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Mese: Luglio 2015

Web Series: il futuro dell’intrattenimento, un’idea per le pause di oggi

Da anni il mondo dei telefilm ha riacquistato dignità artistica e popolarità, tanto da essere considerato da molti al pari del mondo del cinema, per quanto riguarda la qualità dei contenuti e il peso degli attori coinvolti.

Tornate per un attimo con la mente a dieci anni fa: chi l’avrebbe detto che attori come Kevin Spacey o Bryan Crantson sarebbero stati attirati dal piccolo schermo e il loro passaggio avrebbe dato ancor più risalto alla loro carriera? O che l’episodio di una serie tv potesse essere diretto e curato meglio di un film?

Adesso sembra quasi scontato che anche le produzioni del piccolo schermo godano della stessa cura e interesse di quelle del grande, ma noi oggi potremmo fare un ulteriore passo avanti ed essere i pionieri di domani, riconoscendo anche il valore di alcuni prodotti per i “piccolissimi” schermi dei nostri pc, tablet o cellurali: le web series.

Da un po’ di tempo a questa parte stanno ottenendo sempre più risalto (trovando un canale preferenziale su YouTube) ed alcune si sono fatte notare per la qualità e l’originalità anche in Italia come Lost in Google e Freaks (di cui si vocifera che sia in arrivo una terza stagione): sono state tra le prime ad avere successo, guardatele e capirete perché!

Cos’è una web series?

È una serie di video scritti, diretti e pensati in forma episodica, ma a differenza dei telefilm che sono pensati per la tv, le serie nate sul web hanno durata ridotta (in genere le puntate durano in media una decina di minuti), target più specifico (giovani tra i 18 ai 30 anni) e un modo di comunicare che si adatta meglio alla diversa piattaforma di diffusione.

Avete voglia di vedere cosa ha da offrire il web al momento? Ecco alcune produzioni recenti che meritano di essere seguite!

  • Nightwing – The Series

Dick Grayson, ovvero Robin, a seguito di un diverbio con Bruce Wayne decide di continuare in proprio la lotta contro il crimine, poiché crede che Batman sia troppo ossessionato dalla sua personale sete di vendetta. Vestirà i panni di Nithwing, un nuovo supereroe, ma nella sua lotta non sarà solo (piccolo spoiler): sarà coadiuvato da Oracle (Barbara Gordon, ex Batgirl).

La serie si ispira all’omonimo personaggio dei fumetti Dc, è recitata abbastanza bene (di sicuro non peggio della prima stagione di Arrow), presenta una trama piena di colpi di scena ed ottimi effetti speciali ed è una delle migliori web series sui supereroi in circolazione. Il progetto della miniserie è nato su Kickstarter, ma Nightwing – The Series ha avuto talmente successo che si parla di una seconda stagione.

 

  • Video Game High School (VGHS)

La Video Game High School è una scuola dove i migliori videogiocatori studiano per diventare milionari con i videogames. BrianD riesce per caso a sconfiggere il giocatore più forte del mondo di Fps, un certo The Law che frequenta la VGHS, e viene così invitato a seguire i corsi della prestigiosa scuola.

È la web series più seguita al mondo ed è già alla terza stagione, ma eccovi una piccola chicca: Zachary Levi (il protagonista del telefilm Chuck) nella prima stagione recita la parte del professore!

https://www.youtube.com/watch?v=H8ScNjBd118)

 

  • Vera Bes

Vi piacciono le atmosfere da film horror, un po’ alla Dylan Dog? Allora questa serie fa per voi! La storia ha come protagonista Vera, cioè una consulente “onirica”, una persona che riesce ad entrare negli incubi delle persone per liberarli da essi.

In controtendenza con quanto accade in rete, gli episodi sono più lunghi della media, ma non per questo meno coinvolgenti.

Federico Buffa ha partecipato alla serie, vedetela e scoprirete in che ruolo.

 

  •        Tutte le ragazze con una certa cultura

Ambientato a Roma, parla di Luca, che ha 30 anni ed è un assistente universitario e correttore di bozze, e di Silvia, che ne ha 24 ed è una studentessa di lettere amante dell’arte contemporanea.

La serie si chiama così perché “tutte le ragazze” che piacciono a Luca hanno almeno un dipinto di Schiele appeso in camera, quindi anche Silvia ha un poster di Schiele in camera.

La serie racconta della storia d’amore tra i due protagonisti, ma non si limita a quello, perché tra riferimenti alla cultura pop, alla letteratura e all’arte, critica le ansie, le nevrosi e le contraddizioni degli ultimi dieci anni.

La sceneggiatura è di Roberto Venturini e se siete un po’ Hipster e coscienti di esserlo sarà come guardarsi allo specchio e sentirsi un po’ presi in giro (ma questo andrebbe a contraddire il primo principio degli Hipster: i veri hipster non sanno di esserlo).

https://www.youtube.com/watch?v=_sRF-7GOQ98)

 

Una menzione d’onore va alla web series made in Italy a tema zombie: Soma per la tensione e le atmosfere non ha nulla da invidiare ai migliori film del genere; Geekerz ricorda molto quel piccolo capolavoro che è “Shaun of the Dead” ed è stata realizzata da Multiplayer.it (a quanto pare non sono solo bravi a recensire videogiochi!); Di come diventai fantasma e zombie è un piccolo capolavoro de La buoncostume (da sempre impegnata in produzioni di successo come Kubrik – Una storia porno e altre web serie), che riesce a trattare con piacevole ironia questo genere.

Lasciatevi coinvolgere nel mondo delle web series, perché il futuro dell’intrattenimento è a portata di mano e voi potreste essere tra i primi a vedere cosa ci riserva!

PS: avete già seguito qualche serie prodotta per il web? Ne avreste aggiunte altre all’elenco? Fateci sapere nei commenti cosa ne pensate!

 

 

Intervista a Timothy Small – tra giornalismo e cultura digitale

Dopo averlo incontrato all’evento targato Culturit Statale, Pequod Rivista ha l’occasione di fare un’altra chiacchierata con una delle personalità più promettenti del giornalismo digitale. Appassionato di scrittura sin da bambino e dopo una laurea in Storia e Filosofia, Timothy Small abbandona il mondo accademico per avvicinarsi nel 2004 allo stile più ironico e dissacrante della redazione inglese di “VICE”. L’anno successivo rientra nel Bel Paese a seguito dell’apertura di “VICE Italia”, di cui resterà direttore per 7 anni.

A luglio 2013 fonda, assieme a Daniele Manusia, la rivista online “L’Ultimo Uomo”, specializzata nella pubblicazione di articoli lunghi di sport e cultura pop. Dalla costola di questa rivista, nasce “Prismo”, altro webmagazine questa volta completamente dedicato a una «cultura più o meno pop», fondato nell’aprile di quest’anno, del quale Tim è oggi direttore. Nell’autunno del 2014 Timothy è inoltre stato nominato Head of Content di Alkemy Digital_enabler, dove si occupa del Digital Content Lab, dipartimento legato alla creazione di contenuti digitali.

Ciao Tim, partiamo dalla definizione di giornalismo digitale: che cosa è per te il giornalismo digitale e come la professione del giornalista si evolverà grazie alla tecnologia?
Pensa che quando ero da “VICE”, all’inizio, non c’era il sito, c’era solo il cartaceo. Poi abbiamo aperto quello che chiamavano “il blog”. Pian piano abbiamo cominciato a pubblicare qualcosa solo online, ed è cresciuto, sino al momento attuale, in cui il giornale è un accessorio e il sito è diventato il vero centro di “VICE”. Da quando me ne sono andato, invece, sono cambiate ulteriormente le cose, e i nuovi progetti editoriali nascono nativamente digitali, ovvero pensati in partenza per il digitale. Questo significa che, già in partenza, per natura stessa della cosa, stai facendo qualcosa di sperimentale.

Ovvero?

Ovvero che, a meno che tu non studi a tavolino di fare progetti che sfruttano il peggio di internet, per rimanere aggiornato, devi fare un progetto mai pensato prima, oppure fare qualcosa che è stato fatto poco fa, ma in modo radicalmente diverso. Internet è un mezzo nuovo, le esperienze sul digitale sono costantemente nuove e bisogna costantemente adattarsi. Quelli che credo essere requisiti indispensabili del giornalismo digitale sono adattabilità e flessibilità, perché il mezzo cambia velocemente. E non cambia solo il mezzo, ma anche le esigenze di mercato in cui inserisci il tuo prodotto editoriale.

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Cambiano le abitudini e i supporti. Magari, domani, uscirà un nuovo smartphone dallo schermo circolare, e non dimentichiamoci che oggi gli smartphone occupano il 50% del traffico digitale. Come se i giornali tutto ad un tratto uscissero con un’impaginatura completamente diversa. È assurdo pensare che ci sia un solo modo di fare il digitale, soprattutto per quanto riguarda i contenuti. È un mondo in costante evoluzione. Pensa alle foto quadrate di Instagram o ai video in formato verticale, una cosa mai vista prima.

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Possiamo parlare di una maggiore multimedialità all’interno degli articoli digitali? Accostare i loro contenuti a un videogioco sarebbe deleterio?

Penso che la distinzione fra una cosa e l’altra sia sempre meno importante. Ad esempio, su L’Ultimo Uomo, in collaborazione con Adidas, abbiamo realizzato un articolo long-form multimediale chiamato “Venuto dal futuro” su Gareth Bale, un pezzo molto interattivo, con all’interno dei giochini animati, disegnati da un’illustratrice, animati da un programmatore e poi concepiti e animati da me e dal designer. E tutto questo era in supporto all’articolo. Ripetere la stessa esperienza del foglio di carta, ovvero riproporre un articolo sull’online senza usufruire della multimedialità, è ridicolo. È come riproporre un programma radiofonico in tv senza avvalersi delle immagini.

All’interno di questo panorama in continua trasformazione, che fine faranno le grandi testate, cartacee e online?

Il grosso cambiamento, a mio avviso, è che tutto sarà sempre più segmentato. È finita l’era del “lettore medio”. Se tu sei appassionato di golf, vai a leggere le informazioni solo su un sito di golf, non vuoi leggere tutte quelle notizie che circondano il golf, come ad esempio può avvenire sul “Corriere della Sera”. Oppure sul “Corriere della Sera” c’è quel giornalista esperto di golf che ti piace tantissimo, e tu segui lui, ma non “il quotidiano”. Sulla rete la segmentazione è intrinseca nello strumento. Alla fine la rete stessa nasce come rifugio di interessi.

Qualche esempio?

“Apartamento”, che non è solo una rivista di design, ma un nuovo modo di parlare di design che in Italia mancava, e loro lo fanno benissimo. Oppure altri esempi, “Alla carta”, rivista di moda e food, “Undici”, che riguarda il calcio, oppure “Studio”, una specie di “New York” magazine italiano.

Sembra dunque che il giornalismo, principalmente quello culturale, si stia dirigendo sempre di più verso un giornalismo di nicchia, lontano dal “grande pubblico”.

Non sto dicendo che non esisteranno più i grandi media, ma i grandi siti che sapranno parlare a tante persone saranno pochi. Alla fine viviamo in un mondo in cui le notizie del “New York Times” riprese da “BuzzFeed”, hanno più visualizzazioni su quest’ultimo che sul “New York Times”.

Bisogna, difatti, capire quali sono le strutture economiche che permettono a un certo tipo di cultura di espandersi in una direzione piuttosto che un’altra. Quindi la domanda centrale è per me “qual è il modello di sostenibilità?”. E sulla rete stiamo ancora cercando di capire quali sono questi sistemi, molto diversi sino a pochi anni fa, quando Facebook e Google non erano poi così diffusi.

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Velocità, adattabilità e flessibilità sembrano dunque essere le parole chiave del nuovo tipo di giornalismo culturale. Di certo però, anche l’attualità non potrà essere immune a questo tipo di cambiamento e le forme di giornalismo continueranno a essere sempre più ibride fra loro, avvicinandosi sempre di più all’interazione tra testo scritto e multimedialità. Una rivoluzione all’interno della fruibilità dell’articolo, da parte del lettore, e una sfida per il giornalista che oltre al testo, da oggi dovrà iniziare a pensare anche alle varie interazioni multimediali del suo pezzo.

Il travaglio dei migranti – la gestione dei flussi alla Stazione Centrale di Milano

Migranti, viaggiatori, ospiti temporanei, nella propria mente forse anche prigionieri di un luogo di passaggio, la Stazione Centrale di Milano. Sfiorati dall’indifferenza e dalle valigie pesanti degli arrivi o delle partenze di chi non sta scappando come loro dal proprio Paese, hanno popolato gli spazi interni ed esterni della Stazione per settimane, nell’attesa di partire, di trovare un posto nei centri di accoglienza oppure di non trovarlo, per paura di essere identificati e non poter proseguire il proprio viaggio.

Queste fotografie sono state scattate tra il 12 e il 14 giugno, nei momenti di massima tensione e attenzione mediatica nei confronti dell’ “emergenza migranti” della Stazione Centrale. In un momento di grandi flussi, generalmente assorbiti senza particolari problemi dai centri di accoglienza di Milano, la chiusura delle frontiere per la temporanea sospensione di Schengen, fra il 26 maggio e il 15 giugno 2015, per il G7 ospitato in Germania il 7 e l’8 giugno, ha bloccato il transito dei profughi che avrebbero voluto proseguire. I migranti siriani, eritrei e provenienti da altre parti dell’Africa, rischiando di essere respinti, hanno dovuto prolungare la propria permanenza a Milano.

Tra il 12 e il 13 giugno inoltre, per ordine della Prefettura, è stato chiuso il mezzanino della stazione, dove i profughi solitamente ricevevano una prima accoglienza da parte dei volontari e dove, grazie al passaparola di chi è passato prima di loro, si aspettano di trovare un punto di riferimento. I migranti sono stati concentrati per una decisione del Comune, della Prefettura e di Grandi Stazioni sotto i portici della stazione, presso quelle strutture in plexiglass progettate per essere spazi commerciali e convertite per necessità: la distribuzione di cibo, di vestiti e altri aiuti, che hanno dimostrato come anche Milano possa rivelarsi solidale, è stata spostata un po’ più lontano dalle partenze e dagli arrivi dei viaggiatori. Da un paio di settimane con l’apertura dello spazio dell’ex dopolavoro ferroviario di via Tonale, dietro alla stazione, i profughi hanno trovato un’altra collocazione, con tutti i pro e contro del caso: migliori condizioni igieniche, un tetto sulla testa, assistenza sanitaria in loco, ma decisamente maggiori difficoltà per i nuovi arrivati nel trovare la struttura.

In queste fotografie si concentrano la stanchezza di un lungo viaggio, terribile come solo lontanamente possiamo immaginare, e la speranza di andare avanti, senza guardarsi troppo indietro.

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BgIS Free Walking Tour – un nuovo modo di esplorare Bergamo

Fotografie di Francesca Gabbiadini

Crearsi un’alternativa attraverso l’esperienza? Ecco cosa serve in una realtà divisa da una crisi che sembra infinita.

E allora… BgIS! Ovvero Bergamo, meta nuova e immune da ogni inflazione turistica, narrata dalla prospettiva inedita del turismo “non tradizionale” e dalle leve della giovane imprenditoria italiana.

BgIS è un’associazione culturale nata per offrire tour della città lombarda nuovi e creativi, in linea con i dettami di una formula turistica nuova ma già molto diffusa in diversi paesi europei. Si tratta del free walking tour: una visita guidata gratuita e senza bisogno di prenotazione, che parte da un punto di ritrovo fisso, solitamente nei pressi del centro cittadino, e che conduce i suoi partecipanti nel cuore della città grazie alla preziosa esperienza di guide giovani, poliglotte e desiderose di far conoscere la propria città dal punto di vista di chi la città la vive quotidianamente.

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Come si fa a partecipare ad un free walking tour di Bergamo? Basta visitare il sito dell’associazione (qui), o seguire BgIS sulle piattaforme social turistiche più diffuse, come Tripadvisor e Yelp, ma anche visitando la pagina facebook (qui), instagram (qui) e presentarsi presso Porta San Giacomo – all’ingresso di Città Alta, il centro storico di Bergamo, ndr – all’ora dell’appuntamento.

Riconoscibile dalla paletta rossa e gialla, la guida accoglie turisti e curiosi presso il meeting point e li porta alla scoperta delle meraviglie più nascoste di Bergamo, raccontando la storia della città infarcendola di aneddoti e leggende. I tour sono senz’altro divertenti, tanto da sembrare una goliardica scampagnata fra amici, ma, come ci spiega Stefano, presidente di BGis, «i nostri tour nascono dalla preparazione nell’ambito del turismo e richiedono una preparazione accurata e dettagliata». Per ora BgIS offre tour settimanali in italiano e in inglese, ma l’obiettivo è fornire un servizio sempre più multilingue e costante.

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Come dire? Se il mercato del lavoro langue e, secondo Istat, la disoccupazione per i giovani tra i 15 e i 24 anni a Maggio 2015 si è attestata al 41,5%, la realtà associativa può essere un viatico e l’inizio di un’esperienza lavorativa fuori dai vecchi schemi del “posto fisso”. Certo non mancano le difficoltà. «All’inizio – rivela Stefano – abbiamo cercato persone convinte del progetto e che avessero solide competenze nel settore turistico». Poi è arrivato il momento di scrivere lo statuto, vera e propia “carta d’identità” dell’associazione. Tra le sue righe infatti «sono racchiuse l’essenza e l’anima dell’associazione». E tutto questo bisogna farlo in un ambiente di leadership condivisa, con un occhio alla distribuzione del potere «per non creare attriti – affermano i ragazzi di BgIS – e per dare il giusto peso alle competenze di tutti».

Ma tutto questo ha senso in vista di una sola mission: accompagnare i visitatori nella magia di Città Alta, la celebre Bèrghem de üra, attraverso aneddoti che permettano di vivere attivamente la città, perché «la storia di Bergamo – assicura Stefano – rimane dentro se diventa racconto».

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Insomma, un viaggio alternativo e immediato tra le pagine dei fatti accaduti, i monumenti di una città tanto antica quanto inesplorata, una strategia turistica inedita e ancora piena di possibilità e un approccio di «open source turistico ponderato», ripete Stefano più volte, aggiungendo che «il parere dei visitatori è il mattone più importante nella costruzione dell’associazione».

A fare da collante e da motore a tutto questo sono «coraggio e intraprendenza», ci dice Stefano, nostra guida di questo nuovo viaggio nelle Nuove Premesse pequodiane.

«Tanta voglia di fare, di allargare i propri orizzonti, di mettersi alla prova, di migliorarsi» sembrano essere sempre più i mantra delle nuove generazioni nella costruzione del proprio futuro.

In viaggio verso casa, un mese di vita a Dakar

Ripensando Dakar, i primi ricordi che sempre riaffiorano alla mia mente sono le sensazioni provate nei primi minuti, appena atterrata sul continente Africa: la presenza umana e l’odore speziato dell’aria. Sono anche le sensazioni che mi hanno accompagnata per il resto del viaggio,delle mie cinque settimane dedicate a capire e imparare ad amare il popolo di questo Paese, il Paese dell’uomo che ho sposato e della sua famiglia d’origine.

È soprattutto all’interno dei vari quartieri di Dakar che si ha la possibilità di vedere quella vita comunitaria per cui l’Africa è tanto rinomata. La capitale del Senegal è infatti divisa in 19 quartieri, a loro volta divisi in rioni numerati, i cui abitanti sono tendenzialmente accomunati dall’appartenenza ad etnie che da generazioni si tramandano gli stessi mestieri.  La mia tanta, ossia mia suocera, abita ad HLM, non ci è nata: viene da un villaggio, dove ha incontrato il marito che l’ha portata qui; la stessa storia mi racconta la domestica di casa Yacine, di cui i primi giorni non capisco la presenza, visto l’esubero di donne in casa: «Così mi aiutano -mi spiega Yacine- se ogni famiglia fa lavorare in casa una ragazzina dal villaggio, in cambio lei non solo mangia con loro, ma ha anche la possibilità di studiare e fare qualcosa di meglio un giorno».

L’istruzione in Senegal è un diritto imprescindibile e un dovere cui è difficile sottrarsi: gran parte dei bambini frequenta due scuole,una francese e una coranica, dove studia un numero per noi inimmaginabile di lingue: wolof, francese, inglese, arabo.

E i bambini in strada? Loro sono un pensiero fisso della mia prima settimana a Dakar: sono tantissimi, chiedono l’elemosina o vendono piccoli prodotti: noccioline, acqua fresca, arance… Ma mi insegnano che in Africa comunità è anche questo: non avendo un sistema assistenziale statale, la comunità pensa ai più deboli. Così i bambini studiano con l’imam, dormono nelle moschee o sotto le bancarelle dei mercati dove fanno da guardie, si vestono e mangiano di quello che le famiglie lasciano per loro la sera aspettando che bussino alla porta.

Venditrici di angurie

E lungo la strada ci sono tante iai (mamma/donna) pronte a tenere un occhio su loro. Di giorno infatti tutta Dakar sembra trovarsi in strada; tutto si produce e si vende alla luce del giorno: dagli alimenti ai divani, dalle borse alle stoviglie… e per tutto si deve fare waχale, ossia trattare sul prezzo. E così che le strade si riempiono di voci urlanti cifre, prezzi e ciniche battute delle donne senegalesi, che vanno a mescolarsi al caos prodotto dai motori, che qui sono un numero esorbitante. In pochi possiedono un’auto,ma nessuno cammina:Dakar è intasata dai mezzi pubblici,nelle forme più svariate: taxi regolari, taxi abusivi,taxi a 9 per lunghe tratte, dem ak dikk (letteralmente “andata e ritorno”, una sorta di bus di linea) e i cars rapides, pulmini le cui fermate e la cui destinazione si disegnano durante il percorso, a misura di chi ci è seduto o deve salire.

Solo la Grande Moschea può riportare il silenzio, battendo l’ultima chiamata alla preghiera, l’ultimo bagno, l’ultimo momento di ritrovo all’interno delle decine di minareti dispersi per Dakar; poi ognuno torna in famiglia, per sedersi attorno a un unico grande piatto in cui ognuno immerge il proprio cucchiaio. Nelle vie di Dakar resta solo quell’odore speziato, che è il mischiarsi dei fumi della benzina di scarsa qualità all’odore di tostatura delle noccioline, ed il suono portato dal vento di qualche gruppo di uomini in chissà quale quartiere della città che stanotte starà sveglio a cantare il nome di Allah.

Venditori di arance

“New Series is Coming” – Speciale San Diego Comic Con

Uno degli eventi più attesi dagli amanti dei film, fumetti, videogiochi e serie tv si è concluso da poco, il San Diego Comic Con, che come ogni anno ha portato tante notizie, trailer e presentato novità al pubblico alzando così l’hype.

Oggi parleremo di alcune nuove serie presenti al Comic-Con; il pubblico infatti oltre alla possibilità di vedere in anteprima i pilot, aveva la possibilità di incontrare il cast e porre le proprie domande.

FEAR THE WALKING DEAD – 23 agosto 2015

Lo spinoff di The Walking Dead, sarà completamente diverso dalla serie madre, avrà inizio mentre Rick Grimes giace in coma in Georgia nella serie The Walking Dead. Con Fear the walking dead cercheranno di colmare una parte del buco temporale di The Walking Dead, dove si seguiranno le avventure di una famiglia allargata di Los Angeles: Madison Clark (Kim Dickens), consulente di orientamento liceale e madre di Alicia (Alycia Debnam-Carey) e Nick (Frank Dillane), fidanzata con Travis Manawa (Cliff Curtis), insegnante di inglese e padre di Chris (Lorenzo James Henrie) avuto dalla ex moglie Liza (Elisabeth Rodriguez). Facciamo anche la conoscenza di una famiglia di migranti, Ofelia Salazar (Mercedes Mason) e suo padre Daniel (Ruben Blades). In questa situazione, avanza il virus che cambierà per sempre le loro vite. Per il momento non aspettatevi l’arrivo di qualche protagonista della serie madre perché non ci sono piani per dei cross-over tra le due serie.

 TRAILER

https://youtu.be/3DsPdKMdWTk

 

HEROES REBORN – 24 settembre 2015

Heroes sta tornando! Nuovi personaggi, con qualche vecchia conoscenza (come noterete dal trailer). La serie si ambienterà cinque anni dopo gli eventi narrati nella serie originale, con nuove storie.

Sia Tim Kring che il cast sottolineano le differenze tra questo revival e la serie originali sono nel fatto che Heroes era incentrata nello scoprire gente con i superpoteri, mentre in questa nuova serie il mondo è già a conoscenza della loro esistenza, quindi tutto gira attorno al senso di paura che deriva dall’essere riconosciuti come diversi e, quindi, perseguitati.

Al comic Con è stato mostrato il nuovo trailer, eccolo:

TRAILER

https://youtu.be/4FLHB2zB_cA

 

CON MAN – 30 settembre 2015

Avete amato Firefly? Siete dei fan di Nathan Fillion e Alan Tudyk? Beh tranquilli stanno tornando con una web series ideata da Alan Tudyk (sceneggiatore, regista e protagonista), in collaborazione con Nathan Fillion, e finanziato dalla piattaforma di crowdfunding Indiegogo, con quasi 47mila finanziatori, hanno raccolto più di 3 milioni di dollari (una somma di gran lunga superiore rispetto all’obiettivo prefissato per la campagna).

La trama vi ricorderà qualcosa di familiare, infatti Con Man segue le (dis)avventure di Wray Nerely (Alan Tudyk), un attore che ha avuto il picco di celebrità grazie al suo ruolo di pilota di un’astronave nella serie sci-fi Spectrum. Dopo l’immatura ed ingiusta cancellazione dello show, ormai un classico adorato dai fan, la carriera di Wray non ha avuto il successo sperato e si limita a partecipazioni a convention sci-fi e ad altri eventi vari.

La serie sarà tramessa solo su Vimeo Ondemand, Tudyk ha affermato di aver cercato di portare il progetto ad alcuni network televisivi ma tutti lo hanno rifiutato e per questo motivo ora non prenderebbe nemmeno in considerazione la possibilità di una collaborazione con le reti che hanno rifiutato lo show al tempo.

TRAILER

 

LUCIFER – 2016

Lucifer è la trasposizione televisiva dell’omonimo fumetto della Vertigo, che ha come protagonista Lucifer, il sovrano dell’Inferno.

La serie seguirà le avventure di Lucifer (Tom Ellis) sulla Terra, proprietario di un nightclub a Los Angeles che a seguito di un omicidio, decide di chiedere aiuto alla detective Chloe Dancer (Lauren German) per indagare sul caso. Ma allontanarsi dagli Inferi non è così facile, infatti il Padre di Lucifer ha mandato sulla terra l’angelo Amenadiel (D.B. Woodside), con lo scopo di tormentare Lucifer affinché torni all’Inferno.

Il produttore esecutivo Joe Henderson spiega che hanno voluto mantenere il tema principale del fumetto ma hanno voluto dare più spazio al lato umano che a quello spirituale.

 

TRAILER

 

CONTAINMENT – 2016

Un virus viene rilasciato nella città di Atlanta, provocando paura tra le persone, con lo scopo di contenere l’epidemia scatta la quarantena, la città è divisa in due zone, quella in quarantena e quella all’esterno. Le persone all’esterno cercano di mantenere l’ordine invece quelle all’interno cercano di sopravvivere.

In particolare la serie seguirà le avventure di Lex Carnahan (David Gyasi), un poliziotto che cercherà di mantenere l’ordine nelle strade, mentre la sua fidanzata Jana (Christina Moses) e il suo migliore amico e collega Jake (Chris Wood) rimangono bloccati all’interno dell’area di quarantena.

Durante il panel Julie Plec (produttore esecutivo) afferma che Il ritmo della serie sarà veloce, come il progresso della malattia ed assicura che ogni episodio ha 3 H’s: Heart, Horror, e Holy Shit.

TRAILER

https://www.youtube.com/watch?v=qE983cTD4Mg

 

Oltre a queste serie sono state presentate anche Blindspot che inizierà il 21 settembre, Legends of Tomorrow spinoff di Arrow e The Flash che farà il suo debutto nei primi mesi del 2016. Minority report, il sequel del film di Steven Spielberg, inizierà invece il 21 settembre. Altro sequel tratto da un film è Limitless dal 22 settembre e il 24 settembre comincerà The Player.

“It’s A Bird… It’s A Plane…no it’s” Supergirl il 26 ottobre volerà sul vostro schermo e infine Scream Queens la nuova serie antologica comedy horror di Ryan Murphy partirà il 22 settembre.

E dopo aver letto le novità e aver visto i trailer, quali serie vi hanno incuriosito di più? Ditecelo nei commenti!

 

Michael Nyman: lezioni di piano a parte

 

Creare qualcosa di bello, a volte, è più una condanna che una fortuna. Chi crea un’opera di grande rilievo spesso nutre verso di essa sentimenti contrastanti: l’odio per un persecutore, il senso di ingiustizia per il resto della produzione, l’amore del genitore per un figlio. Deve essere frustrante sentirsi sempre chiedere la stessa cosa, quando si è consapevoli di aver fatto anche altro nella vita, altro di ugualmente bello; come un attore che si fonde con un personaggio. Eppure, quando si ha un grande dono come questo, si finisce per vivere di lei e pace a chi non capirà.

Questo è il problema di Michael Nyman, che ho avuto l’occasione di ascoltare dal vivo presso il Palazzo Trecchi di Cremona, in un concerto dal titolo Acqua Armonica, all’interno del festival Acque Dotte, alla sua prima edizione. Già ospite della città nel 2014 per il festival Mondomusica, Nyman ha partecipato con un’esibizione da solista il 12 luglio scorso, nell’elegante cortile del palazzo nobiliare. La sua è soltanto la seconda del festival, ma anche l’ultima prima delle vacanze estive: il suo prossimo concerto, infatti, sarà l’8 settembre a Napoli.

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Sottotitolo del festival è Music flow, la musica scorre. Un chiaro riferimento, questo, assieme ad Acqua Armonica, alla presenza solenne e potente del fiume Po, sulla cui riva lombarda  sorge Cremona. Il Grande Fiume è scenografia e protagonista della vita quotidiana della città e la rassegna si propone di esaltare questo arcaico rapporto tra i due: ogni concerto, infatti, ha nel titolo l’acqua, l’elemento liquido.

Nyman, nella sua performance, ha mantenuto la promessa che gli è stata chiesta, collegando ogni brano al successivo, senza interruzione: perché se il Po scorre, la musica fluisce e così le sue note.

Le colonne sonore e gli spartiti sono stati accostati l’uno all’altro, seguendo quasi il movimento dell’acqua. Il maestro ha attinto soprattutto dai dischi The Piano Sings e The Piano Sings 2, e dopo un’ora di attesa, ha eseguito il brano che lo ha portato al successo di pubblico, ma anche all’assimilazione con un film, uno dei tanti in cui ha lavorato: si tratta di The Piano (1993, tradotto Lezioni di piano) di Jane Campion, vincitore di tre premi Oscar e vero film cult.

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L’ovazione era d’obbligo, ma sul volto del compositore londinese si è dipinta un’espressione amara. Tutti conoscono quel brano, ormai; tanti hanno visto il film, ma altrettanti sembrano ignorare cosa altro egli abbia composto.

Oltre che compositore, Nyman è anche musicologo e fra i primi rappresentanti del minimalismo musicale della fine degli anni ‘60; è pianista e performer di carattere, oggi anche fotografo e regista (il suo album fotografico Sublime non potrebbe avere altro titolo), infine scrittore di storia della musica. Non stupisce che sia chiamato anche Renaissance Man, perché la sua creatività, il suo desiderio di sperimentare e la sua forte curiosità sembrano non avere davvero limiti.  Inoltre, se proprio dobbiamo di continuo relegarlo al mondo delle colonne sonore, si citino almeno altri film in cui ha collaborato: Gattaca-La porta dell’universo (1997) e La stanza del figlio (2001).

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Quel che però non convince del concerto è l’atmosfera che si crea una volta che Nyman si siede al pianoforte. Quando gli occhi gli cadono sullo spartito e le dita sfiorano i tasti, il pubblico sembra escluso, come se non ci fossero che lui e il piano. Per questo, l’impressione che mi ha dato è che egli abbia un’immaginazione lirica, del tutto rara, ricca di poesia e dolcezza, ma che si trovi più a suo agio in un luogo privato, più consono alla creazione, piuttosto di un piccolo palco su cui suonare da solo.

Forse, però, si tratta di un senso di rivalsa. Da solo, Nyman non può essere soltanto Lezioni di piano, ma un artista di enorme talento, un grande teorico e un poeta. Il pubblico pagante in parte pareva essere lì esclusivamente per ascoltare quelle note romantiche che lo ha commosso.

Nyman non è una nota sola, ma una fragorosa onda di note che sono tutte quante degne di essere udite, e ognuna ci racconta una storia diversa.

 

 

GoCambio can be fun, ask Lorraine!

Second chapter of Pequod discovering GoCambio experience. Here’s Lorraine’s story of cambioing, from Ireland to Spain. She had a lot of fun while learning something new about Spain and teaching her host English in a fun way…

How did you find out about GoCambio

Well the company started up in my hometown of Youghal, Ireland. I bumped into a friend who was working for the company when I was home on holiday. I travel a lot and when he mentioned what he was working on I was immediately intrigued! I couldn’t believe no one had done this before!

Can you describe the passages one has to do before setting off? Would you describe it as easy?

You can sign up on the GoCambio website (here). It couldn’t be easier. You enter your details which you late have to verify for security reasons, a standard request from any reputable website. Then you fill out your profile including what you can offer either as a guest or a host; likes, dislikes, languages, hobbies, interests…etc. It’s pretty straight forward and very user friendly. Then all you have to do is pack you bag and ditch the guidebook!

Did you like your host?

Alex was so much fun. I went to his place in Zaragoza, Spain. It turned out we had a lot in common and he really made me feel welcome and at home. I made so many friends and hopefully Alex will make his way to Youghal sometime so that I can extend him the same welcoming!

Lorraine and her host, Alex
Lorraine and her host, Alex

So, you were a Guest, which means that you were hosted for free and in exchange you had to help your host with learning and improving a language, your language. What did you do, precisely? Can you describe your day while on “cambio”? 

Sure! Well since Alex and I got along so well, he decided that rather than a ‘class’, he just wanted to hang out and speak in English so that’s what we did. The language teaching is something you can discuss with your host in advance and arrange a situation that is suitable for both of you. Some people want to chat, maybe others have a particular goal in mind and might ask you to help them with their writing for example, it really depends on what you want or need from you cambio which is really the beauty of the whole experience. We enjoyed breakfast together and then Alex gave me a tour of the city of Zaragoza. He told me the history, showed me the best spots to eat (I may have eaten a little too much to tell the truth), some funky bars for grabbing drinks, he brought me to the famous cathedral and we had dinner in an amazing Mexican restaurant tucked away down a side street.

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Zaragoza

Would you say that you had time enough to enjoy the city and your trip? Is the “cambio” way demanding in any way or not? 

Absolutely not. I went with the flow and was lucky to actually want to hang out with my hosts and see a different side of the city but you can also just tell your host ‘Hey, I would love to do some sightseeing, could we have classes in the morning/evening/at a specified time’ etc. Its about sharing, so it has to be convenient for everyone. It’s a sharing economy, give a little, get a little!

Sightseeing in Zaragoza
Sightseeing in Zaragoza

 

Is there a moment that you especially enjoyed and would like to share with us? Anything nice or particular that happened with your host? 

Alex and I made chicken fajitas together and he invited his friends over for dinner. We took turns playing different Spanish or English songs and Alex showed me how to do some salsa dancing. I was terrible at it but it was such an authentic experience that I thought ‘Yeah, this is what it’s all about’.

Did this experience with GOCambio influence your idea of Europe and being European in any way? Was it significant in terms of belongin to a larger community?

Of course! It brings people together in such a unique way that you can’t help but really feel a part of it. It is refreshing as someone who travels a lot to come across people who want the same authentic experience, who want to see the things that aren’t in the guidebook, who want to wander to places that are not on a map, who want to speak to real people who have real lives and real stories to tell.

Sightseeing in Zaragoza
Sightseeing in Zaragoza

After the Referendum! Let’s fight all inequality

Cammino lungo il fiume Liffey e tutt’attorno si scorgono ancora nitidi i segni della vittoria. Alte e fiere sventolano le bandiere arcobaleno, i pub e i commercianti ancora tengono appesi i drappi e i manifesti del “Sì”. Temple Bar ancora risplende di colori festosi e South George Street, ogni sera, rivive e ricorda le gloriose giornate del Referendum. Il castello di Dublino, in quel giorno giovane e colorato come mai, si è trasformato nel teatro gioioso dei festeggiamenti che ancora trasuda di amore frocio. I verdi parchi minuziosamente curati ricordano le orde di giovani e giovanissimi che in quel giorno hanno celebrato e si sono ubriacati in nome della vittoria dell’amore. Amore libero, amore che non segue le regole bigotte di una società che per decenni lo ha disconosciuto, amore che si lascia trasportare dalla forza del cambiamento. Amore che ha il coraggio di seguire i propri desideri e le proprie passioni, senza lasciarsi imbrigliare e controllare. Amore che finalmente ha la possibilità di scegliere come vivere ed essere riconosciuto come tale.
E’ passato più di un mese da quello stupendo 22 Maggio, ma i segni della vittoria ancora saltano all’occhio e appartengono alla memoria collettiva di Dublino.Foto 2

Con il 62% dei “Sì” l’Irlanda è il ventunesimo paese al mondo, il primo per via referendaria, ad approvare i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Circa 3,2 milioni di irlandesi sono stati chiamati alle urne per esprimersi sulla modifica dell’art 42 della Costituzione che autorizza “il matrimonio tra due persone, senza distinzione di sesso”. In un Paese in cui fino al 1993 l’omosessualità era considerata reato, conservatore e con una forte tradizione cattolica, questo risultato rappresenta una vera e propria “rivoluzione culturale”. Il massiccio voto favorevole rappresenta, infatti, una grande vittoria per il principio di uguaglianza e mostra, senza dubbio, come l’Irlanda sia un paese libero, progressista e aperto a tutti.
Questa è una vittoria,
in primis, per la comunità LGBT che è stata il cuore della campagna e che ora ha il rispetto e il supporto della maggior parte dei suoi concittadini. E’ una vittoria per i più giovani che hanno portato avanti la campagna del SI porta a porta e hanno dato un apporto e una spinta innovatrice a questa vittoria. E’ una vittoria per la working class, da sempre considerata bigotta e perbenista, in quanto i picchi più alti del SI si sono ottenuti nelle zone popolari di Balleyfermot, Cherry Orchard e Fingal. E´una vittoria per tutti quelli che si battono per le ingiustizie e credono in un mondo in cui le differenze sono un forte potenziale e non qualcosa da proibire e nascondere.

Members of the Yes Equality campaign begin canvassing in the center of Dublin, Ireland, Thursday May 21, 2015. People from across the Republic of Ireland will vote Friday in a referendum on the legalization of gay marriage, a vote that pits the power of the Catholic Church against the secular-minded Irish government of Enda Kenny. (AP Photo/Peter Morrison)

Già dal 2010, le coppie omosessuali potevano contrarre le unioni civili, ma con la vittoria del referendum, si introducono uguali diritti e protezione per le coppie omosessuali ed eterosessuali. Si tratta della fine di una discriminazione secolare che riconosceva diritti diversi per gli sposi omosessuali e che li categorizzava come coppie di secondo livello. Nel compatto “fronte del SI” si scorgono, in prima linea, le associazioni LGBT, poi il governo e i leader dei maggiori partiti politici, le grosse corporation, le celebrità dello spettacolo e dello sport, tutti uniti nel nome dell’uguaglianza e dell’amore. Sull’altra sponda, la Chiesa Cattolica, metodista e presbiterana che millantava la fine della famiglia e invitava a riflettere prima del voto, finendo per essere travolta dai suoi stessi discorsi retrogradi ed escludenti. L’esito del voto ha inflitto un duro colpo alla vecchia guardia cattolica presente nel paese, la quale ha perseguito una disdicevole e omofoba campagna a favore del NO. Risulta chiaro come in Irlanda gran parte della popolazione voglia un nuovo modello di società, mostrando la forza e la determinazione per costruirla.
Nonostante il grande salto in avanti, altre due importanti questioni restano irrisolte nel panorama legislativo e politico irlandese dell’
after referendum. Il diritto delle donne di scegliere sul loro corpo attraverso un libero, sicuro e legale diritto all’aborto e la fine della forte discriminazione verso le persone trans nei vari ambiti della società e del lavoro.Foto 4

Alla luce dell’esito del Referendum, l’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, in un’intervista alla televisione nazionale Rtè, dichiarava che “la Chiesa in Irlanda deve fare i conti con la realtà, è una rivoluzione sociale e la chiesa non potrà semplicemente far finta di nulla. Ci dobbiamo fermare, guardare ai fatti e metterci in ascolto dei giovani”. L’arcivescovo, ammette la sconfitta e la pesante sberla che la Chiesa irlandese riceve, in un processo di secolarizzazione sempre più evidente. Le giovani generazioni, a differenza dei genitori cresciuti in un contesto fortemente cattolico e proibizionista, la pensano in maniera differente e hanno la forza di mobilitarsi per ciò che credono. Questo risultato rende ancora più grave la posizione dell’ultimo stato dell’Europa occidentale, l’Italia, che ancora non ha alcuna tutela per le coppie gay. Gravi sono anche le dichiarazioni del cardinal Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, che si è detto profondamente rattristato per i risultati del referendum dicendo “La Chiesa deve fare i conti con la realtà, ma nel senso che deve rafforzare l’impegno nell’evangelizzazione. Penso che non sia solo una sconfitta dei principi cristiani, ma una sconfitta per l’umanità”. Queste dichiarazioni hanno scatenato giustamente indignazione e rabbia sia nel mondo laico che cattolico, mostrando come la Chiesa italiana, nonostante le dichiarazioni di apertura di Papa Francesco, non intenda far alcun passo indietro su questi temi. La strategia del Papa nella quale apre (a parole) alle differenze della natura umana senza, però, cambiare la dottrina sta ora rivelando i suoi limiti e le sue contraddizioni. La bomba del referendum, infatti, manda in frantumi nuovamente la propaganda ecclesiastica, secondo cui le spinte al riconoscimento dei diritti omosessuali arriverebbero esclusivamente da agenzie internazionali come l’Onu, l’Unione Europea e i paesi Nord Europei, che starebbero mettendo in atto un’indottrinamento culturale. Tutto questo per minare l’idea cristiana di famiglia unita, sacra ed eterosessuale. Pura retorica conservatrice fortemente smentita dal voto popolare in un paese con lunga tradizione cattolica che mostra come il tema dell’omosessualità sia un tema di scontro e pietra d’inciampo per una Chiesa che sempre più si allontana dai suoi discepoli. In tutto il mondo, il tema dei diritti civili sta portando, con varie sfumature, a modificare le costituzioni, mostrando la tendenza a riconoscere come la sessualità umana sia varia e non coercibile o correggibile. Essa è, invece, parte integrante dell’identità della persona e parte fondamentale nel processo di crescita di ognuno.foto 5

Passata l’euforia delle celebrazioni, è importante fermarsi e riflettere su come si è ottenuta questa vittoria. Riprendendo un articolo uscito qualche settimana fa sul The Guardian, bisogna mettere le mani avanti sul forte precedente che questo referendum crea in termini di agire politico. Per quanto sia stupendo che un popolo si esprima a favore di una minoranza e le garantisca diritti prima negati, ciò rivela anche l’altro lato della medaglia. Un tema così importante come i matrimoni gay, un diritto civile imprescindibile, viene lasciato alla mercé di un referendum e non deciso dai parlamenti o dai tribunali come spetterebbe. “I diritti delle minoranze non possono e non devono mai essere decisi dalla maggioranza”, redarguisce l’acuto colunnista Saeed Kamali Dehghan. I diritti delle minoranze sono riconosciuti tali, proprio per proteggere queste ultime da eventuali abusi della maggioranza. Cosa succederebbe se si incoraggiasse il referendum in paesi in cui l’opinione pubblica non è illuminata o tollerante come in Irlanda? Cosa succederebbe se si proponesse un referendum su questi temi in paesi dell’Africa o del Medio Oriente? O, perché no, in Italia? Questo voto ci mostra come la pensano gli irlandesi e non deve diventare la pratica politica che legittimi o meno il naturale diritto del matrimonio gay. Il diritto di sposarsi è riconosciuto come diritto fondamentale dalla Carta Europea dei diritti fondamentali e dev’essere garantito in quanto tale e non essere sottoposto al voto della pericolosa maggioranza.

Fotografia di copertina via Reuters

Transmongolica – un incredibile viaggio al contrario

Fotografie di Ettore Schiavi e Moira Surini.

Da Pechino a Mosca, passando per la Mongolia: la Transmongolica, una delle versioni della più famosa Transiberiana, il percorso che in treno attraversa praticamente da un capo all’altro l’Asia.

Solitamente fatto dalla capitale russa a quella cinese, questo è un viaggio al rovescio, da piazza Tienanmen alla piazza Rossa.

In mezzo, un carosello di immagini e culture, dall’infinita muraglia cinese e le effigi di Mao, alle steppe e ai cavalli della Mongolia, a notti passate dento a una ger, le grandi tende mongole che spesso vengono ancora usate come abitazioni, a Ulan Bator, l’imponente capitale dello stato mongolo, difesa al suo esterno da un ancora più imponente colosso argenteo di Gengis Khan, padre dei popoli; dal lago Baikal, patrimonio dell’Unesco, a Ekaterinburg, considerata città di confine tra l’Europa e l’Asia, un’isola di civiltà circondata da taiga e foreste.

Mosca è la tappa finale di questo insolito viaggio al contrario, un percorso che incontra facce e lingue diverse, luoghi differenti tra loro visti dal finestrino di un sedile di terza classe, da un vagone che sa di noodles, anatre e fumo, da treni che come lunghi serpenti attraversano un pezzo di mondo diviso fra l’Europa e l’Asia.

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NIYA – Che suono fa la felicità?

Da sempre la musica è considerata collante sensoriale per eccellenza, coinvolgente, indiscreta, per tutti.

Negli anni il cambiamento trasversale ha dato luce a sempre più generi musicali, a mezzi di fruizione e strumenti sempre diversi e più tecnologici; ad oggi possiamo passare dall’heavy metal più pesante alla canzone partenopea tradizionale, dalla leggerezza delle note di Einaudi all’ultima hit di Lady Gaga semplicemente premendo un pulsante.

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Ma c’è un progetto, nato tra le colline della bergamasca, che mette in primo piano la riscoperta delle più antiche sonorità legate alla natura, ispirandosi alla cultura indiana d’America degli Sioux lakota: è il laboratorio di strumenti musicali artigianali di Maurizio Barba e Ileana Ferrara, marito e moglie entrambi musicisti che nel 2013 hanno deciso di rischiare fondando NIYA (letteralmente “spirito”), trasformando una passione in qualcosa di più concreto.

Tutto è nato dall’idea di aprire un negozio che ha aperto loro un mondo nuovo alla scoperta di questa cultura, apprendendone tecniche e tradizioni; dapprima cimentandosi nella realizzazione di strumenti musicali partendo da immagini e fotografie, in seguito perfezionando la tecnica scegliendo i legni e le forme più adatte da personalizzare con decorazioni tipiche della cultura aborigena, come il dot paint.

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Un momento di transizione che ha spinto i due artisti all’idea di portare a Bergamo un negozio di strumenti etnici musicali ancora in uso, che non sono la solita chitarra fender, come ci racconta Maurizio nel corso dell’intervista: «C’è la voglia di portare la liuteria in primo piano, è proprio questa che dovrebbe avere importanza, l’importanza di apprendere e conoscere l’essenza di una chitarra, di uno strumento, dai materiali scelti alla tecnica di creazione, piuttosto di uno strumento prefabbricato che arriva dall’industria».

Tra fiere e mercati dell’artigianato il negozio ancora non esiste, il laboratorio si trova a casa e, se già sfogliando la pagina facebook si resta affascinati dai colori e dalle forme, è fondamentale instaurare un vero e proprio rapporto materiale per capirne le sfumature. Spaziano dalla Musica di spettacolo alla Musicoterapia dal bambino curioso di otto anni, all’anziano che torna entusiasta per un nuovo acquisto, al musicista che prende uno strumento più dettagliato e professionale.

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Fiore all’occhiello del marchio leader nel settore del self-made in Italy sono la Kalimba in vero cocco – anche in versione elettrica – e la Kalimba Catania in legno massello, ma Niya è anche Cigar Box Guitar, la leggendaria chitarra Blues e Wood Drum a due, tre o quattro note.

Lo studio della propedeutica musicale verte ad avvicinare l’istinto naturale e primitivo dell’uomo come quello di tamburellare ai bambini, nelle scuole di infanzia, riportando la musica in primo piano nella comunicazione.

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Non mancano poi progetti futuri: «Al momento stiamo arricchendo il nostro catalogo di strumenti per arrivare a un progetto che partirà l’anno prossimo, grazie al quale uniremo alla musica il design di interni, faremo suonate letteralmente l’arredamento».

Le carte in regola ci sono tutte, un progetto innovativo, un’utenza felice ed entusiasta e progetti futuri che fremono, ma come nelle migliori storie non può mancare qualche ostacolo: il commercio eco-solidale locale al momento si è rivelato scettico rispetto a grandi metropoli come Milano o Parigi, ma siamo certi che il feedback positivo non tarderà ad arrivare, l’utenza bergamasca riuscirà a coinvolgere le varie realtà locali, arricchendone l’inventario.

Alla ricerca di se stessi sulle orme di Santiago

Il cammino è la meta” è una di quelle frasi da Bacio Perugina che ci fanno più ridere che riflettere; ma quando la si vede associata al Cammino di Santiago, la verità non le è più così lontana!

Da quando, all’inizio del IX secolo, si è diffusa la notizia della scoperta della tomba di san Giacomo il Maggiore a Santiago de Compostela, i pellegrini hanno iniziato a confluivi a migliaia per rendere onore al santo. Oggi sono 200mila le persone che ogni hanno si mettono in cammino su questi stessi sentieri, guidati dalle più svariate motivazioni: chi per sport, qualcuno per turismo, moltissimi  sulle tracce di una ricerca interiore che li porti ad avere una più piena consapevolezza della loro vita.

Paesaggio da O Cebreiro, a 1300m di altezza.
Paesaggio da O Cebreiro, a 1300m di altezza.

Il fatto di essere adatto a tutti fa sì che il cammino riservi sorprese ed incontri straordinari. Durante il giorno, quando i kilometri scorrono sotto le scarpe, sono la natura e la solitudine (fatta eccezione per gli incontri con gli altri pellegrini) le sole compagne su cui si può fare affidamento; si impara a fare i conti con la fatica, i dolori muscolari e le insidiose vesciche, ma è soprattutto con se stessi che finalmente si riesce ad entrare in contatto.

La sera invece, dopo un meritato riposo e una doccia ristoratrice, è un momento di condivisione e allegria negli albergue in cui ci si può trovare a cucinare con un’umanità aperta, calorosa e disponibile, proveniente da ogni parte del mondo, con cui scambiare opinioni e racconti che non possono far altro che arricchire l’esperienza stessa del cammino.

La freccia gialla e la conchiglia sono i simboli che accompagnano il pellegrino durante tutto il cammino... alcuni sono davvero artistici.
La freccia gialla e la conchiglia sono i simboli che accompagnano il pellegrino durante tutto il cammino… alcuni sono davvero artistici.

A proposito degli albergue! Sono più di 300 disseminati lungo tutto il tragitto e ce ne sono per tutti i gusti: alcuni di proprietà pubblica, alcuni di proprietà religiosa e il resto di privati. Si tratta di edifici che hanno letti a castello in stanze o dormitori con una capienza che può andare dagli 8 ai 150 posti letto; anche questo fa parte dello spirito del pellegrinaggio: meglio avere però una certa dose di capacità di adattamento dal momento che si dorme in genere in camerate comuni e i vicini di letto possono essere più o meno rumorosi (consiglio: i tappi per le orecchie possono davvero salvarvi da una notte insonne).

In una di quelle camerate ho conosciuto Dawn, una ragazza venticinquenne originaria della California; ci incontriamo in un affollato ostello di O Cebreiro, una della prima cittadine galiziane sul cammino di Santiago. «Cinque anni fa mi trovavo in una situazione disastrosa – racconta – avevo lasciato da tempo gli studi e mi dedicavo a lavori saltuari per cercare di mantenermi. Non mi riconoscevo più e avevo perso la fiducia nel riuscire a fare qualcosa di più della mia vita. Sembra incredibile ma fu un film a darmi la forza di rimettermi in moto». Fu infatti dopo aver visto The Way di Emilio Estevez (2010) che Dawn mollò tutto e, armata solo di un pesante zaino sulle spalle, volò a Pamplona, dove iniziò il suo primo personale Cammino di Santiago.

Dopo essere arrivati a Santiago molti pellegrini decidono di prolungare il viaggio di qualche giorno per poter giungere a Finisterre, dove, dopo aver acceso un piccolo falò, bruciano alcuni vestiti con i quali hanno compiuto il cammino in segno di purificazione.
Dopo essere arrivati a Santiago molti pellegrini decidono di prolungare il viaggio di qualche giorno per poter giungere a Finisterre, dove, dopo aver acceso un piccolo falò, bruciano alcuni vestiti con i quali hanno compiuto il cammino in segno di purificazione.

In copertina: ph. Anila amataj CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons

Nabucco: l’annunciato successo di Giuseppe

Nabucodonosor è il titolo originale della terza opera di Giuseppe Verdi, il primo grande capolavoro che decretò il suo successo (poi, in realtà sui cartelloni il titolo, essendo troppo lungo, veniva scritto Nabucco e, a capo, Donosor – anche Giuseppe finì per usare il titolo abbreviato).

«Con questa opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica». Lettera autobiografica a Giulio Ricordi, 1879.

Un dramma lirico in quattro atti basato sul libretto di Temistocle Solera che venne rappresentato per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 9 marzo 1842.

Ve ne parlo perché  è una delle opere in programma all’Arena di Verona in queste settimane: tre ore e mezza circa (intervalli inclusi) di sublime godimento con l’orchestra dell’Arena sotto la direzione di Riccardo Frizzi e una regia ideata nel 1991 da Gianfranco de Bosio, con le scene di Rinaldo Olivieri.

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Non ricordo le esatte parole dell’aneddoto raccontato da Giuseppe su come si sia deciso ad accettare l’ingaggio dell’impresario Bartolomeo Merelli, ma fu una sera in cui l’impresario della Scala spazientito (il libretto che tentava di proporre era già stato rifiutato da Otto Nicolai, un giovane compositore prussiano) piombò nel suo appartamento scaraventando il libretto sul tavolo (c’erano stati degli screzi precedenti) per poi andarsene sbattendo la porta. Giuseppe un po’ stizzito e un po’ incuriosito si avvicinò al libretto che s’era aperto e iniziò a leggerlo: decise che si, avrebbe composto lui la musica.

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Nella prima parte la scena fingesi in Gerusalemme, nelle altre in Babilonia.

Naturalmente la prima fonte del libretto di Temistocle è la Bibbia e in particolare le parti che riguardano il regno di Giuda e la sua invasione da parte del re babilonese Nabucodonosor nel 587-586 a.C., quando venne saccheggiato il tempio di Gerusalemme, con la conseguente deportazione dei vinti in Babilonia.

Considerata una delle opere più risorgimentali di Verdi, ebbe un grande successo in Italia perché gli spettatori dell’epoca potevano immedesimarsi e riconoscere la loro condizione politica in quella degli ebrei soggetti al dominio babilonese. Questo era il grande potere dell’opera: un momento di musica (e non solo) condivisa dove la coralità e l’empatia erano elementi fondamentali, vissuti e interiorizzati dagli spettatori.

Quella di Nabucco è una trama complicatissima: c’è la politica, c’è l’amore, l’odio, la guerra e gli dei che s’impicciano negli affari terreni. Tutto inizia al Tempio di Gerusalemme dove i Leviti sono preoccupati per la sorte degli Ebrei, appena sconfitti da Nabucco; qui il gran pontefice Zaccaria risolleva gli animi facendo notare che Fenena, la figlia di Nabucco, in realtà è loro prigioniera.

Ismaele, nipote del re di Gerusalemme, è però innamoratissimo di Fenena e fa di tutto per farla fuggire. A ciò si aggiunge Abigaille, anch’essa figlia di Nabucco e innamoratissima di Ismaele, che scopre il piano dei due amanti e minaccia Fenena di raccontare tutto a papà. Il buon cuore di Ismaele fa ricongiungere l’amata al padre, scatenando l’ira degli Ebrei (anche se poi si scoprirà che Fenena è ebrea e quindi Ismaele ha fatto la cosa giusta).

 

Nel frattempo Abigaille scopre un documento in cui si attestano le sue origini da schiava (venne adottata da Nabuccodonosor) che non le permettono la successione al trono – si, perché nel frattempo ci sono in giro voci per cui il re dei babilonesi sarebbe morto in battaglia. Fenena prende il potere e ordina che gli ebrei vengano liberati: da qui il putiferio.

Questa non è nemmeno metà dell’intera trama, ma forse vi siete fatti già un’idea della complessità, dei colpi di scena e del brivido della storia!

 

In copertina: Nabucco a Masada (Israele), regia di Daniel Oren [ph. Hanay CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

Bojack Horseman

Neflix è sempre di più sulla bocca di tutti. Infatti dopo l’ufficializzazione del suo arrivo in Italia questo autunno (ad ottobre per essere precisi) l’attesa cresce, insieme alle già enormi aspettative sul servizio. Do quindi per scontato che il lettore conosca quantomeno i titoli di punta della piattaforma, ma di questo ne abbiamo già parlato qui.

Oggi invece voglio proporvi una serie che nel Bel Paese è ancora pressoché sconosciuta, ma che mi ha colpito molto, per uno svariato numero di ragioni. Mi riferisco a Bojack Horseman, che ha esordito il 22 agosto 2014 con la prima stagione, accompagnata da uno speciale natalizio reso disponibile il 19 dicembre, mentre la seconda vedrà il suo debutto il 17 di questo mese.

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E ora viene il difficile. Riuscire a dare la definizione di un prodotto del genere infatti non è certo impresa agevole. Possiamo iniziare ascrivendola al genere delle cosiddette adult animation, dove l’animazione appunto si associa a un tipo di comedy dai toni cupi, dark, e dove le tematiche scavano oltre la superficialità della sitcom, rendendola per certi tratti più simile a un drama. Roba per adulti insomma. Il paragone più immediato sarebbe con Archer su FX, o Bob’s Burger prodotto dalla FOX. Ma come vedremo, la storia non è così semplice.

L’ideatore della serie e la sua disegnatrice, Raphael Bob-Waksberg e Lisa Hanawalt, sono entrambi esordienti, ma nonostante questo il budget per la realizzazione dei 12 episodi della prima stagione non può certo definirsi irrisorio. Un bel rischio quindi, ma la faccenda si fa più interessante. Entriamo dunque nel vivo parlando dell’ambientazione. Siamo in un mondo in cui uomini e animali antropomorfizzati vivono (più o meno) felicemente insieme. Primo requisito per immergerci nel mondo di Bojack è perciò la sospensione dell’incredulità, che ci catapulta nella Hollywood più strana che abbiate mai visto: uccelli paparazzi, procioni senzatetto, Andrew Garfield, Beyoncé, Quentin Tarantulino (letteralmente una tarantola), regista famoso per rivitalizzare attori dimenticati, come Lassie in Reservoir Dogs (ovviamente!).

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Il protagonista, che dà il nome alla serie, è un cavallo, Bojack Horseman, attore di successo in una sitcom degli anni ’90, Horsin’ Around, ora semi-dimenticato, il cui unico desiderio è quello di piacere agli altri. Il doppiatore è Will Arnett, che viene affiancato da un cast d’eccezione: Diane Nguyen, la ghostwriter che ha il compito di scrivere le memorie di Bojack è Allison Brie (Mad Men, Community); il suo ragazzo, un cane di nome Mr. Peanutbutter, protagonista di una sitcom di successo (Mr Peanutbutter’s House) che ricalca palesemente Horsin’ Around, è Paul F. Thompkins; poi c’è Todd, uno scansafatiche disoccupato che vive sul divano di Bojack da cinque anni ed è doppiato da Aaron Paul (il Jesse di Breaking Bad); infine c’è Princess Carolyn, una gatta, ex di Bojack e sua attuale agente, vociata da Amy Sedaris.

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La serie inizia abbastanza lentamente, strappa qualche risata, ma ci mette un po’ ad entrare nel giusto mood, che però puntualmente arriva a partire dalla sesta/settima puntata (sistema che sembra ormai utilizzato per tutte le serie Netflix). Alcuni episodi di questa seconda parte di stagione sono autentici gioielli. Si iniziano a trattare diffusamente temi ambiziosi come la depressione, la solitudine, il successo, la superficialità della società contemporanea, il razzismo, ma più di tutti la riflessione su se stessi e sulla propria identità. La parabola di Bojack in questa stagione è sorprendente e, con un paragone azzardato, si potrebbe dire che passa dall’essere un personaggio alla Peter Griffin, per ritrovarsi nei panni di un Don Draper.

Inoltre rappresenta la quintessenza di Netflix e del binge-watching, in quanto essendo composta da episodi brevi (sui 20 minuti), va bevuta a grandi sorsate per apprezzarne a pieno il gusto dolce-amaro. Ve lo assicuro, non esistono altre serie come questa. Bojack Horseman raggiunge una profondità inaspettata, segnando con forza, a mio parere, il panorama televisivo contemporaneo.

Sigla iniziale:

 

From Mexico to the Netherlands : what a great experience!

Today we have interviewed Rodrigo, a young Mexican guy who decided to move to Europe after his bachelor in Mexico. Rodrigo is really open minded and easy-going, he loves to travel as much as he can and get in touch with new people, especially with European students. According to his first impressions about living in the Netherlands, we might say «so far so good».

 

Hello Rodrigo! Tell us something about yourself, please.

Well, my name is Rodrigo and I am Mexican, which is one of the first things that people should know, I guess. I am currently studying in Tilburg, NL, doing a master’s in Communication, but right now I am doing an internship in Amsterdam, which is pretty cool.

Why did you choose the Netherlands?

Because it’s the gateway to Europe, it has one of the best education systems in the world, also the fact that ninety percent of the people here in the Netherlands speak English helps a lot.

Describe your life in the Netherlands.

As I said before I am a student, in a normal day I go to class, after that to the library to study, trying to catch up with the deadlines. I always try do to as much as possible because you have to get it together if you want to pass the course, which means that there are hectic periods when you have several deadlines and all of them need to be done in a very short time. As regards social life, in the beginning it was difficult to socialize and go out because of the deadlines and group projects, but working together was the first step towards having a proper social life. Now that I have my own group of friends it’s easy to go out and enjoy our free-time. Our favourite spot is Kandinsky, a great pub in Tilburg where you can get several different types of beer, which is perfect to warm up before getting to the city centre and going dancing in some clubs.

Rodrigo is seriously enjoying Tilburg social life, including dinners!
Rodrigo is seriously enjoying Tilburg social life, including dinners!

How is living in the Netherlands different than living in your country?

I’d say there are few differences. Of course here I’ve started to enjoy sunny days as I have never done before, because in Mexico it’s always sunny, while here you definitely appreciate the sun, especially after some rainy days. Another difference regards the food – I have not missed Mexican food that much, I guess because here there are other delicious products like frikandel (a Dutch and Belgian snack, a sort of minced-meat hot dog – editor’s note) kassouflet (cheese croquettes, editor’s note), croquettes, kip corn (chicken nuggets, editor’s note). Also, people here are more open and direct with their feelings, while in Mexico they tend not to be so straight-forward… At the beginning this was quite a difference for me, something I had to get used to, especially when I started working with international people.

Each country has different tradition. Rodrigo seems to respect the local costumes, here he's celebrating Dutch Carnival with his friends.
Each country has its own traditions. Rodrigo seems to respect the local costumes, here he’s celebrating Dutch Carnival with his friends.

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?          

The biggest challenge in my opinion is leaving everything you have behind you, friends and family, and starting everything from scratch . I cannot say I have any regrets, I would say that now I have done the right choice but at first I was hesitant about deciding to live far away from home. The thing that I miss the most from my country is my family, I was used to talk with them everyday and, even if today technology allows us to communicate everywhere and at any time, it’s not the same as having a real contact with the person you are talking to.

Especially in this particularly tough moment, what do you thing the meaning of Europe is? Do you perceive the existence of Europe as a community? If you were born here would you feel part of it?

I was used to a completely different world – probably if you ask a Greek student or a Spanish one, who have actually been living the European issue, you might get a better answer. What I am trying to say is that they experienced that situation and they are able to tell you more, and that is really fascinating. I feel that nowadays Europe is a little bit puzzled, given the recent events which are forcing Europe to be divided or more cohesive. Of course, if I were born here I would perceive myself as part of a multicultural community, therefore European .

Would you suggest your Mexican fellow students to have an experience like yours in Europe? If yes, why ?

I would one hundred percent suggest them to do it, there will be no regrets of doing such a choice, it’s a challenging one but it opens your mind and broaden also your job opportunities – thanks to an international environment you can experience more, get in touch with several people and enlarge your network.

Abortire nel 2015 in Irlanda: una storia di diritti violati

177.000: le donne che dal 1971 si sono recate in Inghilterra o in Galles per abortire.
3679: le donne che nel 2013 si sono recate all’estero per abortire.
 
1000-1500 Euro: il costo medio, in sterline, di un viaggio all’estero per abortire.
4000: la multa prevista, in sterline, per il personale medico che raccomanda un aborto o fornisce tutte le informazioni necessarie circa la procedura da seguire.
43: il numero dei paesi europei che consentono l’aborto quando richiesto o per una serie ampia di ragioni, con l’eccezione di Andorra, Irlanda, Malta, Polonia e San Marino.
24: i giorni in cui, nel dicembre 2014, una donna clinicamente morta è stata tenuta in vita, contro la volontà dei suoi familiari, a causa del battito cardiaco del feto.
14: gli anni che rischia chi ha un aborto illegale o chi presta assistenza a un aborto illegale. (Fonte: Amnesty International)
Queste cifre riguardano l’Irlanda, che ritiene l’aborto illegale tranne nei casi in cui esista un rischio “reale e sostanziale” per la vita (non per la salute) della donna. Questa eccezione è stata stabilita nel 1992 da una sentenza della Corte suprema in merito al caso di una quattordicenne rimasta incinta a causa di uno stupro, che aveva manifestato l’intenzione di suicidarsi. La definizione del rischio “reale e sostanziale”, priva di chiarezza, ha lasciato molte donne in uno stato di totale incertezza. Solo nel 2013 il governo ha presentato una legge sulla protezione della vita durante la gravidanza che dispone come stabilire se esista un rischio reale e sostanziale per la vita della donna, in presenza del quale un aborto sarebbe lecito. Tuttavia la legge rimane ancora troppo vaga e non precisa in cosa consista il concetto di “rischio per la vita” rispetto al “rischio per la salute”. L’aborto resta illegale per le donne che rimangono incinte a causa di uno stupro o di incesto, nei casi in cui è a rischio la loro salute o in caso di anomalie fetali mortali.
 
Amnesty International, il 9 giugno, ha diffuso un rapporto intitolato “Lei non è una criminale. Gli effetti della legge sull’aborto in Irlanda”, nel quale dichiara che rimanere in Irlanda può mettere in grave pericolo la salute e la vita delle donne incinte. Limitandosi a consentire l’aborto solo quando la vita della donna è a rischio, la legge in vigore in Irlanda è tra le più restrittive al mondo. L’origine di tale legge è l’ottavo emendamento alla Costituzione, profondamente influenzato dalla dottrina religiosa, che tutela il diritto alla vita del feto alla pari con il diritto alla vita delle donne. Questa disposizione è contraria alle norme sui diritti umani, che non riconoscono un diritto alla vita al feto bensì ritengono che i diritti umani si acquisiscano dopo la nascita. Il quadro normativo irlandese fa sì che lo Stato violi il diritto de donne alla vita, alla salute, al rispetto della vita privata, alla non discriminazione e alla libertà dalla tortura e dai maltrattamenti. 
Contestualmente al rapporto, Amnesty International ha lanciato una campagna per chiedere all’Irlanda di modificare le sue leggi sulla protezione del feto in modo da poter consentire l’aborto almeno nei casi di stupro o incesto, di danno grave o fatale al feto o di rischio per la salute delle donne. Per adempiere pienamente i propri obblighi internazionali, l’Irlanda dovrebbe depenalizzare l’aborto. Si chiede inoltre anche la modificata della normativa che rende responsabili di un reato i medici e i consulenti che forniscono alle donne informazioni esaurienti sui trattamenti di cui hanno bisogno e su come avere un aborto legale. Il recente referendum sull’uguaglianza dei matrimoni sembra suggerire che i tempi siano maturi per una modifica della legge sull’aborto e lo Stato non può e non deve rimanere sordo a un simile segnale. 
Video della campagna globale di Amnesty International “My body my rights”, che mira a garantire la possibilità di poter prendere decisioni sulla propria salute, il proprio corpo, la propria sessualità e la propria vita riproduttiva senza paura, coercizione, violenza o discriminazione, lanciato anche in Irlanda il 9 giugno.
E l’Unione Europea che ne pensa? Il 10 marzo il Parlamento Europeo ha approvato il rapporto Tarabella sull’uguaglianza di genere tra uomo e donna (441 si, 205 no, 52 astenuti). Il testo affronta anche il tema dei diritti sessuali e riproduttivi e “insiste sul fatto che le donne debbano avere il controllo della loro salute e dei loro diritti sessuali e riproduttivi”, attraverso “un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto”. Le attiviste dei movimenti pro choice hanno però subito dovuto frenare gli entusiasmi, perché è passato anche l’emendamento voluto dal Ppe che afferma che “la formulazione e l’attuazione delle politiche in materia di salute, diritti sessuali, riproduttivi e dell’educazione sessuale è di competenza degli Stati membri: ribadisce nondimeno che l’Ue può contribuire alla promozione delle migliori pratiche degli Stati membri”. La legislazione in materia rimane quindi di competenza nazionale, con un’Ue che si limiterà a incoraggiare modifiche negli Stati che non garantiscono pienamente il diritto all’aborto. Abbiamo quindi Malta, per cui l’aborto è ancora illegale, e Cipro, Polonia, Spagna, Lussemburgo e Irlanda che lo consentono in situazioni molto limitate. La situazione però non è idilliaca nemmeno in alcuni degli stati che consentono di praticare l’aborto su richiesta. 
Secondo l’ultimo rapporto del Ministero della salute, in Italia, il tasso di obiezione di coscienza nel 2013 è stato del 69,6 per cento per i ginecologi, del 47,5 per cento per gli anestesisti e del 45 per cento per il personale medico. Parliamo di percentuali elevatissime che spesso finiscono per negare un diritto previsto dalla legge. La situazione italiana è talmente critica che nel 2014 il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha dichiarato che a causa delle elevatissime percentuali di obiezione di coscienza l’Italia viola il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire. Non si tratta di negare il diritto di obiezione di coscienza ma di garantire un servizio, con la presenza di almeno un medico per struttura che non la eserciti. Se non ora, quando? Quanto bisognerà ancora aspettare per poter serenamente esercitare i propri diritti sessuali e riproduttivi? È tempo di far sentire la propria voce in Italia come in Irlanda, di porre fine a una condizione assurda per gli stati europei, da sempre culla dei diritti sociali. 
Articolo di Sabina Mansutti – The Bottom Up

Ciò che sta dietro ad un GESTO

Gesto: fai il tuo è qualcosa di più di una semplice start up. E’ un modo diverso di vedere il consumo nell’ambito della ristorazione. Gesto è un ristorante aperto nella splendida cornice Fiorentina del quartiere di San Frediano. Ma non è la bellezza rinascimentale nel capoluogo toscano né il fascino del fondo storico nel quale il locale si inserisce e forse nemmeno il locale in sé a colpirci. E’ l’idea, o potremo dire l’ideale, delle due giovani fondatrici, Martina Lucattelli, proprietaria, e Giulia Tognarelli, architetto, di contribuire direttamente a creare un modello di consumo del cibo che non preveda sprechi di nessun tipo.

Il ristorante è stato pensato in modo tale da evitare lo sperpero futile ed eccessivo che troppo spesso avviene nelle cucine e nelle sale. L’insieme di idee semplici e originali scelte da Martina e Giulia hanno fatto da ponte fra i principi etici di risparmio e rispetto e l’abbattimento di costi e spese con i quali quotidianamente si confronta chi in questo ambito lavora. Le ordinazioni non sono prese su carta ma su tavolette dove ogni cliente scrive ciò che ordina. I tavoli sono realizzati con assi recuperate dalle precedenti usate dai muratori. Le luci sono regolabili per tenere al minimo il loro consumo. Gli odori sono coltivati da coloro che li lavorano in grondaie riutilizzate come conche. Le posate sono il legno per ridurre al minimo gli sprechi di acqua nel lavaggio.

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Ma l’attenzione che GESTO rivolge è anche verso una scelta dei prodotti nel totale rispetto dell’ambente e a favore di una qualità e di un migliore gusto. La carne, ad esempio, è presa esclusivamente da allevamenti etici, ossia dove l’animale viene allevato allo stato brado e macellato in loco.

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La bellezza e la nobiltà della funzionalità. E’ senza ombra di dubbio questo che viene in mente quando si conosce Gesto. Un’esperienza di approccio al cibo elevata nei suoi principi, genuina nei suoi sapori, esteticamente amabile, proporzionale nel rispetto del mondo e dell’uomo e economicamente accessibile a tutti.

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Nell’interno del locale fra il legno e il ferro dominanti nell’arredamento, su una parete sono dipinti i volti di Terzani, Pier paolo Pasolini, Margherita Hack, Giovanni Falcone ed altri. Personalità che hanno lottato e portato avanti principi per rendere il mondo un luogo migliore per tutti. Quei volti, quegli occhi sono quelli a cui Martina si ispira.

Grazie al successo ottenuto, nonostante il locale abbia aperto da poco, Martina pensa già una catena di ristoranti GESTO. Luoghi dove l’attività commerciale della ristorazione porti alla sensibilizzazione verso questo tipo di consumo non consumistico, dove l’esperienza del cibo (ai tempi di EXPO potremmo dire) torna ad essere un’esperienza moralmente rilevante che ognuno di noi può fare. Una realtà praticabile da tutti, perché ciascuno appunto può fare il suo.

Alle radici del culto della personalità: il villaggio natale di Mao Zedong

Ricordato per i suoi contributi teorici alla ideologia marxista, l’attivismo rivoluzionario durante la guerra civile e la pluridecennale leadership politica all’interno del Partito Comunista, l’eredità culturale del fondatore e primo presidente della Repubblica Popolare Cinese continua ancora oggi a permeare la società della Cina contemporanea. Secondo diverse modalità e ricorrenze, i cittadini cinesi si prodigano a perpetuare la memoria del grande leader, esibendo un ritratto di Mao Zedong nella propria abitazione o attività commerciale, pubblicando un post celebrativo su un social network, e così via.

Momento di una commemorazione pubblica di Mao Zedong a Shaoshan.
Momento di una commemorazione pubblica di Mao Zedong a Shaoshan.

Un vero e proprio culto della personalità, originatosi nell’entroterra cinese negli anni Trenta, in concomitanza con i primi successi ottenuti dall’Armata Rossa durante la guerra civile. È in questi anni che il mito dell’avanzata comunista va a fondersi con le superstizioni contadine e il tradizionale simbolismo imperiale e appaiono i primi ritratti di Mao con la testa circonfusa di raggi. Negli anni Quaranta gli scritti teorici di Mao Zedong vennero assurti a modello ideologico del Partito Comunista: l’ideologia di riferimento dunque non è più il marxismo classico, ma un marxismo “cinesizzato”, secondo l’interpretazione maoista. Alle capacità dimostrate in ambito militare dunque, si andò ad aggiungere un’aura di infallibilità ideologica e politica, incrementando di fatto la supremazia politica del leader. Una supremazia che porterà i suoi frutti con la fine della guerra civile e la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, raggiungendo il suo apice durante la Rivoluzione Culturale e la pubblicazione del celebre Libretto Rosso, summa del pensiero maoista.

Una tipica immagine propagandistica del Libretto Rosso.
Una tipica immagine propagandistica del Libretto Rosso.

Se il Mausoleo di Mao Zedong, situato a piazza Tiananmen a Pechino, testimonia l’animo più istituzionale del Grande Timoniere, le radici del sentimento popolare maoista si possono ritrovare a Shaoshan, villaggio natale di Mao Zedong. Situato nella regione dell’Hunan, si tratta di un vero e proprio museo-santuario, che attira quotidianamente migliaia di visitatori. Scolaresche, famiglie, gruppi aziendali, arrivano da tutte le parti della Cina per visitare l’abitazione e la scuola frequentata dal giovane Mao. Lettere, libri, suppellettili, fotografie d’epoca, contribuiscono a ritrarre la quotidianità di un figlio esemplare e uno studente modello, amante degli studi classici e dedito a una vita frugale e bucolica.

L’ingresso dell’abitazione famigliare di Mao Zedong a Shaoshan.
L’ingresso dell’abitazione famigliare di Mao Zedong a Shaoshan.

La visita prosegue in un Memoriale, che presenta i momenti salienti della formazione personale di Mao Zedong, e si conclude con un particolare cerimoniale comprendente svariate riverenze nei confronti di una statua dorata del Grande Timoniere. Terminata la visita, presso l’area dedicata ai souvenir, la solennità lascia spazio al folklore.
“Vesti tuo figlio come un soldato dell’Armata Rossa”, “Stringi la mano al Timoniere”, sono alcuni esempi dei pittoreschi set fotografici ricostruiti ad hoc per i nostalgici visitatori, dove con l’aiuto di Photoshop si soddisfano le richieste più curiose e kitsch.

Uno dei tanti angoli souvenir al termine della visita.
Uno dei tanti angoli souvenir al termine della visita.

Capi di abbigliamento, spille, vestiti, libri, sigarette, e gadget di ogni tipo arricchiti con l’effigie o le massime di Mao Zedong riempiono le bancarelle, lasciando al visitatore il peculiare senso di stordimento derivato dalla commistione tra sacro e profano, che pare non risparmiare il culto della figura politica che ha dato i natali alla Cina che conosciamo oggi.

 

In Copertina: Statua di Mao a Shaoshan [ph. N509FZ CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

La Buona Musica è qui

Marinai internauti udite, udite,

Oggi è nata la playlist musicale di Pequod!

Finalmente potrete riascoltare quando&quanto vorrete tutta la colonna sonora dei nostri articoli musicali. Altro che i soliti tormentoni estivi, la musica che vi lasciamo per l’estate è tremendamente ricercata e pregiata: è la Buona Musica di Pequod che vi renderà i più fichi della spiaggia!

Troverete le arie d’opera più toccanti, vibranti e strappalacrime, ottime se ascoltate sotto la doccia (è scientificamente provato!); Tosca, Fidelio, Aida, Turandot vi faranno di nuovo sognare con le loro avventure, i loro drammi, le passioni e la tragedia come solo l’opera lirica sa fare.

 

Potrete anche gustare sonorità lontane con brani interpretati da strumenti più esotici e strambi come il pianoforte a pollice, il charango sudamericano, il kazoo, ma anche fenomeni etnomusicali più radicati e complicati come la musica turbo-folk dei Balcani e Uskudara, una canzone vittima di conflitti e di rivendicazioni .

Chiaramente non abbiamo dimenticato gli amici musicisti che in questi mesi hanno collaborato con noi. Nella playlist abbiamo raccolto i consigli musicali di GitoAndrea e AndreaJonathan… E che dire delle band intervistate? I Dry& Dusty, Antieroe, il Jukebox Umano e i Cornoltis contribuiranno a rendere questo grande contenitore un moderno eterogeneo, adatto a coloro che sanno apprezzare la qualità sotto forma di melodia.

Continuate a seguirci dunque! Non mancheranno le novità e le chicche musicali accuratamente selezionate dal pregiato gusto musicale di Pequod: la Buona Musica vi aspetta, la Buona Musica è qui.

Quel che c’è dietro: il debutto di Matrioska

Oggi Pequod salpa alla scoperta dei nuovi apprendisti registi della provincia di Varese, esplorando uno dei cortometraggi di tesi di regia proiettati il 28 giugno 2015, presso l’istituto Cinematografico Michelangelo Antonioni di Busto Arsizio, vincitore del Premio Miglior Regia assegnato dall’Icma.

Insieme alla neoregista Viola Folador che ha esordito con Matrioska e con l’attrice Giulia Marolli che ha interpretato il ruolo di Omega, seguiamo la genesi di questo singolare progetto.

Matrioska parla di marionette, ingranaggi, chiavi, assistenti, acrobati, serrature, difetti, errori, pregi e molto altro.

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Viola, classe 1993, inizia a recitare all’età di quattro anni, si innamora del cinema e delle magie, delle fatiche che si nascondono dietro la videocamera, i copioni, scoprendo poi che proprio quello è lo spazio in cui è destinata a stare. Con naturalezza si approccia quindi al mondo della regia cinematografica, preferendolo a quello teatrale. Decide così di iscriversi all’Istituto, perché da grande catturerà i dettagli delle scene migliori. Oggi, Viola ci svela i segreti del suo duro lavoro.

Come nasce un cortometraggio, si scrive come un libro?

«La scrittura di un film è completamente diversa, come in un libro si parte dall’idea e si riscrive, si riscrive! Matrioska è nato da un’immagine: il mio ragazzo e un amico vicini, così alti, magrissimi, con l’aria malinconica, mentre erano su un set. Prendo spunti da qualsiasi cosa, scrivo di quello che conosco, perché una storia è sempre in evoluzione».

La scelta della marionette è molto singolare, come si scelgono le persone che dovranno impersonare degli automi? Perché questo titolo?

«Il titolo nasce dal fatto che la storia si sviluppa su diversi piani e livelli come delle scatole cinesi. Matrioska è una storia che parla dei ruoli che nella vita tutti noi occupiamo, ci sono dentro persone, racconti.

Perché le marionette? A metà dell’opera  me lo sono chiesta anche io, ma mi piaceva l’idea di mostrare qualcosa che di solito ha bisogno di una guida. La selezione degli attori è stata durissima. Recitare nei panni di un automa è complesso, gli attori dovevano essere molto credibili. Abbiamo organizzato un open casting per tutti i corti e dopo un lungo percorso di osservazione ho scelto i miei attori.

Sono sempre stata molto chiara con loro su cosa esigessi, ma ora sono felice e soddisfatta, tutti sono stati impeccabili».

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È quindi possibile realizzare un corto con un budget ai limiti del low cost?

«Quando dico quanto ho speso per Matrioska le persone non ci credono. Creare un corto costa molto, specie se si vuole ottenere qualcosa di livello, ma allo stesso tempo si cerca di fare miracoli con quel che si ha.

La scuola ci ha fornito parte del materiale e la location, io ho dovuto fare mesi di sacrifici per pagare il noleggio materiale di fotografia e fonica, ma la fortuna di questo corto sono le trentadue persone che hanno accettato di lavorare per quattro e più giorni gratuitamente in nome dell’affetto per il progetto».

L’interpretazione e la recitazione di un copione sono aspetti complessi  del cinema, quanto la regia, oggi Giulia Marolli racconta a Pequod la sua esperienza nel corto di Viola.

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Hai avuto l’occasione di collaborare sia a progetti teatrali che cinematografici, com’è il tuo rapporto con i due mondi e come lavori sul tuo ruolo?

«Il mio personaggio è Omega, una marionetta creata ispirandosi a un mio difetto: essere solitaria e chiusa. Quando reciti, non sei più te stesso, sei il personaggio, io di solito parto con l’avvicinarmi agli aspetti che ho in comune con esso, per poi conoscerlo, scoprirlo.

Il mio grande amore è il teatro e ho avuto la fortuna di imparare quel poco che so da Viola; è dove si impara a recitare ed è propedeutico per chi voglia fare cinema. Questo corto è stata una sfida contro il tempo e noi stessi».

 

Géza – theater as a way to discover the world and re-discover your homeland

Today Pequod meets Géza Pintér, a young Hungarian actor who has decided to gain experience in Italy. For two years he’s been studying and working at Teatro Tascabile di Bergamo (link), but his relationship with Italy, its language and its culture began much earlier…

Hello Géza, could you introduce yourself to Pequod’s readers?

Hi, I’m Géza Pintér and I’m 31. I’m from Pécs, a city in Southern Hungary. I studied theatre as an actor and cultural manager, but before I graduated from the Faculty of Visual Arts at the University of Pécs, where I attended at the same time courses in Film studies and Italian studies.

Your interest in Italian studies is something unexpected!

I had already approached the Italian language years before: I attended a bilingual high school. I still believe that learning two different languages ​​can be a big advantage.

But back to your path in the world of theatre…

I started to study theatre in my country, but I didn’t find the opportunity to test myself in different kinds of theatre – physical theatre, street theatre, social theatre… So I did my Erasmus in Ferrara where I got to know Teatro Nucleo (link), a group known for its performances in unconventional spaces and for its projects in psychiatric hospitals and prisons: exactly what I was looking for!

I met Horacio Czertok, the director of Teatro Nucleo, a strong intellectual with a great experience in theatre… I consider him my master.

I edited the Hungarian translation of his book, Theatre of exile, and we started several projects. I built up a working team in Hungary with the main object being the implement of prison-theatre, but always in partnership with Italy, because I think Italy is a very avant-garde country in this field.

Why did you decide to go back to Italy?

At first I earnt some experience in street theatre with a German company, which I followed for three years in many international festivals. At the International Theatre Festival of Puebla (Mexico) I met the actors of Teatro Tascabile di Bergamo. Their performance really stuck me, so started to visit Bergamo very often to attend some workshops with them, and I’m still here.

This is what Géza appreciates the most both in Italy and in Hungary: nature!
This is what Géza appreciates the most both in Italy and in Hungary: nature!

Describe us your everyday life in Bergamo.

I go to the theatre at 8 am and I usually stay there till 6 pm. I take care of some maintenance work, of the organization of the events and the rehearsals. I can practise by myself training, I do Bharata Natyam (classical Indian dance-theatre, editor’s note), I walk on stilts and much more…

I live five minutes from the theatre in a very fine place, surrounded by nature and with my two housemates (see Géza in the beautiful Bergamo in the cover picture, editor’s note) . I also love to spend some time in San Vigilio, it’s a very special place for the view on Bergamo, for its meadows with huge pine trees… It relax me.

How is living in Italy different than living in Hungary?

In my opinion, Italian citizens are much more conformed, they have similar habits, similar attitudes… I mean that in my country there’s no middle class with a cultural base as strong as here. It isn’t just an economic issue, it’s a historical problem.

In Eastern Europe capitalism has emerged overbearingly in a time when the culture in general was weaker, so the mentality has become very materialistic, pushing away the issue of all those people who had experienced World War II, World War I and before, erasing their awareness of the past. I think that, in different periods, Hungary has suffered much more than many other European states, but there isn’t an effort to create opportunities to bring out these deep problems of the society. People carry on and keep inside all the problems, but this way perhaps they never really realize about them. That’s why I love that in Italy people often say that something is nice or pretty, not just for a slang habit, but also because their mentality is still capable of seeing beauty in things, not only to think about costs, how much energy to invest, or to someone’s personal income…

What do you miss the most?

I miss my mother language, a better understanding of what other people say, my culture and the opportunity to confront with its problems.

As an actor, I feel I have nothing to say to Italian public yet, because my main motivation to work and perform comes from problems which belong to my culture, but now I have to study and improve some techniques.

Geza.
Géza.

 

You’ve been talking about the differences between Hungary and Italy. Also, you’ve been travelling a lot so far. What do you think about Europe? Do you perceive Europe as a community? As you know, recently the EU countries have triggered very strong debates about their political and economic differences…

In Europe we’re very similar one to each other, especially considering young people –  you can perceive this travelling to other continents. It’s more difficult to understand the economic situation for people like us, but I don’t believe that this political cohesion is guilty of so many problems discussed in these times.

I don’t share the vision of a homogeneous continent, we should be aware that European countries have different cultural roots and this is a great treasure, but the idea of ​​Europe can maybe help us avoiding many wars and fostering cooperation between peoples.

Before 2004, when Hungary entered the EU, I remember that even Italy seemed very far away! Now my identity card is enough to move between the two countries. I was in Erasmus, I’ve been travelling a lot, I’ve participated in several European projects: I feel extremely connected to Europe!

What’s the best thing you’ve learnt by your experience abroad?

Discretion and courtesy in their deep meaning, as life values. You know, discretion isn’t just a typical feature in the theater world… it’s also for this quality I have chosen to study at Teatro Tascabile!

 

 

Nella terra dei Taxi: Uber? Forse…

25 Maggio 2015, Tribunale di Milano: “Uber concorre slealmente contro i taxi”. Così pare essersi pronunciato, almeno in via preliminare, il Giudice chiamato a valutare la portata operativa e la modalità con la quale l’azienda di San Francisco gestisce i suoi contatti e distribuisce cittadini a suon di passaggi tra le più importanti città italiane del nord (Torino – Milano – Genova) e non solo.

L’entrata in scena della società americana sul palcoscenico della mobilità urbana ha indubbiamente modificato le nostre abitudini in tema di trasporti. In passato si arrivava alla stazione della città e scesi dal treno si poteva optare per il consueto, quanto molto spesso vetusto servizio pubblico, o in alternativa, per il taxi. I più avventurosi potevano invece immolarsi con improvvisati autisti abusivi, divenuti in seguito popolari, persino nelle macchiette della commedia italiana.

Tutto questo era prima, poi vennero la connessione di rete mobile, i social, gli smartphone e le loro app, questo neolinguaggio, questa costante interattività, ha permesso lo sviluppo di canali di contatto ancora da dover normare completamente, perché fortemente in contrasto con vecchi schemi mentali, ancora non totalmente pronti o più verosimilmente ancora troppo corporativi per accettare il cambiamento.

Il semplice fatto che dei privati, puntualmente registrati su una stessa piattaforma tecnologica, si organizzino per muoversi, accompagnarsi dietro concordato obolo, agita le compagnie di Servizio Taxi e il perché resta facilmente intuibile.

Quello che, a detta delle Società di Radio Taxi, resta intollerante, è che società come Uber, riescano a mettere in connessione persone tra loro sconosciute e quindi palesare ed intercettare il lavoro delle prime, sostituendosi ad esse. Svolgendo e simulando un servizio pubblico specificatamente regolato dalla legge attraverso le concessioni comunali rilasciate con il preciso scopo di garanzia per l’utente.uber2121

L’ambiguità, probabilmente si nasconde qui. È sbagliato mettere sullo stesso piano e dunque creare un meccanismo di dissonanza, di contrasto, tra due elementi completamente diversi.

A sottolineare le diversità tra le macchine bianche e gli uberisti, sì è pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea, stabilendo infatti che, i taxi sono obbligati alla presa a bordo, sono riconoscibili, devono usare il tassametro e avere una conoscenza approfondita della città nella quale lavorano. Obblighi che non gravano, nella stessa misura, sui veicoli a noleggio con conducente.

Così il 19 Maggio, anche il Giudice di pace di Genova si è conformato alla idea di separazione tra le due classi, annullando la sanzione comminata a un driver del servizio di ride sharing sbarcato a Genova l’autunno scorso.

Il Giudice adito ha ritenuto non punibile, ai sensi dell’articolo 86 del codice della strada – quello che sanziona pure molto severamente l’esercizio abusivo del servizio di piazza- l’autista coinvolto, disponendo l’annullamento del verbale, così come le sanzioni in esso contenute.

Insomma, la guerra fra carte, tribunali e avvocati è solo all’inizio, con una parte della Giurisprudenza orientata a valutare il fenomeno come quello che realmente è “nuovo”, mentre l’altra (vedasi il Tribunale di Milano), convinta dell’approccio sleale perpetrato dalla Società Uber Italia nella gara concorrenziale contro le società di Radio-Taxi.

Datata 4 Giugno è la notizia, per la quale le toghe del capoluogo Lombardo, hanno confermato la loro precedente posizione assunta, imponendo alla multinazionale californiana il blocco del servizio, l’oscuramento del sito, stabilendo inoltre una penale pari a 20.000 € per ogni giorno in cui Uber Pop fosse rimasto eventualmente attivo.cq5dam.web.650.600

Va detto che le misure adottate, restano momentanee e cautelari fino alla definizione della causa.

Nel frattempo polemiche, proposte e punti di vista impazzano e mentre da una parte della barricata i tassisti e le organizzazioni sindacali festeggiano  quella che è a tutti gli effetti sembra essere una vittoria, d’altra parte la società di Travis Kalanick e Garrett Camp non si dà per vinta. La contromossa è già viva sui Social, spalleggiata da associazioni di consumatori e cittadini. Intanto è notizia importante che l’autorità dei trasporti ha segnalato a governo e parlamento la necessità di dover intervenire con nuove proposte sulla norma sui trasporti pubblici non di linea, datata ormai 1992, andando incontro a tutti gli attori coinvolti. A partire dalla cosiddetta sharing economy, che sta imponendo in tutto il mondo una presa di posizione del legislatore.

Anche secondo una precisazione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sul blocco di UberPop, infatti, “Internet rappresenta un grande fattore di sviluppo economico che non può essere fermato, ma occorrono regole per definire soluzioni equilibrate fra i vari interessi in gioco“. E, aggiungo io, che permettano ad un mercato di essere veramente libero, concorrenziale e inserito nel proprio tempo, con la tecnologia che lo stesso offre, evitando magari che l’unica forma di mobilità urbana, ad eccezione di quella di linea, sia costituita esclusivamente da un mezzo elitario, dove 4 Km in una mattina di Milano possono venire a costare più di 20 euro.

Boccaleone – Il travaglio dell’Ex Convento delle Clarisse

Fotoreportage di Francesca Gabbiadini e Sara Ravasio

Siamo nel cuore di Boccaleone, quartiere periferico di Bergamo, area degradata sotto il viadotto della circonvallazione.

Camminando in quest’area, che in passato ha visto la realizzazione di diverse opere strategiche per la viabilità cittadina, ci si imbatte in un gigantesco stabile abbandonato e fatiscente. L’edificio, noto come ex convento delle Clarisse, ha una storia alquanto travagliata: vede la luce nel 1847 grazie a suor Maria Chiara Poloni, fino al 1964, anno in cui viene traslocato in un nuovo stabile costruito ad hoc in via Lunga. Da quella data in poi il chiostro e le stanze si trasformano prima in deposito della Rodeschini, un’azienda leader nella distribuzione all’ingrosso, e più tardi in un ristorante, fino a vedere il completo abbandono all’incirca all’inizio degli anni Novanta.

Nel 2006 l’immobiliare <<Abitare 2006 srl>> fa partire un progetto di costruzione di trentacinque appartamenti, due negozi e una sala civica. I lavori, affidati alla milanese <<Futura srl>>, iniziano il 12 settembre ma finiscono esattamente due anni dopo per mancanza di fondi. Nel 2010 l’impresa fallisce e lascia il convento al rifugio disperato di senzatetto e tossicodipendenti.

Possiamo far cadere il nostro sguardo davanti l’ennesima “cattedrale nel deserto” che diventa luogo di dinamiche sociali problematiche, con il beneplacito di molti residenti che vedono in esso solo una zona franca, popolata da tossici, malfattori e malintenzionati e non come possibile luogo di recupero e socialità, sforzo invece messo in atto dalla realtà giovanile di Boccaleone Open Space che con tutte le loro forze sta cercando di salvare il quartiere tramite una rilettura urbanistica e azioni socio-culturali rigeneratrici.

Boccaleone Open Space – una Bergamo che migliora

Sotto un cavalcavia di Bergamo le serate e i weekend si fanno culturali grazie all’associazione Open Space (link) e noi di Pequod, come nostra usanza, ci siamo fiondati per farvi conoscere una delle realtà più dinamiche della città. Dal 2 sino al 26 di luglio, i ragazzi di Open Space propongono nel parcheggio inutilizzato sotto il cavalcavia del quartiere Boccaleone un calendario pieno di eventi, che spazia dalla Street art, alla musica, al cinema sino al teatro e alle conferenze sulla storia del quartiere, nonché su urbanistica e regolamentazione degli spazi comunali.

foto 1                Come era il cavalcavia prima dell’arrivo di Open Space, due anni fa.

foto2                I preparativi di quest’anno.

Per una bergamasca come la sottoscritta certo fa strano il binomio Bergamo- gioventù, eppure questi ragazzi stanno riuscendo a ricavare all’interno di una città solitamente considerata “bella, ma morta” uno spazio interamente ripensato dai giovani… e per tutti. Se difatti ambiziosi sono i protagonisti di questa associazione, ancora più lungimirante è il loro obiettivo di recuperare e riappropriarsi degli spazi urbani sottoutilizzati attraverso un processo di rigenerazione urbana dal basso. Le vie e le zone di Boccaleone si delineano nella mente della maggior parte dei suoi abitanti come spazi degradati e pericolosi, inaccessibili di sera, momento in cui senzatetto e tossicodipendenti si appartano negli edifici inabitati che circondano il parcheggio.

Per dimostrare invece le potenzialità della zona, nel 2014 i ragazzi fondano l’associazione e a luglio dell’anno scorso propongono nel parcheggio abbandonato una giornata di iniziative culturali; quest’anno invece l’impegno è notevolmente aumentato. Nicola Vavassori, fondatore dell’associazione assieme a Stefano Cozzolino, ci spiega quale bisogno si celi dietro l’iniziativa: «Due anni fa il disagio giovanile e la sicurezza erano le principali problematiche di Boccaleone poiché il quartiere, periferico rispetto al centro, è stato ideato come zona monofunzionale, adibito alla sola abitabilità e di conseguenza privo di servizi.»

Video della giornata 7 luglio 2014.

Assieme all’indispensabile appoggio dell’amministrazione comunale, della Parrocchia e del comitato di quartiere, Boccaleone inizia a essere rigenerato e riconsegnato ai suoi abitanti attraverso l’azione: «Chiunque – continua Nicola – dalle cooperativa ai singoli cittadini, può proporre attività e difatti, nel nostro calendario, sono presenti attività eterogenee.»

La scelta del parcheggio non è di certo casuale. La struttura permette di cambiare la forma dello spazio: per una performance teatrale ha una sua forma e una sua funzionalità, mentre se il giorno dopo lo stesso spazio viene utilizzato per ballare, l’area acquista un’altra identità. Mentre chiacchieriamo, Nicola mi mostra le aree permanenti, come la biblioteca e il bar, e quelle considerate flessibili, le quali, per l’appunto, mutano a seconda dell’esigenza.

Portando il dibattito all’interno dello spazio pubblico, la speranza di Nicola è che la sperimentazione dia i suoi frutti: «Boccaleone Open Space non è il punto finale del nostro percorso, ma il primo passo per far continuare il processo di rigenerazione dello spazio pubblico.»
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Mano all’agenda, dunque, e segnatevi che a partire dalle 18.30 di ogni sera (e dalle 9.30 al sabato e alla domenica) di questo mese di luglio, l’asfalto di Boccaleone si fa più rovente e vi attende per le sue innumerevoli iniziative! Per domani, invece, Pequod vi propone un fotoreportage sugli spazi dismessi che circondano i ragazzi del dinamico Open Space.
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Intervista’l’musicista: Jonathan, il chitarrista del Giovedì

La crescita personale di un musicista da sempre autodidatta che sfocia nella realizzazione di un disco è la storia che io e Jonathan Locatelli vi raccontiamo oggi. Chitarrista di nascita, polistrumentista per passione, classe 1988 e nativo della valle Imagna (BG): «Dico sempre di aver iniziato a suonare a dodici anni anche se ho sempre ascoltato tantissima musica, l’ho sempre amata sin da bambino grazie ai miei genitori».

Consiglio di lettura: accomodatevi in un prato scintillante, respiratene il profumo e mettete in sottofondo i consigli musicali di Jonathan che trovate a fine articolo –  Third Ear Band, Earth e Comus, Diana.

FOTO1 (1)       Foto di Monelle Chiti (link)

Quali sono state le tue prime passioni musicali: le musicassette e i cd che hai consumato?

Sicuramente Tracy Chapman! L’ascoltavo quando ero piccolissimo, a sei anni ed era una cassetta che era proprio mia: me la mangiavo con il mio walkman. Così come Legend di Bob Marley.

Parlami del tuo percorso musicale: quando hai iniziato a suonare, le band del liceo, le esperienze che ti hanno fatto crescere come musicista e che ti hanno portato alla realizzazione di Giovedì con i Rich Apes.

Sono un autodidatta: mio zio Claudio Iacchetti (il disco è dedicato a lui!) fu il primo a mostrarmi i primi accordi; quando iniziava a suonare la sua chitarra rimanevo completamente affascinato. Già alle superiori mi mettevo in mostra suonando per affascinare le ragazze– non serviva, ero troppo sfigato! A diciassette anni ho iniziato a suonare in un tributo molto “grezzo”  a Jimi Hendrix, fu un’esperienza bella e suonammo davvero tanto. Poi con i Violaspinto (link), per circa un anno. Diventai più disciplinato: ero un “cane sciolto”, molto chitarristico, egocentrico e con loro ho imparato la dimensione di gruppo: “sacrificare” il proprio strumento per incastrarsi con gli altri e puntare al bene del risultato finale. Successivamente con Sakee Sed (link) ho provato per la prima volta l’ebbrezza di un tour (penso di aver perso tre anni di vita per colpa, o grazie a loro).

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Ora sei approdato in questo nuovo progetto tutto tuo, con un nuovo gruppo.

Si, è qualcosa che avevo dentro da tantissimo tempo ma che ho sempre rimandato perché non mi sentivo pronto. Il gruppo si chiama Rich Apes (Scimmie Ricche): è la definizione dell’essere umano, una scimmia con i soldi. L’album s’intitola Giovedì, il giorno dei matti (link).

I brani sono stati tutti composti da te?

Sì. In primis ho registrato, con Luca Mazzola alla batteria. Successivamente sono stati aggiunti i bassi, gli arrangiamenti e le voci.

Ci sono anche strumenti abbastanza inusuali per una “classica” band.

Sì, abbiamo avuto Matteo Muscas alle launeddas, Stefano Armati al contrabbasso e Jacopo Moriggi al didgeridoo, ma sempre sotto il mio indice vigile (sono molto zappiano e autoritario, geloso dei miei brani).

Esiste un filo conduttore all’interno del disco?

No! È musicalmente incoerente, poliedrico, non ricorda nulla in particolare ma tante cose diverse; credo rispecchi la mia formazione musicale e il modo in cui ho imparato a suonare: non prendendo lezioni da qualcuno ma “rubando” da ciò che ho ascoltato. Diciassette brani: nove cantati in italiano e otto strumentali – alcuni sono dei “caroselli” – dei ponti musicali tra un brano e l’altro – brani cortissimi, alcuni di questi cantati con un linguaggio inventato che ricorda il Grammelot.

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Come è avvenuta la scelta dei musicisti per questo progetto?

Ho registrato tutto insieme a Luca. Suoniamo insieme da molto tempo, soprattutto in loop, ma non mi sentivo più di usare questa tecnica: troppo meccanica, con troppe difficoltà anche nel gestire la linea vocale. Volevo avere più libertà d’interpretazione. Da qui l’idea di chiedere ad altri musicisti e allargare il progetto a Gabriele Ferreri, un amico con cui si è creata sin da subito una bella sintonia musicale e non solo. Poi, ad un concerto degli Attribution ho visto il chitarrista Marco Pasinetti suonare e ho pensato “Oh! Finalmente qualcuno che sa suonare e che suona!”.  Questo perché noto che spesso i musicisti investono tempo, soldi ed energia in cose che non riguardano la musica in sé, ma va bene! Perché anche l’ufficio stampa, le recensioni, i curriculum sono importanti, questo però deve portarti su un palco e se la parte suonata viene meno all’aspettativa che hai creato è triste; va bene l’attitudine ma il punk è finito! Bisogna saper suonare.

Uno strumento che avresti voluto imparare a suonare? Un tuo “rimpianto musicale”?

Da piccolo volevo suonare la batteria ma i miei genitori non volevano fracasso. Rimpiango di non aver iniziato prima a cantare, perché è diverso da qualsiasi strumento e occorre avere una buona base tecnica.

Lasciami un tuo pensiero musicale.

Ho capito che la chiave è il ritmo. Hai una chitarra, ti si spaccano cinque corde e te ne rimane una? Puoi comunque creare musica se ti avvali del ritmo.

Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?

Earth, dei third ear band

Diana dei Comus