkey and sometimes you can even guess which city they are from.

  1. Who do you believe to be the cultural icon of your country?

Mustafa Kemal ATATÜRK. He is the founder of Turkey. We owe him so much that every Turkish citizen is raised by his heroic stories, quotes and principles. You can see his statues everywhere in Turkey.

ATATURKMustafa Kemal ATATÜRK.

WHAT ABOUT EUROPE?

  1. Do you consider yourself European?

Hmm that’s a tricky question. You know Istanbul is a bridge between Asia and Europe. So a little part of Turkey is actually in Europe. That’s why we are both European and Asian at the same time.

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  1. Are you able to name a person that you consider symbolic for European culture?
    As a European I can’t name a person but when I think of Europe I somehow think of Art. And as a non-European person of course I do perceive its existence.