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Mese: Maggio 2015

La falange oplitica del selfie – il fascino conformista del plastico arnese

La falange oplitica del selfie …e se il braccio-selfie incarnasse tante caratteristiche di questo nostro tempo?

La brama d’apparire unita a quella di condividere, in primis: una situazione non val la pena d’essere vissuta se non può essere mostrata.

Ci mette lo zampino anche l’individualismo di chi s’attrezza per far tutto da solo. Un malsano impeto consumista, poi, alimenta il fuoco della novità: la mania travolge non a caso le arene – loro malgrado – del consumo, come la Venezia pasquale oggetto della gallery.

Giovani e anziani, singoli gruppi e famiglie, italiani e non, uomini e donne: nessuna categoria pare rimanere indenne dal fascino conformista del plastico arnese del momento. Una sorta di falange oplitica di nuovo millennio, con i bracci-selfie (selfie-stick) a sostituire le sarisse.

Dimmi come (ti) fotografi e ti dirò di che epoca sei.

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Chiara che vende libri – La libreria indipendente Il pensiero meridiano

“Andare lenti è essere provincia senza disperare, fuori dalla scena principale, più vicini a tutti i segreti”.

Così scrive il sociologo pugliese Franco Cassano nel saggio Il pensiero meridiano e non si può che dargli ragione. La storia di Chiara era scritta, quasi voluta dall’alto, ed era inevitabile che così andasse.

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Chiara Condò ha 26 anni, vive a Tropea, in Calabria, e ha sempre avuto una grande passione: i libri. Oltre agli studi universitari in Letteratura ed Editoria, questa sua passione la porta ad accostarsi a un ambiente più diretto e concreto: una piccola libreria della sua città, gestita dalla signora Caterina DeMaria, in cui lavora per qualche anno durante l’estate.

«Vengo da una famiglia in cui non si legge, in una delle regioni d’Italia in cui si legge meno, in cui prevale una chiusura mentale e c’è spesso resistenza all’aggregazione e al confronto. Volevo qualcuno con cui parlare della mia passione e ho scoperto che potevo farlo solo qui: cercavo l’incontro con persone che parlassero la mia lingua e questo solo la libreria me lo dà».

L’amore per i libri la porta a iscriversi alla Scuola per Librai Italiani e a svolgere diversi tirocini in varie città d’Italia. A un mese dal conseguimento del diploma, la proprietaria della libreria di Tropea viene a mancare e vuole che sia Chiara a prendere in mano la libreria e a mandarla avanti. «E’ stata come una chiamata».

Ed è proprio qui che si apre la storia di Chiara. In una realtà in cui l’atto di comprare un libro può essere visto come uno spunto per una presa in giro, il 21 marzo la libreria indipendente Il pensiero meridiano (come il saggio di Cassano) ha riaperto i battenti.

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«Il primo mese è stato di assestamento, ma si è svolto comunque un incontro con una prima elementare di Tropea, una classe davvero molto attiva: giochiamo con libri di case editrici indipendenti come le Edizioni Corsare e la Nuova Frontiera e l’esperimento sta andando bene; proseguirà, i bambini sono contenti.

In un paese in cui si legge così poco bisogna investire sui non lettori e sui bambini. Il lettore entrerà sempre in libreria, cercherà sempre il libro, la vera sfida è far abituare quelle persone che non hanno dimestichezza alcuna; ai bambini che provengono da famiglie in cui si legge poco bisogna far capire che esiste una ‘casa dei libri’».

Intanto le associazioni della provincia si stanno pian piano accorgendo di questa nuova realtà, proponendo un appuntamento fisso al mese con scrittori, il cui primo incontro si è tenuto venerdì 15 maggio. «Abbiamo festeggiato la giornata mondiale del libro il 23 aprile con un flash mob letterario: eravamo in tanti davanti alla libreria, ognuno col suo libro preferito sotto braccio».

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«I lettori a Tropea ci sono, ma non si incontrano. Voglio farli incontrare tutti assieme, farli parlare tra loro e dar loro modo di scambiarsi i libri. Voglio che sappiano che i libri ci sono e c’è un posto dove poterne parlare. Vedo forze nuove, c’è una buona gioventù, i ragazzi che fanno quadrato attorno alla libreria sono fantastici e a volte penso che a Tropea dovrei esserci anche solo per loro e dar loro un modo per stimolarsi e per confrontarsi».

La voglia di migliorare non è legata solo alla libreria, che comunque occupa così tanto il presente di Chiara da rendere difficile pensare a progetti ben definiti per il futuro. «Nella zona della libreria c’è una sorta di ‘quadrilatero virtuoso’, formato da attività interessanti, come una sala da tè che vende prodotti biologici o un negozio di un artigianato d’eccellenza, realtà con cui vorrei creare e organizzare qualcosa. Il libro è il prodotto più democratico che esista, lo puoi abbinare con tutto».

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Non solo tango – Dog sharing

Tiko vive per strada, a Cordoba. Non è di nessuno ma sono in molti ad occuparsene. Non si sa come sia arrivato in quello spicchio di città ma è lì che ha scelto di fissare la sua residenza, grazie alla rete di protezione che è riuscito a stendere, con lo sguardo che incanta e commuove. Tiko è orgoglioso ma non avendo un padrone si è adattato alle circostanze. Un giorno una signora che è solita fargli trovare dei bocconi lo ha incontrato in un’altra zona del quartiere, “Ciao Tiko, cosa fai qui?”, gli ha chiesto. Un uomo che passava l’ha corretta: ”Non si chiama Tiko, il suo nome è Milton. E’ di casa, da queste parti”. Lui li ha guardati con aria noncurante, con la faccia di chi non voleva mostrare i documenti.

Tiko l’aveva quasi trovato, il posto fisso, con libero accesso al giardino di una casa ma un giorno si imbattè in un micio di poche settimane. Forse sentì il richiamo della natura, gli passarono davanti agli occhi le gesta di qualche suo antenato cacciatore e decise di non tradire i costumi di famiglia. Con due morsi ben assestati spezzò il collo al gattino.

Fu emesso nei suoi confronti un decreto di espulsione:”A quel cane assassino non bisogna più dare da mangiare”.

La gente, per fortuna, dimentica e Tiko è riuscito  col tempo a non perdere il vitto di quella casa ma ha dovuto rassegnarsi a stare fuori dal cancello. Una pena, tutto sommato, accettabile per un reo confesso.

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Sono molti, in Argentina ma anche in altri paesi del Sudamerica, i cani che vivono come Tiko. Li ho visti aggirarsi, come in cerca di qualcuno, davanti a bar, ristoranti, negozi, ovunque ci sia la possibilità di intercettare un boccone o un gesto di affetto , quasi fosse una mancia.

Per le strade vive e si arrangia una torma di cani, ognuno lavora in proprio senza perdere tempo ad accapigliarsi per il controllo del territorio, salvo quando c’è da battersi per conquistare i favori di una femmina.

D’inverno, quando il freddo è pungente, li puoi incrociare per strada: Coca, una meticcia scura dal manto liscio, Naftalina, con i suoi sei cuccioli, Elvis per il ciuffo sugli occhi”. Ernestino Gregorio Evaristo.

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Tre nomi che non sono il segno di qualche tratto di nobiltà, anche se il suo aspetto lascia intravedere tracce di un beagle, ma dipendono da come ha scelto di chiamarlo chi ha avuto a che fare con lui nel tempo. Li vedi in gruppo, “a tomar mate”, come si dice qui quando ci si trova per stare insieme a chiacchierare, Tiko e gli altri, ciascuno con un grande maglione colorato. Sono gli abitanti del quartiere a farglieli indossare per proteggerli dal gelo. Non durano molto, quelle maglie, ma finché non si strappano è buffo vedere quel branco pieno di colori.

 

Anche se da tempo è in corso una campagna di sterilizzazione da cui ci si attende una riduzione del randagismo la gente non sembra infastidita più di tanto. Quelli che hanno un padrone fisso sono pochi privilegiati. Molti non si possono permettere di avere un cane e così finiscono per condividerne uno o più, con altri abitanti del quartiere, in una versione argentina del “dog sharing”.

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A Cordoba, nel parco al centro della città ci sono alcune case per cani, una sorta di alloggio provvisorio, magari sotto un albero. Qualche umano mette una cassa di cartone, foderata di plastica, una tazza d’acqua e una per il cibo. Accanto, un cartello: “Qui abita Lola, vi prego portatele da bere e da mangiare. Ha tre cuccioli”. C’è sempre qualcuno che segue la raccomandazione. Lo stesso è avvenuto di recente, con Tiko. Si è ammalato alle zampe, camminava a fatica. Un signore ha comprato un farmaco per lui ma nei giorni successivi ha scoperto che a dare le medicine erano in tre, col rischio di dargliene troppe. Ma poi Tiko è stato meglio, ha ripreso a correre e questo ha chiuso ogni disputa sul sovradosaggio dei farmaci.

 

 

 

Steve McCurry: oltre lo sguardo di chi?

Quando si parla di Steve McCurry il rimando automatico è al celeberrimo ritratto di Sharbat Gula, la ragazza afgana dai penetranti occhi verdi, curiosi e al contempo spaventati, dietro ai quali si cela una storia di povertà e voglia di riscatto, pubblicato sulla copertina del National Geographic nel giugno 1985. Una mostra dedicata agli scatti di uno dei fotografi più apprezzato al Mondo non poteva che intitolarsi “Oltre lo sguardo”.

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Oltre lo sguardo del fotografo.

Steve McCurry, classe 1950, fotoreporter statunitense, viaggiatore cosmopolita instancabile più volte premiato con il World Press Photo Award. Una carriera trentennale condensata nelle esperienze fotografiche tra India e Birmania, Cambogia e Afghanistan, ma anche Giappone, Africa, Brasile, Italia, America.

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È proprio in India che ha imparato a guardare e aspettare la vita: «se sai aspettare le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto». Una professione avviata e successivamente consolidata tra i conflitti internazionali di maggiore rilievo storico; l’innovazione congenita di McCurry è la prospettiva dalla quale osserva, non si sofferma sulla devastazione dell’ambiente piuttosto su quella del volto umano.

«Cerco il momento in cui si affaccia l’anima più genuina, in cui l’esperienza s’imprime sul volto di una persona. Voglio trasmettere il senso viscerale della bellezza e della meraviglia che ho trovato di fronte a me, durante i miei viaggi, quando la sorpresa dell’essere estraneo si mescola alla gioia della familiarità».

Un artista magistrale che si plasma al mondo che lo circonda con naturalezza, lingue, culture e tradizioni diverse, distanti, che diventano ponti paralleli da percorrere con umiltà.

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Oltre lo sguardo dei protagonisti.

Dietro ad ogni singolo scatto una storia intera che aspetta solo di essere raccontata. – Ritratto di un ragazzo della tribù Suri (Ethiopia); Operai su una locomotiva a vapore (India); Un uomo anziano della tribù Rabari (Rajasthan). –

Un assaggio dei titoli dai quali non emergono nomi propri, l’ignoto contribuisce a rendere tutto ancora più straordinario. Se vuoi entrare nelle vite di queste persone, nel loro quotidiano, devi farlo in punta dei piedi, con la stessa leggerezza con la quale loro entrano nella tua.

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Oltre lo sguardo del visitatore

Dall’India all’Italia più di 150 scatti fotografici che sembrano fermare il tempo tra i corridoi della mostra. Un percorso studiato per condurre il visitatore tra i primi volti indigeni e modesti presentati al grande pubblico, passando per la guerra del petrolio tra Iran, Israele e Arabia Saudita, una parentesi sulle catastrofi naturali degli ultimi decenni, arrivando infine ad eventi più recenti come l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre.

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Le audio-guide ed i video documentari studiati nei minimi dettagli contribuiscono a trasportare lo spettatore in luoghi lontani e avventurosi, avvolgendolo con scatti, espressioni, paesaggi mozzafiato.

 

Se ve la siete persi a Palazzo Reale a Monza, lo Studio 1 di Cinecittà aspetta solo voi.

Michael, a Dutch student with an entrepreneurial aptitude

Today we have met Michael Spikmans, a Dutch student from Eindhoven who is doing his MSc at the Tilburg University.During his previous studies he mainly focused on ICT, what makes Michael a different student in the domain of Information Technology is the strong awareness about the pivotal role of human aspects. His main goal is to bridge the gap between  technology illiterates and digital tools which enable people to be more competitive in the job market.

 

So Sir Spikmans, could you introduce yourself to Pequod’s readers ?

Hello, my name is Michael, I am from Eindhoven and studied Information and Communication Technology (ICT) for four year, graduated cum laude, worked for Philips and PinkRoccade (a health care organization). Right now I’m doing a master degree in  Communication and Information Sciences. I really like travelling, sightseeing, cycling and swimming, going out with my friends. I am also an amateur photographer and generally I take pictures during the summer. My favourite spots are desolated urban sites and I also have my own flickr profile.

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Describe your country with three adjectives and mention what you like the most and the least about your own culture

OVERCROWDED, RAINY, LIVELY .  The aspect about my country I like the most is the cultural diversity, high level of tolerance and the innovative technology represented by the majority of the companies.

What did you study before applying for this master?

As I have already mentioned before, I studied ICT, more precisely my major was multimedia design which is basically developing websites and cross-media campaigns, also social media strategies. I also specialized in interaction design and user experience, the former is mainly focused on the user interaction with the product while the latter is more about the overall user experience.

Why did you decide to study at the Tilburg University?

Because they offer a master which gives you more insights on the human aspects of information technology. In addition, no matter how advance a product is, there is always a user behind it with no prior knowledge about it.  Here it’s my main aim, combining technology and humans aspects and trying to bridge the gap between them.

I have heard that you have an entrepreneurial aptitude, could you please explain more about it?

Yes, I have a sort of entrepreneurial aptitude, one year ago I founded my own online company, vector-licious.com, with  a former university colleague . Our primary business consists of developing websites, creating social media campaigns and customizing companies corporate identity.

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Vector-licious.com

In my spare time I also work as a volunteer in the Eindhoven library because I am interested in books, people and education. One year ago I started a new project with them, it is called digital café, because we have 43000 digital illiterates, which is a paradox since Eindhoven is the high-tech companies headquarter of the Netherlands. The goal of this project is to help people to use technological and digital tools. For example, I teach people how to use tablets, smart-phones, Windows and other types of software.

At first it was meant for elderly people but there was so much interest also from younger people that we decided to broad our target group by giving social media, online safety, and personal branding workshops.

Which are you plans after your master? Would you like to stay in the Netherlands or move abroad?

My plans change every week, at the moment I am really focused on applying for a PhD after my master because I would like to stay in the research and academic domain. However, even if I change my mind about the PhD I still have several plans such as developing more awareness about the crucial aspect of technology nowadays but always taking into account the central role of the human beings. Of course I would like to move abroad for a while, I would say USA because I want to get some experience from a major tech company like Google or Facebook.

Let’s change topic, what do you think about the European Union ? Do you feel part of it or you perceive it as a geographical entity only? Would you define yourself an European citizen?

I am always saying that I am European rather than I am Dutch and I like the fact that the borders are open, we are a large community, we can cooperate and build a better environment.  I totally feel part of it but unfortunately in practice it’s still far from the truth, because of the different cultural and economical situation of some countries. Yes, I would define myself as an European citizen to the extent that I was working for Philips (TP Vision) I worked for an European research project which included seven European countries called USEFIL, we had to do research on smart living environment for smart living environment people and I was enthusiastic to present my prototype to the European commission in Brussels.

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A caccia di sogni

Inseguire i propri sogni è un qualcosa di intrinseco alla natura umana, è una cosa che caratterizza la vita di tutti noi. Ognuno di noi ha un sogno per realizzare il quale farebbe carte false. Ci sono sogni assurdi, difficili se non impossibili da realizzare, che restano per sempre nel famoso cassetto. Restano lì, ad aspettarci. Possiamo rispolverarli quando vogliamo, per cullarci nella speranza che un giorno, prima o poi, li realizzeremo, e invece resteranno irraggiungibili per sempre. Ma ci sono, sono lì, perché la nostra vita è fatta per avere dei sogni, non ci abbandoneranno mai. E poi ci sono quelli che invece si possono realizzare. E quando si ha l’occasione di realizzare un sogno, il proprio sogno, quell’occasione non si può rifiutare.

Ed è proprio per inseguire i suoi sogni che Mirco Sambrotta, 31enne italiano originario dell’Abruzzo, si è trasferito all’inizio del 2015 a Granada, in Andalusia, nel sud della Spagna. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Filosofia all’Università di Firenze e la laurea magistrale, sempre in Filosofia, all’Università degli studi di Milano, Mirco ha avuto la possibilità di trasferirsi in Spagna per realizzare il suo sogno.

«Mi sono trasferito qui a Granada per un Ph.D, che non è altro che un dottorato di ricerca, ma detto così sembra qualcosa di più importante. Dopo la laurea, mi sono occupato di filosofia del linguaggio ed epistemologia, sicché, come potete facilmente immaginare, in Italia la gente mi prendeva in giro e rideva di me quando dicevo che il mio sogno era quello di fare il ricercatore. Lo so che non è un sogno emozionante ed ambizioso come quello di fare l’astronauta o quello di scalare il K2, ma è davvero quello che mi piace fare nella vita.»

Così, quando si è palesata la scelta tra continuare a fare il barista-cameriere a Milano o lasciare l’Italia ed inseguire il suo sogno, Mirko non ha esitato un attimo a prendere la decisione di trasferirsi a Granada per conseguire il dottorato di ricerca.

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Anche se, a dire il vero, Mirco ammette di averci dovuto pensare prima di accettare:« La decisione, seppur facile, ha richiesto qualche giorno di riflessione. A Milano, nonostante facessi cameriere, avevo comunque un ottimo stipendio per quello che è il momento attuale in cui versa l’Italia, e per un giovane questo è quasi un miracolo. Qui invece devo stare più attento con i soldi. Faccio la spesa al discount, per fare un esempio. Ma quando arrivo a casa la sera sono contento, perché so di aver usato il cervello per qualche ora, e non solo la macchinetta del caffé, per guadagnarmi lo stipendio.»

 L’impatto con la realtà di Granada, e della Spagna in generale, non è stato difficile. Mirco si è trovato a confronto con una cultura e una lingua non molto differenti e distanti da quella italiana, e grazie a questo si è facilmente integrato nella nuova città e ha iniziato alla grande la sua nuova vita all’estero.

«Qui è un po’ come il Molise, ma con il flamenco al posto della tarantella. Non ho avuto problemi né con la lingua, né con le abitudini enogastronomiche, né con i principi etico-morali, mi sentivo quasi più “straniero” a Milano.»

Mirco si sente fortunato per essersi trasferito in Spagna: si è ritrovato a vivere in un paese in cui si trova bene, adatto alle sue caratteristiche, al suo modo di essere e di fare. Ha trovato persone che credono in lui, viene pagato per fare la cosa che gli piace di più al mondo. Ha trovato una città adatta alle sue esigenze, nella quale poter vivere inseguendo i suoi sogni. Ma qualsiasi posto sarebbe andato bene. Si sarebbe adattato a qualsiasi luogo, città, lingua e cultura, pur di poter inseguire e realizzare il suo sogno.

Immagine 2 (1)Quella di spostarsi in un paese straniero è anche un’esperienza che ti permette di conoscere te stesso più intimamente e attentamente. Ti permette di capire meglio quelli che sono i tuo limiti, quelle che sono le tue potenzialità. Ti permette di capire ciò che davvero vuoi fare nella vita. Ma è un’esperienza che ti regala anche la possibilità di conoscere a fondo una cultura diversa dalla tua, per quanto, nel caso di Mirco, quella spagnola sia molto simile a quella italiana. Ti da la possibilità di conoscere nuove persone, che portano con loro valori e ideali diversi dai tuoi. E ti permette di apprezzare meglio l’altro, e con questo la diversità che distingue ognuno di noi.

«Qualche giorno fa – ci racconta Mirco – ho letto il post su Facebook di una ragazza che conosco, all’interno del quale spiccavano frasi come “Evviva la ruspa di Salvini”, oppure “Stateci voi insieme a questi beduini che vivono sulle nostre spalle”. Ecco, se dopo soli cinque mesi a Granada, mi chiedessero a cosa serve un’esperienza all’estero, risponderei innanzitutto: per evitare di scrivere queste cose pubblicamente; per evitare di pensarle certe cose, o anche solo di immaginarle! Certo, è un po’ come la pillola del film “Limitless”, che migliora la capacità di sfruttare al massimo il tuo sistema nervoso: se sei intelligente la cosa funziona meglio.»

 Per quanto riguarda i progetti per il futuro, Mirco non si sbilancia. La sua passione per quello che fa non conosce limiti e spera di continuare a fare il lavoro che ama per molto tempo ancora, ma non gli piace fare progetti a lungo termine. Ci sono troppe variabili, specie nel campo della ricerca: «Spero solo di avere, un giorno, una qualche buona intuizione che mi permetta di continuare a fare ricerca. Se questo avverrà in Spagna o altrove, per me non ha alcuna importanza, anche se “la ricerca è un gioco che si gioca 11 contro 11 e, alla fine, vincono gli anglosassoni”.»

La cosa importante, sulla quale Mirco non ha dubbi, è che non vuole riporre il suo sogno nel cassetto. Non vuole tenerlo lì, solamente per rispolverarlo ogni tanto, per ricordare quant’era bello. Mirko vuole che questo sogno, il sogno di fare il ricercatore, duri per tutta la vita.

Noaptea Caselor: la cultura apre le porte a Bucarest

Ancora Romania. Ancora Bucarest. Di nuovo nell’Europa orientale per fare emergere il sostrato culturale che non si è abituati a cercare nella capitale rumena. Eppure, ecco “La notte delle Case”.

Il 27 settembre 2014 la città ha aperto ai suoi visitatori e cittadini le villette e gli appartamenti più creativi, dalle 18 alle 7 del giorno seguente. Dal centro alle zone periferiche, la mappa cittadina si è costella di punti di ritrovo inusuali e in contrasto rispetto ai grigi bloc comunisti: di fronte a file e file di condomini uguali, la vivacità culturale della città è presente in questi appartamenti, mini centri sociali ai nostri occhi occidentali che propongono jazz, mostre fotografiche, graffiti, proiezioni di filmati psichedelici, poesie e arte contemporanea… ma soprattutto, numerosissimi spazi in cui l’opinione pubblica rumena può finalmente sfogarsi.

A 25 anni dalla caduta del comunismo, da Casa Elisabeta, Casa Carol 53, Casa Lupu passando anche per Casa Jurnalistului, le nuove generazioni si riuniscono per formare una nuova comunità.

Se in passato le iniziative socio-culturali si ritiravano in uno spazio personale e di condivisione tra una cerchia ristretta di amici, dopo essersi duramente scontrate con autorità ostili e ambienti sociali apatici, oggi queste case si apprestano a diventare una rete culturale decentrata, in risposta al vuoto lasciato dalle istituzioni.

Una rete composta da cittadini attivi e giovani, che dà voce alla necessità di una libertà d’espressione più audace, personale e il più lontano possibile dalla corruzione morale e culturale del Paese.

La catena umana

La nuova premessa di oggi si chiama Alessandro Nuara, ventitreenne di Agrigento trapiantato a Milano per studiare Ingegneria Informatica presso il Politecnico. È all’ultimo anno del corso di laurea, ma per il futuro è già impegnato: da un anno, infatti, si è avvicinato al mondo delle start-up e dell’innovazione tecnologica.

Nel 2014 ha partecipato al concorso Smart Civis- Quale cittadino nella città del futuro?, promosso da Progetto Civis e Xcity, con il sostegno delle università del capoluogo lombardo (Università Luigi Bocconi, Politecnico, Università degli Studi, Università Cattolica, Collegio): l’obiettivo era pensare al profilo di una tipica città del futuro e sviluppare un progetto che potesse competere a livello mondiale, pur sulla base di valori come la cultura civica e l’ecologia.

Alessandro ha considerato come punto di riferimento la città di Milano, in cui studia e vive, piena di vitalità e frenetica nella sua apertura verso la novità, e che da quest’anno sarà al centro della scena globale grazie all’EXPO, ma in cui per i diversamente abili non è facile muoversi. Alessandro ha vinto il concorso grazie alla sua App Human Chain, che, come da nome, si prefigge di creare una catena umana tra utenti e volontari.

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In cosa consiste? Il suo funzionamento è semplice ed efficace, come d’altronde le migliori idee dovrebbero essere: attraverso lo smartphone, accendendo il dispositivo di localizzazione, un volontario mostra alla rete di essere disponibile ad aiutare chi ne abbia bisogno; a questo punto, un utente diversamente abile che si trovi nelle vicinanze e in difficoltà può chiedere l’aiuto necessario per muoversi in tutta tranquillità.

Questo network ha numerosi pregi: è un social di volontariato, che quindi agisce nel campo della solidarietà; segnala le barriere architettoniche al Comune, in modo da creare una mappatura degli ostacoli per eluderli e, se possibile, eliminarli; suggerisce ai cittadini diversamente abili quale percorso seguire senza doversi imbattere in punti difficili da superare.

Attualmente, l’App è in fase di implementazione e si sta studiando un primo prototipo per presentarlo ad alcuni partner che lo lancino e lo promuovano.

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Alessandro è una persona realista, fiduciosa nella sua idea, ma conscia delle difficoltà che incontrerà lungo la strada. Human Chain è un’attività solidale che certamente troverà appoggio presso i giovani e le associazioni benefiche, tuttavia bisogna tenere conto di diversi problemi quali la mancanza di facilitazioni per i diversamente abili a Milano rispetto alle altre metropoli europee (rampe o saliscendi, per intenderci), nonché la scarsità di informazioni sulla disabilità motoria, ad esempio statistiche e sondaggi, a Milano.

La fonte principale a cui Alessandro si è rivolto è stata un progetto promosso dal Ministero per le Politiche Sociali, Disabilità in cifre, che fornisce una stima più o meno corretta sul bacino di utenti presenti a Milano.

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L’obiettivo finale dell’App è che, attraverso le adesioni di volontari e di bisognosi, si possa aiutare tutti i cittadini a vivere senza rinunce e sacrifici una città intraprendente e ricca di possibilità, e che tale servizio possa rilanciare l’immagine di Milano all’interno delle problematiche sociali.

 

 

In copertina: Politecnico di Milano, Bovisa [ph. neq00 CCA BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

India: impossibile restarle indifferenti

L’India fa sentire parte del creato. Daniele Cortesi, che ha avuto la possibilità di iniziare a conoscerla grazie al  programma di scambio dell’Università, la descrive come un mondo dentro il Mondo.

«Essendoci tutto, vi sono tutte le contraddizioni che potremmo incontrare viaggiando per diversi Paesi. Dalla religione ai paesaggi naturali, vi sono persone che nascono e vivono tutta la vita in India anche perché c’è davvero tanto da scoprire: l’oceano, pianure sconfinate, deserti, montagne e città, villaggi, parchi o semplicemente persone. »

Se si è un viaggiatore in stile backpaker come Daniele, allora si passeranno giorni sulle montagne nell’Himachal Pradesh, si arriverà a bere del thè con monaci di un monastero situato a 4800m d’altitudine, si siederà sul tetto di una capanna per le capre guardandosi attorno: nient’altro che le montagne più alte del mondo ed il suono del vento.

Altrimenti da Goa, nel sud, si potrà andare al mare e godere delle innumerevoli feste; passando per Delhi e Mumbai si capirà cosa vuol dire essere fra le metropoli più grandi del mondo, oppure camminare attraverso le pianure del nord per vedere parchi e monumenti vecchi migliaia di anni.

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«Considerata la distanza, raggiungere l’India può essere quasi conveniente: si può pagare anche 600/700 euro per un biglietto a/r. Le pratiche burocratiche sono piuttosto stancanti, ma se si tratta di visti turistici il tempo si riduce notevolmente. Una volta entrati nel Paese, i trasporti ed il costo della vita possono essere davvero bassi, ma si può trovare davvero di tutto: dallo spendere cinque/sei euro per dormire, fino ad hotel a cinque stelle (in città). Per il cibo, con 10 euro si mangia in un ristorante. Le precauzioni principali sono sempre quelle che riguardano la salute: non per niente l’India è caso di studio per molte facoltà di medicina.»

Qualche parola sul popolo indiano:

«Gli indiani sono molto fatalisti: spesso non si preoccupano di avere qualcuno che muore a fianco a loro, ma al contempo vi sono realtà in cui la solidarietà raggiunge livelli che da noi sarebbero inconcepibili. Identificarli tutti sotto qualche aggettivo non renderebbe giustizia all’India stessa, essendo essa stessa indescrivibile. Ho incontrato tanta umanità, soprattutto viaggiando, ma anche tanti effetti che il nostro stesso modo di vivere ha avuto sulla vita di moltissime persone, spesso bambini.»

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Chiedendo a Daniele qualche aneddoto particolare, si comprende la defettibilità del linguaggio naturale:

«Potrei dire i rituali funebri di Varanasi o le moschee di Delhi, la casa del Dalai Lama o il Gange. Ti racconterei della notte passata assieme ai miei compagni di viaggio con un pastore sulla montagna, dove abbiamo dormito senza riscaldamento, mangiando un piatto di riso con le verdure che questo pastore coltivava a fianco al rifugio. Oltre a questo, direi del passaggio che abbiamo dato a due ragazzi attraverso la zona militare sulle montagne, diretti verso Shimla. Credo che gli aneddoti si sprechino, in fondo.»

 

Damanhur: i colori dell’umanità nei sotterranei della Valchiusella

A nord di Torino, nella Valchiusella, si incrociano quattro delle linee sincroniche che, come fiumi impetuosi, trasmettono idee e pensieri e mettono in contatto ogni punto del mondo con l’universo. No, non siamo in preda ad una crisi mistica, questo luogo esiste davvero, si chiama Damanhur. Il nome significa ‘Città della luce’ ed è stato premiato dalle Nazioni Unite in quanto più grande società ecosostenibile presente in Europa.

I damanhuriani riciclano, sperimentano nuove tecnologie verdi, si riscaldano bruciando legna nei camini, e, soprattutto, bandiscono accendino e sigarette, anche negli spazi aperti. Inoltre l’eco-società sostiene numerosi enti locali e non, che si occupano di ristorazione, distribuzione commerciale di alimenti bio, o vendita di abbigliamento handmade.

L’ambiziosa etica new age si basa sulla convinzione che in ogni individuo sia presente una scintilla divina da portare alla luce grazie alla meditazione e all’impiego di particolari forme a spirale che permettono il fluire di energie positive.

 

Ma la ‘Città della luce’ è anche la città del colore e dell’arte, infatti è divenuta meta turistica di grande attrattiva per la rilevanza estetica in ambito pittorico, plastico e del vetro soffiato. A Damanhur tutti sono artisti e a tutti è permesso colorare le strade del villaggio con le tinte del proprio pennello.

La comunità offre un ventaglio di possibilità davvero vasto per chi desideri esprimere se stesso attraverso l’estetica delle forme, del colore e dei materiali, è possibile infatti accedere a corsi di formazione artistica o semplicemente frequentare i laboratori di statuaria, della lavorazione del vetro, di ceramica e di mosaico.

 

Tutte le tecniche acquisite nei vari atelier hanno permesso ai damanhuriani di incastonare, nei sotterranei, quello che è stato annoverato tra le meraviglie del mondo: i Templi dell’umanità.

 

Questo organismo sacro è composto di sette sale, sempre visitabili e utilizzabili da gruppi di fedeli di qualunque confessione religiosa per celebrare le proprie cerimonie. La costruzione iniziò nel 1978 ad opera degli stessi abitanti e fino circa al 1991 la sua esistenza rimase segreta anche a molti dei membri della comunità, in quanto non esistevano leggi che autorizzassero la creazione di strutture sotterranee di questo genere.

Gli ambienti sono così distinti: sala degli specchi, dell’acqua, dei metalli, della terra, delle sfere, il labirinto ed infine il tempio azzurro. Una luce particolare inonda l’aura sacrale di questi spazi, nei quali, al di là di ogni convinzione personale, si respira indubbiamente un’intensa spiritualità.

Le varie sale sembrano porsi in una dimensione dove tutte le forme fluttuano, dando vita a linee che nella loro semplicità creano effetti che non possono lasciare l’occhio indifferente. Il colore è l’indiscusso protagonista, tinte diverse e contrastanti si stagliano sui dipinti parietali rappresentanti simboli di ogni culto, figure umane sorprendentemente realistiche, ed elementi naturali.

L’esplorazione procede attraversando numerosi corridoi dalle volte dorate, ai cui lati troviamo curiose statuette in terracotta di soggetti non ben identificabili; vale la pena rivolgere il naso all’insù per ammirare i soffitti, spesso a cupola, finemente decorati da preziose vetrate o mandala dipinti.

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Ma non è tutto vetro quello che luccica, infatti numerose sono le testimonianze dei ‘fuoriusciti’ dalla comunità, i quali la descrivono come una vera setta che opera attraverso meccanismi coercitivi, pressioni psicologiche che porterebbero l’individuo a scindersi dal mondo al di fuori delle mura di Damanhur.

Nota è inoltre l’evasione fiscale di cui fu accusato il fondatore nel 2004 e l’abuso edilizio dovuto alla costruzione dei templi.

La sontuosità e bellezza di questi luoghi segreti rimane indiscutibile, ma non è necessario essere trascinati nella morsa delle forze spirituali per apprezzarne la meraviglia.

Mad Men, grazie di tutto

-SPOILER ALERT-

This is the end come direbbe Jim Morrison. It’s The End of an Era, più precisamente, è la tagline che ci ha accompagnato nella stagione conclusiva di Mad Men, che ha raggiunto il suo epilogo il 17 maggio negli States. Dopo otto anni, sette stagioni, quindici Emmy, quattro Golden Globe e tante, tante, emozioni siamo giunti alla fine di questo viaggio nell’America degli anni ‘60, che ci ha fatto rivivere un’epoca affascinante e controversa, immersi nell’eleganza, nello stile, nei modi di fare e di pensare del tempo, attraverso le storie di uomini e donne in questo mondo ricostruito nei minimi dettagli, dai quotidiani dell’epoca agli oggetti di scena, dai costumi all’arredamento.

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Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza una sceneggiatura solida come poche altre sul piccolo schermo, dove i dialoghi, spesso apparentemente insignificanti, nascondono le grandi realtà che ci comunichiamo nella vita di tutti giorni, senza bisogno di artifici retorici o altre impalcature. Make it simple, but significant ha detto una volta Don Draper, riassumendo alla perfezione il lavoro dei writers, del creatore Matthew Weiner e dei suoi collaboratori anche nella regia, dove visibile è l’influenza dei grandi registi della Golden Age di Hollywood come Alfred Hitchcock, una coerenza visiva capace di catapultarci nelle atmosfere di quegli anni. Più di tutti però va sottolineato lo straordinario lavoro che ha fatto il cast di Mad Men, impeccabile in qualsiasi situazione, una serie di attori che ha avuto un contributo decisivo sulla caratterizzazione dei personaggi e delle loro storie. Storie che, come nella vita “vera”, non hanno e non possono avere una conclusione. Insomma, se c’è una cosa che Mad Men ci ha insegnato è che, anche se il sipario è calato, la vita va avanti, con tutti i suoi errori, i momenti belli e brutti, le rivelazioni, la disperazioni, la ricerca di se stessi e della felicità.

 

“La pubblicità si basa su un’unica cosa: la felicità. E sapete cos’è la felicità? La felicità è una macchina nuova, è liberarsi dalla paura, è un cartellone pubblicitario che ti salta all’occhio e che ti grida a gran voce che qualunque cosa tu faccia è ben fatta, e che sei ok.” (Don Draper)

 

Una felicità di cui Don è sempre stato alla disperata ricerca, un uomo che sulla carta ha sempre avuto tutto, ma che in realtà non è altro che un fantoccio, finto come lo è il suo nome, attanagliato da una profonda solitudine legata alla sua mancata identità, nel disperato bisogno di amore da parte di chi gli sta vicino, ma che lui vede come irreparabilmente lontano.

Sono questi i temi su cui si basa l’ultimo episodio di Mad Men, dove Don, partito, come direbbero oltreoceano “out of the blue” per un viaggio alla On The Road di Jack Kerouac, affronta il suo passato in una crisi interiore che ha il suo apice nella comunità hippie dove finisce per ritrovarsi. Ted Chaough ha detto una volta che ci sono tre donne nella vita di ogni uomo, e non è un caso che in questa puntata sono proprio tre le telefonate person to person alle rispettive figure femminili fondamentali nella vita di Don.

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La prima è la figlia Sally, che gli rivela il tumore terminale ai polmoni che ha condannato a qualche mese di vita Betty, la destinataria della sua seconda, emozionante, telefonata, nella quale Don, dopo che la sua ex moglie gli impedisce di tornare a casa dai suoi figli, la chiama “birdie” forse per l’ultima volta, trascinando entrambi in un rivolo di lacrime amare. A questo punto Don, senza una casa dove tornare, distrutto dal dolore, chiama Peggy e, completamente indifeso e messo a nudo, si rivela “I’m not the man you think I am”, e alla domanda “What did you ever do that was so bad?”, confessa “I broke all my vows, I scandalised my child, I took another man’s name and made nothing of it”. Dopo aver ammesso con se stesso e con gli altri i suoi peccati ecco che Don riesce finalmente a mostrare empatia per un’altra persona, in questo caso uno sconosciuto, Leonard, che racconta di come si senta invisibile e infinitamente solo, scatenando finalmente una reazione in Don.

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Mentre Pete Campbell, dopo aver accettato “il lavoro dei sogni”, si trasferisce a Wichita insieme alla moglie Trudy e alla figlia Tammy, mentre Joan capisce di non aver bisogno di nessuno e mette in piedi la propria attività di produzione cinematografica (ironicamente chiamata con i suoi due cognomi Holloway-Harris), mentre Roger sembra aver ritrovato l’amore con Marie, la madre di Megan, e Peggy, rifiutata l’offerta della stessa Joan di diventare sua partner, trova il suo finale da commedia romantica con Stan, ci ritroviamo di fronte all’oceano, in uno scenario paradisiaco, dove vediamo Don per l’ultima volta, mentre medita in una seduta di yoga, e tra un “Ooooom” e l’altro….scappa un sorrisetto. Un sorriso che ha tutto il sentore di una rivelazione, un’illuminazione. Ma di che cosa?

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Come poteva concludersi uno show ambientato nel mondo della pubblicità se non con uno degli spot più famosi di sempre? Ma che significato nascondono le note orecchiabili di “I’d like to buy the world a Coke”, ideato proprio nel 1971 dalla McCann-Ericksonn che Don sembra aver abbandonato? Altro che rivelazione esistenziale! E’ “solo” l’idea per la pubblicità del secolo! Accusatemi pure di cinismo, ma questa è di gran lunga l’interpretazione che preferisco e anche la più plausibile, nonostante l’ambiguità.

 

 

Eh sì, perché volenti o nolenti le persone non cambiano, è tutto un eterno ritorno se vogliamo dirla come Nietzsche. Le circostanze sono in continua evoluzione, ma la vita va avanti ed è giusto così.

Un finale decisamente originale e geniale nella sua semplicità per una serie che ha già fatto la storia della televisione e che difficilmente sarà eguagliata in futuro.

 

La nostalgia. È delicata, ma potente. Teddy mi disse che in greco nostalgia significa letteralmente ‘dolore che deriva da una vecchia ferita’. È uno struggimento del cuore di gran lunga più potente del ricordo.” (Don Draper)

 

Grazie Mad Men, di tutto.

 

 

A Slovakian payback. Miriam’s story of work and success in Italy.

(editing by Margherita Ravelli)

Migrants’ life in Italy is never easy, but sometimes working hard and never giving up give their results. Miriam is an example of a woman who left her country, Slovakia, despite of all the difficulties, and eventually got her payback in Italy.

Hello Miriam. Could you introduce yourself to Pequod’s readers?

I’m Miriam and I’m 41. I was born Czechoslovak but now I’m  Slovak and I also have Italian nationality. I’ve been living in Italy since 1992, I stay in a little town called Rovetta, in the province of Bergamo and I work as a midwife in a public facility. I’m also teaching at the University of Milano-Bicocca.

Why did you decide to leave your country?

I was 18 and, as every teenager, I felt my country too tight for me. It was 1992, the Czechoslovak Republic had been out from Socialism for 2 years and it was going to be separated into Czech Republic and Slovak Republic.  Plus, borders had been opened and I wanted to discover the world, in particular the capitalist world.

Why did you choose Italy?

I had sentimental reasons – I had met an Italian guy on Tatra mountains.

Describe your life in Italy (your occupation, your everyday life, social life, etc.). Tell us something about the city you live in.

Today my life is like an Italian woman’s life: I get up every morning at 5.45 a.m. and I go to work. I spend most of my time working because I have three different occupations: I’m a midwife, a teacher and I also work in a counseling close to my town. I have been living with an Italian man for eight years and only recently banks  have granted us a loan to buy a house.

I like the place where I live, Rovetta, it’s in the mountains and I love its good air. Some people go there for hiking on Presolana mountain. There are also some historical places to visit, particularly in Clusone, the largest town near Rovetta.

Today you are a successful woman and your life is not different from an Italian woman’s life. Was it always like that? Have you experienced any difficulties to become who you are now?

When I came here my life was very different! I was a young woman and probably I wasn’t prepared for the reality I was going to meet.  I had a Czechoslovak diploma  and it wasn’t recognized here in Italy, but I was in love and I got married, so I started doing some different works: at first I found seasonal jobs in hotels, cleaning rooms and room service and then I was a waitress in a cafe and in an ice-cream parlour. I was well-integrated and I spent my time with Italians. I didn’t feel the need to look for other foreigners and meet them.

Nevertheless, at work the situation was different, because my employees often made me sexual proposals, because they believed in the stereotype that “Eastern girl = bitch”, and soon after I signed my employment contract, I  signed my letter of dismissals because I cound’t stand the situation and had to quit the job.

An episode pushed me to restart studying: at the town hall, I had been recorded as an illiterate because I had not studied in Italy. For a year I had attended some lessons at science high school in Breno (BS) as listener, paying particular attention to the subjects that would have been useful to be admitted into Health Professions University, where the choice was between becoming a midwife, a nurse or a physiotherapist. In 1999 I passed my admission text as the first out of 394 other candidates and three years later I was graduated as midwife with the top mark, 110/110 with praise. I started to work right after that, but in 2008 I decided to complete definitively my studies and got a Master Degree. My studies and my business success represent my redemption against racism and stereotypes!

How is living in Italy different than living in your country?

Actually Slovakia isn’t really different from Italy, as it’s a member of the European Community and yes, life is less expensive, but also salaries are lower. If I have to find some difference, in Slovakia corruption  is widespread  and you need recommendation for everything . In Italy, the harshest thing I had to get used to has been the lack of respect between people.

But both of them, Italy and Slovakia, are really different from the Czechoslovak Republic at the Socialist time. There, nobody was poor, work wasn’t a claim, it was a duty. The State protected his citizens. Of course, there were a lot of limitations to human freedom, as we were obliged to join the Communist Party, or it was impossible to go to church. Generally there wasn’t customization or individuality.

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

When I left Slovakia my biggest concern was the language, but actually the biggest challenge has been the culture, as the way of thinking and living. There are some habits in Italy that were difficult to overcome: lack of punctuality, approximation, selfishness and complaint just for the sake of it, without any will or attempt to change the situation.

I often wonder what I would be if I had studied in Slovakia; when I was a young girl, I would have liked to become a genetist; but now I have found my way here in Italy.

I don’t miss a lot of things of Slovakia. I’m really used to Italian life, but I miss my family very much.

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community?

I can’t really say that I perceive the European Community. The thing I’ve definitely noticed and that has really made a difference to me has been the entrance of Slovak Republic in the European Community, because now it’s easier for me to go from Italy to my family in Slovakia and return. But it’s obvious that in Europe there are some states which are considered differently than others, and also in some decisions I cannot see the existence of a community. I’m thinking about the decisions concerning help for the immigrants, quotas  on food production or sanitary system based on refunds. In this sense, Europe doesn’t work as a Community.

Italy, Slovakia, Europe: name three words for each of the previous.

ITALY:  esthetics, rudeness, good food

SLOVAKIA: waiting for the new generation, cordiality, education

EUROPE: class division of states

What would you say to someone to convince him to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

Moving abroad is always a resource – by travelling you can open your mind and discover a new world and new ways of thinking. But I think that everybody has his own attitude and has to decide where to go, where to live. Italy gave me a lot of things and experience, but it’s not an easy place where to live in, as there is a lot of racism here. That’s why I’m not sure whether I can convince someone to come here.

Pau Boys, la scalata verso il successo.

Tutto ha inizio nel 2014: due semplici ragazzi, Andrea e Francesco, fan sfegatati di Laura Pausini, decidono di mettersi al servizio di un’associazione chiamata White Mathilda che opera contro la violenza di genere. Si fanno chiamare Pau Boys dove Pau sta ad indicare la loro ammirazione per la cantante. Il loro scopo è quello di aprire una casa di prima accoglienza dedicata alla Pausini per donne vittime di abusi e violenze.

Il modo in cui operano per raccogliere i fondi necessari alla realizzazione del progetto è veramente interessante: << io e Francesco inseguiamo i personaggi famosi in macchina dopo i concerti o gli eventi importanti, cantando a squarciagola le loro canzoni quando si tratta di cantanti. Una volta fermi chiediamo alla persona interessata se può lasciarci un oggetto personale che poi noi rivendiamo all’asta, filmando tutta la scena con una videocamera>>, mi racconta Andrea durante una chiacchierata al telefono.FOTO1

La prima ‘’vittima’’ è stata proprio la stessa Pausini che si è trovata subito disponibile a collaborare con i due ragazzi. Il tutto, poi, si è esteso a molte altre star come Alessia Marcuzzi, Marco Carta e perfino lo stesso Jovanotti solo per citare alcuni nomi. Con questo metodo i Pau Boys hanno già raccolto un buon numero di oggetti che sono stati appositamente venduti con successo. Attualmente è all’asta una pochette di Prada di Sabrina Ferilli che sta solo aspettando il miglior offerente.

FOTO2Le difficoltà, tuttavia, non mancano: le lunghe ore di attesa ad aspettare la celebrità di turno, ma anche il rifiuto della stessa a voler donare un proprio oggetto dopo che magari si è faticato per poterla incontrare, sono solo alcune che i due ragazzi devono affrontare. E’ vero anche che in pochi potrebbero fare quello che fanno loro, e per beneficenza per giunta. Dietro a tutto questo, però, i Pau Boys vogliono fare divertire sia il personaggio famoso di turno sia l’utente che guarda i video degli incontri sulla loro pagina Facebook.

FOTO3Certo, è vero che la scelta di collaborare con l’associazione White Mathilda non è casuale: << l’associazione White Mathilda si occupa della violenza di genere, rivolta non solo alle donne, quindi, ma anche verso uomini, bambini ed anziani. L’abbiamo conosciuta attraverso un’amica e ci siamo subito interessati>>, mi spiega sempre Andrea. C’è da dire anche che con White Matilda << hai il numero di cellulare del presidente dell’associazione che è in contatto direttamente con le forze dell’ordine e in caso di necessità ti fissa subito appuntamento, anche alle tre di notte>>, mi dice Andrea, << dopo la consulenza ad uno degli sportelli, però, non è possibile tornare a casa, dove magari il tuo compagno o la tua compagna ti maltratta, di conseguenza qui inizia la nostra ‘’missione’’ ovvero l’apertura di una casa dell’accoglienza che possa ospitare le innumerevoli vittime di abusi e violenze>>.

L’obbiettivo è ambizioso, ma sicuramente non impossibile: ora sapete chi sono i Paul Boys e cosa fanno, quindi cosa aspettate? Sbrigatevi e andate ad acquistare uno degli oggetti messi all’asta!

[VIDEO] https://www.youtube.com/watch?list=UU9nztHeV7NUzzKAKLHsRLGw&v=3uuCjOW_Pb4

Giornata contro lo stereotipo: Orlando per l’identità di genere

Nonostante siano passati esattamente 25 anni da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità riunita a Ginevra depennò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali, ancora una settantina sono i Paesi nei quali l’unione consensuale tra persone dello stesso sesso è considerata reato, 5 quelli in cui viene punita con la morte. Tuttavia anche dove la legge non comporta sanzioni per le coppie omosessuali queste sono spesso vittime di violenze e aggressioni, fisiche e verbali, nonché di esclusioni e svalutazioni basate sul pregiudizio.

Proprio per creare campagne di sensibilizzazione, rivolte soprattutto alle scuole e alle famiglie (luoghi in cui si verificano la maggior parte dei casi di omofobia), il 17 maggio si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, promossa nel 2007 dall’Unione Europea.

Ed è proprio in questo ambito che noi di Pequod ci siamo diretti verso il bergamasco per fare quattro chiacchiere con Mauro Danesi, promotore e tra gli organizzatori del progetto “ORLANDO identità, relazioni e possibilità”, in occasione della sua seconda edizione, promosso da Laboratorio 80: «Da tempo con Lab 80 e Laboratorio 80 si pensava a creare una rassegna culturale sulle identità di genere e gli orientamenti sessuali, uno spazio che toccasse in modo efficace questi temi spesso scomodi perché complessi e lo facesse tramite prodotti artistici di qualità.»

Il foyer è uno dei momenti più importanti, poiché motivo di incontro e di scambio.
Il foyer è uno dei momenti più importanti, poiché motivo di incontro e di scambio.

Quelli dal 13 al 17 maggio sono stati infatti giorni densi di iniziative che hanno coinvolto la città di Bergamo non solo in incontri di dibattito, ma anche e soprattutto in un’esperienza artistica a tutto tondo, perché,  come dice Mauro, se bisogna lavorare per una cultura pluralizzata e aperta al diverso, quale strumento poteva essere più adeguato dell’arte con i suoi plurali linguaggi? Il cinema, la danza, il teatro e la musica si sono dunque alternati sui palchi di “Orlando” con l’intenzione di mostrare le storie dal loro interno, «in questo modo speriamo di riuscire a contrastare i tabù e gli stereotipi, lavorare per una cultura delle differenze e ampliare gli orizzonti di comprensione.»

La locandina della prima edizione di Orlando, svoltatisi nel maggio del 2014.
La locandina della prima edizione di Orlando, svoltatisi nel maggio del 2014.

Ma per prima cosa mi sembra doveroso individuare l’origine del nome che dà il titolo all’intera iniziativa, Orlando. Non si tratta del famoso eroe carolingio a lungo cantato dai poeti medievali, bensì del omonimo personaggio protagonista del romanzo “Orlando”, scritto dall’autrice inglese Virginia Woolf nel 1928. Egli si trova a dover affrontare un viaggio attraverso i secoli, cambiamenti sociali, costumi ed etiche, fino a che un giorno, dopo un insolito sonno durato una settimana, svegliandosi, si scopre donna. «Orlando è un libro filosofico e affascinante dove la pluralità umana è descritta con leggerezza, gli stereotipi di genere e le abitudini sono smascherate con eleganza: dove si riflette sulle differenze e sulle trasformazioni con poesia e intelligenza, aprendo possibilità alla propria vita.»

Vi è stato dunque un evidente filo rosso negli incontri e negli spettacoli organizzati in questi giorni: un’apertura verso la complessità degli orientamenti sessuali e delle identità di genere, cercando nello stesso tempo di lavorare sulle radici dell’omofobia. Fare cultura per cercare di capire e di accettare l’altro senza paure né pregiudizi. “Ciò che si capisce non scandalizza” diceva Moravia rispondendo a Pasolini nel film “Comizi d’Amore”.

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«Non solo chi appartiene alla minoranza LGBT ( ampiamente presente nel tessuto sociale cittadino) ma soprattutto ORLANDO è diretto a chi a tale minoranza non appartiene: i discorsi sugli stereotipi di genere, sulle identità e sulle possibilità, le relazioni e gli affetti ci coinvolgono tutti e ampliare le libertà (senza minacciare le pre-esisistenti come spesso i più conservatori temono) è un processo di interesse collettivo.»

Infatti la risposta è stata soddisfacente già dal primo giorno che ha contato la presenza di più di 200 persone negli eventi serali, così come molto partecipata è stata la serata del venerdì organizzata con il Festival Danza Estate – spettacolo JOSEPH e film FIVE DANCES. Per il week end si aspetta il pienone come giusta conclusione dell’evento.

Villa De Vecchi: solo una leggenda nera?

Esiste un cimitero silenzioso lontano dove riposa lo spirito di quei luoghi aridi e desolati rovine di un passato abbandonato a se stesso. Posti dimenticati, impossibili da nascondere, ma che nessuno guarda più. Palazzi, ville, chiese ridotte a cumuli di cemento e polvere, luoghi segnati da un tempo cinico che li ha usati denudati e poi, non contento, riposti in un angolo buio e freddo a deperire lentamente. Una forza inestimabile si cela dietro a tutto questo: le intemperie, l’umidità, l’incuria sono riusciti a rendere questi luoghi magici, a conservarne paradossalmente tutta la bellezza.

La nostra passeggiata odierna profumerà di malinconia tra gli archi, le porte e il pianoforte erosi di Villa De Vecchi, in Valsassina: due piani traballanti eretti su un manto verde, edera intrecciata a farle da coperta e un recinto malmesso che cerca invano di proteggerla; il camino e il pianoforte resi ancora più eterei dalle infiltrazioni solari padroneggiano fieri, le tracce di vandalismo e satanismo, distribuite su tutta la superficie, l’hanno ribattezzata La Casa Rossa, ma c’è una storia che ha poco a che vedere con streghe e fantasmi: la tenuta, costruita dal Conte Felice De Vecchi a metà Ottocento, era famosa per la polenta taragna cucinata dai Negri – la famiglia che per oltre 100 anni si è presa cura della Villa – ogni volta che gli eredi del Conte arrivavano in villeggiatura. A tenerne vivo l’onore oggi è Giuseppe Negri (figlio dell’ultimo custode) che vive ancora nelle vicinanze e cerca di mettere in ordine i ricordi con l’aiuto delle sorelle.

In questo luogo il tempo sembra essersi fermato al momento giusto, lasciando in eredità un passato perfettamente fossilizzato. Per sempre.

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Essere artigianale è naturale in casa Elav

Oggi Pequod, sempre assetato di validi progetti, va alla scoperta di una dinamica (e dissetante) realtà: quella del Birrificio Indipendente ELAV.

In occasione delle visite guidate all’impianto, previste per tutte le domeniche del mese di maggio, Elav ha organizzato in Birrificio a Comun Nuovo una serie di degustazioni dei loro prodotti, sapientemente abbinati a gustose pietanze. Ma questo è solo uno degli numerosi eventi realizzati e proposti da Elav.

Il birrificio nasce ufficialmente nel novembre del 2010 a Comun Nuovo, in provincia di Bergamo e nei successivi cinque anni conosce un crescente sviluppo. Per usare dei numeri: se inizialmente si lavorava con un modesto impianto che produceva 300 litri, oggi se ne utilizza uno, sempre manuale, con una capienza di 2000 litri.

L’idea di una produzione indipendente è nata dopo anni di lavoro al Clock Tower di Treviglio, pub che già da tempo aveva scelto esclusivamente la birra artigianale, abbandonando quella industriale. «L’esigenza era quella di produrre qualcosa di nostro», spiega Antonio Terzi, uno dei due titolari di Elav.

La nascita non è stata occasionale, come non lo è stato il successo di due rinomate birre dell’azienda: la Grunge Ipa e la Progressive Barley Wine, pluripremiate in importanti concorsi internazionali. La produzione è completamente basata sull’uso di prodotti naturali, come le cinque diverse varietà di luppoli coltivate dalla Società Agricola Elav.

Oltre ai piccoli luppoli, nella Val d’Astino prendono vita altre coltivazioni – sempre e del tutto biologiche – necessarie alla produzione e alla sperimentazione di nuove birre, tra cui erbe aromatiche, more e lamponi, zucche, ecc… I terreni della Val d’Astino sono solo il primo progetto dell’Azienda Agricola Elav che ha l’ambizione piuttosto concreta di avvicinarsi sempre più alla terra bergamasca, offrendo materie prime a kilometro quasi zero per le proprie produzioni.

In quattro anni il birrificio è passato da una produzione di 30.000 litri a 300.000 litri, il che denota una fortissima crescita in un brevissimo arco tempo. Ora la vendita non è più rivolta solamente a pub specializzati, ma anche a un mercato di più ampio respiro.

Uno degli obbiettivi principali dell’azienda è proprio quello di proporre e diffondere un prodotto di qualità italiana anche all’estero senza dimenticarsi del proprio territorio, dove ha tutte le intenzioni di rimanere attiva.

L’enorme successo ha permesso al birrificio di affermarsi non solo nella città d’origine ma anche tra i giganti dell’artigianale in Italia. L’ingrediente fondamentale di tutte le birre marchio Elav resta comunque, oltre al grande impegno, uno solo: il lavoro manuale.

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Vivere Mosca d’estate (con una manciata di rubli in tasca)

Abbronzatevi con noi – questa è la scritta che capeggia a caratteri cubitali, in stile Hollywood, sulla spiaggia del Gorkij Park di Mosca. Sì, proprio così, una spiaggia su cui abbronzarsi nel cuore della capitale russa, che di certo non è nota per essere una rinomata meta balneare. Eppure, chi immagina i suoi abitanti col colbacco incorporato dodici mesi all’anno, o rintanati in casa con della vodka ad osservare dalla finestra la neve cadere generosa, si sbaglia parecchio. D’estate i termometri della capitale sfiorano talvolta i quaranta gradi, le strade si riempiono di fanciulle in abiti succinti e di chioschi dove acquistare gelati e bibite fresche.

Cosa fare dunque a Mosca d’estate? Il centro-città offre molti passatempi outdoor e soprattutto a costo zero. Il Gorkij Park, o Park Kul’tury, come lo chiamano i russi, è un enorme parco nel cuore della città, affacciato sul fiume. Oltre alla già citata spiaggia, potete trovare un divertente luna park, noleggiare dei pattini o fare un giro in cammello, e se siete fortunati assistere a concerti di band internazionali.

Gorkij Park.
Gorkij Park.

Di fronte all’ingresso principale del parco Gorkij si trova la galleria d’arte del ventesimo secolo Novaja Tret’jakovskaja: se nelle altre stagioni una visita è più che consigliata, d’estate l’alternativa migliore è fare una passeggiata nel parco che la circonda, il Parco degli Eroi Caduti. Qui troverete un ammasso di statue dei miti sovietici, come Stalin, alcune esposte, altre fatte a pezzi e accatastate.

Parco degli Eroi Caduti.
Parco degli Eroi Caduti.

Dopo questa curiosa esperienza, il consiglio è di proseguire lungo la Moscova per ammirare il maestoso lungofiume cittadino, dove incontrerete il Monumento a Pietro il Grande, una nave di metallo alta 98 metri, trionfo del kitsch, su cui svetta il noto zar. Lì vicino, su un’isola del fiume, si trova Krasnyj Oktjabr’ (Ottobre rosso), ex-fabbrica di cioccolato sovietica, che oggi ospita loft e locali alla moda.

La fabbrica “Ottobre Rosso” e la nave-monumento a Pietro Il Grande, sulla destra.
La fabbrica “Ottobre Rosso” e la nave-monumento a Pietro Il Grande, sulla destra.

A collegare l’isola ad una delle sponde del fiume c’è un suggestivo ponte pedonale, che arriva dritto di fronte alla Cattedrale di Cristo Salvatore, bianca e oro, famosa anche per l’incursione delle Pussy Riot nel 2012. Dal ponte si gode anche di viste mozzafiato sulle mura del Cremlino, che svettano in lontananza con le loro stelle rosse.

Cattedrale di Cristo Salvatore.
Cattedrale di Cristo Salvatore.

Parlando di vedute spettacolari, non si può dimenticare il punto panoramico moscovita per eccellenza: la terrazza di Vorobevye Gory, le Colline dei Passeri. Situata in cima ad una collina, di fronte alla maestosa Università di Mosca (MGU), permette di vedere gran parte della città, compresa la City, la zona dei grattacieli.

Università di Mosca, alle spalle della terrazza di Vorobevye Gory.
Università di Mosca, alle spalle della terrazza di Vorobevye Gory.

La sera Mosca offre intrattenimenti di tutti i tipi e per tutte le tasche: teatri, ristoranti di alta classe, locali e discoteche popolati dai figli degli oligarchi… Per chi ha pochi soldi in tasca e vuole godersi la città come un vero giovane moscovita, l’alternativa migliore è andare a Chistye Prudy, un parco sviluppato attorno ad un grande stagno, dove di sera si riuniscono giovani con la chitarra e qualche birra. Cosa c’è di meglio che gustarsi un tramonto moscovita sulle note di qualche canzone pop degli anni Novanta?

Chistye Prudy.
Chistye Prudy.

Mirliton: che kazoo suoni?

Il mirliton è uno strumento riconducibile alla categoria dei membranofoni (come i tamburi) in quanto è caratterizzato da una membrana vibrante, necessaria per la produzione del suono. Un effetto simile si può facilmente ottenere con un pettine e della carta ripiegata su di esso: basta appoggiare le labbra sul pettine ricoperto dalla carta e cantare (o semplicemente mormorare) contro di esso. Si otterrà un suono ronzante, tipico di questo strumento, grazie alla vibrazione della carta.

Un esemplare primordiale di questo strumento è il cosiddetto corno nigeriano: un semplice corno di bue che veniva usato per modificare il suono della voce umana; la membrana di questo mirliton è ricavata dalla sostanza che i ragni producono per proteggere le uova. È uno strumento molto povero e molto diffuso nell’Africa occidentale dove, da secoli, è protagonista durante i rituali tribali.

In Europa questi strumenti sono stati sempre legati al mondo dei giochi dell’infanzia e intorno al XVII e XVIII secolo andavano molto i flauti da eunuchi, conosciuti anche come onion flutes (flauti a cipolla). In questo caso la membrana vibrante era protetta da una capsula smontabile che copriva l’estremità superiore dello strumento; parlando o cantando nei fori della capsula veniva prodotto il suono.  Il trattatista Marin Marsenne (teologo, filosofo, matematico) ci ha lasciato un bellissimo e dettagliato disegno dello strumento con tanto di descrizione accurata, in cui afferma che le vibrazioni della membrana, oltre a riflettere il suono della voce, ne miglioravano la qualità del suono. Era lo strumento che riproduceva più da vicino il suono della voce umana.

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Il più famoso strumento di questa famiglia è probabilmente il kazoo: un semplice mirliton giocattolo che si suona cantando o parlando nel foro che sta all’estremità del tubo; la membrana è situata a metà del tubo stesso, sopra un foro laterale. Con la deportazione di schiavi africani negli Stati Uniti, arrivò anche il suddetto corno nigeriano e la povertà stessa di questo strumento ha permesso la sua capillare diffusione e la sua adozione in quei generi di musica “povera”: nei primi anni del Novecento era molto usato nel sud degli Stati Uniti dove spesso accompagnava i cantanti blues, fino ad arrivare ai primordi del jazz e in particolare nel dixieland (negli anni ’30 arrivarono a formarsi delle vere e proprie bande di kazoo).

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Sempre nello stesso periodo e sempre negli Stati Uniti, appare come novità lo zobo: da fuori può sembrare uno strumento convenzionale che prende le sembianze di pseudo trombe o pseudo cornette, ma che in realtà è sempre un mirliton camuffato da strumento “vero”. Addirittura, in questo caso, venivano studiate delle membrane vibranti speciali che riproducessero, nel modo più fedele possibile, il suono dello strumento raffigurato.

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Oggi, il kazoo è lo strumento più diffuso di questa famiglia e viene solitamente usato nella musica pop, folk e nelle colonne sonore di film o cartoni animati.

 

 

Eva, a sweet girl half Spanish and half German

Hello EVA! Could you introduce yourself to Pequod’s readers?

Buenos días! My name is Eva I am a 24 years old girl who does not know how ended up in Tilburg. Sometimes when I’m walking along the streets it seems surreal living here.  I am totally into sports, I used to practice karate and now that I have moved to Tilburg I go to the University gym very often. I am always looking for justice and a new way to broaden my horizons which is the main reason why I am keen to become a good journalist.

Eva during the Camino de Santiago
Eva during the Camino de Santiago

Why did you choose the Netherlands?

I did not choose them but the MA program chose me.

Tell us about your life in the Netherlands…

My life in the Netherlands is mostly influenced by the international students around me. In the everyday life I try to adapt to the Dutch lifestyle, I interact with international students and I talk to my Spanish dad, my German family and friends. My social life is related mainly to my housemates, who are 7 girls from Italy, Spain, Albania, Czech Republic and Germany, we are sharing feelings and gossiping about relationships and our life experiences here. It surprises me the fact that I get on so well with girls because generally I do prefer to stay with boys.

Eva with her lovely housemates
Eva with her lovely housemates

How is living in the Netherlands different than living in your country?

LUNCH ! Here in the Netherlands it’s very common to have a toast or yoghurt for lunch but I am used to have more varieties when it comes to food! I need a proper meal, for example some proper vegetables or a delicious main course. Another difference here is that some people like to dress clothes with strange colours like light blue, green, yellow and orange – I have to say I like it and I respect their brave choices even though sometimes they’re not perfectly in shape!

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?          

Adapting to the lifestyle is itself a big challenge – having supermarkets closed at 7 pm, finding out how to register for a doctor, getting registered in the Town Hall, even having a mobile phone contract requires some effort, but everyone here speaks English, and this makes it easier. In addition, once I had to ask police for help and it was not easy because I had to set an appointment with the National Police and then get an appointment with the local police, they were very kind but I had to pass through far too many steps to get some assistance.

Yes, I have one regret, I could have gone to Cadiz on Erasmus for one year and I did not , especially during winter time when it was rainy and cold I blamed myself for not having chosen the sun and beach. I miss calling my friends in Germany at any time I would like to, I mean, there are several ways to stay in contact, like skype, but it requires to set a specific appointment with your friend.

Eva with international students during the beer cantus in the Top week
Eva with international students during the beer cantus in the Top week

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community? Do you feel part of it? Do you feel European?

For me Europe means to have the freedom to travel and work with all these wonderful neighbours. I totally perceive Europe as community, I know that there are some obstacles at the moment, such as the current crisis which seems to damage the community, but I still believe in its existence. Yes, I totally feel part of the European Union and I consider myself as a European citizen because of my heritage and the other experiences I gathered in this community called Europe.

Apprezzare la politica girando l’Europa

Il giorno 4 Maggio, dopo l’approvazione da parte della Camera, in Italia è stato ufficialmente ratificato il decreto Italicum, la riforma della legge elettorale che mira a trasformare il nostro sistema voti in modo da garantire una più ampia maggioranza in Parlamento al partito che dovesse raggiungere il 40% dei consensi nelle elezioni che verranno in futuro. La legge, che entrerà in vigore dal primo luglio 2016, ha scontentato molti, sia all’interno dello stesso parlamento, sia tra i cittadini. D’altro canto, le scelte legislative e la politica italiana più in generale hanno deluso molti in questi ultimi anni, specialmente i più giovani.

Ma se si ama la politica, che alternative ci sono a questa delusione continua? Per Michele Bezzi, laureato in Turismo all’Università degli studi di Bergamo, la risposta è stata guardare alla politica estera. In particolare, Michele ha avuto modo di ammirare da vicino e comprendere meglio il sistema elettorale estone, come osservatore alle elezioni per conto dell’associazione Aegee in collaborazione con l’Ocse.(sito del progetto http://www.projects.aegee.org/eop/)

«Ho trovato questa open call tra i vari eventi e progetti di Aegee. Mi è sempre piaciuta la politica, anche se quella degli ultimi anni in Italia mi ha molto deluso. Tuttavia, grazie ad Aegee si riesce ad espandere il proprio interesse a livello europeo e allo stesso tempo si conoscono meglio una cultura e un sistema elettorale a noi sconosciuti, come quelli dell’Estonia.»

Per poter partecipare al progetto è necessaria una certificazione rilasciata dall’Ocse, che è possibile ottenere solo dopo aver superato un test sul sito dell’Odihr (Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti Umani), test che valuta le conoscenze relative al ruolo di osservatore dei candidati.
L’associazione Aegee organizza, nei quattro giorni che precedono le elezioni, degli incontri mirati, briefing volti a spiegare a tutti gli osservatori come si svolgeranno le giornate di elezioni e quali saranno i loro compiti specifici come osservatori. In questi quattro giorni di preparazione, ci sono numerosi incontri e conferenze, durante le quali gli osservatori si relazionano con il comitato elettorale, con associazioni a-politiche ed a-partitiche che spiegano loro il funzionamento del sistema politico estone, ed anche con alcuni rappresentanti dello stato, i quali, oltre ad accogliere in maniera formale gli osservatori, pongono ancora una volta attenzione sulle modalità del sistema politico ed elettorale estone.
Grande importanza viene data al sistema di voto online e via telefono. L’Estonia è, infatti, il primo paese al mondo che utilizza con successo queste modalità di voto.
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Nel ruolo di osservatore, Michele ha avuto, in particolare, il compito di controllare il processo di apertura del seggio, il processo di votazione con la chiusura dei sigilli e la trascrizione di ogni annotazione relativa ai votanti, e il processo di chiusura del seggio, con conteggio delle schede elettorali e trasporto delle stesse schede alla sede centrale per il conteggio finale.
Ovviamente il tutto non senza qualche difficoltà: «Questo lavoro è completamente differente da quello dello scrutatore in Italia, ad esempio. Sono molti di più i seggi da controllare in qualità di singolo osservatore, bisogna fare moltissima attenzione, il processo deve essere chiaro e limpido, e dobbiamo seguire alla lettera le direttive dateci dall’Ocse.»

Le difficoltà sorgono, oltre che dalla grande responsabilità alla quale si è sottoposti, anche dalle difficoltà linguistiche, proprie e della popolazione locale, oltre che dai tecnicismi del voto online.
Sempre Michele ci racconta:«Il seggio in cui operavo si trova a 70km dalla capitale, ero in un paesino di 800 persone, e nessuna di loro parlava inglese, o comunque avevano difficoltà a comprenderlo velocemente. È stato difficile spiegare loro chi fossimo, cosa stessimo facendo lì e quale fosse il nostro compito. Fortunatamente, non abbiamo avuto troppi problemi con il voto online e via telefono; essendo dislocati in piccoli seggi, ne abbiamo ricevuti solo due su due seggi e non c’è stato bisogno dell’intervento dei tecnici informatici qualora qualcosa fosse andato storto!»

Una grande mano agli osservatori è stata data senza dubbio dall’antenna locale di Aegee, la quale ha organizzato diverse serate in compagnia per permettere loro di conoscersi meglio e far crescere il legame interno al gruppo, insieme a visite guidate extra progetto, importanti per far conoscere meglio agli osservatori la cultura e i costumi del popolo estone.
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Per Michele questa è stata senza dubbio una bellissima esperienza, da lui stesso consigliata poiché da molte opportunità di crescita per chi vuole seguire una carriera diplomatica o, comunque, a proposito di questioni politiche europee. Inoltre, è un’esperienza molto utile anche per chi vuole semplicemente conoscere meglio gli usi e i costumi di un altro stato europeo, di un’altra cultura, insieme ai suoi meccanismi politici. L’Estonia, infatti, per gli standard europei è un paese molto avanzato sotto questo ultimo aspetto, nonostante a livello sociale ci siano gravi problemi di attrito tra la popolazione estone e quella di origine russa: sono molti i casi di città in cui non vi è dialogo tra le due componenti della società. Tuttavia ci sono anche delle eccezioni, come la città di Paldiski, dove la convivenza è ottima.

Può essere questa anche un’esperienza fondamentale per riavvicinarsi alla politica: avere a che fare con un sistema elettorale così limpido e trasparente, avere la possibilità di incontrare le istituzioni e i corpi più importanti del gioco politico, confrontarsi con queste ultimi e con associazioni a-politiche il cui scopo è quello di mettere in guardia gli elettori dalle false promesse dei candidati alle elezioni, tutto ciò può riportare, soprattutto nei giovani, la speranza e la voglia di credere ancora nella politica e nel suo ruolo all’interno della nostra società.

L’antica via del marmo: Dalla Svizzera a Milano

Si è a lungo discusso di quanto l’EXPO di Milano 2015 possa effettivamente apportare dei sostanziali benefici al turismo e all’economia del nostro paese. Certo le risposte non si possono avere adesso, a solo pochi giorni dall’apertura del sito espositivo, ma quello di cui vorrei parlarvi in questa sede è un progetto che potrebbe incidere positivamente non solo nell’ambito dell’Esposizione internazionale, ma anche per il futuro turistico della zona che collega Milano al bacino del lago Maggiore.

Fu nel 2008, proprio in vista dell’Esposizione, che l’associazione Locarno-Venezia si accordò con l’allora sindaco della città di Milano, Letizia Moratti, per la riabilitazione dell’idrovia che secoli fa permetteva al marmo delle cave di Baveno e dell’Ossola, sulla sponda piemontese del lago Maggiore, di raggiungere la “Fabbrica del Duomo” del capoluogo Lombardo.

Dalla cittadina svizzera di Locarno il percorso scende dal Lago Maggiore fino ad Arona e Sesto Calende, per poi proseguire sul fiume Ticino fino alle dighe del Panperduto, in località di Somma Lombardo (nelle vicinanze dell’aeroporto della Malpensa). Dal cuore del parco del Ticino il percorso continua seguendo il Canale del Naviglio Grande fino alla Darsena di Milano e dal Canale Villoresi fino al sito dell’Expo.

I lavori di potenziamento ciclabile, pedonale e navigabile hanno reso il Parco del Ticino una meta piacevole per sportivi, turisti e famiglie in cerca di una rilassante giornata all’aria aperta.

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La collettiva d’illustrazione InkList: arti diverse collegate da macchie d’inchiostro

Le vie dell’arte, si sa, sono infinite, e quando la fanzine Popper ha raggiunto la fine del suo percorso Giulio Barresi e Caterina Ferrante, illustratori diplomati alla Scuola Internazionale di Comics, hanno deciso di prendere una strada diversa insieme, dando vita al progetto InkList.

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«InkList è un progetto che vuole riunire, far vedere, instaurare un dialogo con e fra numerosi talenti italiani dell’illustrazione.»

Si tratta di gruppi di illustrazioni in bianco e nero a tema comune, di cui poi Giulio e Caterina organizzano l’allestimento in varie città d’Italia. Durante l’esposizione viene data l’opportunità di osservare le illustrazioni stampate su carta e di fruirle al meglio grazie alla presenza di elementi legati ad esse, come per esempio le canzoni che le hanno ispirate, video e contenuti web a cui si può accedere tramite codici QR. In questo modo la mostra prende vita e acquista la terza dimensione, coinvolgendo il pubblico.

«Lo scopo ultimo è far comunicare e mettere in comunicazione talenti italiani, alcuni conosciuti in una nicchia o solo fra addetti ai lavori, altri alle prime armi. In ogni caso si tratta di persone estremamente valide, con una gran voglia di emergere e comunicare con illustrazioni, musiche, video.» Il progetto parte dall’immagine in quanto matrice della formazione dei due ideatori, ma InkList si propone anche di far conoscere fra loro talenti creativi e far interagire fra loro i vari mezzi espressivi.

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La costante del progetto è il ‘tutto italiano’, dalle tematiche ai partecipanti: «Questa costante, oltre a dare maggior collante ‘ideologico’ al risultato, indirizza e facilita gli autori nel decidere i soggetti su cui lavorare.» La scelta tecnica delle illustrazioni in scala di grigi o bianco e nero e di un formato standardizzato, che è nata inizialmente per ragioni pratiche di stampa, spiegano, è stata mantenuta perché visivamente aiuta ad agevolare la coesistenza di stili anche molto diversi fra di loro. Inoltre, è anche un fattore di riconoscimento, il marchio InkList. In genere sono Giulio e Caterina a contattare gli autori, quelli che li colpiscono maggiormente per talento e stile e che possano essere in sintonia con le tematiche. «Siamo comunque aperti a nuove proposte, ai dialoghi davanti a un caffè, ai concerti, alle mostre, alle collaborazioni. Sulla pagina Facebook di Inklist trovate tutti i nostri contatti.»

Il primo evento targato InkList è stato un progetto che “lega con macchie d’inchiostro giovani talenti dell’illustrazione italiana alla musica italiana”, che ha fatto tappa il 21 marzo 2015 a Napoli. Ventinove illustratori hanno proposto con un’immagine la loro interpretazione di altrettante canzoni italiane e, grazie a una sorta di Jukebox interattivo, il pubblico ha avuto la possibilità di ascoltare i brani a cui si sono ispirati gli artisti, intervenendo a piacimento. Precedentemente, quando era ancora attiva Popper, a una mostra organizzata Roma è stato abbinato il concerto di un gruppo locale, i TheGiornalisti.

«La nostra ambizione è che alla fine di ogni collettiva, oltre alla serie di illustrazioni, rimanga anche una playlist, una scaletta di canzoni da ascoltare e riascoltare, videoclip musicali e cinematografici da guardare e artisti a cui interessarsi.» Dal momento che molti artisti hanno un fanbase locale, l’idea di InkList di abbinare ai disegni altri mezzi espressivi è un ottimo mezzo per far conoscere i vari artisti fuori dal loro territorio.

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Attualmente InkList sta lavorando all’organizzazione della nuova collettiva, questa volta cercando di coinvolgere non solo illustratori ma anche fumettisti o designer, artisti con una formazione diversa ma ugualmente interessati all’immagine. «Questo tentativo di collegare fra di loro autori diversi e diverse declinazioni della creatività italiana in punti geografici diversi, dovrebbe, idealmente, concretizzarsi negli spostamenti fisici della collettiva, permettendoci di diffonderci (e diffondere) il più possibile. Inklist è ancora giovane ma è un’esperienza che vogliamo condividere e portare avanti».

Di dipinti meravigliosi, vento e case ubriache: un week end in Olanda

«Welcome to the absolutely flat nothing!» dice Daniëlle mostrandomi la campagna olandese sul treno che dall’aeroporto internazionale di Amsterdam-Schiphol ci porta a Lisse, il paese dove è nata e cresciuta. Lo dice sorridendo, con affetto. In effetti la campagna olandese lascia intuire molto della natura del paese stesso: un fazzoletto di terra strappato al mare, dove i campi verdi e i pascoli sono sempre attraversati da corsi d’acqua. Anche nelle città l’acqua è un elemento dominante: infatti quando non sono attraversate da canali e fiumi, come Amsterdam e Delft, sono costruite qualche metro sotto il livello del mare.

Lisse è una di queste ultime. È una cittadina piacevole, tipicamente nordica. Le case di mattoni si susseguono in una lunga serie di graziose porte d’ingresso e giardinetti curati. L’assenza di tende permette di rubare uno sguardo all’interno, dove tutto sembra accogliente e caldo.

A pochi chilometri dalla cittadina si trova il parco Keukenhof, uno dei più spettacolari giardini fioriti del mondo. Si tratta di 32 ettari di terreno boschivo, nato in origine come vetrina dei coltivatori di bulbi e ora motivo di orgoglio per la popolazione: è infatti una meta turistica molto gettonata durante la primavera. Per gli amanti dei sentieri poco battuti dal turismo classico, l’Olanda del sud offre una lunga serie di percorsi e strade immerse nella natura, fra cui le dune di sabbia lungo la costa fra Haarlem e Leiden. Conoscendo i sentieri che si snodano all’interno dei boschi e fra le colline, si possono percorrere svariati chilometri immersi nel verde, in compagnia di pecore, cervi, conigli e uccelli selvatici, arrivando fino alla spiaggia dove l’erba cresce sulla sabbia.

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Non distante, affacciata sul mare, L’Aia è una città dove lo stile architettonico classico e quello molto moderno coesistono, insieme al movimento dato dagli uffici governativi che vi risiedono; il palazzo del governo olandese è una vista imponente, così come i cortili interni, aperti al pubblico. Accanto alla camera dei deputati si trova il piccolo Mauritshuis, un museo che ospita un’eccellente collezione di maestri del diciassettesimo secolo, che comprende opere di  Rembrandt e Vermeer. Di particolare rilevanza sono i dipinti Lezione di anatomia del dottor Tulp del primo e il celebre Ragazza con il turbante del secondo artista. Per gli appassionati di Escher, L’Aia ospita anche un’esposizione permanente delle opere dell’artista, presso il Paleis Lange Voorhout.

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Prendendo il tram dal centro della città si può raggiungere la spiaggia, dove il lungomare costellato di locali permette una gradevole passeggiata. Molto interessanti le sculture ispirate alle favole disseminate lungo il percorso. Con un po’ di fantasia ci si può immaginare stesi nella sabbia a prendere il sole, ma il vento di inizio aprile non rende facile l’operazione. Meglio sedersi a mangiare un panino con aringa marinata o patatine fritte con cipolla e salsa di arachidi, in perfetto stile locale.

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Olga, from Siberia to Italy

Today Pequod talked with Olga, a graceful young student from Russia, who lives and studies Communication Science in Bergamo.

Olga, tell us something about you. Where do you live now? Which is your current occupation?

My name is Olga Vasilyeva, I’m 23 years old. I’m Russian, from Russian Federation (Novokuzneck). I currently live in Bergamo, I’m a student.

Olga
Olga

Why did you decide to leave your country?

I like travelling and new making new experience. I think that in this way people can really grow up. In my city I could not imagine my future life and carrier, that’s why I thought to change it all and I did it.

Why did you choose Italy? 

I was thinking about one of the leading European country and I was considering Germany and Italy. In Russia, Italy is renowned as a beautiful, friendly and happy country. I visited it in 2010 first and since then I have loved Bergamo and Italy in general.  

Describe your life in Italy (your occupation, your everyday life, social life, etc.). Tell us something about the city you live in and the top 5 places to be, where to go, what to do – be our tourist information center!

Well as I said, I am a student, I’m attending the third year of a bachelor course and I am about to write my dissertation here. I love my University (Università degli Studi di Bergamo). It gives me a lot in terms of knowledge, social life, and motivation to move forward and build my carrier. I met many nice, friendly, open-minded, brilliant people thanks to the UniBG, I went to Germany for my Erasmus and I consider doing my Master here. I actively participate in different seminars, conferences and cultural events (like TEDx, University seminars etc.) to widen up my horizons. My everyday life is closely connected to UniBG, but it is not everything, of course. I work part time in Milan as interpreter at different exhibitions.

Besides friends and colleagues from UniBG, I have some others from completely different fields. Sometimes I go out to some bars in the city.

I would say that my top 5 include: 1. Città alta – to walk and get some inspiration, to go jogging, 2. Bobino – perfect place for aperitivo, 3. Clash Club to throw a party without leaving the city, 4. Edonè is good for big and healthy hamburgers, 5. Aegee-Erasmus party to socialize + Bonus: valleys  (Val Seriana + Val Brembana) mountains, lakes near.

Olga's Italian life
Olga’s Italian life

How is living in Italy different than living in your country? 

Well the cultures are not that different but the environments are. Here I feel at ease. I have more chances to meet people from all over the world and to learn from them a lot.

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

Integrating is the biggest one I think, but I was lucky, I am quite well adaptive and communicative and I learned Italian fast. Bureaucracy can also be an obstacle, but when you want something obstacles become just a challenge you can overcome. No regrets, but of course I miss my parents and my close friends from Russia.

Olga's Russian life
Olga’s Russian life

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community? 

I have actually changed my mind a bit. At first, I thought about the EU as a whole, but after I have been here for a while (since 2012 more precisely), I realized that it is hard to unite such different countries and their interests. However, of course from the political and symbolical point of view it is a community (just with its small downsides).

Italy, your country and Europe. Use three words to describe each of the previous.

Warm, “a lot to fix”, “center”
What would you say to someone to convince them to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

As I mentioned earlier, travelling opens your mind, moving abroad teaches you to be independent, responsible and to live your own chosen life. To me it was enough.

Quale sarà l’eredità di EXPO?

Da pochissimi giorni si è alzato il sipario su EXPO Milano 2015; ci sono stati eventi, inaugurazioni, discorsi, inni, proteste e incidenti. I primi giorni di apertura hanno regalato sorrisi, ottime impressioni e previsioni scintillanti per il futuro della manifestazione. Va detto, però, che il futuro in questione non è esattamente a lungo termine: il 31 ottobre lo stesso sipario calerà, bisognerà tirare le somme, fare un bilancio di quello che è stata la manifestazione, stabilire se sia stata proficua per i visitatori e per il territorio che l’ha ospitata.

In altri termini si tratterà di stabilire se EXPO 2015 avrà generato un’eredità, una legacy. Due sono, in verità, le legacy che i grandi eventi lasciano: la prima è quella spirituale, fatta di ricordi, nuove consapevolezze, sensazioni ed esperienze condivise, che possono rendere l’evento stesso una boa nella storia. In questo senso, il tema dell’esposizione si presta assolutamente ad approfondimenti e riflessioni che la stesura della Carta di Milano rende e renderà fondamentali nella buona riuscita della grande fiera.

Di altra pasta è la seconda eredità: si tratta di tutto ciò che di materiale un grande evento lascia dietro a sé e in questo caso, l’analisi è più terra terra.

L’esperienza italiana dietro ai grandi(ssimi) eventi è, come noto, del tutto particolare, ma non sempre si è potuto concludere che l’aver portato il mondo in città sia stato dannoso. Negli ultimi 25 anni ci sono state diverse occasioni, sfruttate tutte in modo agrodolce: i mondiali di calcio del 1990 hanno dato vita a cementificazione sregolata e scriteriata, l’EXPO 1992 a Genova è stata un mezzo buco nell’acqua, almeno in termini di visite ed incassi (13 miliardi di Lire, contro i 45 previsti). A Torino, nel 2006, sono state organizzate le Olimpiadi invernali, il cui ritorno è stato invece vantaggioso per la città, che si è vista infrastrutturare strategicamente, andando anche a riqualificare punti focali del proprio tessuto. Certamente rimangono anche punti oscuri, come lo stato di abbandono di alcuni impianti – la pista di bob, skeleton e slittino di Cesana Pariol o il trampolino per il salto con gli sci di Pragelato.

Il problema della riconversione delle aree destinate a manifestazioni straordinarie, tuttavia, non è solo italiano e volendo stringere il focus solo sulle Esposizioni, ci sono diversi precedenti che ne illustrano la difficoltà: quello di Siviglia (EXPO ’92 – in coabitazione con Genova) e Hannover (EXPO 2000). In entrambi i casi le aree edificate si sono rivelate poco appetibili; tutt’oggi esistono padiglioni abbandonati che favoriscono il degrado anche delle aree circostanti. Ancora, sempre in entrambi i casi, è stato sovrastimato il numero dei visitatori, con il risultato di avere zone dedicate eccessivamente estese e troppo costose per l’economia della manifestazione.

Probabilmente non è questo il futuro che immaginava EXPO Siviglia '92
Probabilmente non è questo il futuro che immaginava EXPO Siviglia ’92

Discorso diverso per Lisbona, che ha avuto un’ottima legacy dalla sua EXPO (nel 1998), vedendo la zona fieristica integrata nel tessuto urbano, creando una propria centralità che ha permesso anche ai quartieri limitrofi di beneficiarne, in termini di qualificazione qualitativa ed economica.

E a Milano? Le notizie recenti creano un po’ di inquietudine, sia per quanto riguarda l’area intera che a proposito dei singoli padiglioni.

Il polo fieristico sorge su un terreno controllato da AREXPO, una società creata ad hoc per la gestione immobiliare. La stessa AREXPO ha creato un masterplan, che illustra come dovranno essere utilizzati gli spazi dopo il 31 ottobre, con l’intento di cedere gli stessi con un bando di gara, partendo dalla cifra di 315 milioni di Euro. Bando di gara che scadeva il 15 novembre scorso e che ha visto il seguente numero di partecipanti: nessuno. Il masterplan, che prevede la creazione di un grande parco, il riutilizzo di alcune strutture per scopi aderenti a quelli di Expo, il divieto all’edificazione di centri commerciali di dimensioni superiori a 2500 metri quadrati, resta comunque attivo come linea guida, anche se si sta pensando di dividere le alienazioni in diversi lotti. Ciò dovrebbe rendere più semplice la vendita e il recupero dell’investimento iniziale.LEGACY_fl

Per quanto riguarda i padiglioni la certezza è una: verranno smontati per fare in modo che non rimangano canne al vento. Solo il padiglione Italia resterà intatto, sebbene alcuni paesi (Israele, Kazakhstan ed Emirati Arabi Uniti) sembrano aver acconsentito a regalare le proprie strutture all’organizzazione per farne ciò che meglio crede – in teoria sarebbe un contributo alla creazione della famosa legacy di cui sopra.

Un discorso particolare lo merita anche l’Albero della Vita, l’opera che è stata designata come simbolo di questa nostra Expo: secondo alcuni sarebbe necessario conservarla, proprio a memoria di quello che è stato e come monito per quel che sarà e trapiantarla nel cuore della città. Dove? Proprio in mezzo a Piazzale Loreto, che, adeguatamente riqualificato anche dal punto di vista viabilistico, andrebbe ad ospitare un altro pezzo di storia del nostro paese. Non solo, si sostiene anche che metterlo lì vorrebbe anche dire ricucire, almeno parzialmente, la distanza fra il centro e la periferia, dato che il piazzale è il punto di congiunzione di molte vie che portano fuori città.

L'Albero della Vita nella sua ipotetica nuova casa
L’Albero della Vita nella sua ipotetica nuova casa

Ad oggi non è dato sapere come, veramente, EXPO Milano 2015, si farà ricordare da chi l’ha vissuta o da chi ne ha soltanto sentito parlare. Si può affermare che la città, per ora, ne abbia giovato? Sobbarcandosi spese e costi in termini sociali (leggasi proteste, dibattiti, scandali, disagi…traffico) è stato possibile migliorare alcune infrastrutture o crearne di nuove, più funzionali e sostenibili. Creare, costruire, in modo coscienzioso e lungimirante è la chiave per fare in modo che gli eventi restino nella memoria e ne creino, che la Babele di culture che c’è ad Expo non consista solo di insetti fritti e turisti asiatici, ma una legacy tangibile tanto nei cittadini quanto nella città.

In copertina, Expo Future Food District [ph. Cesco 82 CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]