Skip to main content

Mese: Giugno 2015

Arlynn, collecting memories around the world.

Arlynn is a Latin American Young girl, born in the United States and currently travelling and working around Europe. We had the opportunity to catch her in Italy a few days before her leaving for her new destination, Wales!

Hi Arlynn! Tell us something about yourself.

Arlynn; 19; Latin American; I am from everywhere I’ve ever been; Right now, I live with a friend and his family; My current occupation is living.

Why did you decide to leave your country? 

There’s a whole world out there!!!

Why did you choose Italy? 

Truthfully…….. I chose Italy because I enjoy wine, olive oil, bread, and cheese.

Describe your life in Italy. Tell us something about the city you live in.

My time spent in Italy was with a work exchange program. I worked on farms and in exchange for my labor, I was provided with meals and a roof over my head. I performed different tasks on these farms such as weeding, digging and, for the most part, different types of work in the garden. Aside from the labor, there was an enjoyable amount of socializing with the inhabitants of the area from sharing dinners together to simply being in each other’s company.

The city in which I live has, what I like to consider, an “outside mall” that stretches on for about 15km straight. On the opposite side of town, there is the beautiful view of the New York City Skyline. If you decide to go a further distance from this down to the riverside, there is a walkway that goes out a few meters over the Hudson River (which separates my town from NYC) for an even closer look.

Italy for Arlynn is nature.
Italy for Arlynn is nature.

How is living in Italy different than living in your country? 

Although I haven’t seen much of my country, I can truthfully say that all the parts that I have seen have not left such an impression on me as Italy has. In Italy it seems that there are many more people that ride bicycles, both in number and in variety of ages. In the USA, mopeds seem like such a rarity where you are likely to see one a day, extremely different from the amount you would see during 24 hours in Italy. Wine is much more common in Italy and for way better bargains! The olive oil in Italy, also, has a wonderful taste I have yet to encounter in the States.

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

I’d say the biggest challenge of encountering a new country is having the ability to communicate with the habitants. So far, I have no regrets! I miss my bicycle, my animal friends, and connections I share with some loved ones the most.

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community?

To me, Europe means unity. It can easily be perceived as a community.

Italy, your country and Europe. Use three words to describe each of the previous. 

Experience; diverse; unified

This is the USA for Arlynn.
This is the USA for Arlynn.

What would you say to someone to convince him to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

Hey you! You ask me why you should move abroad? To that I say, WHY NOT! Try new things! In doing so, you might also learn something new about yourself. And if not, well! You’ve gained some new stories to tell.

The best thing I’ve gotten from my experience abroad is… memories.

Russia sì o Russia no? Ce lo spiega Dugin.

Aleksandr Dugin torna in Italia, a Milano, ancora una volta per merito dei membri di Lombardia Russia, questa volta affiancanti dai giovani de L’intellettuale Dissidente – Circolo Proudhon. Un anno fa infatti, sempre questa associazione culturale affiliata alla Lega Nord (sito di Lombardia Russia) aveva invitato l’intellettuale russo a tenere una conferenza sui punti essenziali del suo pensiero politico-filosofico. Quest’anno tuttavia la partecipazione di Dugin è stata una sorpresa: nell’invito alla conferenza si annunciava semplicemente la presenza di un “intellettuale russo di rilievo internazionale”.

LR_Milano_22_Malempo

Rispetto allo scorso anno, l’incontro del 22 giugno 2015 ha avuto luogo in un contesto molto diverso da quello asettico ed ufficiale della sala conferenze dell’Hotel dei Cavalieri, nel cuore della capitale meneghina. Stavolta gli interessati si sono riuniti allo spazio Melampo, in una piccola sala affollata, dove prima di Dugin hanno fatto il loro intervento altri relatori, cominciando dal presidente di Lombardia Russia, il leghista Gianluca Savoini.

Segue Francesco Manta, coautore di Rinascita di un Impero. La Russia di Vladimir Putin, libro che ha dato il titolo all’incontro. Manta parla di strategie di soft power, in particolare della demonizzazione della Russia ad opera dei media occidentali, statunitensi e anglosassoni in primis, principali promotori di una visione del mondo unipolare. Al contrario, Putin starebbe conducendo una battaglia contro questo unipolarismo occidentale, con operazioni concrete come la creazione di Russia Today (sito RT) e il progetto Sputnik (pagina italiana di Sputnik).

A questo punto l’atmosfera in sala si è già piuttosto riscaldata: la gente annuisce in segno di approvazione e segue con estrema attenzione e coinvolgimento – molti dei presenti sono russi residenti in Italia. Russo è anche Evgeny Utkin, direttore di Partner N1 (pagina facebook). Utkin nomina il G7 ed esprime le sue perplessità circa la veemenza con cui Obama e Merkel ribadiscono la loro politica delle sanzioni contro la Russia. Del resto, la Germania è lo stato maggiormente colpito da queste ultime, con una perdita dell’1% del PIL (a seguire vi è l’Italia, con lo 0,9% di perdita). A suo dire, le decisioni del G7 e del Consiglio Europeo non corrisponderebbero alla volontà e alle posizioni degli europei – lo testimonia la partecipazione attiva e consistente al forum economico di San Pietroburgo, che al contrario delle aspettative non è stato affatto disertato. Anche l’intervento di Utkin è molto apprezzato dalla platea, che applaude con entusiasmo quando egli accenna al desiderio di molti italiani che vorrebbero che Putin diventasse anche il loro presidente.

Dopo Utkin è la volta di un altro coautore del libro sulla Russia di Putin, Alvise Pozzi, che parla dell’importanza del recupero dei valori e della tradizione, soprattutto religiosa, che costituisce uno dei punti fondamentali della politica putiniana.

Uno dei momenti più coinvolgenti è stato quello dell’antropologo Eliseo Bertolasi, corrispondente per Sputnik (ex Golos Rossii – “Voce della Russia”), che dal dicembre 2013 si è recato numerose volte in Ucraina, sia a Kiev che nel Donbass. I suoi racconti sono intrisi di immagini reali, di testimonianze di persone comuni che si riuniscono in piazza, o ancora di giovani, adulti, uomini e donne che si improvvisano soldati per difendere la propria casa, la propria città, la propria identità. Nei racconti confidati a Bertolasi dagli abitanti di Donetsk e Lugansk c’è molto dolore, troppo, tanto che, azzardando una previsione, sembra quasi impossibile che si possa tornare indietro, come se nulla fosse successo. Per quanto riguarda poi il suo giudizio sul ruolo della Russia nella vicenda ucraina, basato, come ci tiene a ribadire, su quanto ha potuto vedere con i propri occhi, egli esclude che l’esercito russo sia intervenuto in maniera sistematica nel paese: se così fosse stato, i combattimenti probabilmente sarebbero finiti in poco tempo, data la palese superiorità delle forze armate russe rispetto a quelle ucraine.

L'antropologo e corrispondente estero Eliseo Bertolasi durante l'incontro del 22 giugno.
L’antropologo e corrispondente estero Eliseo Bertolasi durante l’incontro del 22 giugno.

È quasi giunto il momento cruciale della serata, l’intervento di Aleksandr Dugin, che viene presentato da Alessio Mulas con una breve introduzione. Chi è Dugin? La rivista americana Foreign Affairs l’ha definito, in un celebre articolo (link), il “cervello di Putin”. Consapevole del fatto che Dugin non abbia bisogno di presentazioni, Mulas si limita a qualche accenno alla quarta teoria politica, descritta come un «ripensare al passato con uno sguardo sul futuro», e alla lotta di Dugin contro l’universalismo, che vuole ingiustamente «ridurre la musica ad una sola nota».

Prende così la parola Dugin, vestito di nero e con la consueta espressione austera, che comincia il suo intervento, rigorosamente in italiano, rammaricandosi del fatto che il suo libro sulla quarta teoria politica non sia stato ancora tradotto nella nostra lingua. Il suo discorso non è molto lungo, ma decisamente intenso, ed è incentrato sull’interpretazione duginiana del concetto di liberalismo, che egli definisce fin da subito come «il vero nemico dell’Europa e della Russia», riscuotendo la prima serie di applausi da un pubblico ormai in fibrillazione.

Aleksandr Dugin.
Aleksandr Dugin.

Il liberalismo vuole liberare l’individuo da tutte le forme dell’identità collettiva, da tutti i vincoli che lo uniscono agli altri, rendendolo finalmente libero. Dugin si chiede però se il risultato sia effettivamente il raggiungimento della libertà, o al contrario, una riduzione dell’individuo verso una condizione di schiavitù assoluta, di distruzione dell’individuo stesso. Dopo aver condannato le istituzioni religiose, rendendo il rapporto dell’uomo con Dio un fatto esclusivamente individuale, e dopo aver distrutto la nazione e l’appartenenza etnica e nazionale, il liberalismo starebbe impiegando la politica di gender con scopi puramente politici ed ideologici, per distruggere l’ultima categoria collettiva cui l’individuo può fare riferimento, l’identità sessuale. Di fronte a questo tipo di rappresentazione del mondo e del liberalismo, la Russia, secondo Dugin, costituisce un esempio di lotta conservativa a favore dell’identità collettiva, ponendosi contro l’Occidente, inteso come «suicidio dell’Occidente» guidato dagli Stati Uniti, non come l’Occidente storico e autentico, l’Europa, di cui la Russia stessa si sente parte. Per questo la lotta conservativa della Russia sarebbe anche la lotta a favore dell’Europa e della sua identità, ma anche una «lotta collettiva per la libertà spirituale e la dignità umana».

Dugin termina così il suo intervento, il pubblico è estasiato e in molti alzano la mano per fare una domanda. Quale sia il significato di tale entusiasmo è difficile da dire, tuttavia è possibile affermare che nonostante la demonizzazione ad opera dei media e dei leader occidentali, la popolarità della Russia continui a crescere senza freni.

In copertina, fotografia di Mahdieh Gaforian [CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

SELECT ELECT : LA UNDERGROUND MUSIC NON E’ ROBA PER TUTTI

Valerio Taiocchi ha 29 anni e ormai sono dieci anni che si muove fra Berlino e Londra. La sua storia, mi racconta con un italiano un po’ incerto, data l’abitudine a parlare quotidianamente quattro lingue diverse, è iniziata dopo il liceo, quando decise di spostarsi a Londra per studiare Event Marketing Management. La capitale inglese apre al giovane Valerio un universo musicale, un melting-pot di musica punk, jazz, house, elettronica che avrebbero tracciato la sua strada lavorativa per gli anni a venire.

«Tutto iniziò per gioco, – ci dice Valerio – con un evento che io e due miei amici, uno libanese e uno spagnolo organizzammo in un ambiente warehouse. Era il 2005, probabilmente, e in Commercial Road, Aldgate East, in uno scantinato sporco noleggiammo un sound system, ci procurammo un paio di giradischi e fatti alcuni flyer, quanti basta per invitare amici e amici di amici, abbiamo dato vita a una festa con 300 persone». A partire da questo primo evento nasce SELECT ELECT come organizzazione di party underground sotto tutti gli aspetti: le location sono molto ricercate, desuete, non conosciute da tutti; la musica è specificamente techno o house, rivolta esclusivamente a coloro che hanno una cultura musicale nel campo e possono apprezzarla; si può venire a conoscenza dei party solo attraverso una comunicazione specifica, ad esempio tramite newsletter.

Tutto ciò inquadra da subito questi eventi come realtà urbane al limite fra la legalità e l’illegalità, dove i filtri di accesso fanno sì che ci si rivolga a un pubblico ridotto, a una realtà non mainstream dato che «non tutti portano good vibes». Per tre anni Valerio e i suoi amici hanno continuato a promuovere questo tipo di eventi in maniera più continuativa e costante, ricercando spazi più o meno segreti per realizzare feste che, per quanto di successo esponenziale, comunque rimanevano interdette alla massa, non aperte a tutti.

fronte_nocrocini

Nel 2011 c’è una svolta importante: gli EVENTI SELECT ELECT diventano conosciuti nell’ambiente tanto che Valerio e i suoi amici hanno l’occasione di organizzare una festa in un basement in Hoxton Square nel quale si esibiscono i Catz n Dogz, all’epoca poco conosciuti. L’evento conta 550 partecipanti.

Era chiaro che non si poteva più parlare di organizzare festicciole, di passatempo o di semplice divertimento. Era chiaro che si doveva decidere che strada intraprendere. Valerio decise che quella di SELECT ELECT sarebbe stata la sua professione.

select elect 3

«Il passaggio a Berlino – racconta Valerio – fu fondamentale sotto diversi aspetti. La città tedesca corrispondeva alla Londra est di qualche anno prima: molti spazi liberi che potevano essere riutilizzati da artisti di tutti i tipi, una bassa pressione fiscale, e un panorama underground che, a differenza di quello londinese, altamente competitivo, non imponeva la selezione di dj – booking – impegnativa, ossia la proposta di artisti molto conosciuti». Nella capitale tedesca l’organizzazione sperimenta generi diversi, dalla techno berlinese alla minimal house e soprattutto si struttura e s’ingrandisce tanto da prendere parte all’organizzazione di eventi a Vienna, in Croazia e in Italia, a Torino.

Sono ormai due anni e mezzo che il team di Valerio è stanziato a Berlino. SELECT ELECT è attualmente composta da cinque persone che sono in grado di gestire ogni aspetto dell’organizzazione. Le prospettive sono ambiziose ma realistiche. Nell’ambiente underground sono così conosciuti che hanno una serata resident ogni due mesi presso un locale berlinese, senza rinunciare all’organizzazione di feste private. Valerio ci svela che entro la metà del prossimo anno l’organizzazione diventerà anche etichetta discografica portando agli orecchi di tutti quella cultura musicale a cui non tutti possono accedere; almeno non prima di averla conosciuta, studiata, amata. Come è giusto che sia.

Sri Lanka, un viaggio nella natura alla ricerca di se stessi

Quante volte abbiamo pensato di “cambiare aria” e dare una svolta alla nostra vita? Tante, sì, ma quanti di noi hanno avuto il coraggio di fare lo zaino e partire davvero? Luca, 28 anni, dopo un periodo buio e difficile, non ha più resistito al richiamo dell’avventura ed è partito per un luogo del quale conosceva poco o niente, lo Sri Lanka.

Il suo viaggio alla ricerca del senso della propria esistenza inizia per caso, mentre si trova in Sudafrica per lavoro. Anziché tornare in Italia, Luca decide di cambiare la destinazione del suo biglietto aereo, dirottando verso Colombo, capitale singalese. Dello Sri Lanka Luca ha in mente solo i racconti e gli aneddoti della zia Benedetta, che da tempo trascorre molti mesi all’anno in questo paradiso tropicale e lo conosce molto bene. È proprio Benedetta ad accoglierlo al suo arrivo e ad ospitarlo nella sua casa di Marawila, un piccolo villaggio costiero del nord.

Spiaggia di Marawila
Spiaggia di Marawila

Fin da subito lo Sri Lanka diventa per Luca sinonimo di natura incontaminata – è proprio in un luogo così selvaggio e rigoglioso che l’uomo può finalmente ristabilire un contatto con l’ambiente circostante, con la natura, di cui egli stesso è parte.

Piantagioni di thé

Sull’isola, all’ombra delle palme, le giornate scorrono lente, scandite dalle attività semplici e genuine degli abitanti, infondendo a Luca un piacevole senso di pace e tranquillità.

In questo contesto idilliaco, disturbato forse soltanto dalla considerevole quantità di insetti, numerose sono le località da scoprire. Irrinunciabile è senza dubbio un giro lungo la costa meridionale, da Galle a Kataragama, una visita alle città antiche di Sigiriya, Anuradhapura, Polonnaruwa e Dambulla, patrimoni UNESCO, e un tuffo nella verdissima zona delle piantagioni di tè, da Kandy a Nuwara Eliya.

Tempio buddhista
Tempio buddhista

Meno turistico ma senz’altro autentico è scoprire le chicche dell’artigianato locale, come la lavorazione del cocco, da cui si ottengono addirittura delle corde, la produzione di olio e peperoncino, la forgiatura di coltelli e lame da lavoro. Senza dimenticare i vari mercati, soprattutto quelli del pesce, vero cuore pulsante della vita singalese.

Ad aver colpito Luca in modo particolare poi è l’armonia in cui convivono le diverse religioni; non esistono separazioni nette fra Buddhismo, Induismo e Cristianesimo, e non è insolito trovare, ad esempio, il Buddha, Vishnu e la Madonna nello stesso tempietto votivo.

Tempio induista
Tempio induista

Recarsi in questi luoghi sacri è indubbiamente un’esperienza mistica, indipendentemente dalla fede professata: oltre alla ricchezza delle decorazioni dorate e alla vivacità dei colori, spesso i templi sono situati in parchi in cui si possono fare incontri insoliti – a Luca è capitato di conoscere un simpatico signore che viveva nella sua capanna assieme ad un cane e ad uno scoiattolo gigante dello Sri Lanka!

Luca e lo scoiattolo gigante dello Sri Lanka
Luca e lo scoiattolo gigante dello Sri Lanka

Dal racconto entusiasta di Luca, sembrerebbe che partire per un luogo sconosciuto e così diverso da ciò a cui si è abituati non sia affatto una cattiva idea… Un tuffo nelle meravigliose acque dell’Oceano Indiano potrebbe essere davvero un modo per dare una svolta in positivo alla propria vita.

 

In copertina: Beach Slum in Colombo [ph. Aidan Jones CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

The Insidious Series: squadra che vince non si cambia

Prendiamone atto: dell’horror spesso si abusa. I tempi dei grandi cult del brivido sono passati ed è raro che un film oggi riesca a porre le giuste premesse per smarcarsi dall’etichetta di genere di serie B. È raro, ma esistono delle fortunate eccezioni che gli appassionati dell’orrore non possono far altro che cercare, vagando da una pellicola all’altra.

 

 

In questo contesto troviamo la coppia di amici e cineasti australiani: James Wan e Leigh Wannell. I due iniziano a lavorare insieme nel 2004, dando vita al franchise cinematografico di Saw e da allora collaborano praticamente per ogni film. Wan è il regista, mentre Wannell compare in veste di sceneggiatore e, spesso, di attore.

 

È con questa formazione che, nel 2010, prende vita Insidious, una di quelle rarità, ricco di suspense e dal sapore retrò, che ricorda i classici dell’horror, in primis opere di Dario Argento.

Il film racconta la storia dei Lambert, una famiglia che diventa vittima di eventi inspiegabili, quando il figlio Dalton (Ty Simpkins) cade in un apparente coma. In realtà la mente di Dalton è intrappolata in una dimensione ultraterrena, l’Altrove. In loro soccorso arrivano Elise Rainier, la medium interpretata dalla bravissima Lin Shaye, e i suoi aiutanti, i nerd Specs (lo stesso Wannell) e Tucker (Angus Sampson).

 

Il film ha successo e permette a Wan di dare il via a una serie. Nel 2013 esce Oltre i confini del male: Insidious 2, che conferma Wan alla regia e Wannell alla sceneggiatura. Il secondo capitolo si apre dove si chiudeva il primo: ritroviamo la famiglia Lambert, Elise con Specs e Tucker e, ovviamente, l’Altrove con i suoi demoni.

 

 Il 3 giugno 2015 è uscito nelle sale il terzo capitolo, Insidious 3: L’inizio, con alcune differenze rispetto alle prime due pellicole. La prima riguarda la trama, il film è un prequel che, attraverso i problemi paranormali di Quinn Brenner (Stefanie Scott), ci racconta qualcosa in più sul passato della medium Elise Rainier. La seconda  differenza riguarda l’abbandono di Wan alla regia, che torna solo come produttore. A sostituirlo c’è Leigh Wannell, alla sua prima prova dietro la macchina da presa. E questa sostituzione, purtroppo, si fa sentire eccome.

Wannell prova a ricostruire le ombre e le insidie create dall’amico, ma con risultati poco soddisfacenti. La prima ora scorre in maniera piuttosto piatta: Elise, il fulcro della storia, è il fantasma di se stessa, spaventata dalle sue capacità. Le scene prettamente horror risultano prevedibili e poco terrificanti, ben poche riescono a instillare ansia nello spettatore. La svolta arriva quando Elise torna in sé, riprendendo il suo ruolo di medium, e inizia a collaborare con Specs e Tucker, aiutando Quinn e famiglia. Ritroviamo l’Altrove, che funziona abbastanza bene, ma non ha lo stesso fascino macabro e le terribili figure simili a manichini (da sempre feticci del genere) dei primi due film.

In fondo, il segreto di un bravo regista horror è un po’ lo stesso di un bravo cuoco: non basta seguire passo passo la ricetta, per realizzare un buon piatto devi avere la mano. James Wan, come ha dimostrato anche con The Conjuring – L’evocazione (2013), riesce a trovare il giusto equilibrio, combinando gli attimi più crudi e spaventosi a quelli di suggestione pura, che accompagnano il pubblico anche dopo la fine del film.

Leigh Wannell è uno scrittore capace, ma, almeno per ora, gli manca quel quid che lo renda un regista di film di paura. Probabilmente la serie continuerà, ma speriamo che la prossima volta torni con l’accoppiata dei primi due capitoli.

 

I fumetti che hanno ispirato le serie tv: cosa leggere questa estate

Chi l’avrebbe mai detto tempo fa che oggi i fumetti sarebbero diventati una fonte di ispirazione per cinema e televisione? Non che prima non lo fossero, ma nell’ultimo decennio il cinema si è finalmente deciso ad attingere a piene mani da questo medium ed ha voluto portare le storie, i personaggi più avvincenti e il loro spirito sul grande schermo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la Marvel ha creato un popolare universo cinematografico per i suoi film e va talmente a gonfie vele che ha deciso di fondare una propria casa di produzione (I Marvel Studios), mentre la Dc, in ritardo vorrebbe fare altrettanto, ed in procinto di lanciare la sua linea di film in collaborazione con la Warner Bros.

Anche la tv ha trovato molto materiale interessante che era perfetto per il piccolo schermo, infatti l’ultimo anno ha visto un vero e proprio boom di serie tv tratte da fumetti: Arrow (arrivato alla terza stagione), Gotham, The Flash, Daredevil, Constantine e The Walking Dead (giunto addirittura alla quinta stagione), etc.

Non sono stati solo i film, ma anche le serie tv hanno fatto riavvicinare vecchi lettori ai fumetti e soprattutto ne hanno portano di nuovi e, dato che l’estate si avvicina, se avete seguito una di queste serie, potreste anche voi voler approfondire leggendo il fumetto a cui sono ispirate!

Ecco quindi i fumetti consigliati per sopportare meglio l’interminabile attesa tra l’ultima puntata e l’inizio delle nuove stagioni (ahimè, quasi tutte ad ottobre ed è molto lontano):

The Walking Dead, il fumetto che ha ispirato l’omonima serie tv non può mancare tra le vostre letture sotto l’ombrellone: a tratti più eccessivo e violento rispetto alla versione televisiva, ma non per questo meno avvincente e privo di colpi di scena! Le differenza ci sono, soprattutto a livello di trama dato che dopo il primo volume tv e carta stampata prendono strade diverse, ma alcuni elementi del fumetto sono ripresi e inseriti nello show televisivo (come per esempio la prigione, il governatore ed i cacciatori cannibali). Siete curiosi di sapere cosa vi attende per la sesta stagione di The Walking Dead? Potreste leggerete, se non temete spoiler THE WALKING DEAD VOL.16: UN MONDO PIÙ GRANDE, pubblicato da SeldaPress, così saprete prima degli altri chi sarà il nuovo antagonista di Rick da ottobre!

Anche voi avete apprezzato la storia e le atmosfere di Gotham? Non era facile ambientare un telefilm nel mondo di Batman… Senza Batman! In Gotham il protagonista è Jim Gordon (interpretato da Benjamin McKenzie che sembra nato per questa parte), il futuro commissario di polizia che sarà un alleato di Batman. Nella serie tv è appena arrivato al commissariato, quindi all’inizio della sua carriera, e si esplorano le origini dell’universo dell’uomo pipistrello: dalla morte dei genitori di Bruce Wayne, alla genesi di alcuni dei suoi terribili nemici. Avete anche voi voglia di scoprire di più sulle origini e sul mondo dell’eroe targato DC? Allora vi consiglio Batman: Anno Uno, capolavoro di Frank Miller e David Mazzucchelli, pubblicato in Italia da RW Edizioni, dove vengono narrati gli esordi del Cavaliere Oscuro e di Jim Gordon, il primo anno di attività per le strade di Gotham City per entrambi. Le differenze con la serie sono notevoli, ma se avrete buon occhio potrete trovare qualche personaggio che avete già visto in tv, che nel fumetto però sarà parecchio diverso! Se volete conoscere le origini di Batman, non potete non leggero!

The Flash è stata una rivelazione: ci si aspettava un teen-drama in salsa supereroistica, invece è venuto fuori un telefilm di tutto rispetto, con buoni attori (Tom Cavanagh su tutti) ed una trama davvero avvincente. Qualcosa di altrettanto coinvolgente lo potreste avere leggendo Flashpoint di RW Edizioni, una delle migliori storie di Flash (versione Barry Allen, lo stesso del telefilm) degli ultimi anni: un evento sconosciuto cambia l’universo di flash e lui si risveglia al dipartimento di polizia, senza poteri, in un mondo sull’orlo dell’apocalisse e… Con sua madre viva e vegeta! Questa miniserie ha cambiato l’universo fumettistico della DC, potrebbe essere la giusta lettura se una stagione di Flash ancora non vi è bastata.

Daredevil, uno dei supereroi più interessanti della Marvel, finalmente si è riscattato dopo la prima apparizione non all’altezza in un film del 2003. La nuova serie prodotta da Netflix ha alzato lo standard delle serie di supereroi, ma non solo, ha anche fatto apprezzare il personaggio ad un pubblico maturo che difficilmente si sarebbe avvicinato a questo genere. Cosa fare invece per avvicinarsi al fumetto e capire meglio il supereroe cieco di Hell’s Kitchen? Leggere Devil: L’Uomo Senza Paura di Frank Miller è fortemente consigliato, sia per la qualità della storia (d’altronde si parla di Frank Miller, un maestro del mondo dei fumetti), sia perché è l’opera più vicina alle atmosfere della serie tv.

Dopo tutto questo parlare di serie tv e fumetti, non vi è venuta un po’ di voglia di leggere qualcosa di diverso questa estate?

E se invece qualcuna di queste opere l’avevate già letta, quale consigliereste per avvicinare altri al mondo dei fumetti?

Buona lettura e portate pazienza fino ad ottobre!

GoCambio – A Guest speaking

Amy Woodward is 19 from Bracknell, near London. She studies Graphic Communication and Design at the University of Leeds. She decided to go to Spain, in a town near Seville, and she did it with GoCambio. She told us about her experience with this new way of travelling and exchanging knowledge.

How did you find out about GoCambio?  

I study at the University of Leeds and I have a scholarship therefore I have connections with Alumni (previous Leeds students).

The scholarship network informed me about an Alumni who had just set up a new exchange company and they wanted help and opinions from students through a questionnaire and a focus group about the concept of GoCambio and the website.

After the focus group we were asked whether we wanted to pilot (try out for the first time) GoCambio and then I chose a host and from there I started to plan my trip to Spain.

Can you describe the passages one has to do before setting off? Would you describe it as easy?

It is fairly easy, definitely if you’ve planned trips before. Even though I hadn’t before, I planned what I needed to sort out and I just arranged everything accordingly.

I started with contacting my host through Facebook and talked to her so we could get to know each other and make it clear what we both wanted out of the cambio.

We arranged when it was best to plan my flights and what the week would consist of.

Around Sevilla with Maria

 So, you were a Guest, which means that you were hosted for free and in exchange you had to help your host with learning and improving a language, your language. What did you do, precisely? Can you describe your day while on cambio?

 My host wanted to learn more English, but I was mainly there to talk with her 14 year old daughter to help her with English at school.

After getting ready, I was free to do whatever I pleased during the day. I usually explored the area – I went to markets, travelled to Seville, met up with old friends or spent the day with my host as we got on really well.

I would eat lunch with my host family and then spent time with María (my host’s daughter) as she had finished with school for the day.

I didn’t tutor her or teach her English in a formal way, we usually just talked in a relaxed environment such as in a bar, walking around town or with some of her friends.

A minimum of 2 hours of contact time is required for the cambio per day. Personally, I spent quite a lot of time with my host family as we bonded really well and I become “part of the family”, therefore it doesn’t feel like you are working at all.

 Did you like your host?

I loved her! We still talk over Facebook! She calls me her “English daughter”.

Would you say that you had time enough to enjoy the city and your trip? Is the cambio way demanding in any way or not?

I had plenty of time to do I wanted to. I planned in advance most of the days. You can choose what you want to do and usually you can arrange things with your host, for example the time of dinner to suit you better for your day out.

Is there a moment that you especially enjoyed and would like to share with us? Anything nice or particular that happened with your host?

 On one of the days, my host took me to Seville and we had a lovely day together in the city. I felt like a local and not a generic tourist at all – it was great to experience it from the native side of things. Despite her poor English, she really tried explaining things, which was great (with the help of a translator app) as she was like my own personal tour guide.

Around Sevilla with Manuela
Did this experience with GOCambio influence your idea of Europe and being European in any way? Was it significant in terms of belongin to a larger community?
Yes it has. Being from England, there seems to be a gap between us and mainland Europe. This experience feels like it has decreased that gap and made the opportunity to travelling around Europe (as well as the rest of the world) more accessible when you are on a smaller budget. In terms if belonging to a larger community, my host family played a big part in this as they made me feel at home and Manuela (my host) even called me her “English Daughter” and said that she would love to have me back. Therefore I feel very welcome as a result of building these bridged in Spain.

Oltre i confini delle mappe: Geopoliticalatlas

Pochi mesi fa, Henry Kissinger, uno dei più influenti, quotati, discussi, nonché esperienti (l’atto di nascita è datato 1923) analisti di politica americani ha lanciato un’invettiva contro chi tenderebbe a negare dignità allo studio della storia e della geografia, sostenendo che tali discipline sarebbero di fondamentale importanza nella creazione di coscienze nazionali e politiche nella mente di tutti i cittadini. In questi termini le affermazioni di Kissinger possono risultare un po’ stantie e altrettanto sicuramente, orde di studenti potrebbero maledirle, forti di ore passate sui libri non sempre in maniera redditizia e con una forte tensione al sonno.

C’è chi, però, condivide la necessità di un approfondimento in questi termini, al punto da provare a farne una vera e propria professione. Si tratta di un gruppo di ragazzi neolaureati presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere presso la sede di Brescia dell’Università Cattolica, che, nel settembre del 2014, hanno accolto l’appello del professor Goldkorn e “in forma completamente paritaria” hanno fondato geopoliticalatlas.org.

Davide Calzoni è uno dei fondatori di questo progetto e spiega: “l’idea di fondo prevedeva la creazione di un atlante geopolitico mondiale che potesse essere pubblicato su carta stampata, un giorno. Purtroppo, l’editoria sa essere crudele e quelle poche speranze che avevamo, sono presto venute meno, ma il progetto era ormai parzialmente in piedi e ci interessava troppo per lasciarlo cadere così”

Analisi geopolitica, quindi. Ma di cosa si tratta precisamente? “Fare analisi geopolitica significa fondamentalmente trovare quel nesso tra due o più aspetti, spesso staccati, che spieghi le cause o le conseguenze di un determinato contesto o di una situazione. In altre parole potremmo dire che si tratta di saper leggere tra le righe di due o più situazioni”syria_and_iraq_main_ethnic_and_religious_groups-300x188

La particolarità di questo progetto sta nella forma. Le analisi proposte sono presentate esclusivamente sotto forma di mappa tematica, senza alcun accompagnamento verbale. “La mappa ci permette di analizzare sia aspetti macro che microscopici. Sta nell’abilità (e nell’esperienza) dell’analista/cartografo riuscire a trovare le giuste soluzioni grafiche che permettano di rendere alla stessa maniera sia situazioni di grande che di piccola portata” spiega Davide. Il fattore dell’esperienza è fondamentale e infatti l’unica eccezione alla parità ed autonomia redazionale è concessa al professor Goldkorn, che avendo più esperienza, viene consultato per consigli e pareri; il suo è un ruolo da vero e proprio mentore.

Riprendendo l’introduzione, Davide si trova perfettamente d’accordo con il vecchio Henry: “Le conoscenze che un’analista si porta dietro sono fondamentali per saper andare al di là del semplice dato e intravedere connessioni non evidenti. Questo rappresenta un punto di forza dell’analista, ma è al contempo un suo grande cruccio.”Grexit_implications_on_european_countries-300x227

Ma come si fa, in soldoni, un’analisi geopolitica solo tramite mappe? “Il punto di partenza è sempre un tema, un’idea, una tesi che l’attualità geopolitica o un committente propone. Su quella, viene tracciata una sorta di scaletta che cerchi di comprendere gli aspetti (di diversa natura: geografica, politica, sociologica, demografica, religiosa, …) più rilevanti relativi ad una determinata situazione. Poi si passa alla ricerca dati: per un analista sapere come e dove andare a trovare dati affidabili su cui basare un analisi è fondamentale e si tratta di un aspetto che si affina con la pratica. Una volta raccolti tutti i dati ritenuti importanti relativi ad una situazione, bisogna stilare l’analisi vera e propria, partire cioè da una tesi, argomentarla e fornire delle conclusioni. Una volta fatta l’analisi, si passa alla creazione della mappa, che, come detto prima, deve sintetizzare quanto più possibile dati, elementi e concetti su un’immagine.” Chiediamo a Davide quale sia il discrimine per stabilire la bontà di una fonte e come ogni buon analista resta un po’ vago, custodendo il preziosissimo segreto: “saper distinguere una fonte affidabile da una non affidabile non è affatto semplice. In linea di massima, comunque, vengono considerati dati “buoni” quelli provenienti da database di organizzazioni internazionali e centri di ricerca riconosciuti internazionalmente per il loro lavoro. I report che questi scrivono sono il pane quotidiano per un analista e ci basiamo fondamentalmente su quelli. Altre buone fonti sono giornali internazionali che godano di una certa reputazione e che controllano le loro fonti”.the_quality_of_FDI_in_africa-300x198

Come moltissimi progetti editoriali, anche geopoliticalatlas.org, per ora, vive e si nutre della sola passione dei suoi creatori: “la passione è fondamentale. Soprattutto perché siamo consci che, almeno per gli inizi, questa attività non ci potrà dare sostentamento. Noi siamo convinti della bontà del nostro lavoro e che giornali, riviste, centri di ricerca e organizzazioni arrivino un giorno a comprendere quanto è importante sviluppare graficamente, oltre che al solo livello scritto, un’analisi di un fenomeno. La nostra speranza è che, una volta accumulata un’expertise sufficiente, potremo presentarci dai nostri committenti col peso adeguato per far valere il valore del nostro lavoro.” conclude Davide.

In copertina, fotografia di Edoardo Borgiani

Il parco più bello d’Italia

Il Parco Giardino Sigurtà è una meravigliosa oasi verde, di pace e benessere, situato a Valeggio sul Mincio in provincia di Verona.

Il parco trova la sua fondazione all’inizio del quindicesimo secolo, ospita le passeggiate di personalità di spicco del mondo della letteratura e della politica internazionale nei suoi anni più floridi.

Rimasto in disuso nei primi anni del novecento a causa di una serie di passaggi di proprietà, viene acquistato nel 1941 da Carlo Sigurtà, imprenditore farmaceutico milanese, aprendo il Parco definitivamente al pubblico nel 1978.

Nei 60 ettari di verde culminanti con la vista sul castello si trovano una moltitudine di fiori (un roseto da 30mila esemplari), piante e varietà di animali, tra cui capre, asini, daini, scoiattoli e diverse specie di uccelli.

Il Giardino è una bellezza unica nel suo genere, vi si trova anche un labirinto di 2500mq creato nel 2011 con un immenso valore botanico dovuto alla presenza di 1500 alberi di tasso, inoltre nel giardino vicino ad un piccolo lago con ninfee, sorge il “Cimitero dei cani”, dove riposano gli animali appartenuti alla famiglia Sigurtà.

A conferma di tale bellezze arrivano negli anni una serie di premi culminanti nel più importante, ovvero, il premio “Parco più bello d’Italia edizione 2013” istituito dal network PARCOPIUBELLO patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Ministero del Turismo.

[metaslider id=5944]

Black Puppet: l’innovazione video-producer tutta italiana che non ti aspetti

Siamo nel XXI secolo, la tecnologia avanza e sempre più impetuosa diventa virale; un’era all’avanguardia la nostra, orientata al futuro ma ancora succube di un passato imponente e aggressivo che disorienta e fa paura.

In questa realtà vacillante e precaria emerge il progetto Black Puppet, una casa di produzione video e service di figure professionali quali producer, operatori, montatori, autori e fotografi, nata dall’idea e dalla collaborazione di un gruppo di compagni universitari circa tre anni fa a Milano. Forti di una preparazione teorica incisiva e di una buona dose di tenacia, iniziano quella che poi diventerà loro carriera a tutti gli effetti con la produzione di cortometraggi, arrivando ad affermarsi nel mondo pubblicitario e della comunicazione.

FOTO 1

Una squadra organica e ben organizzata, ad oggi formata da quattro componenti: Luigi Vitiello, autore, sceneggiatore e montatore, un narratore forte della sua passione per ogni forma di racconto; Giuseppe Salerno meticoloso e tecnologico DOP, operatore e fotografo, occhio attento e perspicace del progetto; Martina Manoli, razionale e abile produttore esecutivo, ma anche amministrativa, manager e responsabile; Claudio Pastafiglia creativo regista, aiuto regista e operatore, coordinatore generale del set.

Una casa di produzione innovativa, tecnologica, più leggera che riesce, tramite tempistiche più veloci, a dimezzare le spese fisse ottenendo un risultato impeccabile.

Dalla breve intervista a Luigi Vitiello emerge una complicità unica, tangibile sul campo e vero caposaldo del gruppo, che li porta a collaborare anche ai progetti personali di ognuno e a manifestare la propria identità in progetti di terzi:  «In questo momento all’Istituto dei Ciechi a Milano c’è una mostra, Leonardo racconta il cenacolo, all’interno della quale è possibile ammirare in scala 1:1 la proiezione dell’ultima cena di Leonardo.

Ogni venti minuti il quadro viene sostituito da un breve documentario in cui un Leonardo moderno e accattivante ci spiega e commenta la sua opera. In questo caso la Black Puppet ha collaborato con il regista Maurizio Sangalli e con la sceneggiatrice Renata Avidano; Giuseppe si è occupato della ripresa mentre io (Luigi) ho fatto da aiuto regia e mi sono occupato del montaggio».

FOTO 3
Un inizio sperimentale quello di Black Puppet, diviso tra report, serate, spot, con una breve parentesi contest, passando per diversi documentari e arrivando a specializzarsi attualmente in spot web, brevi pubblicità virtuali dalla forte impronta virale veicolate dai più grandi social network.

La necessità e il desiderio di produrre in prima persona un’idea, un progetto, li porta ad aprire uno studio associato con partita IVA unica a gennaio 2015, grazie anche ai cambiamenti nella domanda di mercato in ambito comunicativo-pubblicitario, alla quale le case di produzione più affermate, abituate a fare prodotti televisivi con il vecchio assetto, non sono preparate.

FOTO 4
L’obiettivo più grande è l’affermazione nazionale e internazionale di Black Puppet, incrementando la produzione e il valore del lavoro svolto, con un piccolo grande sogno nel cassetto orientato al cinema.
Rimanere collegati è quindi d’obbligo.

Prenota e scappa: l’arte della partenza intelligente

Mare o montagna? Città d’arte? Quando l’estate si avvicina il pensiero fisso è senza dubbio trovare una meta per le vacanze. Se le destinazioni per un viaggio estivo sono infinite (..ma chi non ama il mare?), i modi per raggiungerla, ma non in senso letterale, sono al giorno d’oggi essenzialmente due: o un’agenzia viaggi o il grande internet. Ma diciamoci la verità, le agenzie viaggi sono perlopiù per coppiette in viaggio di nozze, tant’è che la maggior parte delle persone, soprattutto giovani, si affida al web per prenotare viaggi o vacanze, specialmente dalla diffusione delle compagnie aeree low cost. Esistono una vastità di siti dedicati, ma bisogna innanzitutto fare una premessa. Si deve distinguere tra una OTA (Online Travel Agency) come eDreams o Expedia e un metasearcher come Skyscanner o Kayak: con la prima l’utente acquista direttamente dall’OTA, la quale paga alla compagnia aerea o all’hotel o a entrambi, trattenendosi una commissione, mentre un metasearcher propone semplicemente una combinazione di voli, reindirizzando in seguito alle pagine web delle compagnie, che verseranno una commissione al metasearcher.

Screenshot sito eDreams_3

Osservando nello specifico cosa può essere più economico per i viaggiatori: «Prenotare su un OTA risulta più conveniente, con un risparmio per il consumatore di circa il 30% su voli e pacchetti» ci dice Angelo Ghigliano, country director eDreams Italia «In particolare per 3 fattori: il mix di prodotto, cioè il poter combinare voli di andata e di ritorno con differenti compagnie aeree di linea e low cost, la libertà di viaggiare e pianificare i propri voli in base alle proprie esigenze e i prezzi vantaggiosi, grazie ad accordi commerciali con alcune compagnie aeree».
Se sperate in un qualche trucchetto sicuro per fregare il sistema e prenotare voli e vacanze a meno di 1€ cascate male: qualche tempo fa uno studio sulla Ryanair rivelava che il momento migliore era prenotare con 8 settimane d’anticipo, ma una volta diffusa la notizia, la compagnia irlandese ridusse a 6 le settimane, cambiando le modalità e lasciando a bocca asciutta i furboni. Ma qualche accorgimento per cogliere il momento giusto si può ancora seguire: «Nei periodi normali prenotare 2 o 3 mesi prima può permettere all’utente di acquistare il biglietto al costo più basso, ma ogni sito ha le sue strategie tariffarie» continua Ghigliano «Prenotare durante i weekend e la notte aumenta la possibilità di trovare delle tariffe più economiche. La maggior parte delle ricerche e acquisti di voli e vacanze si effettuano durante la settimana, nell’orario di lavoro (quindi dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17). Queste ricerche fanno lievitare i prezzi, mentre nel fine settimana aumenta la possibilità di trovare tariffe accessibili. La maggior parte delle persone preferisce volare durante i weekend, per questo i voli infrasettimanali spesso costano meno. Se si parte il mercoledì o il martedì, ad esempio, si risparmia sempre».
Detto tutto ciò, se non sapete ancora dove andare in vacanza, eccovi dunque le mete favorite per l’estate 2015: in testa il sud Italia, con Catania, seguita da due capitali europee, Londra e Parigi; al quarto posto Palermo e poi Barcellona, volando dopo dall’altra parte dell’oceano fino a New York. In settima posizione Cagliari, poi Milano (..EXPO?), Roma e soltanto alla fine, per i nostalgici, Ibiza (non siamo più negli anni ’80..).

Buona estate!

Perché gli inni nazionali sembrano tutti uguali?

Avete mai ascoltato attentamente, durante le premiazioni di varie manifestazioni sportive, gli inni nazionali? Vi siete mai chiesti per quale motivo risultino essere un po’ tutti uguali e soprattutto suonati con gli stessi strumenti di derivazione sinfonica e bandistica occidentale? Gli inni nazionali rimangono un genere musicale snobbatissimo che rientra nel grande pentolone di quella che si considera world music.

In realtà si tratta di una questione molto seria e questo tipo di musica viene eseguito nei momenti di maggiore solennità, dedicato a mettere in scena l’essenza stessa di una nazione nei momenti di espressione pubblica dell’orgoglio patriottico, quindi ci aspetterebbe di sentire delle differenze musicali notevoli e rappresentative della tradizione  nazionale. Colpisce il fatto che le musiche degli inni nazionali sembrino incredibilmente tutte uguali. Per esempio, anche per quanto riguarda gli inni di composizione più recente, creati o adottati dalle nazioni africane e asiatiche post-coloniali, suonano paradossalmente simili a quelli che siamo abituati ad ascoltare da secoli.

C’è da ricordare che, nella storia degli inni nazionali, molti di questi brani sono nati durante crisi e momenti di grande subbuglio delle nazioni. Per quanto riguarda i motivi per cui spesso risultano essere molto simili tra loro, c’è da ricordare che molti dei “nuovi” inni nazionali si basano su pezzi preesistenti, anche quando servivano per fungere da composizioni transitorie al fine della creazione di un nuovo inno. Sicuramente e storicamente i modelli più inflazionati sono stati God Save the Queen (Inghilterra), La marseillaise (Francia) e il Kaiserhymne di Franz Joseph Haydn, che fu l’inno dell’impero Austro-Ungarico fino alla Prima guerra mondiale, e poi della Germania a partire dal 1922.

Inoltre, sebbene gli inni nazionali facciano parte di generi diversi, come gli inni (propriamente detti), marce, fanfare, in pratica sono eseguiti secondo le stesse modalità per produrre un alto grado di omogeneità, usando per esempio insiemi di ottoni al fine di dare rilievo alla solennità. E poi, diciamola tutta, gli inni suonano simili anche perché vengono suonati  sempre nelle stesse occasioni come le cerimonie di stato o inseriti in trasmissioni radiofoniche e televisive nazionali e internazionali. In generale testi e melodie sempre piuttosto noiosi non aiutano.

Rimane affascinante la storia di questo genere musicale che segue di pari passo quella del nazionalismo: si inerpica attraverso una serie di fasi, partendo nel XVIII secolo con l’Illuminismo, proseguendo con il Nazionalismo romantico del XIX secolo (soprattutto in Europa e in America Latina) e con l’espansione coloniale tra la fine dell’Ottocento e la Seconda guerra mondiale, giungendo alla fase post-coloniale che va dalla seconda metà del Novecento fino ad oggi. Tutte queste diverse fasi gli inni nazionali hanno assunto significati diversi, così come sono stati composti per esprimere idee di nazioni diverse: i primi inni, per esempio, erano riconducibili a melodie di canti folklorici, mentre nella fase intermedia erano orientati marcatamente verso generi di musica religiosa e militare; infine, nell’epoca post-coloniale gli inni mostravano una tendenza a incarnare la storia della nazione moderna.

Immaginate quanta complessità nel momento in cui si doveva scegliere un canto che desse voce all’intera nazione! Il procedimento che ci è più familiare è quello per cui la nazione decide di affidare la realizzazione di un canto rappresentativo ad un compositore o un letterato: il processo di valutazione e approvazione era di una complicatezza estrema e il problema è che sono state sempre seguite le ragioni ideologiche più che quelle musicali e che le proposte più interessanti musicalmente sono state spesso scartate per via della scorrettezza ideologica. Un esempio è il Va pensiero vs Inno di Mameli (al di là di tutte le recenti polemiche e similitudini), dimenticatevi di tutto e ascoltate soltanto.

 

Bamba, an «African lion» struggling in Italy

Today on Pequod, we’ll tell you something about Bamba Dieye, a Senegalese arrived 17 years ago in Italy. He lives and works in Carrara, Tuscany, but his heart beats only for Senegal, the land of Teranga. However, he totally agrees to share his ideals and thoughts with all of us.

Hello Bamba, could you introduce yourself to Pequod’s readers?

Hi, my name is Bamba Dieye, I’m 38 years old and I come from Senegal. I was born in Dakar. Then, in 1998, I moved to Italy. Since then, I live and work in Carrara, where I own my business and I am a beekeeper.

Why did you decide to leave your country?

I decided to leave Senegal mainly for a childhood dream: I was attracted from Europe, from the idea of Europe. I wanted to grab the opportunity to change my life. At first I moved to France, for family ties. My sisters lived there. But I didn’t like France, so, almost by accident, I moved to Italy. Italy was not a choice, but a fortuity.

What’s your life like in Italy?

As I said earlier, in Carrara I work as a beekeeper and I have my own company of import of organic products. I also work at the computer, on our website, and I go to meetings with the customers. Moreover, I spend much of my free time at the association Culture Migranti, which is one of the few realities for immigrants run by immigrants in Italy. We try to be helpful for those people who are facing difficult situations in a new country – situations that each of us has experienced in the past. However, I have a lot friends outside the workplace and the association, but in Carrara there is not much to do. The historic center has suffered a sharp decline: cultural heritage is neglected, there’s a strong pollution, which creates environmental problems and damages to marble, which is famous all over the world.

I wish my city was better, it could be better! But there’s no cinema, no theatre… The city is simply careless.

485367_504019779641281_770375260_n
Bamba working as a beekeeper.

How is living in Italy different than living in your country?

Unfortunately, I have no terms of comparison. In Senegal my life was not bad, I left for a youthful dream, not for need. I came to Italy, I created my own job, my profession. I like my life as it is.

Which is , for you, the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far?

The biggest challenge was definitely the language barrier: at the beginning, it was difficult to deal with the others, the reception system isn’t efficient. For immigrants there is no effective aid, they don’t make your life easy, nobody tells what to do and how to success in being integrated. Those arriving in Italy uninformed are excluded, almost ghettoized. There are so many difficulties.

My regret is to be away from my family, away from my loved ones and my affections. Perhaps, I regret the fact that I’ve not created this work and this life in my country, too.

Often it seems to me that in Italy merit is not taken into account. They don’t take regards to the efforts of people. I feel a gap between immigrants and the others, I have to run after my rights!

Italy, your country and Europe. What do they mean for you?

Senegal is the land of Teranga, which means hospitality. In its own history Senegal didn’t have war! It is a secular State, and there are not religious issues.

On the contrary, Italy is like “Toyland”. Young people are anesthetized, while old men and ladies suffer from something that might be defined “politics of fear”.

At last, in my opinion Europe is supposed to be a response to the American and Asian imperialism, but it fails to be like that.

3137344594_1_2_7DMnCqtM
Teranga means ‘hospitality’.

 

What would you say to someone to convince him to move abroad?

I would say to an African to leave his country to improve his life, to live well considering both the economic aspect and the social one. Also, to live to the fullest his family and his loved ones.

However, I do not recommend Italy. There’s no help for migrants. You can’t live well in a country if you don’t know the language and in Italy institutions are distant from the problems of migrants. They do not attempt in any way to facilitate your arrival in the country. Instead, I suggest Nordic countries. There the government and the institutions direct you to possibilities of a better life. They help you to try to achieve a comfortable life.

Instead, I say to young Italians to stay in their country, I tell them to fight for their country. Italians must give a strong response on the political level and on the social level. They must stick together for the love of their country!

God save the mob

Quattro tonnellate di ecstasy, per circa 15 milioni di pasticche e 150 Kg di cocaina, per un valore complessivo di 300 milioni di dollari. Era l’agosto del 2008 e, nel porto di Melbourne,si assisteva alla più importante operazione antidroga mai effettuata a livello mondiale contro i traffici della ‘ndrangheta nel mercato degli stupefacenti in Australia

E in questo stesso contesto, insieme alla droga, saltano fuori anche i primi scandali legati alle connessioni tra i clan calabresi e la politica locale. Tra gli arrestati, infatti, risulta anche Francesco Madafferi, ritenuto uno dei capi della più potente cosca di stanza in Australia. Lo stesso che qualche anno prima aveva beneficiato dell’annullamento del decreto di espulsione che pendeva a suo carico per i suoi precedenti criminali. Il decreto era stato emesso dal ministro dell’immigrazione Ruddok, ma successivamente annullato dal suo successore Amanda Vanstone. E qui arriviamo agli scandali: secondo le ricostruzioni effettuate dal quotidiano The Age di Melbourne, il partito liberale (nel quale militava la Vanstone) avrebbe ricevuto una donazione (pratica legale in Australia) di 100mila dollari da persone vicine a Madafferi, denaro necessario garantire l’annullamento del provvedimento.foto1-2

Ma questo non è l’unico caso in cui, anche in Australia, ‘ndrangheta e membri delle istituzioni sembrano andare a braccetto. C’è un’altra storia interessante da questo punto di vista che riguarda un altro Madafferi, Antonio, fratello del primo.
Conosciuto come capo influente delle famiglie di ‘ndrangheta a Melbourne e implicato in vicende legate al traffico di droga, Antonio Madafferi gestisce diversi negozi di frutta e verdura, nonché la catena di ristoranti “La porchetta”.

Proprio per i pesanti sospetti in merito al suo ruolo all’interno dell’organizzazione, il capo della polizia dello stato del Victoria gli ha vietato l’accesso al casino della città e alle corse dei cavalli: Per evitare che lo stesso si servisse di quei luoghi per organizzare meeting sulla gestione del sistema di riciclaggio. Madafferi avrebbe, in seguito, chiesto consiglio a un ex giudice della corte suprema australiana il quale, stando alle fonti, avrebbe aiutato il boss in cambio di un cesto di frutta e prelibatezze della terra…

Foto 2

Paese che vai, ‘ndrangheta che trovi

Per noi comuni mortali il concetto di distanza è diventato relativo solo negli ultimi tempi, la ‘ndrangheta invece, ha iniziato a costruire ponti fin dagli anni venti. Gli anni in cui le famiglie mafiose, dell’aspromonte e della piana di Gioia Tauro, si imbarcavano sulle stesse navi dei calabresi onesti.

Naturalmente l’instaurazione e l’evoluzione dei clan calabresi in Australia sono ampiamente documentate fin dalla prima metà del secolo scorso (tra i numerosi volumi bibliografici a riguardo, si segnala Australian ‘ndrangheta di Enzo Ciconte e Vincenzo Macrì, Rubettino Editore, 2009).
E, esattamente come in Italia, la ‘ndrangheta australiana agisce mescolando abilmente i riti e le tradizioni con i più acuti e raffinati traffici illegali. E anche qui, come in Italia, la politica è una degli strumenti più importanti di cui servirsi.

GoCambio: cambia il tuo modo di viaggiare

“La gioia di vivere deriva dall’incontro con nuove esperienze, e quindi non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso…”

(dal film Into the Wild)

Viaggiare. Si può viaggiare per lavoro, per esigenza, oppure per cause estranee alla nostra volontà. Si può viaggiare per sentirsi liberi, per sentirsi in vacanza, lontani dalla vita di tutti i giorni. O ancora, si può viaggiare per conoscere nuove persone e nuovi posti, per imparare da nuove e diverse culture, per capire meglio il mondo che ci circonda.

Tuttavia, viaggiare, soprattutto per i giovani, può essere difficile e impegnativo, in particolar modo sotto l’aspetto economico. Ed è sostanzialmente per superare questo ostacolo che, negli ultimi anni, sono nate diverse piattaforme online il cui scopo è quello di permettere, a chiunque voglia viaggiare, di trovare un’alternativa economica per farlo.

In quest’ottica si inserisce GoCambio, una piattaforma online gratuita che mette in contatto persone che vogliono viaggiare, con altre che mettono a disposizione una stanza libera e che vogliono imparare una lingua straniera, o altre competenze (culinarie, ad esempio) tramite il loro ospite.

Di GoCambio ci parla Tiziana Volpe, country manager per l’Italia: «Il progetto è nato quando Ian O’Sullivan e Deirdre Bounds, i fondatori di GoCambio, si sono chiesti come mai, per imparare una lingua straniera, bisognasse pagare costi molto alti, quando in realtà ognuno di noi conosce una lingua che qualcuno vuole imparare. Quindi, perché non combinare l’universo del viaggio con quello delle lingue straniere: tu mi insegni la tua lingua, e io ti ospito!»

In un mondo dove il viaggio è sempre di più all’insegna della condivisione (basta pensare a Airbnb, Couchsurfing…), GoCambio si inserisce nella tendenza del momento e permette non solo di risparmiare sull’alloggio, ma anche di fare esperienze autentiche sotto la guida di gente del posto.

Immagine 1

La difficoltà maggiore nell’avviare l’attività è stata far fronte alla carenza di conoscenze tecniche nella gestione e promozione dell’attività stessa. Tiziana, che in qualità di country manager si occupa di strategie di marketing online e offline, ha contatti con blogger e riviste per diffondere GoCambio e segue l’animazione dei social media, ci racconta: «Il problema principale è stato quello di convertire l’idea in un progetto concreto: i fondatori di GoCambio non sono esperti di IT strategy o development, quindi la sfida principale è stata quella di utilizzare conoscenze tecniche che, in realtà, alla base non c’erano. Anche scegliere la giusta tecnologia è stata una sfida importante. Inoltre, è arduo farsi strada in un universo dove ci sono concorrenti già affermati e dei quali la gente si fida.»

Immagine 2

Attualmente, la piattaforma di GoCambio, dopo soli tre mesi, può contare ben oltre 2mila membri in 85 paesi di tutto il mondo, e il numero è in crescita continua. Questo perché, oltre a basarsi su un concetto che alla gente piace, come l’idea del viaggio e della condivisione, insieme alla possibilità di imparare lingue straniere e aspetti diversi di altre culture, la piattaforma di GoCambio è gratuita.

Per il futuro, inoltre, si sta lavorando ad una versione 2.0 del sito, con molte nuove opzioni. Il tutto dovrebbe essere pronto per Agosto, assieme all’app di GoCambio. L’obiettivo principale è quello di continuare a crescere, sia come numero di membri all’interno della piattaforma, sia come team di gestione e promozione di GoCambio; una sorta di internazionalizzazione dell’attività, in modo tale che, nel più breve tempo possibile, a questo nome, all’espressione “cambioing” e a questo nuovo modo di viaggiare sia associata l’idea del viaggio stesso!

Immagine 3

Lusitania: dove va a finire il sole?

Seduti figurativamente sul versante occidentale della penisola iberica, con le spalle al continente europeo, volti alla vastità atlantica, è facile immaginare come gli uomini che vissero prima del 1492 dovessero avere veramente l’impressione che l’universo terracqueo finisse lì, sulle coste del Portogallo e della Galizia.
Visto da qui l’orizzonte si estende in un immenso oceano Atlantico, sperduto; si ha l’impressione che oltre quel valico naturale, non possa esistere nient’altro. E’ su queste coste rocciose che questa idea di finis terrae si è infranta, sconfitta dall’inarrestabile sete di conoscenza e curiosità che hanno guidato l’uomo a crescere e ad emanciparsi dalla sua condizione di ignoranza e superficialità.
foto 0

L’itinerario compiuto attraverso alcune delle città più affascinanti del Portogallo, Coimbra, Lisbona e Porto, nonché attraverso una vera e propria roccaforte della Galizia (comunità autonoma del nord-ovest spagnolo), Santiago de Compostela, è stato un viaggio prima di tutto proteso verso l’orizzonte. Un viaggio spinto da una curiosità infantile, compiuto in punta dei piedi cercando di sbirciare oltre. Una rincorsa verso il mare per capire dove finisse il Sole, dove andasse a sparire, dietro le cattedrali, le irte strade, i ponti e le alte colline sospese sul litorale.

foto 1

Il fascino della Terra Lusitana va dunque ricercato prima di tutto nella volontà di capire, di indagare come esploratori dell’animo umano guidati dalla prima delle bussole: il Sole. Da questo desiderio arrivano le altre infinite bellezze di questa terra.

La piccola Coimbra arrampicata su di un colle racchiude in se centinaia di anni di storia e tradizione culturale. Dopo aver visitato le prestigiose sedi universitarie, le cattedrali dove affonda le radici il sapere europeo, poste sulle vette più alte, la cittadina alla sera non si offre più rovente, ostica e impervia da raggiungere, da scalare: dopo che il caldo sole della giornata ha spossato le nostre menti e gambe, alla sera si ritira infiammando e dipingendo di rosso le punte delle numerose chiese. La città cambia pelle e colore nell’ora del tramonto.

foto 2

Lasciato il Portogallo anche la terra spagnola ci regala panorami mozzafiato. La roccaforte del pellegrinaggio europeo cristiano, Santiago de Compostela, ricchissima di campanili, all’ora del crepuscolo, accende le punte di questi grandi fiammiferi rivelando il fascino di una vicenda spirituale che si protrae da millenni.

foto 3

Il volto schietto e caldo della penisola iberica al calare del sole mostra la sua parte meno cruda e più romantica. Le mete raggiunte con difficoltà e fatica durante il giorno, alla sera appaiono docili mentre i loro verticalismi si perdono nel buio che avanza e che rende nulle le loro altezza. Chiese e grandi palazzi fanno da scudo ad un mondo che scompare. Dietro tutto ciò è facile pensare ad una terra che naviga fra la malinconia e la gioia del fado, fra la miseria di una crisi che ha messo in ginocchio un paese arretrato e il glorioso passato di lustri e meraviglie, fra l’intensa luce del giorno e quella calda che prelude a notti profumate. Questo è il fianco occidentale dell’Europa: quello che rincorre l’ultima luce del sapere, trascinando dietro sè un continente, mosso dalla voglia di capire dove va a dormire il Sole, quella stessa utopia che da millenni fa evolvere, fa progredire l’uomo.

Libri senza figure? No, grazie.

Ti ricordi quando alla scuola materna, prima che arrivasse la mamma a prenderti, la maestra leggeva una storia? Era un grosso librone, la storia spesso l’avevi già sentita, ma era bellissimo lo stesso. Ti eri appena svegliato dal sonnellino pomeridiano e aspettavi, sulla tua seggiolina di legno colorato, che la maestra facesse girare il librone tra le manine del piccolo pubblico per ammirare le immagini della fiaba, ma, giunto il tuo turno, puntualmente, la mamma arrivava e dovevi scappare a casa!

Oggi su Pequod parliamo di letteratura illustrata, ma non della solita polverosa edizione dei Fratelli Grimm, bensì di libri illustrati per adulti, per quei ‘grandi’ che hanno così faticato ad accettare nella loro carriera di lettori i libri senza le figure.

Non sono molti gli autori che si affidano alle illustrazioni per completare il proprio libro, si preferiscono, infatti, fitte pagine di parole stampate.

Ma siamo certi che le immagini non possano farsi largo e rendere un libro dignitoso quanto uno che non le ammette? Le immagini sono uno strumento potentissimo sia ammirate in una galleria d’arte o in un testo, accompagnate da una storia. Nei testi tecnici e scientifici sono impiegate per dare dimostrazione di ciò di cui si deve avere una rappresentazione precisa, ma nelle storie fantastiche, dettate esclusivamente dal genio dell’autore, le illustrazioni possono ostacolare l’immaginario dell’uditorio?

Quante domande! Mettiamo un po’d’ordine: uno degli ingredienti che fanno dell’esperienza della lettura una ricetta da assaporare fino in fondo è immaginare la situazione raccontata, costruire il mondo parallelo creato dall’autore, in un modo speciale, quasi mai simile a quello dell’amico a cui hai consigliato il libro che hai appena chiuso.

 

Diversi autori, tra i quali Lev Tolstoj non permettono al lettore di lasciare la propria mente libera di scorrazzare tra i dettagli di un viso o della personalità dei personaggi, perché tutto è controllato e indirizzato dallo scrittore. Si ottengono, però, risultati incredibili quando ad una storia ambigua e a tratti strana e misteriosa, si aggiungono illustrazioni altrettanto singolari: è il caso del volumetto edito da Einaudi intitolato Sonno, scritto da Haruki Murakami e illustrato da una talentuosa Kat Menschik.

La storia è forse solo un contorto sogno, in cui la protagonista, una normale casalinga, prende coscienza di quanto la propria vita le stia scivolando dalle mani nella sua quotidiana monotonia. La donna inizia a vivere una condizione di insonnia perenne, ma riscoprirà, mentre tutti chiudono gli occhi nella notte, uno spazio per sé. Tutta la dimensione onirica su cui è giocato il libro permette alla mente del lettore di pensare alla protagonista come più gli aggrada, ma quando si gira pagina l’illustrazione della Menschik non è mai ciò che ti aspetti.

I toni usati dall’artista tedesca, che caratterizzano anche tutta l’estetica del volumetto, sono argento, blu e bianco, colori glaciali che evocano gli abissi dell’inconscio inesplorato, disegni di mare dove trovano spazio occhi spalancati, insetti, conchiglie, particolari ai quali, non avevi pensato.

 

Senza illustrazioni questo racconto non sarebbe stato se stesso. Viene spontaneo chiedersi perché le illustrazioni nei libri per adulti siano andate dissolvendosi, soprattutto perché qualche immagine, tra una pagina e l’altra sarebbe in grado di acchiappare nella rete molti più lettori spaesati.

Pequod lancia quindi un appello alle nuove promesse della scrittura: ridateci le figure! Perché non siamo mai abbastanza grandi.

SUNDAYUP – JOHAN HARSTAD, “CHE NE È STATO DI TE, BUZZ ALDRIN?” (2005) IPERBOREA, MON AMOUR

Leggere è un po’ come andare in aereo: si sente la partenza, poi generalmente c’è una lunga fase di stasi, magari funestata da qualche turbolenza, ma mai niente di grave, e infine si atterra e tanti saluti. Di solito i libri sono così: partono, stanno un po’ su e poi atterrano; aprono, cambiano aria e poi richiudono. Descrivono sempre una specie di curva, che torna poi ad adagiarsi sull’asse da cui è partita (attenzione, però: non sto dicendo che tornano al punto di partenza).

All’inizio di un giallo di Agatha Christie la situazione è tranquilla, e alla fine pure. Certo, c’è stato un delitto in mezzo e alla fine si è scovato l’assassino, quindi la realtà è cambiata, ma alla fine si è tornati di nuovo alla tranquillità. Così funziona la maggior parte dei libri, storici, fantasy, noir e tutta la narrativa in generale.

Che ne è stato di te, Buzz Aldrin? invece non è uno di questi, e per uno strano imprinting l’ho capito dopo averne letto le prime due righe: “La persona che ami è fatta per il 72,8% d’acqua e non piove da settimane”. È stato così folgorante nella sua assurda chiarezza (“frittatona di cipolle e ossimoro libero” direbbe qualcuno) che non poteva che svilupparsi in modo non convenzionale.

Il protagonista, Mattias, ha nella vita un solo desiderio: passare inosservato. Nascondersi nella massa, non emergere, essere colui che compie il proprio dovere senza lamentarsi per poi scomparire. Come il suo idolo Edwin “Buzz” Aldrin, secondo uomo sulla luna, che per un momento pensò di dare una spinta ad Armstrong e diventare lui il primo, nello stesso giorno della nascita di Mattias, il 20 luglio del 1969, ma subito rinunciò all’idea, persuaso di dover compiere il suo dovere anche sacrificando la fama.

Mattias all’inizio del romanzo è un giardiniere norvegese di 29 anni, che trova nella cura di piante e fiori la realizzazione dei suoi ideali di tranquillità e serenità. Sembra che trovi sollievo nella lenta ma inesorabile crescita delle sue piante, così come nella sua storia d’amore con Helle, che dura ormai da circa quindici anni. Una specie di idillio della normalità: tutto funziona, tutto cresce lentamente ma costantemente, tutto resta meravigliosamente e normalmente uguale.

Naturalmente questa normalità nel giro di poche pagine verrà spazzata via da eventi che non scriverò di certo: basti sapere che Mattias si lascerà convincere dal suo migliore amico Jørn a partecipare come tecnico del suono a una trasferta della sua band per un festival che si tiene alle isole Fær Øer, sperduto arcipelago quasi indipendente dalla Danimarca piazzato in mezzo all’Atlantico: probabilmente quanto di più simile alla Luna si possa trovare a poche ore di viaggio dalla Norvegia. Le isole sono aspre, scoscese, umide, fredde, vi si parla una lingua diversa da tutte le altre lingue scandinave, sono abitate da poche persone, sparse tra innumerevoli villaggi che spesso contano meno di dieci abitanti. E soprattutto alle Fær Øer non esistono alberi, perché la salsedine e il vento costante ne impediscono la crescita.

In questa natura tutt’altro che ospitale, che sembra riflettere tutt’a un tratto il mondo interiore improvvisamente spalancatosi dentro Mattias, accadranno ancora numerosi avvenimenti che non rivelo, ma che continueranno inesorabili a destabilizzare il lettore, che non riuscirà mai a vedere la pista d’atterraggio. In questo senso potremmo dire che questo libro non è un volo di linea, ma una partenza verticale su uno razzo, come l’Apollo 11. Continua ad alzarsi costantemente, in un’unica, regolare ma ripida curva dall’inizio fino alla fine. Ecco spiegata la mia strana sensazione, colta nell’incipit e poi confermata dalla lettura di tutto il libro.

Non si può non amare Mattias, è semplicemente impossibile. La disarmante sincerità con cui si rivela al lettore (il libro è in prima persona) lo rende un personaggio da imitare, anche se non è certo esente dai difetti che presto o tardi colgono ognuno di noi. A momenti rasenta una sorta di sublime declinazione dello zen, ad esempio quando si propone di scrivere un libro:

“Manuale di base per una vita lunga e felice. Metodo in tre fasi.

Inspirare.

Espirare.

Ripetere secondo necessità.”

Insomma, si tratta senz’altro di un libro che vale la pena di leggere, qualcosa di catartico, a suo modo.

Leggetelo se vi piacciono la natura selvaggia, i mari in tempesta, i Natali in solitaria, le barche e le balene, le piante e i fiori, le cliniche per ex pazienti psichiatrici, il pop svedese. O le partenze senza l’obbligo di pensare al ritorno.

Alessio Venier

The Bottom Up – Rivista

Viktor and «Moscow Games». When SPORT means youth, student and international.

Do you wonder how a young Russian journalist and sports-lover can conciliate his work with his passion? Have you ever heard of «Moscow Games»? Here’s what Viktor shared with us about his life, his work and his country.

(original text of the interview in Russian – translation into English by the author)

Hello Viktor, would you like to introduce yourself to our readers?

I’m Viktor Kravchenko and I’m 22. I was born in Petropavlovsk-Kamchatsky, in the Far East of Russia. Of course it’s a beautiful place, where nature is majestic – there are geysers, volcanoes, snow, sturgeons (fish from which we get caviar – translator’s note) and brown bears.

Viktor in Kamchatka, his homeland
Viktor in Kamchatka, his homeland

When I was 16 I decided to carry out a pretty interesting experiment – I left my home and moved to Belgorod (Western Russia, not far from Ukrainian’s border- translator’s note) where I got into the Faculty of Journalism of Belgorod State University. I finished my studies in 2013 and now I’ve been living for more than a year in Moscow.

Every city I’ve lived in has its own beauty. I don’t like those people who move to a big city and suddenly stop loving their hometown. Both in Petropavlovsk-Kamchatsky and in Belgorod I still have great friends and it’s always a pleasure to go for a visit there. Moscow is completely different though, because it’s a megalopolis. It has an incredible energy, here you start living faster, thinking faster, it’s an avant-gard city. I’m glad I’m living here now.

What’s your life like in Moscow?

I work for the Association of Student and Young Sports. Our goal is giving the possibility to every student in Russia to do some form of sport on a regulary basis and also offering them the chance to study and play in student championships at the same time. I’m not talking about tournaments held within the different universities – what we try to do is something way bigger, for example one of our most successful achievements is the Moscow Student Hockey League, where there are teams from 22 different Moscow universities. Each team has its own logo and during the whole academic year there are matches, which are attended also by spectators and fans. We would like student sports to become more and more popular in Russia, an interest subject for sponsors, state and spectators.

In this association I’m a PR-manager. We might say that I represent it and what we publish.

What is «Moscow Games»?

The first International Student and Youth Sports Festival “Moscow Games 2014” took place in Moscow on the territory of the Olympic complex “Luzhniki” from 2 to 5 of September 2014. The festival received the award as the best sport event of Russia on the Award Ceremony “Sport and Russia” in 2014. The festival gathered together more than 1500 amateur athletes from the universities of different countries: Senegal, Russia, Algeria, Romania, Northern Cyprus, Croatia, Kyrgyzstan, Lebanon and Macedonia.

This year we are planning the second Moscow Games, “Moscow Games 2015” (official website), and the students will have the chance to play in the exclusive context of 1980 Olympic Games. Also, this year we are supported by the patronage of the European University Sports Association (EUSA) and more countries are joining the competition – Great Britain, Belgium, Finland, Croatia, Serbia, Norway, Poland, Lebanon, Senegal, Algeria, Republic of South Africa and others. The categories of the matches are nine, including football, hockey, basketball, volleyball, beach volleyball, rugby-7, beach football, table tennis and cheerleading.

It’s a cool event, where you can meet new friends, and we’d be happy if people from Italy joined us too.

mg

What do you do for the organisation of «Moscow Games»?

I take care of the social media of the event – in other words, I do everything I can in order to let always more people know about the event. I take agreements with our media and business partners. It feels great when your message gets viral and the most important sports media of the country write about the event! I also like talking to professional sportsmen, who support the festival – famous Russian athletes are our testimonials.

Our goal is to make the whole world know about the event, so that university teams from many different countries would join the games. Moscow Games would become an amazing sports party – that’s what we’re working for!

What’s the meaning of this event in the international context?

I think that in such a complicated period for international relationships among Russia and the other countries, this event is definitely important.The fact that students from all over the world can come to Russia and see with their eyes our hospitality and professionality will help destroying the fake myths and legends existing about our country. It’s absolutely great that international students have the possibility to meet in Moscow without any kind of political context. Sport is stranger to politics.

Viktor working as a PR manager for student sports
Viktor working as a PR manager for student sports

Russian position in the international landscape is not easy right now. Do you think that such an internation event as Moscow Games can promote a portrait of Russia as an open and welcoming country?

I definitely think that the political context creates stereotypes about our country. Moscow Games 2015 will gather the most educated, creative and ambitious youth, that’s why I think that the foreign people coming to Moscow for the event will have the best impression of Russia. Sterotypes and myths created by mass culture, television and the web won’t last much longer and people will discover a welcoming and open country.

What does Europe mean to you? Which is your personal attitude towards Europe? Do you feel close to the Old Continent?

I respect Europe. I’m always happy to go to a European country, because each of them is a land of culture, literature, cinema, art and beautiful towns. In Europe there are some cities which are worth to visit at least once in a lifetime. They’re the places where world history was created. Defending and appreciating citizen’s rights, freedom to vote and to express themselves – this is very important. I was in Germany and in Poland, and there I met good and talented people.

I also like how people play football in Italy and Germany and how sports management works in this countries. We have something to learn one from each other, so I don’t think that Europe represents something negative to me whatsoever.

Viktor
Viktor

What if you were offered your dream job abroad? What would you do?

First, I’d like to know what my dream job would be. I’d probably agree to work in a marketing position in a European sports club. Or maybe to work with children football teams. This would be an interesting experience, as I like to learn something new and find myself in a different language and cultural context.

If someday I received a proposal, I’d give it a chance.

What’s more important to you? Travelling, getting to know new cultures and being part of an international community – being a citizen of the world – or respecting your roots, paying attention to tradition, defending your motherland, language and culture?

This is a difficult question, which doesn’t have a definite answer. I like travelling and discovering new cultures, and I absolutely think that instead of fighting one against each other, countries should work together in order to fight and defeat poverty, to solve ecological problems, find the cure to diseases and so on. First of all, we are all human beings, no matter which colour our skin is, which language we speak or what we believe in. In Russia we have this beautiful song by Vasya Oblomov, which says that «the important thing is that the person is good».

Defending your own cultural traditions is also important, as it’s our nation’s history and what makes it interesting. It’s important not to forget your language, culture, even the little town you grew up in. That’s patriotism. It’s fundamental not to exaggerate and become a fanatic, thinking that your country is the chosen one and it’s the best. All the people in this world are the same.

Orti…in crescita!

250 ore di lavoro agricolo distribuite per 8 mesi all’anno per una rendita media di 200 chili di ortaggi sani e self-made. É Claudio Cristofani, urbanista milanese e papà di Angoli di terra e dei suoi ormai 180 orti urbani, a fornirci l’equazione magica del benessere e del risparmio.

Tornano in voga le proverbiali braccia rubate all’agricoltura, verrebbe da dire, guardando la distesa di 17.000 metri quadri ricevuti in eredità che l’architetto Cristofani è riuscito ad adibire all’uso di orticolture urbane in via Chiodi, zona Barona. E… sì, proprio Milano, la regina delle metropoli italiane, è la campionessa lombarda assoluta in quanto ad orti.ORTI PEQUOD

Il fenomeno dei coltivatori più o meno dilettanti, peraltro, è diventato pervasivo e trasversale. I dati di Coldiretti parlano chiaro: il 30% dei lombardi maggiorenni si dà, in un modo o nell’altro, all’ agricoltura.

Ma non è soltanto hobby, come traspare dalle parole dell’architetto Cristofani: «se coltivato con impegno e con buone materie prime un orto di circa 75 metri quadri – afferma Cristofani – induce una produzione media del valore di 400 euro l’anno». Non il fabbisogno vegetale di una famiglia media, dunque, ma una quantità che ha tutte le carte in regola per incidere positivamente sul bilancio.

Il processo produttivo è molto più lento di quello professionale, ma: «è tutto a tempo zero – aggiunge l’urbanista agricoltore – tra il raccolto e il consumo, passano poche ore e questo garantisce sapore e purezza del prodotto».

Non è tutto qui, però. Buon umore e gusto sono i primi a guadagnare dalla presenza dell’orto; le finanze sono al sicuro e possiamo raggiungere una, se pur parziale, indipendenza dal circuito della grande distribuzione. «Ma il valore più grande è quello culturale – chiosa Cristofani – rispettare il valore agricolo del globo terrestre induce a comportamenti virtuosi».orti-urbani-600x450

Il fenomeno assume, poi, ulteriore importanza se lo si guarda dal punto di vista della trasmissione di conoscenza: in molti casi sono anziani pensionati, che nel corso della loro vita hanno avuto a che fare con la terra, ad insegnare ai giovani quelli che sono veri e propri trucchi del mestiere. In Campania nel 2012 si è attivato un vero e proprio tandem di apprendimento: in cambio di sapienti consigli green, i giovani pensano all’alfabetizzazione digitale dei più esperti. Stupendo no?

Un terzo aspetto è quello della coltivazione degli orti come mezzo terapeutico: dagli Stati Uniti fino al nostro paese, molti studiosi hanno trovato nella piccola coltivazione un efficace mezzo terapeutico, in grado di migliorare la salute di persone affette da varie tipologie di disturbo, specialmente dal punto di vista psichico.

Infine, parlando di orti, quindi di cibo, come può non essere coinvolta EXPO? L’esposizione ha prestato grande attenzione agli orti, realizzando progetti come l’Orto del mondo, dove sono stati coltivati vegetali provenienti dai più svariati angoli della terra: un modo per ribadire tutto quello che è stato scritto in precedenza.

Possiamo quindi affermare che, nel 2015, coltivare l’orto, specialmente in città e altrettanto specialmente se i capelli dell’apprendista agricoltore sono ancora tutt’altro che canuti, sia una delle attività più costruttive che si possano intraprendere!

Once upon a time in Rome | l’idilliaca Isola Tiberina

Un’isola, una Chiesa, un ospedale, due ponti e un intreccio di leggende. No, non è la nuova sceneggiatura di Tim Burton, ma l’Isola Tiberina, una piccola perla urbana di formazione alluvionale nel cuore pulsante di Roma.

Nota come Insula Tiberina, Isola dei Due Ponti – Ponte Cestio e Ponte Fabricio – Licaonia o semplicemente Insula, si erge maestosa tra le acque del Tevere. Lunga poco più di 300 metri e larga non più di 90, a conferirle il primo velo di mistero è la forma: leggenda vuole infatti che l’isola sorga sul relitto di un’imbarcazione sommersa, assumendone la tipica forma.

Addentrandosi in questa epopea romana si torna al 509 a.C., al tempo di Lucio Tarquinio Superbo (ultimo Re di Roma) vittima di una rivolta popolare che gettò nel fiume il deposito di grano del tiranno in quantità così abbondante da formare l’isoletta. Ma la più conosciuta resta quella legata al culto di Esculapio (Dio della medicina): la terribile pestilenza del 291 a.C., un serpente e un Tempio in suo onore sui resti del quale venne costruita la Chiesa di San Bartolomeo.

Le antiche tradizioni mediche non si sono estinte con il tempo, nel 1584 nacque l’ospedale “Fatebenefratelli” attivo tutt’ora.

Non sembra nemmeno di essere nella Capitale, il tempo è cristallizzato e se allenti la presa dei pensieri puoi sentirne la leggerezza che ti scorre tra le dita, storia dopo storia. Tanto piccola quanto ricca, dalla giusta prospettiva è possibile osservarla nella sua totalità, notarne i dettagli, un salvagente rosso, una terrazza, alberi in fiore come cornice di una perfetta cartolina.

La Nave di Pietra. Un piccolo forziere prezioso, una croce rossa da segnare sulla mappa.

[metaslider id=5771]

Cornoltis, Lady Diana e la Corea

I Cornoltis sono un gruppo musicale ma anche un po’ una famiglia, come i Ramones, però collocati nella provincia di Bergamo. Pishello Cornoltis (Mario Apicella), Helena Cornoltis (Paolo Bertuletti), Collaudo Cornoltis (Alessandro Piazzalunga) e Bigiotteria Cornoltis (Fabio Calzi) si sono raccontati e aperti in modo confidenziale esclusivamente per i lettori di Pequod. Siamo riusciti a scoprire la vera anima di questi musicisti nonché tutte le verità sulla storia della band e i loro segreti più intimi.

DSCN1370

Il gruppo nasce a “fine 2007/fine 2008” per via di un paio di lutti: quello dei Cheers, un gruppo musicale in cui suonavano Pishello, Helena e Collaudo e quello della morte della povera anima della first lady d’Inghilterra; il gruppo nasce proprio per «elaborare il lutto della morte di Lady Diana (o meglio il decennale) e per celebrare, con sei anni di ritardo, l’ascensione della Corea nell’olimpo calcistico».

Dopo la fine dei Cheers, Helena e Pishello sentivano di avere «ancora qualcosa da dire, da fare, da baciare e lettera e testamento» e per questo motivo decisero di continuare a suonare.

A Helena e Pishello (rispettivamente basso e chitarra della band – nonché le angeliche voci cantanti) si aggiunsero Collaudo e Bigiotteria. Il primo, batterista e corista, entrò a far parte del gruppo «tramite concorso statale, con tre prove scritte e una orale»; mentre Bigiotteria, il virtuoso chitarrista, grazie a raccomandazioni.

Questo punk-rock dal sapore orobico e dalla vena satirica, alle volte demenziale, dai testi che vanno «da adolescenziali a tardo adolescenziali», ha fatto sì che il gruppo si caratterizzasse trovando sin da subito la propria originalità (rimanendo un po’ sull’onda dei defunti Cheers) anche se in realtà, come mi confessa Helena: «Questa cosa che facciamo è l’unica che sappiamo fare».

Oggi, al culmine del successo, si ritengono soddisfatti di come stia procedendo l’attività del gruppo: «Abbiamo in programma tanti concerti e tutti in posti molto belli: insomma, il massimo che puoi ottenere». Il motivo di questo successo, come mi suggerisce Pishello, è che «i Cornoltis hanno ormai saturato il mercato musicale bergamasco; ci conoscono tutti e ci chiamano (anche sul telefono). Così è venuto a crearsi questo collegamento festa=Cornoltis».

Gli ostacoli che deve affrontare la band riguardano il genere di musica proposto; ribadisce Helena: «Questa cosa che facciamo è l’unica che sappiamo fare e i testi delle canzoni limitano i contesti in cui la band può suonare: in certi posti non puoi dire certe cose, però noi le diciamo lo stesso».

 Molti sono gli obbiettivi futuri di questi talentuosi musicisti: innanzitutto c’è quello di «prendere l’autostrada per andare a fare un concerto»; poi di continuare a pubblicare «singoli fruibili (e friabili) gratuitamente» da tutti i fans e di «pianificare un’invasione di Ranica (comune in provincia di Bergamo, ndr), annetterla al Granducato di Pontida e organizzare un rave party nel Granducato».

Abbiamo chiesto ai Cornoltis un saluto ai nostri lettori: «Ricordatevi che l’importante è il buonsenso, divertitevi ma con moderazione».

 

 

Sydney, e se il nuovo mondo fosse già vecchio?

Per molti è la citta ideale, per altri il sogno che si realizza, per altri ancora la bolla di sapone luccicante esplosa in mano ancor prima di poter essere toccata. Sydney è stata la prima città d’Australia, attualmente la più grande e in continua espansione. Si calcola che nei prossimi 5 o 10 anni la popolazione aumenterà di oltre 500mila unità. Questo perchè è sicuramente il posto più “vivibile” d’Australia (almeno dal punto di vista climatico). Una città multietnica per natura e per cultura, che sembra andare in controtendenza rispetto al mondo globalizzato. La multicultura su cui si è fondata – non solo Sydney, ma l’intera Australia – rimane l’elemento cruciale dello stile di vita della City. Ma guardandosi intorno sembra evidente che la Cina è sempre più vicina e che la multiculturalità rischia di lasciare il passo ai flussi di denaro, che in questo momento seguono una sola direzione.

foto 2(multicultural festival di Sydney)
Multicultural festival di Sydney

Chi cerca fortuna e chi la importa.

Salendo sull’autobus che mi porta in giro per i sobborghi della città (molti dei quali tutti uguali e senza particolari attrazioni) sento diversi accenti: napoletano, veneto, pugliese. Gli italiani sono dappertutto e fanno di tutto: chi lavora in proprio, chi sfrutta e chi viene sfruttato, chi ha trovato il suo equilibrio mentale e chi in Italia non ci tornerebbe neanche sotto tortura (spesso ex berlusconiani che non vedono l’ora di sparare a zero sul proprio Paese).
Ma sull’autobus gli italiani sono pochi rispetto alla quantità di occhi a mandorla che mi è dato vedere. La Cina è qui, in Australia. Per i business-man di Pechino e dintorni questa è la nuova frontiera (nuova si fa per dire). Nei sobborghi intorno a Sydney è difficile incontrare volti occidentali. Più che in Europa, qui tutto parla cinese. Il bar italiano, il ristorante greco, le banche e le università. Capita anche che il gorverno chiuda un occhio (o tutti e due) quando si tratta di capire la reale provenienza dei capitali. Gli stessi che spesso sono investiti su immobili e che hanno fatto aumentare il prezzo delle case, talvolta anche del 200/300 per cento nel giro di poco più di un lustro. In conseguenza di ciò, se un giovane australiano, fino a cinque anni fa, poteva permettersi un mutuo, adesso la prospettiva, in tal senso, appare meno rosea (e non è una bella cosa, considerando che stiamo parlando di un Paese che non sa cosa sia la crisi economica).
Nel frattempo sono sceso dal bus, entro al Pub e ordino una Foster. La cameriera mi guarda stralunata. La Foster non c’è, non esiste. Si vende soltanto all’estero. Mi giro e Frank, il ragazzo intento a leggere le ultime dal rugby dietro di me, da’ conferma del triste annuncio.
Esco dal pub e giro tutte le vie, penso a cosa doveva essere questa città nei primi anni del secolo scorso.

Inaugurazione della federazione del Commonwealth - Sydney 1901
Inaugurazione della federazione del Commonwealth – Sydney 1901

Sydney è stata la prima città del continente ad avere un proprio consiglio comunale, la prima città – propriamente detta – di tutto il continente. I primi condannati, deportati nella nuova colonia inglese, sbarcarono proprio qui, sul versante meridionale della città, dove oggi sorge l’areoporto. Ma fu solo a metà dell’800 che, con la scoperta dell’oro la città australiana divenne il punto di riferimento per chi veniva a cercare il proprio lucky strike. La città crebbe fino a 200mila abitanti. Si decise allora che la colonia dovesse essere organizzata in modo appropriato, motivo per cui, nel 1901 fu proclamata la federazione del Commonwealth d’Australia.
Da allora è cambiato molto; e non sempre in meglio.

 

Netflix: un episodio di giorno, Binge-watching di notte

Avrete sicuramente già sentito parlare di Netflix, anche solo per sbaglio. Il servizio, che ha avuto tanto successo negli Stati Uniti e nel resto del mondo, pare infatti in arrivo anche nel nostro paese. La notizia, che è stata spesso smentita, lo vorrebbe attivo già entro la fine del 2015.

Ma cos’è Netflix? Netflix è un servizio in abbonamento di streaming online on demand, accessibile comodamente da PC, televisione, console, smartphone o tablet, ed è una piattaforma ricca di tantissimi film e serie tv.

Nasce 18 anni fa, nel 1997, come un servizio di noleggio VHS, DV e videogiochi via internet per poi trasformarsi nel grande catalogo streaming che è oggi.

Negli ultimi anni Netflix ha prodotto serie originali come House of Cards (nel 2016 la quarta stagione), Orange is the New Black (il 12 giugno verrà trasmessa la terza stagione ma la serie è già stata rinnovata per una quarta), Hemlock Grove (la terza sarà l’ultima stagione), Marco Polo (rinnovata per una seconda stagione che verrà trasmessa a fine 2015), e, tra le novità rinnovate per una seconda stagione, Unbreakable Kimmy Schmidt, Daredevil, Bloodline, Grace & Frankie. Inoltre, il calendario dal 2015 in poi delle serie future che produrranno e che si troveranno online è già stato annunciato, alzando l’hype degli spettatori (ad esempio le serie attese di questa estate saranno Sense8 e Wet Hot American Summer: First Day of Cam).

foto_01

Mi piacerebbe parlarvi in particolare di Daredevil. Prima di continuare voglio dirvi che se avete visto il film con Ben Affleck del 2003, cancellatelo dalla vostra memoria, perché quello che leggerete è il vero Daredevil. Netflix e Marvel hanno unito le forze per questa nuova serie tv rilasciata interamente il 10 aprile ed è subito partito il Bingewatching, ovvero fare una “maratona di visione”, guardare cinque, dieci quindici episodi o intere stagioni di seguito, in questo caso tredici episodi. Secondo un report pubblicato su Business Insider (link) Daredevil è la serie TV con il rating  più elevato su Netflix, 4.6 stelle (gli utenti hanno la possibilità di votare quello che hanno visto tramite una valutazione a cinque stelle).

Charlie Cox il nuovo volto di Matt Murdock, dà una diversa e realistica interpretazione del personaggio, ed è perfetto per l’ambientazione dark della serie.

«Quando aveva 9 anni Matt Murdock salvò un signore sconosciuto da uno strano incidente, Matt fu accecato da una fuoriuscita di sostanze chimiche. Invece di limitarlo gli ha dato i sensi sovrumani che gli permettono di vedere il mondo in un modo unico e potente. Ora usa questi poteri per servire la giustizia, non solo come avvocato nel suo studio legale, ma anche come vigilante di notte, pattugliando le strade di Hell’s Kitchen come Daredevil, l’uomo senza paura».

foto_02opzione 

La serie ha molti punti di forza partendo sicuramente dal cast. L’antagonista di Cox, o meglio di Matt, è Wilson Fisk, il boss del crimine che in contrasto con la brutalità e crudeltà che mostra nel mondo degli affari lascia emergere nella sua vita privata il lato di uomo raffinato, che parla piano misurando le parole, interpretato magistralmente da Vincent d’Onofrio.

L’ambientazione, ma anche la scrittura e la struttura degli episodi, porta alla luce tutte le caratteristiche del personaggio e del fumetto da cui deriva la serie, e si può racchiudere nella frase di uno dei personaggi, Ben Urich: «There are no heroes. No villains. Just people with different agendas».

Ogni scena da quelle di combattimento, ai dialoghi, ai flashback o semplicemente alle scene tra Foggy e Matt, è ben equilibrata e nell’insieme non stona.

Suggestivi e inquietanti gli opening title, (link) che con toni dark  riassumono allo spettatore gli episodi della serie dove il carattere dominante sarà il rosso.

Uno dei punti a favore della struttura di Netflix è che rilascia subito la serie completa e permette allo spettatore di gustarsi tutti gli episodi di seguito tenendolo attaccato allo schermo, soprattutto perché gli episodi sono legati tra loro.

Se non l’avete ancora vista vi consiglio caldamente di guardarla e se dopo il tredicesimo episodio vi chiederete “ma ora che succede?”, tranquilli Netflix il 22 aprile ha rinnovato Daredevil per una seconda stagione che arriverà nel 2016. Ma l’alleanza con la Marvel non finisce qui perché verranno prodotte anche: A.K.A. Jessica Jones, Iron Fist e Luke Cage, e poi tutti e quattro gli eroi saranno riuniti e faranno squadra insieme nella miniserie The Defenders.

Ricordate: «Be careful of the Murdock boys…they’ve got the devil in them».

IL MONDO INCANTATO DI HAYAO MIYAZAKI

Quando, durante il Festival del Cinema di Venezia del 2013, Hayao Miyazaki ha annunciato il ritiro dalle scene, il pubblico di tutto il mondo ha sussultato. Considerato il Disney giapponese, annovera tra i suoi fan non solo gli spettatori più semplici, ma anche autorità di ogni campo e paese come Akira Kurosawa (celebre la sua frase: «Talvolta lo paragonano a me. Mi dispiace per lui perché lo abbassano di livello»), Michael O. Johnson (presidente della Buena Vista Entertainment) e John Lasseter (direttore creativo della Pixar e dei Walt Disney Studios), Quentin Tarantino e Steven Spielberg, Mobius e Guillermo Del Toro.

Dopo questa notizia inaspettata, sono fioccate teorie sul motivo di tale decisione, a quanto pare definitiva. Miyazaki ha dichiarato: «Se pensassi a un nuovo film, ci vorrebbero altri 6/7 anni per completarlo e tra pochi mesi di anni ne avrò 73. Quindi vorrebbe dire avere 80 anni».  La sua carriera di regista d’animazione si è conclusa con Si alza il vento (2013).

Era quindi d’obbligo fare un bilancio di questo lavoro. Ci ha pensato Valeria Arnaldi, giornalista, curatrice di mostre d’arte contemporanea, grande fan di Miyazaki.

Hayao Miyazaki. Un mondo incantato ha l’aspetto di un catalogo di mostra, sicuramente non a caso, ed è questo dettaglio che balza subito all’occhio del lettore. Appena si sfoglia, proprio le immagini occupano la stragrande maggioranza dello spazio. Questo non è a svantaggio del contenuto, anzi: poiché l’opera di Miyazaki è cinema e manga, le immagini sono fondamentali. Per quanto riguarda il contenuto scritto, Arnaldi fornisce una raffica di nomi, date, curiosità, aneddoti e spiegazioni; il suo stile risente dell’ambiente giornalistico è chiaro e diretto. L’unica pecca del libro è che, mentre le fonti iconografiche sono citate, mancano quelle non iconografiche: dove ha preso tutte le informazioni che ci dà? Mancando una bibliografia, un lettore accorto, un fan sfegatato del Maestro o un semplice curioso potrebbe essere deluso nella ricerca di veridicità di ciò che è scritto.

foto 1

A parte questo, il libro è un vero tesoro sia per gli amanti del cinema made by Ghibli sia per coloro che non lo conoscono. Arnaldi esplora le zone oscure della vita di Miyazaki, come la sua provenienza da una famiglia agiata legata alla guerra (il padre possedeva la fabbrica che costruiva i pezzi per i caccia Zero usati durante la Seconda Guerra Mondiale, e da qui nasce la sua ossessione per l’elemento aereo) e gli esordi. Per diventare “dio delle anime” ha dovuto lavorare come intercalatore alla Toei Animation, scrivere manga (il più famoso rimane Nausicaa of the Valley of the Wind, 1984) noti in Giappone ma non altrove, approfondire i temi che farà propri, affinare la tecnica. Da non sottovalutare il Miyazaki televisivo: chi era bambino negli anni ‘80/’90 non può dimenticare Heidi, Anna dai capelli rossi, Lupin III, Il fiuto di Sherlock Holmes.

Nel 1985 nasce lo Studio Ghibli, il regno di Miyazaki, che d’ora in avanti sarà la sua voce più importante. È da questa casa, omonima di un vento africano, che nascono i capolavori: La Città Incantata, Il castello errante di Howl, Principessa Mononoke, per citarne tre. Cartoni animati che sono film, favole per adulti, fantasia che è più reale della realtà, poesia che è leggera e cruda: i destinatari sono i bambini senza età, coloro che vogliono sognare e capire come sia il mondo in cui viviamo, e magari come affrontarlo. Arnaldi insiste a buon diritto sul lato più violento di Miyazaki , perché quel che egli dice non vive solo nella finzione: se Howl è bello perché cattivo e debole, le Terme alludono alla prostituzione; se Ponyo sulla scogliera è un’accusa contro l’uso smodato dell’acqua da parte dell’uomo, Totoro parla di morte e di vita. Infine, tutti hanno presente quanto sangue sia versato dalla Principessa Mononoke. I protagonisti, giovani e ordinari, sono di solito ragazze.

Non manca uno sguardo verso gli altri nomi dello Studio (tra cui il figlio Goro), e nemmeno una ricerca di come Miyazaki abbia influenzato il mondo dell’arte, dalla musica alla moda.

Miyazaki lascerà un buco nella storia del cinema dell’animazione, rinunciando alla regia per stare dietro le pagine dei manga. Il suo vento ha soffiato sui suoi personaggi e su di noi, che abbiamo vissuto grandi avventure con loro. Potremo ancora farlo, quando vorremo: come dice in Si alza il vento, Ten Jo Tai Fun. Sopra il cielo il grande vento, quello della libertà.

foto 2