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Mese: Ottobre 2015

Da Gutenberg a Novepunti… La storia continua

La nuova premessa di questa settimana ha un sapore di ricerca, di storia e di una tecnica ormai da tempo abbandonata, ma mai dimenticata. Di editorie ormai ce ne sono tante, di ogni tipo e di varia importanza, ma se pensate di aver ormai visto di tutto fate un giro all’Officina Tipografica Novepunti  (link) e vi ricrederete.

Tutto nasce da un gruppo di nove ragazzi tra grafici, designer e architetti milanesi, spinti da una fervida curiosità verso un mondo conosciuto soltanto dai libri di storia a frequentare un corso di design tipografico presso la Bauer di Milano, condotto da Lucio Passerini e James Clough. Un corso che li ha rimessi in contatto con una grafica fortemente materiale e materica. Decisi a non abbandonare ciò che avevano imparato cercarono un modo per poter continuare quest’esperienza. Unirono le loro forze e le loro idee, cercarono tutti i materiali necessari e crearono, nel 2009, l’Officina Tipografica Novepunti (link) un progetto che riesce un procedimento antico come la stampa a caratteri mobili alla novità delle idee proposte dai creatori del progetto. La OT9PT nasce come Associazione di Promozione Culturale con tre precisi obbiettivi: recuperare, sperimentare e divulgare.

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Recuperare. Si tratta dei materiali che vengono utilizzati; le macchine infatti sono complesse e sicuramente non usuali, alcune risalgono alla fine dell’800, altre al secondo dopoguerra. Vista la maggiore comodità nel trasporto per le dimostrazioni vengono utilizzati i torchi leggeri, ma tutte le macchine sono in grado di coprire un vasto spettro di attività e formati.

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Sperimentare. Ogni occasione è un progetto a se’ e questo impegna molto i grafici dell’Officina in ricerche e in esperimenti volti a permettere di poter adattare il processo di stampa ad ogni tipo di occasione: per esempio se uno stampato necessita un’alta tiratura (per esempio un calendario) prima verrà realizzato un bozzetto cartaceo a mano, poi composta una forma tipografica e trasferita su un tirabozze leggero per verificarne la composizione e la resa grafica, prima di mettere la forma sulla Stella e realizzare l’intera tiratura. “Avere a che fare con macchinari vecchi o antichi e spesso non perfettamente manutenuti rende ogni progetto una sfida ma anche un’occasione per imparare, per ingegnarsi e capire come far funzionare qualcosa che non si conosce completamente” dice Alessandro dell’OT9P.

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Divulgare. Oltre a reggersi sulle sue gambe grazie all’autoproduzione e a qualche collaborazione, l’OT9PT si rende disponibile alla grande richiesta di workshop da parte di scuole e università.
Ma a garantire l’esistenza dell’Officina Tipografica Novepunti sono anche gli eventi ciclici come Letterpress Workers, un summit internazionale di stampatori ideato e organizzato proprio da 9TP. Stampatori, bibliofili e appassionati di tipografia accorrono da tutta Europa e da altri paesi nel mondo per passare insieme una settimana tra tirabozze, carte e inchiostri, con l’obiettivo di costruire un network di professionisti e amatori dediti alla sperimentazione e conservazione della tipografia.

GoCambio Zaragoza edition

Sinead is 26, she’s a dancer and an English mothertongue… She thought that she could take advantage of being a native English speaker to enjoy a great holiday in Zaragoza, Spain. All she had to do was consulting GoCambio website, finding a host living in Spain and willing to learn English and booking a flight! Pretty easy, isn’t it?

Hello Sinead, what do you think about GoCambio?

I loved GoCambio as it was such an unforgettable experience. It was a holiday with a difference and so easy to arrange through the online forum and social media contact with my hosts.

Can you describe the passages one has to do before setting off? Would you describe it as easy?

Yes it was easy as flights are straight forward to book these days and facebook helped with the contact for arrangements. Check the weather for packing your suitcase, keep an open mind and a positive mind set and you are good to go!

So, you were a Guest, which means that you were hosted for free and in exchange you had to help your host with learning and improving a language, your language. What did you do, precisely? Can you describe your day while on “cambio”?

Everyone’s will differ but my day was very relaxed and full of tapas, wine and fun! I got on so good with my hosts and so we would go sightseeing, eat out and meet friends.

Did you like your host?

I loved my host and I have made friends for life!

Would you say that you had time enough to enjoy the city and your trip? Is the “cambio” way demanding in any way or not?

I had loads of time as my hosts were so relaxed and not demanding of my time. I didn’t give formal sit down English lessons as we just hung out and we spoke that way.

Is there a moment that you especially enjoyed and would like to share with us?

My hosts knew I was a burlesque dancer and so we all went to an amazing burlesque show El Plata Cabaret. It was such a good night!

Anything nice or particular that happened with your host?

The whole trip was amazing and friendships were made.

Did this experience with GoCambio influence your idea of Europe and being European in any way? Was it significant in terms of belonging to a larger community?

I have always travelled and felt at home everywhere I go so without sounding cheesy I never specifically only thought of Europe as I feel almost everywhere is a community you can enjoy and experience.

Se questi sono esseri umani

La notizia risale a un paio di settimane fa. Sono stati ritrovati i carnefici (animali – se non siete animalisti e vi va di usare questa perifrasi-) che nel gennaio del 2014 uccisero un bambino di 3 anni, bruciandone il cadavere insieme a quello del nonno che se lo era portato appresso mentre non stava andando a fare la spesa e neppure a giocare nel parco. Forse, chissà, con la convinzione che – visto il bambino – i suoi poco ragionevoli interlocutori, avessero avuto pietà di lui per gli sgarri commessi.
Il finale l’ho già descritto.
La storia è quella di Cocò -come hanno imparato a conoscerlo tutti- e di una famiglia disgraziatamente criminale, nella quale aveva avuto la sfortuna di nascere.
Aveva anche avuto la sfortuna di nascere in una terra dove accadono cose di macabra assurdità e indicibile orrore.
Una regione d’Italia chiamata Calabria che, in alcuni tratti, somiglia alle periferie più remote della Colombia, dove la crudeltà e lo spirito animalesco (ripeto l’accostamento e le scuse agli amici animali e animalisti) che certi uomini hanno conservato, supera qualsiasi immaginazione e/o passo tratto dall’Antico Testamento.

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Oggi, in questo spazio indegnamente riservato al sottoscritto, volevo parlare dei morti ammazzati dalla cosidetta “lupara bianca”.
Valentino Galati, Francesco Aloi, Pasquale Arlacchi, Santo Panzarella. A questo elenco – che potrebbe andare avanti ancora a lungo – si sarebbe potuta aggiungere anche la testimone di giustizia Lea Garofalo (e subito qui contraddico quanto detto sopra, perchè la Garofalo è stata uccisa a San Fruttuoso, in Lombardia, riflettiamo.. ) se i 2000 frammenti ossei del corpo, lasciato bruciare per 3 giorni, non fossero stati trovati nella campagna brianzola a 3 anni dalla morte, su indicazione del pentito Carmine Venturino.
Degli altri, invece, nulla. Dalle sterpaglie dei boschi delle pre-serre calabresi, in provincia di Vibo Valentia, ogni tanto riaffiora una clavicola, un pezzo di stoffa, un pezzo di osso portato da chissà quali correnti o bestie selvatiche. Talvolta può accadere – come è successo nel febbraio del ’95 – che un pescatore, sbadatamente, inciampi su una scarpa da tennis e che, dalla stessa, escano brandelli di qualcosa, forse tessuti o resti di varia natura che il mare ha sputato a riva. Scrive il giornalista Sergio Pelaia “Peggio che uccidere un uomo, è ucciderne anche il ricordo. Farlo svanire nel nulla, privarlo anche di una degna sepoltura e tenerlo sospeso, come in un limbo eterno, in uno spazio e in un tempo che non è né della vita, né della morte”.

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Valentino Galati è morto che aveva 21 anni. Era un ex seminarista ed è stato fatto sparire il 27 dicembre del 2006. Si era invaghito della moglie di un boss. Non ha avuto scampo. Il fratello Cristian, due annni dopo, voleva cercare di capire chi e cosa avesse ucciso suo fratello. Finì legato a un albero, tramortito a martellate e bruciato vivo. Tre mesi dopo morì all’ospedale di Bari.
Ci sono poi le storie di Pasquale Arlacchi, di anni 18 come recitava il manifesto funebre che annunciava la celebrazione dei suoi funerali, svoltisi 5 mesi dopo perchè il cadavere non si trovava. Era in un cassonetto, fatto a pezzetti. E poi, ancora Francesco Aloi, Santo Panzarella e gli altri 40 che, negli ultimi trent’anni sono stati fatti sparire senza che di loro si sapesse nulla. L’unico dato certo è che stiamo parlando di un territorio appartenente allo Stato italiano, i cui figli spariscono, senza lasciare traccia e, spesso, dimenticati anche da chi avrebbe il dovere – non solo morale – di ricordarli.

Il Gotto esplode di fuoco e di rabbia

Oggi Pequod risale il fiume Brembo e approda a San Giovanni Bianco (BG) a scoprire l’energica realtà del Gotto Esplosivo (link) e lo fa in occasione dell’uscita del loro nuovo disco Di fuoco e di rabbia (link).
Antonio Capuzzo, Manuel Scolari, Mattia Bonzi e Nicola Milesi donano al mondo la loro musica da circa otto anni «che siamo ancora lì nella stessa pulciosissima saletta, ancora sporca uguale, a scrivere e suonare». Prova che il loro non era un rock’n’roll dream è il fatto che questi musicisti da sempre han sentito la necessità di tenere unito il Gotto, come mi spiega Antonio, «rimane un valore inestimabile che ci permette di creare le nostre canzoni, un hobby come un altro se vuoi che però ti risarcisce di grandi soddisfazioni». È sempre stato un luogo mentale e musicale dove poter sfogare la parte più pura e istintiva di se stessi «le robine, i nostri cazzi minimi personali non c’entrano; sono i pensieri, situazioni vissute, sensazioni e pipponi mentali» che nelle canzoni del Gotto escono liberamente e trovano la propria valvola di sfogo.

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Il filo conduttore del nuovo disco rimane il COME questi musicisti si sono approcciati ai temi affrontati e che riguardano tutto ciò che ha bisogno di essere esorcizzato. È un disco focoso e arrabbiato, molto intimo – parla di situazioni vissute in modo non esplicito, di esperienze – «non è che perché è musica rock allora stai sulle tematiche classiche del genere rock, spesso tocchiamo tematiche sociali ma sempre a modo nostro», seguendo l’approccio che da sempre li contraddistingue.
Dopo L’oro del diavolo (2011) ci hanno messo quattro anni per partorire il nuovo e autoprodotto album di dodici tracce. «Crescere e avere problemi a fare le prove, tra turni di lavoro e altri impegni, è crescere bestemmiando, ma è crescere».

                                                                                                        Abisso, da L’oro del diavolo (2011)

Musicalmente, in Di fuoco e di rabbia, non hanno voluto ricalcarsi: stilisticamente è riconducibile all’Oro del diavolo «molto energico, riffoni, bello violento e nervoso» anche se nel secondo album troviamo un’evoluzione dell’aspetto melodico: «diciamo che “Pentatonica, portami via!” non è stato il modus operandi. Abbiamo anche cercato di creare delle strutture, all’interno dei singoli brani, che risultassero più intriganti (a noi in primis)». Più voci, meno sintetizzatori, più attenzione alle dinamiche (mi dicono che si arriva a sfiorare il mezzo pianomp!) e più richiami ai suoni sintetici vintage.

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«Non sai mai dove finisce lo STILE e dove ti stai ricalcando. Abbiamo tentato di mantenere delle costanti stilistiche, ma spudorate riprese “Perché quella roba aveva preso bene la gente” NO, NO, NO. È uno dei motivi per cui ci abbiamo messo così tanto a creare questo disco». Questi musicisti e la loro determinazione hanno passato due anni a scrivere e provare, registrando le prove e accumulando materiale per poi scartare e modificare, con il fare da certosini che da sempre li contraddistingue: «non siamo musicisti professionisti, non suoniamo tutti i giorni e quindi il tempo necessario a dare qualcosa di diverso, di nuovo (entro i nostri limiti) è stato questo – anche per il numero di prove che abbiamo fatto, è già bello che abbiamo chiuso la lotta».

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«Questa fatica contro gli impegni imposti dal sistema stacanovista dei rispettivi posti di lavoro ci ha donato una vena rock non indifferente! E siccome questa volta l’abbiamo purgata veramente tanto, siamo ancora più solidi, conviti di aver creato un disco ROCK – non parlo di genere ma di indole».

State esplodendo di energia? Il Gotto Esplosivo è tornato!

Val d’Orcia, un paesaggio da Hollywood

Hollywood l’ha celebrata, filmata, immortalata. Cercava un luogo onirico, quieto ma struggente; un posto che potesse apparire fuori dal tempo, sospeso e protetto in un sogno; un ambiente che potesse avere la valenza di casa, dove poter tornare alla fine di una vita tribolata, per trovar pace e affetti. Forse l’Eden, o forse semplicemente la Val d’Orcia.

Fu quest’ultima la location scelta dalla produzione per il celebre film Il Gladiatore; immortalata sul finale in un quadro che prende avvio dalle parole del protagonista che, morente, immagina il proprio ritorno a casa, atteso dal figlio in lontananza, perso tra dolci colline e lembi d’ocra campagna.

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Sul finire d’Agosto, in giornate con il sole giallo e alto in cielo, questo pezzo di Toscana si illumina, suggestivo e straordinariamente capace di abbracciare le qualità italiane riconosciute dal mondo: l’eccellenza eno-gastronomica, l’arte e la storia che intrecciandosi ci lasciano borghi incantati, cristallizzati ai tempi di castelli e feudi, bandiere e contrade. Mario Luzi amava decantare la valle: “Ed era come essere in una strada fuori del tempo che punta con le sue giravolte al cuore dell’enigma”, disse omaggiando Pienza. La cittadina, posta nel cuore della Val d’Orcia, è un modello di straordinaria bellezza architettonica, con il centro storico rivoluzionato nel Quattrocento su impulso di quell’Enea Silvio Piccolomini divenuto in seguito Papa Pio II. Progettata dal rinascimentale architetto Bernardo Gambardelli detto “il Rossellino”, che in seguito definì Pienza “città ideale” o “città utopica”, la piazza rappresenta il modello di convivenza tra l’architettura e la gente, lo studio del bello applicato in vita quotidiana.

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Pienza, oltre ad essere straordinaria custode del sapere rinascimentale, è anche fucina di prelibatezze! Spicca tra tutte il formaggio omonimo della città d’origine; delizioso se in compagnia di pere, noci e miele, superbo se affiancato dal vino da lì a pochi chilometri prodotto, il Montepulciano. Conosciuta ai più per il suo vino nobile, la cittadina che ospita questo famigerato vigneto è altrettanto ammirevole se ci si ferma a contemplare la sua costruzione rurale e l’equilibrata urbanizzazione. Anche qui è passata la radice rinascimentale, lasciando dietro di sé eleganza priva di effimero e bucolica bellezza. L’equilibrio principe è il rispetto per la natura; principio applicato nei secoli, dagli architetti più brillanti, il Rinascimento in valle ci lascia con un uomo che si appropria di spazi, chiedendo comprensione alla natura e permesso al senso estetico.

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L’avvicinarsi ai borghi è un percorso metaforico: il gruppetto di costruzioni di color pietra è quasi sempre in cima ad un promontorio da cui discende serpeggiante una strada (talvolta non asfaltata), che facendosi largo tra campagne e boschetti di cipressi ti accoglie, indicandoti la direzione verso il centro abitato senza sfarzi, senza eccessi, mostrandoti i frutti di una campagna pronta a restituire girasoli allineati come soldatini colorati di giallo.

Questa valle è così: una secolare partita a scacchi tra piaceri del palato, odori inebrianti e bellezze architettoniche inserite in una natura modellata dall’uomo con ancestrale equilibrio. Perle incastonate nei meravigliosi affreschi delineati dalle piccole contrade, fatti di colori caldi, rustici e rurali, incorniciato da filari di cipressi, che silenti contemplano il paesaggio.

In copertina ph. Hans A. Rosbach CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons.

Premio Sinbad: ecco i nomi dei finalisti

Dopo una lunga attesa, finalmente sono stati annunciati i finalisti della prima edizione del Premio Sinbad! Un premio fortemente voluto dagli editori indipendenti, tant’è vero che del comitato che organizza il concorso fanno parte minimum fax, nottetempo, laNuovafrontiera, Il Saggiatore, Iperborea e tanti altri!

La manifestazione è nata con l’intento di dare visibilità all’editoria indipendente, spesso penalizzata dai grandi premi nazionali.

La prima giuria (composta da tre biblioteche, tre librerie indipendenti, tre circoli di lettura e tre blog letterari) aveva selezionato, tra le 89 candidature, dieci titoli per la narrativa italiana e dieci per la narrativa straniera.

La seconda giuria (composta da Franco Cordelli, Andrea Cortellessa, Marcello Fois, Michele Mari ed Elisabetta Rasy per la narrativa italiana; da Simonetta Bitasi, Concita De Gregorio, Nicola Lagioia, Marco Missiroli e Michela Murgia per la narrativa straniera) ha in fine scelto le terne dei finalisti.

Senza ulteriori indugi, ecco a voi i nomi per la narrativa italiana:

  • Beatrice Masini, La cena del cuore. Tredici parole per Emily Dickinson, rueBallu;
  • Tommaso Pincio, Panorama, NNE;
  • Eugenio Vendemiale, La festa è finita, Caratteri Mobili.

I libri invece segnalati dalla giuria in questa sezione sono:

  • Ilaria Bernardini, L’inizio di tutte le cose, Indiana Editore;
  • Mario Pistacchio e Laura Toffanello, L’estate del cane bambino, 66thand2nd;
  • Paolo Zardi, XXI secolo, Neo Edizioni.

I fiinalisti della sezione dedicata alla narrativa straniera sono:

  • Sorj Chalandon, Chiederò perdono ai sogni, traduzione di Silvia Turato, Keller editore;
  • Annie Ernaux, Gli anni, traduzione di Lorenzo Flabbi, L’Orma Editore;
  • Miriam Toews, I miei piccoli dispiaceri, traduzione di Maurizia Balmelli, Marcos y Marcos.

Riguardo questa sezione, hanno ricevuto segnalazione da parte della giuria:

  • Helen Humpreys, Il canto del crepuscolo, Playground;
  • Fredrick Sjoberg, L’arte di collezionare mosche, Iperborea;
  • Zdravka Evtimova, Sinfonia, Besa editore.

La premiazione avverrà al Teatro Margherita di Bari venerdì 20 novembre per la narrativa straniera, mentre sabato 21 novembre per la narrativa italiana.

Volete sapere come finirà? Seguiteci e lo scopriremo insieme!

Black Mass e i segreti del make-up

L’8 ottobre è uscito nelle sale italiane Black Mass – L’ultimo gangster di Scott Cooper. La pellicola, ispirata a una storia vera, racconta di un’insolita, e interessata alleanza tra James “Whitey” Bulger (Johnny Depp), criminale statunitense, e John Connolly (Joel Edgerton), agente dell’FBI. Questo film ha da subito fatto parlare di sé, ma più che per il suo valore artistico, per Depp che, per esigenze di copione, è stato stravolto dal make-up.

Che Johnny Depp sia tra i più noti trasformisti del cinema contemporaneo non è certo una novità. Da Edward Mani di Forbice, passando per Jack Sparrow e il Cappellaio Matto, ha sempre abituato il pubblico ai look più eccentrici, legati a personaggi altrettanto bizzarri. In Black Mass, invece, il trucco che Depp sfoggia è piuttosto minimale e naturale (ma non per questo meno laborioso), ma dimenticatevi il solito sex symbol: in questo film lo troverete invecchiato, stempiato e con gli occhi azzurri e glaciali. Il make-up artist Joel Harlow, che con l’attore ha lavorato in altri 12 film, ha raccontato che le protesi che rendevano Depp calvo sono state realizzate a mano, inserendo un capello per volta. Ciascuna di essere poteva essere utilizzata solo una volta, ragion per cui ne sono state realizzate circa 50, in un processo che richiedeva 22 ore di lavoro per ogni protesi. L’attore, poi, si sottoponeva ogni giorno a una seduta di trucco di circa due ore per ottenere l’aspetto che ha nel film. Ricorderemo questo make-up, nella sua (apparente) semplicità, tra i più strani mai sfoggiati da Johnny Depp.

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Il cinema, sin dalle sue origini, ci ha spesso regalato dei trucchi memorabili, ancora oggi frutto del lavoro manuale e della passione dei make-up artist, aldilà degli effetti speciali. Lon Chaney Sr., soprannominato “L’Uomo dalle Mille Facce”, fu il primo grande caratterista della storia del cinema: si affidò innumerevoli volte alle mani dei truccatori, subendo di volta in volta delle vere e proprie metamorfosi. Una tra tutte? Quella nel Fantasma dell’Opera.

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Dal 1981 viene assegnato il premio Oscar al miglior trucco (dal 2012 comprende anche l’acconciatura) che riconosce con l’ambita statuetta il duro lavoro dietro le quinte dei make-up artist. Tra i film vincitori troviamo Dick Tracy (1990), in cui anche il make-up racconta efficacemente l’origine fumettistica del film, ma anche Mrs. Doubtfire (1993) in cui il compianto Robin Williams sfoggiava una grande espressività nonostante le numerose protesi sul viso: merito dell’abile mano di Ve Neill. Men in Black vinse il premio nel 1999 e per capire il perché basta pensare a una sola cosa: Vincent D’Onofrio dentro il suo “Edgar-abito”.

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Per chiunque sia interessato a conoscere e approfondire i dettagli di questo mestiere, la piattaforma via cavo statunitense Syfy trasmette Face Off, un talent show dove una serie di professionisti del settore, tra cui i vincitori di Academy Ve Neill e Michael Westmore, settimana dopo settimana giudicano e aiutano truccatori amatoriali nella realizzazione di make-up prostetici. I più appassionati apprezzeranno.

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Intervista’l’musicista: La tromba del Bon vecchio Piero

Eccezionalmente per Pequod si rivela a noi Marco Pierobon: uno dei musicisti italiani più affermati sulla scena internazionale. Ammaliata dalla sua musica e dalla sua tromba vi consiglio di starvene seduti comodi e far partire i consigli musicali che ci ha lasciato Marco.

Led Zeppelin,Whole lotta love (Link)
W.A. Mozart: Symphony No. 41 (Link)
Skrjabin, Poema dell’Estasi (Link)

Chi si cela dietro questa magnifica tromba?

Marco Pierobon, 40 anni (sigh!), nato e cresciuto a Bolzano (fino ai 18). Poi emigrato in giro per il mondo, ma di base, ora, in provincia di Parma. Nebbia e Zanzare.

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Qual è in tuo primo ricordo musicale?

Primo ricordo musicale? Il mio maestro di solfeggio che mi dettava le lezioni da imparare sul quaderno. Fotocopie? Ciclostile? Mah…

Quale è stato il tuo percorso come musicista? Parlami delle tue origini, dei tuoi primi ascolti, le band del liceo, i gruppi in cui hai suonato che più han significato per te e per la tua crescita musicale.

Ho iniziato a 8 anni alla scuola elementare, in un corso “casuale” di musica. Subito dopo, a scuola della banda, a Bolzano. Alle medie mi sono convertito al Metal (!!!) per cui Iron Maiden, Bon Jovi, Guns’n Roses. Vinili e musicassette. CD? Ancora non pervenuti…

Ho fondato gli “Universe” alle scuole medie, suonavo la batteria. Poi al liceo il salto di qualità: “Five Faces”, una cover band degli Zeppelin (sempre batteria) e “Alfio e gli Apodi” (chitarra), Doors e co. Ma anche gruppi di musica latino americana con la tromba. Poi è stata la volta del conservatorio, l’Orchestra Giovanile Italiana a Fiesole, concorsi vinti, l’Orchestra Toscanini di Parma,  il Maggio Musicale Fiorentino, l’ Accademia di S.Cecilia di Roma e una capatina alla Chicago Symphony Orchestra. Ora solo conservatorio, il quintetto d’ottoni (GomalanBrass Quintet) e concerti da solista.

 

Come ricordi gli anni di studio in conservatorio/scuole di musica? Qualche aneddoto particolare?

Ho degli splendidi ricordi del Conservatorio. Molto lavoro, tanti concerti, molta esperienza. Ma ho visto volare anche qualche sedia in sala orchestra, per fortuna non ero io il destinatario.

Ora la situazione è ribaltata e potenzialmente sei tu quello che può lanciare le sedie. Cosa significa per te insegnare musica? Come lo affronti, quali sono i valori che vuoi trasmettere  e le delicatezze da tener presente?

Insegnare è un’esperienza intensa. Voglio trasmettere la mia intenzione di comunicare attraverso la musica, cosa non scontata. E non lo posso fare suonando in prima persona, ma ispirando i miei studenti. La cosa più bella non è far suonare un allievo come me, ma farlo suonare al meglio delle sue possibilità, nel suo stile. Accantonando le mie idee musicali. Suggerendo e guidando, non imponendo. Mi riesce quasi sempre. Quasi.

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Uno strumento musicale che avresti voluto imparare a suonare?

Banale. Il pianoforte. Suonicchio, ma da schifo.

Lasciami un pensiero musicale per salutare i nostri lettori.

La vita senza musica sarebbe un errore (non è mia…). Quindi non sbagliate. E non fate sbagliare i vostri figli. Non tutti devono diventare musicisti. Ma saper ascoltare è una delle regole basilari della musica. Pensa se la applicassimo ai rapporti fra le super-potenze mondiali.

Qualche consiglio dascolto?

Tutto, senza preconcetti. Se io ho ascoltato Led Zeppelin e Mozart contemporaneamente (Mozart era più Heavy Metal di tanti rockettari di oggi, btw) si può fare. E da tutto si può apprezzare e cogliere il bello, l’energia:

Led Zeppelin,Whole lotta love

W.A. Mozart: Symphony No. 41 “Jupiter” in C major

Skrjabin, Poema dellEstasi

 

 

EXPO: aspettative e prospettive di una grande opera italiana

A meno di due settimane dalla chiusura, Pequod torna a parlare di Expo 2015 per riflettere sulle problematiche che hanno segnato la sua storia e capire cosa resterà del grande evento quando si spegneranno i riflettori e i turisti andranno altrove.

Il punto (interrogativo) sui visitatori

La notizia è di questi giorni: Expo 2015 ha tagliato il «traguardo minimo obbligatorio» dei 20 milioni di visitatori. Pochi ci avrebbero scommesso all’inizio, quando le previsioni “expottimiste sui 4-5 milioni di entrate nei primi mesi risultarono, nei fatti, più che dimezzate: l’amministratore delegato Giuseppe Sala aveva diffuso dati “gonfiati” e indifferenziati, includendo biglietti omaggio, volontari e addetti ai lavori. Così è partito il tormentone degli sconti sui biglietti, dai 10 € per gli universitari all’omaggio a persone con imponibile inferiore ai 10 mila euro annui, fino al recentissimo 2×1. Grazie a una campagna pubblicitaria pervasiva, Expo chiuderà con più di 100.000 visitatori al giorno, con il picco dei 259.093 del 26 settembre.

«Non che i numeri siano il fattore principale», dichiara soddisfatto Sala. Ma intanto pensa a un nuovo obiettivo: abbiamo fatto 20, facciamo 21 (milioni).

Code interminabili all’ingresso di Expo, così lunghe che un cittadino romano non è riuscito a visitare i padiglioni e si è rivolto al Codacons: è la prima causa italiana contro Expo.
Code interminabili all’ingresso di Expo, così lunghe che un cittadino romano non è riuscito a visitare i padiglioni e si è rivolto al Codacons: è la prima causa italiana contro Expo.

«Sicurezza» sul lavoro

Le polemiche sui contratti “pirata” giocati al ribasso avevano chiarito agli aspiranti lavoratori prima dell’inaugurazione che non sarebbe stata Expo 2015 a garantire la sicurezza di un impiego. Ma non ci si aspettava nemmeno che per «motivi di sicurezza» si potesse negare il pass o licenziare un neoassunto. Tra i 70 mila dipendenti ignari sottoposti a controlli di polizia, 680 sono stati segnalati dalla Questura di Milano per pendenze risolte o senza ragioni. Dopo i primi ricorsi, il vertice del 23 giugno tra sindacati ed Expo spa decide per la revisione dei profili “non idonei” e il possibile reintegro di 200 persone. Peccato che molte, ormai, avevano perso il lavoro.

Il vero problema è nel metodo per Antonio Lareno, delegato Cgil all’Expo, «quello per cui si possa andare a cercare nel passato di una persona per decidere se darle il diritto di lavorare oppure no».

Per chi il lavoro l’ha ottenuto, comunque, i disagi non sono mancati. Su Change.org è ancora aperta la petizione per chiedere più tornelli e parcheggi riservati, precedenza sulle navette e ai punti ristoro. Ma la fine del mese è vicina, è già tempo di pensare a un nuovo impiego.

 Il volantino dell’organizzazione San Precario, che offre assistenza ai lavoratori precari di ogni tipo, anche agli assunti di Expo
Il volantino dell’organizzazione San Precario, che offre assistenza ai lavoratori precari di ogni tipo, anche agli assunti di Expo

Toto-Expo: l’eredità materiale di Expo 2015

Partiamo dalle buone nuove. Il successo estivo della Darsena fa ben sperare sulla riuscita dell’opera di riqualificazione dell’area: prosegue il piano di pedonalizzazione e si azzarda di arrivare fino a via Tortona; alla movida serale si potrebbero affiancare gare di vela e canoa e le attività di Mercato Metropolitano.

Le proposte più quotate per il dopo-Expo sono la nuova Città Studi dell’Università Statale, con un campus, residenze per studenti e strutture per la ricerca; ma anche la “Silicon Valley” di Assolombarda, un parco tecnologico sull’agroalimentare. E l’Albero della Vita? Lasciarlo dove si trova o portarlo in piazzale Loreto, in Darsena, a Rho? Ma soprattutto, chi ne sosterrà le spese?

Mentre il piano di smantellamento partirà a novembre, il governo sembra voler rilevare le quote di Arexpo per investire sul futuro del sito. Poche certezze per ora, a parte l’attenzione dei cittadini milanesi, lombardi, italiani che chiedono trasparenza: sulla rifunzionalizzazione dell’immensa area e lo smaltimento dei rifiuti speciali, ma soprattutto sul rispetto del protocollo di legalità. Perché non si ripetano le storie di corruzione che hanno macchiato Expo 2015 (tra gli ultimi lo scandalo dell’appalto truccato per Palazzo Italia e il commissariamento di Set Up Live, l’azienda che si è occupata dell’allestimento dei cluster, sospettata di rapporti con la ‘ndrangheta). Perché non si sprechi l’occasione di lasciare alla collettività, principale finanziatore dell’impresa, spazi rinnovati e fruibili.

Il grande sito dell’Esposizione milanese, esteso per 1milione e 100mila metri quadrati…
Il grande sito dell’Esposizione milanese, esteso per 1milione e 100mila metri quadrati…
… e l’Albero della Vita
… e l’Albero della Vita

Carta in tavola: l’eredità culturale di Expo 2015

Nutrire il pianeta, energia per la vita, ovvero salvaguardia delle biodiversità, pratiche agricole sostenibili e diritto al cibo. Questi i temi di cui l’Expo milanese doveva farsi promotrice, ma sembra che, per quanto i padiglioni si siano ispirati alle linee-guida (e non sempre è così evidente), ben poco sia stato percepito dai visitatori. Così la pensa una visitatrice “speciale”, Sara Pezzotta. Appena tornata da 6 mesi di lavoro in Sud Sudan, è stata catapultata nella sfavillante fiera per rappresentare le attività dell’onlus Tonjproject.

«Ho visto molta contraddizione. Ho visitato i padiglioni dei Paesi africani: sembravano delle attività puramente commerciali». Un’altra amara scoperta lo spazio di Save the children, che illustra la cruda storia di un bimbo africano che soffre la fame: «Molto forte, ma troppo “spettacolarizzata”». E infine il supermercato tecnologico di Coop: «Pensavo fosse una provocazione. Tocchi un prodotto e un pannello interattivo ne mostra origine e proprietà. A prendere la frutta ci pensa un braccio meccanico. Uno scenario futuristico angosciante». Più confortante l’«interattività sobria» dei percorsi sensoriali di Slow Food.

L’impressione è che Expo 2015 abbia sacrificato i grandi temi in nome dell’autopromozione dei singoli Paesi e dello spettacolo visivo. Non ci si aspettava una rivoluzione delle coscienze, ma la coerenza di essere i primi promotori del cambiamento che si auspica nel mondo.

Il possibile riscatto è la Carta di Milano, documento sottoscritto da autorità di tutto il mondo e cittadini comuni, discussa l’11 ottobre tra 26 tavoli tematici. Grande assente, per Caritas Internationalis, è «la voce dei poveri»: manca una strategia per la risoluzione di problemi come «la speculazione finanziaria, l’accaparramento delle terre, la diffusione degli Ogm e la perdita di biodiversità». Gli obiettivi a lungo termine di questo grande evento sono ambiziosi e impegnativi: speriamo non rimangano solo parole sulla carta.

Agostino Dessì: il maestro delle maschere

Alice Atelier è il luogo dove Agostino Dessì, sardo di nascita, ma fiorentino d’adozione, dà vita alla materia creando le sue magnifiche opere d’arte. Per tutti è il maestro delle maschere di via Faenza. La sua bottega è un brulicare di turisti che rimangono ammaliati davanti alle sue creazioni. Un continuo sospirare e meravigliarsi di fronte alle immagini scolpite nella forma dal maestro. Tutti sono pronti a scattare un’immagine da postare, condividere o semplicemente dimenticare. Ma il tutto fuori dalla bottega, perché dentro “bisogna lasciar libero l’occhio di poggiarsi dove più gli aggrada”. I soggetti e le allegorie sono molteplici, non tutti percepibili con uno sguardo approssimativo.

Inoltre, l’opportunità di aver conosciuto il maestro in circostanze diverse dal lavoro, mi ha permesso di instaurare con lui una forma di confronto sincero, elemento essenziale per la realizzazione di questo fotoreportage. La sua curiosità e il suo interesse genuino per le scintille artistiche scaturite dal mio obiettivo mi hanno profondamente colpito ed ho subito pensato che deve essere questa la semplicità che caratterizza i grandi artisti. In fondo lui è un uomo affermato, che ha girato il mondo, mentre io mi muovo timidamente alla ricerca di me stesso, eppure il suo interesse nei miei confronti si è dimostrato vero e mai forzato.

Infine i materiali: cuoio, bronzo, gesso. Su ognuno di essi è impresso un volto, e ogni creazione dona all’avventore sensazioni sempre nuove. Le fotografie che ho scelto vorrebbero essere un riassunto dello stupore e dell’ammirazione che ho provato la prima volta che sono entrato in questo piccolo ma al tempo stesso sconfinato luogo che è Alice Atelier.

Buona visione.

Pigmenti: rafforzare la relazione tra i cittadini e gli spazi

Quando sentiamo le parole riqualificazione urbana la maggior parte delle volte pensiamo che significa rendere i muri più carini, rintonacare un muro malmesso. Errato! Lo scopo del progetto Pigmenti è quello di riqualificare la relazione tra i cittadini e gli spazi.

«É innegabile che viviamo in un tempo abbrutito, siamo una “generazione di fretta”, con modelli estetici da fast food, superficiali perché più funzionali. Oggi va forte la televisione perché è comprensibile, ti parla, punta alla tua testa con un susseguirsi di notizie, consigli, liti, leggerezze, ecc…non ti lascia il tempo di rielaborare. Lavorare con l’arte pubblica ti consente di puntare a sorprendere, colpire, incuriosire, a lavorare non sulla testa ma sul sentimento, a muovere alla contemplazione, a utilizzare un linguaggio che non lascia spazio all’immediatezza del verbale ma che obbliga alla profondità».

Il percorso non é lineare, può essere del tutto casuale può lavorare senza che ce ne accorgiamo e può colpire tutti. La vera svolta è «il fatto di non dover andare in una galleria o in un museo per “accedere” alla suggestione di un’opera, perché permette di aggirare quella naturale scrematura fatta di interesse/cultura/istruzione/abitudine/status che fa in modo che in molti non percorrano mai la strada che li porta da casa al museo. Il trucco sta nel fare arte pubblica su altre strade e costringere a un incontro fortuito e, proprio per questo, per alcuni, anche più autentico».

Pigmenti nasce dalla serigrafia Tantemani di Cooperativa Sociale Patronato San Vincenzo, un laboratorio formativo e lavorativo per ragazzi con diverse abilità cognitive e relazionali. La collaborazione con alcuni street artist per la stampa di magliette in serigrafia (tra i primissimi ad esempio Orticanoodles), hanno iniziato ad avvicinarsi e ad appassionarsi a questo mondo. « Connettere la serigrafia al mondo dell’arte pubblica, come già avviene in tante realtà in Italia e all’estero, ci ha permesso di lavorare sul piano più ampio della città e di moltiplicare il nostro impatto sociale e culturale».

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Quest’estate hanno collaborato con l’ Associazione Open Space, che già dall’anno scorso lavora per far rivivere uno spazio abbandonato nel quartiere Boccaleone a Bergamo. «Noi abbiamo contribuito portando 11 artisti da tutta Italia per dipingere i 10 piloni della superstrada che incoronano quello spazio. Ogni artista ha lavorato a un pilone sul tema “creature urbane” nel primo week end di festa durante il quale le persone hanno potuto vedere gli artisti all’opera». Gli 11 artisti coinvolti sono: Collettivo FX + Astro Naut, Giorgio Bartocci, Nemo’S, La Fille Bertha, Geometric Bang, G Loois, ilBaro, Casciu, Seacreative e Ale Senso. A settembre le stampe delle opere sono state presentate in una mostra collettiva presso la Traffic Gallery (Bergamo).

Ora stanno partecipando al bando “Che fare” il progetto che hanno presentato si intitola Time Specific e consiste «in una piccola e pregiata carovana di artisti urbani, documentaristi, animatori e stampatori che transiterà attraverso sette luoghi significativi della città di Bergamo.
In ognuno di questi luoghi il gruppo sosterà per incontrare le persone che li abitano, realizzare laboratori narrativi e partecipativi e realizzare opere di pittura murale.
Nel loro sostare indagheranno il Tempo: come è vissuto e considerato dalle diverse persone che incontreranno, le sue distorsioni, le diverse prospettive.
I luoghi toccati saranno tre scuole di diverso ordine e grado, un ospedale, una casa di riposo, un carcere e una piazza. Luoghi forti, vissuti da un’umanità varia, che consentiranno di collezionare visioni e prospettive molto differenti sulla vita e sul Tempo».

Tutte le piccole e grandi storie che nasceranno verranno stampate a mano in serigrafia, opere di arte murale sulle pareti interne ed esterne degli edifici, brevi video e un film che racconterà in forma documentaristica la riflessione sviluppata per parole e immagini intorno al tema del Tempo. «Le opere di arte pubblica verranno realizzate da quattro artisti di fama internazionale: Tellas, Hitnes, Nemo’S Collettivo FX. Avranno un duplice obiettivo: rigenerare i luoghi dell’intervento conferendo loro nuova dignità e rendere l’arte e la cultura oggetto di un percorso partecipato e condiviso. Il coinvolgimento dei cittadini porterà a riappropriarsi del processo creativo dell’arte e a riconoscere con nuovi occhi il proprio territorio e le sue potenzialità.»

Alla domanda quali sono i loro progetti per il futuro rispondono: «Se dovesse andare in porto il progetto Time Specific sarebbe la nostra progettualità centrale per il prossimo anno, al di la di questo prosegue il nostro lavoro di serigrafia con stampe di magliette d’artista (le ultime con Nemo’S e Casciu), prima di Natale faremo un paio di workshop di serigrafia e altre tecniche di stampa artigianale e a marzo abbiamo in programma un intervento importante legato a Bergamo Jazz, festival jazzistico bergamasco, per il quale stiamo ancora valutando quale artista coinvolgere».

Per votare il loro interessante progetto, basta un click qui. Visitate il loro sito e la loro pagina Facebook per tenervi aggiornati.

L’umanità di Bodrum, dai commercianti greci ai migranti siriani

Basta sedersi al porto, lasciarsi alle spalle il chiasso dei locali notturni di Gümbet, affinare la vista e si è subito in Grecia, in un altro Paese, in un altro continente. Bodrum è un crocevia di diverse culture: per la sua posizione strategica nell’ Egeo ha visto camminare per le sue vie greci, bizantini, ottomani, curdi e turchi, senza dimenticare quell’umanità migrante che scappa dalla guerra in cerca di un posto migliore, scolando verso l’Europa e usando Bodrum come fosse un imbuto. Ciascuno vi ha lasciato qualcosa: un anfiteatro, un mausoleo, un castello. Vite umane.

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Erodoto, lo storico che qui nacque attorno al 400 a.C., l’avrebbe chiamata Alicarnasso: è qui che il re Mausolo dal 377 alla sua morte nel 353 a.C. vi fece costruire la sua tomba, il Mausoleo, termine che oggi è addirittura entrato nel nostro vocabolario per indicare un sontuoso monumento funebre costruito in memoria di una o più persone. Non è un caso: il Mausoleo di Mausolo è annoverato tra le sette meraviglie del mondo antico, anche se oggi, dopo millenni di scorrerie, rimangono solo pochi rocchi di colonne. Molta più soddisfazione dà invece il teatro, costruito nel II sec. a.C. e posizionato sulle colline che da Göktepe guardano verso il porto: qui non mancano i mulini a vento, che sono diventati il simbolo nazionale della ventosa città. A pochi passi dal porto, invece, sorge il castello medievale di San Pietro, risalente all’epoca in cui la città cambiò nome in Petronium: oggi diventato Castello di Bodrum, venne costruito attorno al XV sec. d.C. ed è stato nel tempo trasformato in Museo d’Archeologia Subacquea, dove sono esposti reperti dell’Era del Bronzo.

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La cittadina di mare vive oggi di una forte presenza turistica, sebbene non sia meta di turisti da villaggio e tour organizzati; piuttosto vi si incontrano viaggiatori europei e la ricca borghesia turca. Non è difficile, infatti, vedere passeggiare per strada bellissime donne che vestono l’al-Amira, il velo tipico che copre la testa e il collo, appena scese coi loro mariti dagli yatch parcheggiati nel porto, o bianchissime famigliole belghe appena sbarcate a bordo dei tradizionali Tirhandil con la prua e la poppa a punta. Assieme si addentrano nel mercato coperto che si apre sulla strada principale, dove è possibile acquistare chincaglierie varie di scarsa qualità, ma anche bellissime borse di pelle pregiata. In pochi si inerpicano sulle vette più alte della città: ad andarci a piedi viene il fiatone per quanto le strade sono in salita, mentre con il taxi devi essere esperto e conoscere bene la cittadina. Io ho avuto la fortuna di salirci con un amico e, da là sopra, guardare verso il golfo: l’emozione è indescrivibile! La musica commerciale dei tanti locali del porto è ovattata, mentre le luci che ne escono giocano a rincorrersi in cielo, per le strade, nel mare. Indifferente ai loro movimenti artifciali, la luna dall’alto si specchia nel mare, dividendosi in mille lamelle bianche e riflettendo un’immagine che ricorda proprio quella impressa sulla bandiera della Grecia, un paese su cui da secoli, nonostante il passaggio di tante civiltà, brillano le stesse stelle.

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In Copertina ph. Hans A.Rosbach CCA BY-SA 3.0/wikimedia Commons

A Zadar chi suona è il Mare

“L’imprevedibilità del mare con la sua forza, moto, direzione e marea crea un concerto perpetuo, irripetibile nelle sue variazioni musicali. L’autore di questa sinfonia è la Natura stessa”

Zadar, Croazia. È qui che il 15 aprile 2005 venne inaugurato l’Organo Marino (Morske Orgulje) ad opera dell’architetto Nikola Bašić: situato nella banchina che circonda il centro storico, in un luogo da tempo abbandonato, quest’opera venne concepita come luogo di riqualificazione e attrazione. Alla creazione di questo immenso strumento musicale collaborarono Vladimir Androšec (professore all’Università di Ingegneria e Architettura di Zagabria) come consulente per il sistema idraulico marino, Goran Ježina (del laboratorio di produzione d’organi Heferer di Zagabria) che si occupò dell’istallazione delle canne e della produzione dei 35 labium finemente accordati dal professor Ivica Stamać.

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Io ci sono capitata un po’ per caso, un po’ per destino una sera di fine agosto. Di primo acchito altro non sembra che una serie di gradinate che danno direttamente sul mare ma, man mano ci si avvicina si viene avvolti dalla magia!

Al di là della magia e della suggestione, rimane una grande opera di ingegneria che, mio malgrado, tenterò di spiegarvi al meglio: ci sono sette sezioni di gradinate da 10 metri ciascuna; al di sotto di queste, posizionate parallelamente alla riva e al livello della bassa marea, si trovano 35 canne di polietilene di varie lunghezze, diametri e inclinazioni che si alzano trasversalmente fino alla pavimentazione della riva per terminare nel canale, allo scopo di far passare l’aria e l’acqua producendo un suono diverso a seconda delle condizioni del vento e del mare.

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L’onda del mare spinge l’aria attraverso la canna, il cui diametro va pian piano ristringendosi; il suono nelle canne è prodotto dall’accelerazione dell’aria che fa vibrare i labium (labbro, dal buon vecchio latino – si tratta della parte interna all’imboccatura di flauti dolci, ocarine, fischietti che permette la produzione del suono facendo infrangere l’aria su di essa; nell’organo avviene la stessa cosa con la differenza che l’aria viene spinta meccanicamente e il suono viene prodotto dalla vibrazione interna delle canne ad anima, o labiali). Questi labium, dicevamo, sono situati praticamente sotto i nostri piedi e il suono esce da dei buchi nella pavimentazione del marciapiedi.

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I suoni prodotti da questo strumento sono continuamente diversi e modulati secondo sette cluster (sono gruppi di note vicine – da tre a cinque – che vengono suonate simultaneamente) e cinque toni tipici della musica tradizionale dalmata a cappella.

Al di là di questo affascinante funzionamento che unisce magistralmente la forza della natura alla sublime meccanica organistica, sedersi su quelle gradinate è stato un momento che, a mio avviso, farò fatica a dimenticare. Metteteci il mare a metà tra il tranquillo e l’arrabbiato tipico di una sera ventosa, una luna quasi piena, isolate il vociare dei turisti e nascondetelo alle vostre orecchie e avrete un momento speciale.

Il ritmo e la melodia dipendono in tutto dal moto ondoso e dal vento, sparisce il classificato concetto di musica – dei suoni a caso, come se trentacinque persone suonassero una nota di un flauto tutti nello stesso momento o quando gli pare. Fatto sta che è qualcosa di veramente bello, studiato e fine: c’è la riqualificazione di una parte snobbata di una cittadina marittima, c’è il rispetto e il vero coinvolgimento della natura, c’è la musica.

Se mai passerete da Zadar fermatevi ad ascoltare.

In copertina: Organo marino di Zadar [ph. Böhringer Friedrich CC-BY SA 2.5/Wikimedia Commons]

BeccoGiallo Edizioni: un nuovo modo di fare giornalismo?

BeccoGiallo non è la solita casa editrice per vari motivi, due in particolare saltano subito all’occhio: il primo è che l’etica è alla base del loro lavoro, dato che pubblicano solo opere d’impegno civile; il secondo è che si occupano di solamente di graphic novel, anzi per la precisione di graphic journalism.

Dieci anni di attività alle spalle sono tanti, specialmente se si lavora in un settore di nicchia, trattando argomenti estremamente delicati. Pequod vi porta oggi a fare due chiacchiere con Guido Ostanel, direttore editoriale di BeccoGiallo.

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La vostra linea editoriale è ben definita e molto interessante: vi occupate di fatti di cronaca, di inchieste e di reportage. Perché avete scelto di interessarvi di giornalismo in questo modo alternativo e molto stimolante?

Perché non volevamo rassegnarci di fronte al ritornello: «Oggi ai giovani non interessa più niente». Chi se ne frega di chi ha ucciso Pasolini, chi se ne frega di chi ha messo una bomba a Piazza della Loggia, chi se ne frega di Falcone e Borsellino, chi se ne frega della Resistenza. Ci pareva troppo facile dare tutta la colpa ai giovani distratti. Forse gli strumenti usati fin lì dai “vecchi” per tenere viva la memoria, non funzionavano più così bene?

 

Sul vostro sito main.beccogiallo.net spiegate come «non è nato» il vostro progetto: dite che nessuno di voi è un disegnatore, né uno sceneggiatore di storie per immagini, ma vi definite dei «discreti lettori». Come mai avete scelto questo linguaggio per intrattenere e informare i lettori?

Perché il linguaggio del fumetto – per come funziona – invita naturalmente chi legge a mantenere un atteggiamento attivo durante la lettura. Un po’ il contrario di quanto è successo per decenni con la più brutta televisione italiana: praticamente, un invito alla passività più totale. Questo aspetto del fumetto ci sembrava molto interessante e abbiamo provato ad approfondirlo.

 

Ogni vostra graphic novel è curata in ogni dettaglio, la qualità media dei vostri prodotti è molto alta. Quanto tempo dedicate alla cura di un libro? Quanti ne riuscite a pubblicare in un anno?

Produrre un libro BeccoGiallo come Piazza Fontana o Peppino Impastato è un processo lungo e faticoso, sia per la redazione sia per gli autori coinvolti. In base al soggetto, il tempo e le energie dedicate alla fase di documentazione, alla raccolta dei dati, spesso con interviste e approfondimenti condotti “sul campo”, possono rivelarsi molto dispendiose. In un anno, fra ristampe e nuove proposte, pubblichiamo una decina di titoli.

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Gli ebook ormai sono una realtà e il loro mercato è in crescita costante. Molti dei vostri libri sono disponibili anche in formato digitale: credete che gli ebook possano servire a diffondere meglio i vostri prodotti o i fumetti in generale?

Per quanto abbiamo potuto osservare noi, difficilmente – almeno nel caso dei nostri fumetti – la copia fisica viene sostituita da quella digitale. Molto più interessanti, invece, si sono finora rivelati gli esperimenti con il digitale sulla promozione del singolo libro, del marchio e della lettura.

 

In dieci anni di attività, una longevità che non è da tutti, avete raccontato molte storie, trattando di personaggi ancora attuali: da Marco Polo a Giovanni Falcone, da Pasolini a Maradona. Avete già in mente qualche personaggio di cui vorreste parlare in futuro? O una storia che vorreste assolutamente valorizzare?

Una donna che ci piace molto: Wisława Szymborska. Il libro che le abbiamo voluto dedicare arriverà presto.

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Insomma, un progetto fresco e innovativo quello di BeccoGiallo al quale auguriamo di cuore una lunga vita. Forse hanno trovato il modo di avvicinare di nuovo i giovani – e non solo – alla storia e al giornalismo.

AEGEE Summer University will change your student life : Simonas can vouch for that!

As you already know AEGEE gives you several chances to integrate in the international University social life, today we have a special guest to interview, a young Lithuanian guy who has just become vice-president of AEGEE Tilburg.

Hello Simonas, we have heard that now you are involved directly with AEGEE Tilburg but first tell us something about you.

 Hello, my name is Simonas Valionis, I am 25 years old and I come from Lithuania. At the moment I am doing a master in Communication and Information Sciences at Tilburg University with specialization in Digital Media and Business Communication. During my previous education I studied to become translator from Lithuanian to English and vice versa .

Why did you decide to leave your own country and apply for a master in the Netherlands?

After finishing my translation studies I was offered a job in the same college I was studying, the job was related to communication and international relations, I was responsible for the Erasmus programme in my institution and I also supervised several European projects in high education. For instance, there was a large project called ADUQUA which was related to adult education and whose main goal was to help immigrants all over Europe to integrate better in their countries. After working in this position for two and half years I felt that it was time to move on, find new challenges and change my environment. Why the Netherlands? Well, I started applying for MA degrees in several countries such as Austria, Belgium, Germany, Switzerland, and the Netherlands because I was always fascinated by the Western part of Europe. Finally, I got accepted by two different Dutch Universities, respectively, Radboud University Nijmegen and Tilburg University. After reviewing them both I decided to go with the latter one.

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Simonas and his friends during AEGEE Summer University in Spain

So far so good in the Netherlands?

Absolutely ! I have been here for one year only and I feel that this country has become my second home, I do really enjoy living here. However,  after graduating I am planning to explore other continents and countries, most likely USA.

We also know that last summer you had a great experience with AEGEE, could you please describe your experience ?

I participated in the biggest project of AEGEE which is the summer university . It was the best summer I have ever had in my life, I spent 18 wonderful days in the North of Spain travelling and experiencing  amazing cities like Zaragoza, Burgos, Leon, Madrid. I met a bunch of amazing people from all over the Europe who became close friends and we continue to keep in touch until now. This summer university was the reason that I decided to become an active member of AEGEE Tilburg because I wanted to return the favour to the organization which gave me this incredible chance to widen my horizons. I contacted the previous board members of AEGEE Tilburg to ask if could join the new board that was expected to be elected in the coming weeks, after several interviews I was appointed  as a vice-president of the student association.

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Dionne, Tsvetelina, Nikki, Simonas and Ruben respectively the board members of AEGEE Tilburg

Would you recommend the same experience to young students then?

I would definitely recommend everyone to join AEGEE and participate in a summer University for several reasons : ability to experience new cultures through their local food, heritage, and citizens , have the chance to meet the most incredible young people from all over the Europe who want to exchange their knowledge and talents, finally have the time of your life.

Let’s change topic, Lithuania has been part of the European Union since 2004 at the beginning of this year more precisely the 1st January 2015 joined the Eurozone by adopting the euro currency. What is your impression about this decision?

There is no doubt that it is a great achievement for Lithuania to be part of the EU since 2004 and the option to adopt the EURO was a main topic from the very beginning. However, it required a lot of systematic hard work and many years inside the country in order to be ready to change the currency. The reason why this process took so long it was basically that in order to change the currency the economy of a country must be stable, back in 2004 Lithuania was still a growing country  not yet ready for such big changes. After three governmental terms and an improved economical situation it was the right time to embrace the Euro currency. Well, my impression is that this change was inevitable and it happened at the time when the country and the people were already prepared for that. Even though, it can be noticed that the prices have increased a little bit, the benefits carried by this decision in the long term period will outweigh this aspect.

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Simonas and his friends enjoying Amsterdam during the Queen’s day

Do you  perceive the EU as a whole entity or given the recent events such the Greek referendum and all its implications you think that this great project is still far from being achieved ?

 For me personally, the EU project is what makes the whole Europe unite. There will always be challenges and difficulties for the complete and equal integration of the continent, but if we all think about other people, not only ourselves and systematically work towards the same goal, we will overcome the darkest times, setting the life quality at the level which satisfies everyone. In my opinion, Europe should be borderless and available to all who are interested. Some call it Europe, I call it home!

Fame di terra saziata con grano europeo

Nasce tutto a Ferrara, tra le guglie estensi e viottoli medievali, all’interno di un Festival che avevo deciso di godermi per personale curiosità, senza nessuna volontà di volerci ricavare materiale per un nuovo pezzo. Invece eccomi qua a scrivere, prendendo uno spazio a Pequod, con un fine: fungere da eco ad un’inchiesta portata avanti da due ragazzi, Diego Gandolfo e Alessandro di Nunzio, giornalisti freelance per vocazione, che hanno “ficcato il naso”, in un settore ai più oscuro, riuscendo, con il loro validissimo lavoro, a vincere il Premio Morrione, per la migliore inchiesta.

Dopo cinque mesi di investigazioni giornalistiche, grazie alle dolorose grida di aiuto di agricoltori illegittimamente defraudati dei propri campi, si è scoperchiato un vaso di pandora: la sottrazione dei fondi europei destinati all’agricoltura da parte delle cosche siciliane. È la terra a far gola alla mafia. Più terreni possiedi, più finanziamenti ricevi. Questo meccanismo in Sicilia ha inquinato l’intero sistema di assegnazione e compravendita dei terreni. L’importante, dunque, è riuscire ad arrivare (molto spesso con mezzi violenti) a possedere fondi e agri perché sarà la terra a generare automaticamente denaro di natura pubblica – comunitaria. Denaro che l’Europa eroga sottoforma di sostegno al reddito per le persone occupate nell’agricoltura. Scenario lavorativo-economico sempre più “EXPO STYLE”; tutti convinti di dover sviluppare ampliare e sostenere. Il problema grosso, oltre alla gravosa e socialmente distruttiva presenza mafiosa, è che molti di questi soldi la campagna non la vedranno mai.province-tagli

La cronaca giudiziaria ha attestato che i denari in questione, per una sorta di legge del contrappasso – o forse più con una forte tonalità di acido sarcasmo – sono purtroppo finiti nel commercio del cemento, senza frutti, senza derrate e con il grano lasciato a marcire con buona pace del reale raccolto ottenuto. A questo si è riusciti ad arrivare anche perché nella regolamentazione dell’ammortizzatore sociale previsto, non è nemmeno lontanamente menzionato un seppur minimo obbligo di rendimento o di rendicontazione. Se a questo si mescola l’egoismo criminale, la miscela mortale per l’intero comparto agricolo è aimè servito.

Ma cosa non funziona? Come si è riusciti ad arrivare a questo? Premettiamo che le domande per le concessioni dei fondi comunitari destinate all’Agea, (che è l’ente che si occupa della gestione ed erogazione dei soldi pubblici nell’ambito delle politiche agricole), devono necessariamente passare presso i Caa (centri di assistenza agricola) i quali, risultano essere limitati nei loro poteri istruttori di controllo. Ugualmente limitante è la normativa, che prevede l’obbligo di richiesta della certificazione anti-mafia solo ed esclusivamente per i finanziamenti superiori a 150.000 €. Una soglia ormai davvero troppo alta, che non permette di escludere l’operosità della mafia anche a cifre inferiori. Mafia, sì, come quella “dei Nebrodi”, che ha costretto le autorità del posto, quali il sindaco di Troina, e il presidente del Parco dei Nebrodi a vivere sotto scorta, perché minacciati, colpevoli di voler semplicemente ripristinare lalegalità in questa vorticosa e maleodorante giostra dell’assegnazione delle terre attraverso la minaccia e il metodo criminale. Purtroppo, però, il giocattolo è rotto, fuori controllo. Secondo la Corte dei Conti molti dei proventi illegalmente ottenuti negli anni sono andati definitivamente persi perché prescritti.1328943557_8700c7d681_b

Ma c’è di più: il rischio è che l’intero costo di questo vorticoso ingranaggio mafioso, perpetrato ai danni della Ue, andrà a pesare sulla collettività Italia, inficiando la legittimità stessa dei fondi. La Direzione generale agricoltura della Commissione europea intende proporre una rettifica finanziaria relativa a tutti i debiti non recuperati anteriormente al 2010.
L’importo massimo della correzione ammonta a 388.743.938 milioni, che verrebbero così decurtati dal budget italiano della Pac 2014-2020, con buona pace di chi di agricoltura ci vive, per chi davvero potrebbe avere un progetto funzionale, biodiversificato; per chi con quei fondi e grazie ad un’ottima idea e ad una forte volontà potrebbe essere pioniere di un’eccellenza in coerenza con  EXPO, ospitata proprio quest’anno dal nostro paese.

Confrontandomi con gli stessi autori, si è inoltre avuto modo di riflettere sul focus tutto siciliano della loro inchiesta e ciò ha contribuito ad allarmare gli animi. Se questa malattia diagnosticata sull’isola si fosse diffusa su tutto lo stivale le conseguenze nei rapporti italo-comunitari sarebbero quanto meno nefaste. Ciò che invece consola è che l’Italia ha, quanto meno, ottemperato ad uno degli obblighi istituiti all’art. 325 punto 2 del Trattato Ue, rubricato “Lotta contro la frode” dove espressamente si obbligano gli Stati membri, ad adottare le stesse misure utilizzate per combattere le proprie frodi domestiche, al fine di contrastare le frodi comunitarie. almeno su questo punto siamo stati, come sistema Italia, impeccabili e affidabili, conformando il nostro sistema di controllo dei finanziamenti europei a quelli italiani, con lo stesso criterio colluso e inadatto.

Le Dolomiti: al livello delle nuvole

«Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure è un sogno?»

Non c’è frase migliore del poeta giornalista Dino Buzzati per rappresentare le Dolomiti, insieme di gruppi montuosi delle Alpi Orientali italiane, collocate in Alto Adige e considerate le montagne più belle d’Italia, tanto da essere riconosciute, nel 2009, patrimonio dell’UNESCO.

Le Dolomiti prendono il nome dal naturalista francese Déodat de Dolomieu, che per primo studiò il tipo di roccia predominante nella regione, battezzata dolomia in suo onore.

Situata tra le Dolomiti, troviamo la Val Gardena, terra di folklore, ricca di storie e leggende, suddivisa in tre comuni: Ortisei, St. Cristina e Selva,  paesi dove il tempo sembra essersi fermato grazie agli abitanti che salvaguardano i loro usi e costumi.

Partendo dagli impianti delle funivie, presenti ad Ortisei (Urtijëi in lingua ladina) in pochi minuti si raggiungono i rifugi, dai quali si ha una vista mozzafiato delle Dolomiti, potendole ammirare in tutto il loro splendore.

Nelle fotografie presenti qui sotto, sono raffigurati il Seceda alto 2519 metri e il gruppo del Sassolungo, composto dal Sassolungo (3181m), Sasso Levante (3114m) e Sasso Piatto (2956m).

Questi luoghi sono da visitare almeno una volta nella vita, per gli amanti della natura e non (che molto probabilmente cambierebbero opinione su essa), e ricordate, come diceva il poeta cileno Pablo Neruda, «se non scali la montagna non ti potrai mai godere il paesaggio».

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C.A.C.C.A.: una montagna di idee

Il nome, di certo, non passa inosservato ed è pressoché impossibile dimenticarsene. Ma non è l’unica caratteristica di C.A.C.C.A. (Cose A Caso Con Attenzione) Link – che vi sorprenderà. C.A.C.C.A. è una fanzine (termine nato dalla contrazione delle parole fan e magazine), è un progetto editoriale, culturale e partecipativo, uno spazio dove esprimere liberamente le proprie idee.

C.A.C.C.A. è stata concepita, nell’Agosto 2013 durante il Collecchio Film Festival, dalle menti a caso di Giacomo Mha, Nicola Manghi e Francesco Cibati.
Francesco ci racconta:« Non vi era nessuna necessità particolare nel dare vita a C.A.C.C.A; l’intenzione era quella di creare uno spazio stampato in cui dare, a noi stessi in primis, ma anche a chiunque altro lo volesse, la possibilità di esprimersi liberamente tramite immagini e testi. Sino ad inizio 2014 nulla si è mosso, fino a quando non ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a contattare persone per la produzione del numero zero della rivista, che ha visto la luce nel Marzo dello stesso anno.»

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Di cosa si occupi C.A.C.C.A. non lo sappiamo neppure noi, perché è una sorpresa! Per ogni numero in uscita vengono infatti scelti, collettivamente, una parola chiave e un colore. Il progetto che nascerà in seguito, ruota intorno alla parola e al colore scelti, e tutti (compresi anche voi lettori) possono inviare poesie, illustrazioni, fotografie o testi interpretando liberamente il tema.
Inizialmente la redazione di C.A.C.C.A. era composta da poche persone, ma da quando la loro fama si è sparsa, il numero è in costante crescita. La redazione al momento conta oltre 500 collaboratori da tutta Italia, ma ci sono state anche collaborazioni provenienti da Messico e Olanda (!), proprio per via della natura intrinseca del progetto, ossia di una produzione dei contenuti aperta a tutti.
Spesso e volentieri, la stessa redazione si è trovata in difficoltà a selezionare il materiale da pubblicare, proprio per la grande quantità di contributi che riceve.

C.A.C.C.A. è una rivista autoprodotta e non è a scopo di lucro, poiché viene venduta a prezzo di costo e i ricavi percepiti dalle vendite vengono interamente utilizzati al fine di aumentare il numero possibile di pagine da produrre, in modo da poter dare spazio a sempre più persone.

I progetti per il futuro sono molti ma, ovviamente, è impossibile conoscerli. Sempre Francesco ci spiega: «Come dice il nome stesso, la nostra filosofia è quella di fare le cose in maniera casuale, naturale e spontanea. Nel corso del tempo abbiamo dunque dato vita a progetti collaterali legati ad eventi o temi particolari, che continuiamo a portare avanti. Per definizione continueremo a fare cose a caso, probabilmente cambiando le carte in tavola in modo improvviso e senza stare a pensarci troppo!»

Per scoprire quale sarà il futuro di C.A.C.C.A non vi resta quindi che seguirli sul loro sito ufficiale e sulla loro pagina Facebook, e ovviamente comprare la loro rivista.

Cambia_menti: il collettivo Cesura in mostra al MuFoCo

20 settembre 2015 – 31 gennaio 2016

Quattro storie. Quattro vite. Quattro fotografi pronti a raccontarle.

Una mostra dedicata al tema della diversità/inclusione, quella in scena al Museo di Fotografia Contemporanea, all’interno della sede secentesca di Villa Ghirlanda, nel cuore storico di Cinisello Balsamo (Milano); frutto delle ricerche del collettivo di fotografi indipendenti Cesura, a cura di Roberta Valtorta e Diletta Zannelli e in collaborazione con RS Components, un’azienda che della responsabilità sociale d’impresa ha fatto un tratto distintivo della propria identità.

I progetti sono interamente installati nella sala espositiva principale, mentre nella più piccola si trova una presentazione del progetto con materiali informativi su RS Components e sui progetti che il MuFoCo da anni porta avanti con l’azienda.

Quattro protagonisti che, attraverso altrettanti racconti profondamente attuali, affrontano i problemi importanti della controversa società contemporanea, affrontando il tema delicato della capacità di cambiare se stessi e il mondo che ci circonda.

 

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LA BUONA POLITICA
Alessandro Sala racconta, attraverso installazioni toccanti, del sindaco di Petrosino (Trapani) Gaspare Giacalone da anni portavoce di valori quali la tutela del territorio, il turismo sostenibile, la legalità, l’arte e la cultura, lotta oggi contro la costruzione di un parco eolico a sole 2 miglia dalla costa.

 

 

 

TERRE RARE
Arianna Arcara porta in scena il binomio donne – tecnologia, con la storia di Biniana Ferrari, vincitrice del premio internazionale Le technovisionarie che, grazie alla tecnologia unica in Europa adottata dalla sua azienda Relight, ricicla rifiuti hi-tech estraendo alcuni elementi chimici estremamente preziosi per le aziende di elettronica, le cosiddette Terre Rare.

 

 

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TECHNOLOGY
Luca Santese mostra gli ultimi risultati concreti, frutto della collaborazione tra tecnici e artigiani, nella costruzione di protesi e prodotti volti a migliorare le condizioni esistenziali dei pazienti.

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THROUGH THE LIGHT
Gabriele Micalizzi si concentra su disuguaglianza ed integrazione, temi scottanti al centro dei più grandi conflitti internazionali contemporanei. Elemento predominante è la luce che diventa strumento uniformante per le diverse etnie ritratte.

Scatto dopo scatto emerge quanto il cambiamento non possa essere tale se non implica cambia_menti di se stessi e del mondo, attraverso scelte etiche e sostenibili.

CSI: fine di un’era?

Dopo 15 stagioni, 335 episodi, 14070 minuti, Csi termina le sue indagini, e domenica 27 settembre ha salutato i suoi fans con un doppio episodio intitolato “Immortality”.

La CBS, visto sia il calo di ascolti che quello creativo ha deciso di non rinnovare la serie per una sedicesima stagione.

Il doppio episodio è stato un vero e proprio saluto ai fans,  il caso finale  ha coinvolto la squadra di D.B Russell (Ted Danson): Sara Sidle (Jorja Fox), Greg Sanders (Eric Szmanda) e Morgan Brody  (Elisabeth Harnois), riportando a Las Vegas vecchie conoscenze della serie: Catherine Willows (Marg Helgenberger),  l’amato e insostituibile nel cuore dei fans Gil Grissom (William Petersen), ma non solo: presente all’appello anche Lady Heather (Melinda Clarke).

Grande assenza di Nick Stokes (George Eads), che nonostante l’invito di Anthony Zuiker (creatore e executive producer della serie) ha deciso di non partecipare all’episodio conclusivo della serie.

L’episodio inizia con un’esplosione all’interno dell’Eclipse Casinò di proprietà di Catherine, infatti un uomo si è fatto esplodere uccidendo tre persone e ferendone altre, Catherine ora nell’FBI decide di tornare a Las Vegas per collaborare con la squadra di Russell a risolvere il caso.

Durante le indagini si scopre un possibile coinvolgimento di Lady Heather; l’unica persona che la conosceva bene e sa come trovarla è Grissom che ora lavora come investigatore privato ed eco-vigilante per provare a salvare l’ecosistema marino.

Grissom, quindi, a grande sorpresa della sua ex-moglie Sara accetta di ritornare a Las Vegas, nonostante le sue grane con la giustizia di San Diego.

Il caso si complica, spunta un altro attentatore, inizialmente non si capisce il movente, come sempre niente è come sembra. Si scopre, infatti che è un viaggio nel passato, gli attentati sono dei  messaggi per Grissom e  il suo rapporto con Lady Heather.

"Immortality Part 1 & 2" -- Coverage of the CBS series CSI: CRIME SCENE INVESTIGATION, scheduled to air on the CBS Television Network. Pictured: (L-R) William Petersen, Marg Helgenberger and Jorja Fox Photo: Sonja Flemming/CBS ©2015 CBS Broadcasting, Inc. All Rights Reserved
“Immortality Part 1 & 2” — Coverage of the CBS series CSI: CRIME SCENE INVESTIGATION, scheduled to air on the CBS Television Network. Pictured: (L-R) William Petersen, Marg Helgenberger and Jorja Fox Photo: Sonja Flemming/CBS ©2015 CBS Broadcasting, Inc. All Rights Reserved

Gli autori danno un futuro ai protagonisti della serie: Grissom e Sara ritornano insieme e partono a bordo della barca di Gil, Catherine ritorna e prende il posto di Russell che a sua volta si trasferisce per iniziare un nuovo capitolo completamente nuovo a East. Non sarà l’ultima volta che lo vedremo su nostri schermi infatti la sua nuova avventura inizia in CSI Cyber.

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In CSI Cyber Patricia Arquette interpreta Avery Ryan, agente speciale esperta di informatica con un passato da psicologa; il personaggio è ispirato a Mary Aiken, cyber psicologa e direttore del centro di ricerca RCSI CyberPsychology.

I casi di CSI Cyber coinvolgono il deep web, l’agente Ryan e la sua squadra composta dall’agente speciale Elijah Mundo (James Van Der Beek) anche lui specializzato nel risolvere casi di crimini informatici, Brody Nelson (Shad Moss) ex hacker che Avery fa entrare nella squadra per farlo riscattare e dimostrare a lui e a se stessa che non tutti gli hacker sono “casi persi”.

Daniel Krumitz (Charley Koontz) altro membro della Cyber Division, lavora anche come agente speciale all’interno dell’FBI, anche lui è un ottimo hacker e infine Raven Ramirez (Hayley Kiyoko) specializzata nelle investigazioni sui Social Media.

All’interno della squadra c’è un cambiamento con l’arrivo di D. B. Russell, in qualità di direttore della Cyber Division dell’FBI e come nuovo capo di Avery, e c’è l’uscita di Simon Sifter (Peter MacNicol) assistente del Vice Direttore dell’FBI.

Ogni episodio tiene incollato il telespettatore allo schermo perché a differenza dei classici casi delle serie crime per arrivare alla soluzione del caso utilizza dei mezzi tecnologici legati al periodo che stiamo vivendo e in ogni episodio lo spettatore può immedesimarsi nel caso. Del resto dopo la sigla appare sullo schermo la scritta: “Potrebbe accadere a te“…

PROs and CONs of expat life

Living an international life changes your perception of the world, as you learn how to adapt to different cultures, habits, languages and people. That’s such a true claim that it seems obvious. We’ve all met someone that told us how great his or her experience abroad was, or someone dreaming to move far away to have the time of his or her life. Maybe that someone is you, and you can’t imagine to live your life without travelling around and experiencing the world.

Nevertheless, choosing to live an international life is never an easy decision, for they say that «you know what you leave but you don’t know what you’ll find». That’s why sometimes it’s interesting to go beyond what people always say about living abroad to see what the real issues of an expat’s life are. In other words, forgetting the long-term benefits of an international lifestyle, what is really like to live in a foreign country?

An effective way to look at things, especially when you need to evaluate a situation, is to make a list of ‘PROs and CONs‘. Here’s what we tried to do: putting together the personal pros-and-cons lists of some Italian expats, asking them not to think too much about what they were writing. It had to be something spontaneous, as we didn’t want standard answers but something more authentic, rough and even fun.

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One of the biggest CONs of any expat’s list is the distance from the family. Not only do expats miss their relatives, but they also experience the so called “FOMO” (Fear Of Missing Out), that’s to say that they’re afraid not to be there during some crucial moments of their beloved’s lives. Adriano, 24, currently living in Edinburgh after a couple of years spent in China, confessed that everytime he was taking the plane to go to China he though “Why am I doing this? I don’t wanna go there”, and it was quite a shock leaving his wonderful town and family in Southern Italian countryside to move to an alianated and polluted metropolis as Beijing is. However, this negative side of moving often becomes an important point of the PROs list. In facts, when you move abroad you have, by necessity or by chance, to create a new family with people coming from all over the world, says Adriano. Well, according to Chiara’s PROs list, living abroad allows you to get to know better even your own country, as after almost 4 years spent in Prague she now knows much more about Italian regions than she knew before leaving home, thanks to her new expat family!

Once you overcome the feeling of sadness for being far from home, you can start to see the bright side of living abroad. First in Chiara’s list of PROs is the possibility of builiding a career without the need of someone’s intercession, only thanks to your skills and merit. After graduating in Italy in foreign languages, she’s working as a team leader in a business intelligence company whose headquarters is located in the Czech capital. A prestigious job position that she could hardly have in Italy, considering the difficult job environment of the country.

Both Chiara and Adriano appreciate the linguistic plus of living abroad: in Edinburgh Adriano studies Chinese-English translation, while Chiara, even if she’s not studying anymore, is in contact every day with several different languages spoken by her international friends. Though this is also a CON of her list, as having to deal with people from many different nationalities and using mostly English has prevented her from learning Czech better. Well, not knowing the language of the host country is not always a CON by the way: Matteo, 26, thinks that one of the best things of living in Bern, Switzerland, and not understanding German is that he can easily get lost in his thoughts while he’s on the bus – which is always on time, and that’s definitely a PRO!Real-Expat-Life

What is also appreciated by most expats is the independence you have that you could never have if you lived in the same country of your family. Chiara considers a big PRO the fact that she learnt how to manage a house and her finances. This of course might also be a CON, especially if you move to an expensive country like Switzerland, says Matteo, who despite of his exciting job in an art studio admits that sometimes money is a problem.

Indepencence is a good thing then, but sometimes you might use a little help, or just «a warm welcome home after a long day, everlasting family meals on Sunday, hugs and cuddles with your girlfriend in Italy» writes Adriano in his CONs list. Sometimes, even though your life abroad gives you incredible satisfaction, you just miss simple things, like going to a concert with a friend, as Chiara confesses in her CONs list.

Maybe writing down a PROs and CONs list to evaluate expat life doesn’t give the final answer to the eternal question – to move or not to move – but at least it helps to create a more honest and complete idea of what it really means to leave everything you know to explore the uncertain. Because at the end of the day, living internationally is a great thing, but it’s okay to wish to be back home, sometimes.

Distruggiamo Dublino, costruiamo l’Europa

 

Ma quale crisi.

We’ll create a new legal situation at the borders so it will be given more strict than it was and that could be a good answer at the fear of the people in Hungary and in Europe. We are defending not just the Hungarian border, we are defending the out-side border of Schengen which means that we’ll defend Europe”. Queste le parole chiare e nette del primo ministro ungherese Victor Orban in una conferenza stampa a Bruxelles a fianco del presidente del Consiglio Europeo Donal Tusk, esattamente un mese fa. Cinica e chiara appare quale sarà la politica che l’Ungheria ha deciso di mettere in campo avallata dall’Unione Europea. L’Europa non si farà carico dell’accoglienza dei profughi che scappano dalla guerra in Siria. In contemporanea, parte la macchina mediatica della dis-informazione mainstream che parla di crisi dei rifugiati, di invasione e di una possibile islamizzazione dell’Europa. Inizia così un’insopportabile retorica che parla incessantemente di CRISI. “E’ giusto che l’Europa si faccia carico di ciò? Perché non stanno nei paesi limitrofi? Non possiamo accogliere tutti, non c’è lavoro neanche per noi..” e via di seguito. Se andiamo a vedere i numeri di ciò che sta accadendo (fonti UNHCR, 1 Ottobre), capiamo come queste retoriche non siano altro che schizofreniche bugie utili a qualcuno e forse a più di qualcuno.

Dall’inizio del conflitto in Siria, 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case, 8 milioni sono sfollati interni e 4 milioni sono ora fuori dal Paese. Di questi quasi 2 milioni in Turchia, 629 mila in Giordania, 110 mila in Libano, 250 mila in Iraq, 130 mila in Egitto, 24 mila in Libia e 348 mila hanno chiesto asilo in Europa. Numeri alla mano constatiamo come meno del 3% del totale di persone che hanno lasciato le loro case stanno cercando asilo politico in Europa. Se poi paragoniamo il numero di persone che gli stati Europei devono affrontare rispetto agli stati limitrofi alla Siria, capiamo come parlare di Crisi Europea dell’accoglienza non abbia alcun senso. In più dobbiamo considerare che non tutte le persone arrivate vorranno fermarsi in Europa a conflitto cessato.

BUDAPEST, HUNGARY - SEPTEMBER 02 : Migrants protest outside Keleti station which remains closed to them in central Budapest on September 2, 2015 in Budapest, Hungary. Hundreds of migrants protest in front of Budapest's Keleti Railway Terminus for a second straight day on September 2, 2015 demanding to be let onto trains bound for Germany from a station that has been currently closed to them. (Photo by Arpad Kurucz/Anadolu Agency/Getty Images)
BUDAPEST, HUNGARY – SEPTEMBER 02 : Migrants protest outside Keleti station which remains closed to them in central Budapest on September 2, 2015 in Budapest, Hungary. Hundreds of migrants protest in front of Budapest’s Keleti Railway Terminus for a second straight day on September 2, 2015 demanding to be let onto trains bound for Germany from a station that has been currently closed to them. (Photo by Arpad Kurucz/Anadolu Agency/Getty Images)

Se proprio vogliamo parlare di crisi dovremmo parlare di crisi di umanità e di crisi di solidarietà. Interroghiamoci su chi la sta causando questa crisi e perché migliaia di persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa. Possiamo dirlo chiaramente: il regolamento di Dublino causa la crisi, le barriere e i fili spinati causano la crisi, le politiche che rifiutano l’accoglienza sono la crisi. Se consideriamo poi che tra il 2007 e il 2014 l’Europa ha speso 2 miliardi di euro in difese, tecnologica di sicurezza all’avanguardia e pattugliamento di confine capiamo quanto i presupposti andassero in tutt’altro verso rispetto all’accoglienza. Ci sarebbero state le possibilità economiche per affrontare l’emergenza in maniera diversa e salvare migliaia di vite.

Keleti Station.

Ritorniamo al discorso iniziale di Orban e notiamo come nonostante i tentativi intimidatori del governo Ungherese e in contemporanea i pattugliamenti dell’esercito al confine, migliaia di persone continuarono nella loro impresa eroica. Raggiungere l’Ungheria, entrare nell’area Schengen e poi muoversi verso paesi che gli avrebbero garantito migliori condizioni di vita. La criminale legislazione mostrò tutte le sue contraddizioni e si trasformò nella viva metafora delle inefficaci politiche europee a Keleti Station. Migliaia di persone, passato il confine, arrivarono alla stazione per prendere un treno che li portasse in Austria, in Germania o ovunque in Europa. Il governo decise di sospendere i treni e chiudere le frontiere e la situazione divenne esplosiva. In mille partirono in marcia verso l’Austria, attirando l’attenzione mondiale e costringendo così il governo ungherese a cedere momentaneamente. La sensazione era che molti non sapessero esattamente dove andare ma chiara e travolgente era la speranza di trovare aiuto, di trovare un futuro di pace per se stessi, i propri figli, fratelli o amici.

Bastava passarci una mezz’ora per capire che quel posto era speciale, nella sua disperazione e nelle sue contraddizioni si è trasformato in qualcosa di magico. Come sempre, quando avviene un nuovo incontro, un nuovo scambio, una nuova relazione nasce qualcosa che il biopotere non è in grado di catturare o codificare. E’ qualcosa che oltrepassa le logiche ciniche e inumane di una politica che parla di statistiche e si dimentica dei suoi doveri. Una politica che si dimentica delle persone, delle loro relazioni, dei loro desideri, delle loro emozioni e necessità. In molti si saranno chiesti perché in tanti vogliano andare proprio in Germania e non si fermino in Turchia o in Serbia o in Ungheria. Immaginate, per un attimo, di essere una madre con due figli piccoli e di essere stati due anni in un campo profughi in Turchia senza la possibilità di mandare i propri figli a scuola e di venire a sapere che in Germania, nei campi profughi, vengono organizzate classi e momenti ludici per i bambini, voi cosa fareste? Non stiamo parlando di volere il meglio, ma di diritti inalienabili che ognuno vorrebbe per i propri figli.

Ritorniamo a Keleti Station e a quello stupendo clima di solidarietà e complicità che i cittadini di Budapest, le ong indipendenti e alcuni attivisti internazionali sono riusciti a creare in quel microcosmo. Ci troviamo al piano inferiore della stazione centrale di Budapest, scendendo la grande scalinata antistante il frontone della stazione si viene subito immersi in un via vai di persone indaffarate, lingue diverse, facce spaesate e stanche.

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Il colpo d’occhio è forte, tutto l’atrio è cosparso di tende, c’è un punto ristoro al centro dove vengono distribuiti pasti caldi, e vettovaglie varie ad ogni ora del giorno e della notte. Proseguendo sulla destra c’è un ospedale da campo dove medici e infermieri prestano servizi di primo soccorso e distribuiscono medicine a chi ne ha bisogno. Subito dopo un ufficio legale in cui si cerca di chiarire i differenti status legali e i diritti a cui ognuno può appellarsi. Poco distante un magazzino a cielo aperto con tutti i materiali per allestire il campo, tende, materassi, corde, gazebo, scorte di cibo e acqua. Sulla sinistra tre gazebo pieni di vestiti che la cittadinanza ha donato. Una vera e propria montagna di abiti che i volontari hanno provveduto a dividere per età e genere. Ciò per facilitare la ricerca di chi aveva bisogno di un giubbotto piuttosto che un paio di jeans o voleva avere una camicia nuova per arrivare ben vestito una volta arrivato in Germania. Poco distante un punto ludico per i più piccoli con materiali per disegnare, bambole, giocattoli vari e libri illustrati. L’isola di Keleti, così mi piace ricordarla, finiva con due tendoni sempre affollati e rumorosi: l’Internet point! Ad ogni ora del giorno e della notte c’era qualcuno che tentava, con il proprio smartphone, di comunicare con la famiglia, con gli amici o con chi è rimasto indietro. Tra una sigaretta e l’altra alcuni ci raccontano la loro vita prima, il loro viaggio, ci si scambia informazioni utili e si discutono i progetti futuri. La voglia di raccontare la propria storia personale è inarrestabile, di testimoniare l’assurdità di quello che stanno vivendo con video e foto. Tutt’attorno scorre la vita della città, c’è chi passa e butta un’occhiata, chi scatta una foto, chi si ferma a chiedere se serve una mano. Lo sciame di giornalisti, televisioni e fotoreporter è sempre presente e si aggira per la stazione alla ricerca di una nuova storia o della foto più commovente.

Ogni giorno centinaia di persone arrivavano, ricaricavano le batterie, e nei giorni successivi ripartivano in treno. Grazie alla solidarietà di molti, si è riuscito a comprare i biglietti del treno per chi non aveva abbastanza soldi e garantito ad ognuno un altro piccolo pezzo del coraggioso viaggio. Dopo la chiusura definitiva della frontiera, Keleti si è rapidamente svuotata e ora rimangono solo le scritte fatte sui muri a ricordare quello che fu un magnifico esperimento di solidarietà.

Costruiamo l’accoglienza.

Facciamo un passo avanti ora e proviamo a capire cosa può e deve essere fatto per far sì che queste situazioni smettano di causare morti e profughi. Innanzitutto è fondamentale che cessi il conflitto in Siria e, anche se l’Europa non ha una una grossa influenza nella zona, è importante che prenda una posizione netta sulla cessazione immediata dei combattimenti. Nostro compito è nel frattempo fare pressioni sulle istituzioni europee perché si istituiscano canali umanitari che permettano arrivi sicuri. E’ fondamentale far sì che cessino le insopportabili stragi in mare e in terra. Chiedere rotte sicure che permettano ai richiedenti asilo di scappare dalla guerra e presentare le domande nei vari stati senza dover rischiare la vita un’altra volta. Come ci ha magistralmente mostrato Luther Blisset, nella formula della design fiction, basta poco per immaginare il nuovo, per dare forma al possibile che ancora non c’è. La bufala di RyanFair, infatti, ci mette di fronte alla banale e cruda realtà di come si potrebbero far volare delle persone senza dover aspettare di dover rivede il diritto d’asilo europeo. “ Se qualche ong si facesse carico dei rischi insieme a una compagnia, qualche spazio si potrebbe aprire. E’ un umanitario concreto, uno scenario che si va aprendo. A livello di politica istituzionale invece non ci aspettavamo nulla e nulla è successo” commenta Luther Blisset sul Manifesto. Concentrare quindi gli sforzi in questo ambizioso programma invece di rafforzare le barriere e chiuderci nella ipocrita fortezza Europa.foto 7 https1.ibtimes.comsiteswww.ibtimes.comfilesstylesv2_article_largepublic20150908img_1375_0.jpg

Uccidere poi definitivamente il regolamento di Dublino e questa folle legislazione che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo Paese in cui arrivano. Creare quindi una legislazione europea comune per i richiedenti asilo, che permetta loro di presentare le domande in uno stato membro e poi di godere degli stessi diritti anche negli altri. Diritto all’assistenza, diritto al lavoro, diritto alla residenza, diritto alla circolazione e così via. Avere un progetto comune su come gestire l’accoglienza nel rispetto della dignità e dei diritti di ognuno.

Tutt’altra cosa rispetto al sospendere Dublino per due settimane, come fece la Merkel, dichiarando di accogliere ogni migrante proveniente dalla Siria, per riscattare un po’ la propria immagine dopo il quasi assassinio della Grecia, e subito dopo richiudere le frontiere e iniziare i pattugliamenti armati. Non è parlare di fredde e assurde quote per ogni stato membro senza calcolare cosa i rifugiati pensano sia meglio per loro.

Piuttosto è dare nuovo smalto e mantenere in vita Schengen per quello di buono che ha. Aprire le porte della fortezza e dare vita ad una accoglienza degna che possa dare nuova linfa a un’Europa sempre più in declino. Allo stesso tempo, è isolare e sopprimere le spinte nazionaliste che cercano di accrescere i loro consensi a spese della vita dei rifugiati. Il diritto dei migranti è il nostro destino. Costruiamo l’accoglienza.

Noaptea Caselor #2 – La ricchezza domestico-culturale di Bucarest

E’ difficile spiegarvi quanto bellezza intrinseca ci sia in Romania e nelle vie di Bucarest. Ciò che sappiamo noi italiani di queste due realtà si avvicina al nulla. D’altronde, si sa che nella vita di ognuno ci sia bisogno di certezze, e quanto i pregiudizi siano un comodo appiglio.

Al di là dei preconcetti, Noaptea Caselor. Si è difatti da poco conclusa la seconda edizione de “La Notte delle Case”, l’evento culturale più interessante della capitale rumena a settembre. Per le vie del centro e attorno ad esso le case e gli appartamenti degli intellettuali si aprono al grande pubblico, proponendo mostre fotografiche, serigrafie, performance multimediali, spettacoli teatrali, poesie e concerti. Come l’anno scorso, anche quest’anno ci siamo avventurati tra gli appartamenti più suggestivi per mostrarvi la ricchezza di queste piccole comunità che unendosi propongono alla società rumena punti d’incontro, dialogo e condivisione, in un momento in cui le istituzioni si presentano ancora, a 25 anni dalla caduta del comunismo, apatiche e censuratrici.

Noaptea Caselor vuole essere il punto di incontro tra questi appartamenti. Per questa edizione le case fotografate sono Grădina Sticlalilor, nata nel 2008 come laboratorio artigianale, oggi specializzata nel vetro soffiato; Carol 53 tra architettura, arti decorative e serigrafie, capace di offrire al suo pubblico cortometraggi giapponesi nel suo cortile e concerti di musica elettronica nel suo interrato; l’appartamento occupato Elisabeta, ufficio diurno di designer e illustratori. Ma anche le proiezioni cinematografiche di Plantelor e le mostre fotografiche di Incubator 107.

 

Il futuro dell’Italia passa per Culturit

Culturit  si definisce un network di associazioni delle principali università italiane, un’organizzazione non profit tesa a valorizzare il bellissimo e variegato patrimonio culturale della nostra Italia. Come? Promuovendo capitale umano!

Esteso a tutto il territorio nazionale, ne fanno parte studenti, professori, professionisti del settore socio-culturale che credono nell’importanza della cultura e del fare impresa intorno ad essa, come trampolino per far emergere le qualità del nostro Paese.

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L’idea è semplice ma potenzialmente può stravolgere il modo di pensare l’università italiana.

Uno dei problemi maggiormente avvertiti dallo studente italiano è infatti lo scollamento tra teoria, quindi gli studi, e pratica, quindi mondo del lavoro. Culturit vuole collocarsi in mezzo e diventare un ponte esperienziale che prepara i giovani alla vita post-laurea. Proprio per questo Culturit si occupa di fornire la formazione e l’affiancamento ai ragazzi desiderosi di dare un contributo reale al proprio Paese, mentre acquisiscono capacità utili per il loro futuro.

Piccoli enti, privati o pubblici, associazioni e fondazioni, esercizi commerciali, attività turistiche e culturali, castelli, fiere, musei, gallerie, teatri rappresentano gli interlocutori; l’obbiettivo è sviluppare una coscienza di tipo economico applicata alla cultura. Valutata la realizzazione di un progetto attraverso riunioni e workshop, i progetti vengono implementati prevedendo il costante confronto con i professionisti e gli esperti del settore che assicurano, da una parte, la qualità del servizio offerto e, dall’altra, la qualità della formazione data agli studenti. Un modello di consulenza che trova la sua identità alla Bocconi e al CLEACC (Corso di Laurea in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione).

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Ho avuto modo di fare due chiacchiere al telefono con Pietro Greppi, membro di Culturit, ora in Inghilterra per un master, che mi ha fatto notare la diversa mentalità e l’intraprendenza degli studenti all’estero, dove queste realtà già esistono e sono tenute in grande considerazione sia dagli organi delle università sia al di fuori dagli atenei.

Attualmente le principali resistenze incontrate sono quelle di amalgamare le diverse competenze offerte dagli studenti, provenienti dai differenti percorsi di studi, e di creare una rete di fiducia tra i soggetti che operano nel settore della cultura.

É anche vero che il continuo ricambio di studenti è elemento necessario e fondante del progetto e a tal proposito, una delle più grandi sfide del team nazionale, è proprio creare una matrice autoriproducente, per usare le parole del co-fondatore e segretario Edoardo Zaniboni.

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Per la Statale di Milano, attraverso Unilab, si è già provveduto alla redazione di una proposta di regolamento delle associazioni per il riconoscimento di crediti formativi ai membri attivi.

L’iniziativa è ancora giovane ma, salvo miopia da parte dei vari interlocutori, la possibilità è quella di dare un nuovo volto all’istruzione italiana. Come mi conferma Edoardo, l’idea piace a tutti e non può essere che altrimenti. Sono in cantiere diversi progetti che, con l’inizio del nuovo anno accademico e dopo la formazione dei nuovi gruppi di attività in ogni università, presto avranno seguito.

Esiste un’economia della cultura separata dal mero interesse economico: valorizzare, gestire e sviluppare progetti in questo settore è vitale per l’Italia.

Parisien Graffiti

Parigi. Dimenticate i boulevard, la tour Eiffel, la chiesa di Notre-Dame, la baguette sotto braccio, il cancan e le altre mille cose, più o meno vere, più o meno note di questa città. Il viaggio di oggi non è di quelli che si fanno con la nonchalance propria della città degli innamorati. La strada di cui vi parliamo oggi non ha il profumo del pane fresco che esce dalle boulangerie e alle vostre orecchie non giungerà la boriosa erre moscia, che tanto fa penare nella pronuncia chi non è avvezzo alla lingua franca, ma una serie ripetuta di vocali aspirate e di fricative tipicamente arabe.

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Rue Dénoyez è una piccola via situata nel cuore del 20 arrondissement. La zona è quella di Belleville e può capitare che non sia la più sponsorizzata da guide turistiche o siti di viaggi. Alle 17 del pomeriggio il boulevard principale è già frequentato da prostitute asiatiche e spesso si ha la sensazione di sentirsi gli unici occidentali in giro, in un quartiere popolato soprattutto da nordafricani e cinesi. Le macellerie arabe, i ristoranti di cucina cinese, antillana, tunisina avvolgono la zona in un marasma di odori e colori che stordisce disorienta, inquieta. Si ha come la percezione che gran parte delle etnie del mondo siano state condensate a forza qui, in un mix di contrasti e armonie che non resta sterile. Rue Dénoyez ne è l’esempio.

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Il progressivo discendere dalle zone alte della città verso il variopinto quartiere sembra quasi una discesa dantesca. Le falle, i disagi e le problematiche di una zona che ha fatto da scenario a molti romanzi di Daniel Pennac si mostrano in tutta la loro crudezza. Il contrasto tra la prosperità della città alta e le ristrettezze del ghetto non si cela dietro gli angoli.

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Tra le tante vie abbandonate a se stesse, orfane di vita prima ancora che di cura e manutenzione, la piccola Rue Dénoyez è un’eccezione eclatante. A partire dal 2000 le pareti degli edifici qui situati sono diventate le tele di writers e artisti di strada. Spesso le bombolette sono legate con una corda o un pezzo di spago alle pareti per permettere a chiunque di lasciare una traccia. Non è l’odore di bomboletta che fa rimanere a bocca aperta, ma il tripudio di colori e forme che ci circondano immersi nella strada. Come è stato per i romanzi di Pennac, ancora una volta la scrittura, il segno, l’arte nella sua ibrida natura multiforme ha iniettato linfa vitale in una delle arterie anonime e degradate della realtà urbana. Le attività commerciali e i centri di aggregazione si sono moltiplicati. Le persone hanno sostituito il timore e il disinteresse alla curiosità e alla gioia della scoperta. La via è diventata il manifesto, l’emblema che la miscellanea e la diversità di idee se incanalate tra gli argini giusti, magari quelli di una strada, funge da coagulante di un tessuto sfibrato che si chiama città.

Tutt’oggi capita di camminare per questa via e incrociare una coppia anziana che scatta foto ai graffiti, o piuttosto l’ennesimo clochard che dorme davanti ad un portone. Nel fulcro del terreno fertile che è la multiculturalità, l’arte non ha sconfitto la povertà, ma sicuramente ha riportato la vita.

 

In copertina: Rue Dénoyez [ph. Sylyswiki CCA BY-SA 4.0/Commons Wikimedia]