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Mese: Novembre 2015

Orizzonte insegnanti

Tempo fa, un sondaggio inglese esprimeva preoccupazione circa la figura dell’insegnante: oltre la metà degli intervistati meditava di lasciare l’impiego entro i due anni seguenti. Preoccupazione poi sfociata nel Workload Challenge (link), una disamina sulle principali cause dell’inutile carico di lavoro nelle scuole e le possibili soluzioni da adottare.

Tra le cause di quello che sembra un malessere generale, che interessa tanto i maestri elementari quanto i docenti universitari, si possono citare l’eccessivo carico di lavoro, il desiderio di migliorare il rapporto tra impegno scolastico e vita privata e una retribuzione che non ha  saputo tenere il passo con la crisi. E’ facile immaginare che le cose non siano molto differenti per l’ambiente di casa nostra.

La considerazione per la professione dell’insegnante è precipitata negli ultimi anni e con lei la mancanza di riconoscimenti del lavoro speso nelle aule. Considerata la durata della permanenza in essa, delle persone che ne fanno parte e la peculiarità delle relazioni che vi si instaurano, la scuola è un luogo di forti emozioni, sentimenti e affetti. Al cuore di tutto il processo si trova l’insegnante, o meglio. la relazione che egli instaura con l’allievo e la classe. Non a caso la professione docente è tra le più alte a rischio burnout, termine con il quale si designa una risposta cronicizzata a fronte di un processo stressogeno, che si presenta quando ci sono condizioni di lavoro caratterizzate da alti livelli di contatti interpersonali.

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Quello che sembra di vedere sono professori demotivati e sfiduciati. Una generale svalutazione sociale del proprio lavoro causato anche dalla poca autonomia decisionale, il confronto con un’utenza di famiglie e studenti sempre più intransigenti, stipendi bloccati dal 2010 e conseguente carenza di gratificazioni.

Servono acrobazie psicopedagogiche per rapportarsi con le generazioni dell’oggi? O bisogna cambiare l’architettura organizzativa del sistema scolastico?

Nel nostro Paese uno dei problemi più avvertiti è la mancanza di un ricambio generazionale. Dopo il rialzo dei limiti di anzianità pensionistica, confermiamo di essere la nazione con la classe docente più vecchia al mondo. La crisi combinata tra reclutamento di nuovi da un lato e propensione alla fuga dall’altro è un dato su cui riflettere. Pochissimi i giovani insegnanti. Nelle università, la difficoltà di superare concorsi complessi che attendono curricula avanzati e le scarsissime risorse economiche messe a disposizione degli atenei rendono quasi impossibile l’accesso a una cattedra, tanto che molti giovani preferiscono la carriera nella scuola privata.

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In un ricordo della sua esperienza ginnasiale Freud scriveva:

“[…]E’ difficile stabilire che cosa ci importasse di più, se avessimo più interesse per le scienze che ci venivano insegnate o per la persona dei nostri insegnanti. In ogni caso questi ultimi erano oggetto per tutti noi di interesse sotterraneo continuo, e per molti la via delle scienze passava necessariamente per le persone dei professori. Li corteggiavamo o voltavamo loro le spalle, immaginavamo che provassero simpatie e antipatie probabilmente inesistenti, studiavamo i loro caratteri e formavamo o deformavamo i nostri sul loro modello. […] In fondo li amavamo molto, se appena ce ne davano un motivo, non so se tutti i nostri insegnanti se ne sono accorti. Ma non si può negare che nei loro confronti avevamo un atteggiamento particolare , un atteggiamento che poteva avere i suoi inconvenienti per i soggetti interessati. Eravamo, in linea di principio, parimenti inclini ad amarli, a odiarli, a criticarli e a venerarli.”

Che la classe docente abbia bisogno solo di riacquistare quell’aura di rispetto di un tempo?

Umanità balcanica. I volti dell’Est

Non è semplice capire l’Est Europa attraverso i media, i fatti degli ultimi rifugiati, o tramite le varie pagine social impegnate ad aggiornare il mondo su quanto siano folli i Balcani. Difficile è anche distaccarsi dai pregiudizi che, per quanto bene o male siano radicati in noi, riescono sempre a insinuarsi nelle logiche più tenaci. Ma effettivamente qualcosa di bizzarro e sfuggevole di senso si trova in ogni via attraversata, in ogni quartiere, negozio, bar e compagnia che quest’estate ho incontrato assieme alla mia combriccola di viaggiatori occidentali.

Viaggiando tra i giganti della Serbia, l’inconsueta Bulgaria, la Grecia blu e trasparente, deviazione non prevista ma obbligata da un percorso che non prevedeva inversioni, arrivando finalmente nella stravagante Macedonia (link), percorrendo le impervie strade albanesi, oltrepassando il ferreo e ricco Montenegro (impensabile Svizzera dei Balcani) e la più che conosciuta Croazia, abbiamo incontrato mille e più volti, che racchiudevano nei loro sguardi la personalità e le diversità nascoste dell’Est Europa. Per questo non ho voluto suddividere per aree geografiche gli scatti qui esposti, ma ho voluto che ognuno dei personaggi incontrati vi raccontasse la sua storia con i suoi gesti e i suoi sguardi.

contemporary locus: lo sguardo dell’arte sulla città invisibile

La Nuova Premessa della settimana è una realtà che della riscoperta ha fatto una missione: contemporary locus, ONLUS (link) che organizza mostre sul territorio bergamasco aprendo luoghi del passato alla ricerca artistica contemporanea.

Tutto ha inizio nel 2011 dall’incontro tra Paola Vischetti, Elisa Bernardoni e Paola Tognon, che fondano il progetto avviando una pratica curatoriale distintiva: in sintesi, secondo la Tognon: «Sono i luoghi che chiamano gli artisti e gli artisti che trasformano a loro misura i luoghi». Luoghi antichi, spesso dismessi e “dimenticati” dai cittadini di Bergamo, di cui contemporary locus recupera la bellezza nascosta.
Gli spazi sono proposti ad artisti italiani e stranieri la cui poetica sembra sensibile alla loro storia e alle loro condizioni; nella residenza in città nascono opere site specific in cui si rivelano l’arte più attuale e la sede che l’accoglie si rivelano vicendevolmente. Alla scoperta di memorie passate, ma anche delle tecnologiche app gratuite dedicate alle esposizioni.

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Dal 2012 gli artisti invitati da contemporary locus hanno ridisegnato la geografia della città seguendo un insolito itinerario: Francesco Carone e Huma Bhabha reinterpretano il Luogo Pio della Pietà; Anna Franceschini e Steve Piccolo coinvolgono i visitatori nella misteriosa Cannoniera di San Giovanni; l’ex Hotel Commercio apre le stanze a Francesca Grilli e Vlad Nanca. Nel 2013 degrado, restauro e nuovo splendore del Teatro Sociale si accostano sincreticamente nel video di Grazia Toderi; Tony Fiorentino agisce nella Domus di Lucina di Casa Angelini. Il 2014 è l’anno della precaria ex Chiesa di San Rocco, animata da Margherita Moscardini e Jo Thomas.
Nelle tappe progettuali del 2015 contemporary locus spicca per qualità artistica e rilevanza anche sociale delle tematiche che, insieme ai luoghi, vengono messe in luce.

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Mura invisibili
Vicina allo storico bar-ristorante La Marianna e lontana dalla principale via d’accesso a Bergamo medievale, Porta Sant’Agostino, Porta Sant’Alessandro non salta subito all’occhio, ma Davide Bertocchi l’ha ricollocata tra passanti e veicoli, il cui passaggio è stato registrato in tempo reale e trasmesso a un software per attivare una solenne musica d’organo, in memoria della basilica su cui sorge l’edificio. Le sfere in vetro di Murano di Heimo Zoberning hanno regalato levità e colore alla possente fortificazione dell’età veneta.

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Sacro e profano: dal monastero all’ex carcere
La collaborazione con Teatro Tascabile di Bergamo si è sviluppata in due progetti: le sale superiori del Monastero del Carmine hanno ospitato una mostra su umanizzazione e animalità di Evgeny Antufiev, Etienne Chambaud, Berlinde De Bruyckere e i tre disegni e il video di Atelier dell’Errore, tracce del bestiario fantasioso che racconta paure e desideri dei ragazzi della Neuropsichiatria Infantile.
Nell’ex carcere di Sant’Agata si riflette sulla condizione detentiva: gli attori del Tascabile sono frati-scheletri che accompagnano alla video-performance di Berna Reale che corre con la torcia olimpica, simbolo di libertà, nella prigione di Santa Isabel in Parà del Brasile, quarto Paese al mondo per numero di carcerati.

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Visioni periferiche
Questo il senso dell’ultima esposizione di contemporary locus. La necessità di riqualificare Area Tesmec, complesso industriale dismesso a Curno, comune nelle vicinanze della città, chiama in causa le istanze politiche e artistiche di Marie Cool e Fabio Balducci, che in 8 ore lavorative al giorno si impegnano in gesti ripetitivi su oggetti semplici come un tavolo, un foglio, una matita.
contemporary locus si espande dalla città alla periferia e continua a connettere arte, società e risorse territoriali.

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Machu Picchu, la meraviglia perduta

La subida

Ore 4:30. Iniziamo a camminare ancora avvolti dall’oscurità. Come noi altre centinaia di persone sono già in cammino per raggiungere la città di Machu Picchu prima dell’alba, per ammirare il sole sorgere da lassù. Dicono sia meraviglioso.

Saliamo il sentiero incaico formato da migliaia di scalini scolpiti nella roccia della montagna. La foresta è silenziosa, si sentono solo i passi e gli affanni della lunga fila di persone che sale insieme a noi. Siamo in tanti, ognuno con una lanterna che a malapena illumina i passi lenti e ordinati di una moltitudine proveniente dai più lontani angoli di mondo. La salita è faticosa, si parla appena, si condivide l’acqua, si scambiano parole di incoraggiamento, ci si congeda da chi si ferma a riposare. Si parla in inglese e castellano, sentiamo qualche parola con sfumature romane e sorridiamo. Siamo in molti, ma non ci conosciamo. Immaginiamo la storia del nostro vicino. Fantastichiamo sul perché sia qui, sul perché abbia deciso di intraprendere la strada più difficile, di notte, nella foresta amazzonica. Immaginiamo, ma non chiediamo. Restiamo in silenzio, rispettiamo la sacralità del luogo e ne percepiamo il mistero.

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Ore 5:30. Dopo vari e brevi riposi continuiamo a camminare. Siamo a metà, la salita è sempre più irta, ma la luce inizia a irradiare il cammino e ne svela timidamente l’incredibile bellezza. La montagna del Machu Picchu, con i suoi 3082 metri, è davanti a noi. L’imponenza delle montagne che recintano il sentiero, l’esuberanza della natura, il silenzio di un passato eterno regnano sovrani. La luce ci connette con ciò che ci circonda, ci sentiamo lontanissimi, passeggeri di una storia antica. La città è sempre più vicina, ma di essa non vi è ancora traccia. E’ remota, nascosta, racchiusa dalla maestosità delle montagne. Capiamo perché venne “scoperta” soltanto il secolo scorso, nel 1911. La città di Machu Picchu rappresenta una sfida dell’uomo nei confronti della natura e della storia. E’ la fortezza di una cultura violentata, colonizzata e fatta scomparire per molti anni. Ma è qui, nel sentiero al Machu, che si respira l’intelligenza, l’ingegnosità e la grandezza del popolo Inca.

Ore 6:30. Arriviamo in cima. Il cielo è coperto di nuvole, non vedremo sorgere il sole. Siamo esausti, camminiamo ancora qualche minuto per raggiungere l’ingresso alla città. Arriviamo su un terrazzamento, ci sporgiamo e… Eccola! E’ lì, di fronte a noi, appollaiata sul dorso arcuato di una montagna. Il corpo trema e l’anima vibra. Ci lasciamo avvolgere dal mistero della storia.

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Ciudadela de Machu Picchu

Non sappiamo ancora con certezza quale fosse il reale motivo per cui gli Inca costruirono questa città sulla sommità del Batolino di Vilcabamba, nella Cordigliera Centrale delle Ande Peruviane. Chi ipotizza fosse una residenza reale, chi un villaggio di esiliati, chi un luogo sacro abitato principalmente da sacerdoti e uomini di culto oppure che fosse parte della federazione Ayamarca rivale dei primi Inca della regione di Cusco.

La città è divisa in due parti: il settore agricolo e quello urbano. La parte agricola è composta da centinaia di terrazzamenti destinati un tempo alla coltivazione di mais e patate e si estende in tutta la parte sud-orientale della città. Il tutto è circondato da un efficientissimo sistema di scolo dell’acqua piovana, attraverso canali idraulici costruiti dagli abili ingegneri Inca. Il settore urbano comprende un’ampia area in cui sono presenti tutti gli edifici funzionali alla vita del villaggio: la zona abitativa, le botteghe degli artigiani, le zone ludiche e di ritrovo e gli edifici sacri. Il tutto appare come un fitto labirinto cosparso da migliaia di scalini che si diramano per tutta la città in un fitto reticolo di saliscendi. Subito si rimane colpiti dall’abilità con cui gli edifici sono costruiti con pietre grezze ma perfettamente incastrate tra loro. A seconda del livello di levigatura e lavorazione del granito si capisce la diversa importanza dei vari edifici.

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Il Tempio del Sole (conosciuto come “El Torreón”), costruito nel centro della cittadella era il più importante osservatorio e solo i sacerdoti vi avevano accesso. Il Tempio ha pianta semicircolare e le due finestre sono orientate perfettamente una verso Est e l’altra verso Nord ed è possibile osservare con precisione il solstizio d’inverno dalla roccia centrale. Rimaniamo affascinati dalla profonda conoscenza del cielo e delle stelle e in altri edifici notiamo come la struttura sia perfettamente orientata coi punti cardinali e le varie posizione del sole nelle varie stagioni.

La giornata passa senza rendercene conto, persi nella magia di questa città che sembra essere di un altro mondo. Quel mondo di un popolo perduto, sterminato e cacciato dalla propria terra. Siamo  sulle loro montagne e la spiritualità di questi luoghi fa scaturire domande e interrogativi. Continuiamo a chiederci come avrebbe potuto svilupparsi questa incredibile civiltà. Chissà quali differenti strutture sociali e economiche avremmo potuto ereditare. Chissà come sarebbero oggi questi posti se l’ignoranza e la crudeltà coloniale non avesse sterminato il popolo Inca. Non abbiamo risposte e continuiamo a fantasticare.

 

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Fotografie di Emilia Marzullo

Carlo Magno e il canto gregoriano: qui volano colombe

Oggi parliamo di canto gregoriano, ma prima occorre far chiarezza sul guazzabuglio medievale che lo circonda. I personaggi principali di questa storia? Il mitico Carlo Magno, papa Gregorio I e un monaco ficcanaso.

Probabilmente con un intervento più significativo di grandi compositori alla stregua di Bach e Beethoven, Carlo e la sua verve incontenibile portarono una svolta colossale nella storia della musica. Ma procediamo con ordine e partiamo dall’inizio.

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Dopo l’alleanza dei Franchi con il papato, punto chiave della strategia di espansione, Carlo riunisce tutte le popolazioni cristiane dell’impero e si fa incoronare da Leone III con la pretesa di assumere le stesse cariche che avevano gli imperatori romani. Dopodiché si prende la briga di definire un rituale religioso che fosse praticato egualmente in tutto il regno: per tutti le stesse parole, gli stessi canti e la stessa musica, unendo gli stilemi del rito gallicano e di quello vetero-romano. Questo perché la situazione stava degenerando in innumerevoli riti locali che avrebbero intralciato i loro piani di conquista e unificazione politica, che ben sappiamo andare a braccetto con la sua unificazione religiosa.

Quel che ne venne fuori fu inevitabilmente un prodotto ibrido, frutto delle contaminazioni reciproche. Le differenze tra i due tipi di canto esistevano eccome! Il canto vetero-romano faceva grande uso di microtoni (intervalli più piccoli di un semitono); motivo di difficoltà per i Franchi che non erano abituati a questo sistema di altezze. Per capirci, è come se di punto in bianco noi dovessimo imparare i canti delle popolazioni arabe e magrebine… Di certo le nostre orecchie, abituate a dividere l’ottava “soltanto” in dodici semitoni, troverebbero molto difficile quest’operazione. In conclusione, Carlo e soci optarono per la creazione di un nuovissimo tipo di canto prodotto dalla fusione dei due repertori: il canto franco-romano.

Alt! Ma come poteva la Chiesa accettare quest’innovazione senza una base biblica che la giustificasse?
Si narra infatti che papa Gregorio I, regnante intorno al 600 – due secoli prima di Carlo, dettasse i suoi canti ad un monaco da dietro il suo paravento, facendo però delle pause molto, ma molto, lunghe tra un dettato e l’altro. Il monaco curioso un giorno alzò un angolo del paravento per sbirciare il santo padre durante uno dei lunghi silenzi e meraviglia! Vide una colomba appollaiata sulla spalla di Gregorio che gli suggeriva frase dopo frase: era dunque lo Spirito Santo ad aver inventato il nuovo canto! E aveva scelto di diffonderlo tramite il venerato santo papa, dando alla luce così il canto gregoriano, detto anche canto fermo o canto pianocantus planus.

Questo canto d’ origine divina non poteva essere ovviamente trasmesso affidandosi alla memoria dei cantori, come avveniva in passato, ma doveva rimanere immutato per le generazioni future. Così, per la prima volta nella storia della musica, svanisce lentamente nel canto liturgico la pratica dell’improvvisazione per dare spazio e importanza al testo musicale.

Per imparare questi nuovi canti ci si avvaleva di quelle che noi oggi consideriamo le prime forme di scrittura musicale: i neumi. Si tratta di linee poste sopra il testo cantato che seguono l’andamento melodico della frase. Una scrittura mnemonica che serviva per ricordare qualcosa che già si conosceva e che introduce i parametri di altezza e di durata musicale.

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La ragazza indossava Dior

Quella del fumetto è un’arte versatile e variegata come la fantasia e la creatività da cui scaturisce e questo gli ha permesso di raggiungere ogni tipo di pubblico e incontrare i gusti e gli interessi più svariati.  In questa rubrica, proverò a dare spazio a vari tipi di graphic novel, dalle più moderne ai “classiconi”, dalle storie indipendenti alle saghe intramontabili. Ho deciso di inaugurare questa rubrica con una graphic novel di quelle un po’ insolite, che in un’ipotetica suddivisione in gruppi starebbe in quello dei “particolari”, sia per stile che per tema.

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In La ragazza indossava Dior Anne Goetzinger, famosa disegnatrice francese con una prolifica bibliografia per lo più incentrata su temi storici, racconta la storia, in parte romanzata, degli anni cruciali della vita dello stilista Christian Dior, dall’apertura della Maison al numero 30 di Avenue Montaigne  alla consacrazione all’Olimpo degli stilisti.  Veniamo quindi a sapere che la carriera di uno dei più grandi stilisti di sempre è durata in tutto dieci anni, dal 1947 al 1957, anno della sua dipartita. Con un tratto delicato ed elegante e raffinati colori pastello, la Goetzinger porta il lettore all’interno della Maison, presentando tutte le collaboratrici e il Principale, il signor Dior, attraverso gli occhi della protagonista, la giovane Clara Nohant, che per una serie di (s)fortunati eventi, si ritrova a fare l’indossatrice per la casa di moda e in breve tempo diventa la beniamina dello stilista.

La storia è breve, leggera, lineare e a parere di chi scrive, forse poco incisiva. Quello che affascina di questo fumetto è il tratto meravigliosamente fine e la sensazione che regala al lettore: quella di essere lo spettatore privilegiato dell’esclusivo spettacolo della Maison, ora davanti alle quinte seduti accanto a dive come Marlene Dietrich e Rita Hayworth che assistono alla prima sfilata, ora dietro le quinte con la gentile Clara. Realtà storica e fantasia si intrecciano in questa graphic novel, in cui ogni nuova tavola passa e scivola via con la leggerezza di un velo di seta e che si legge in fretta ma con piacere, in tuffo veloce nella pura eleganza del New Look del grande stilista.

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Per chi

Per tutti gli appassionati di moda ma anche per chi ama la Storia e i racconti verosimili

 

La chicca

Le appendici in coda al volume: una cronologia della vita di Christian Dior, il nome delle collezioni dei primi dieci anni, le biografie dell’entourage di Dior, i principali mestieri nel campo della moda, i nomi dei tessuti più importanti e le loro caratteristiche, gli accessori e un’interessante bibliografia su Dior.

Il cartonato della copertina e la carta sono un piacere per il tatto e la vista e si intonano all’eleganza generale del fumetto.

 

The impact of Brexit

The UK, with its strong economy, excellent education standards and attractive multicultural society, has been a popular destination for migrants from all over the world for decades. Immigrants now account for 12%, 7.8 million, of the UK’s population. Of these, 2.4 million are from Europe.

People move to this country for many reasons – some are fulfilling the dream of a lifetime (like myself), some are escaping hardships in their own country, whilst others simply have to to leave their family and friends because there are few jobs where they were born.

The UK has been welcoming migrants and absorbing parts of their cultures through the years, making it a great cosmopolitan place to live. I tasted my first pad thai, tikka masala, red pesto and Halloumi in London. I learnt about Diwali in Bournemouth and find more and more Italian products in the supermarkets every month – Barilla pasta sauces, limonata Sanpellegrino and Nduja.
Given the increasing influence Europe has on Britons’ daily lives, you’d expect to see a feeling of increasing unity with Europe. Yet, you’ll often hear Brits referring to Europe as a foreign entity; nothing to do with the UK.brexit__tjeerd_royaardsThis mentality is long established; it goes back to at least WW2 and is certainly still evident in the mindset and politics of the UK today. Factions in the ruling Tory party are determined for the Britain to exit the EU (Brexit).

Prime Minister David Cameron and the Tory leaders realise how detrimental leaving the EU would be, so they are determined to renegotiate changes to the UK’s membership and are campaigning to stay in the EU.

However, euro skeptics are doubtful of the effectiveness of this renegotiation. The demands have a huge focus on the freedom of movement, as the ruling right wing want to reduce the flow of migrants, especially unskilled workers, moving to the UK.brexit3There will be a referendum before the end of 2017 to allow Britons to decide whether to leave or not, no matter how Cameron’s renegotiations go. Groups for and against Brexit are already campaigning. Leave EU and Campaign For An Independent Britain are making their voices heard loud and clear.

The right wing press in Britain paints a picture of unskilled foreigners moving to the UK just to claim jobseeker’s allowance. However, only 2% of people claiming benefits are from the EU. Moreover, Brexit wouldn’t affect foreigners or unskilled workers only – 2 million Britons currently live on the continent. In 2014 alone, 307,000 British people relocated abroad to countries such as Australia, Germany and Spain looking for some sunshine, a bit of adventure or a cheaper house.

Additionally, many European countries complain about brain drain as a lot of their brightest engineers, nurses and graduates leave the continent to live in the UK. Myself and many other Europeans I know are contributing to the country’s economy with our marketing, software development, journalism and web design skills. We never claimed benefits, even when we found ourselves without a job for 6 months after graduating from a British university.

The proposed reforms would essentially breach the freedom of movement, which is right at the core of the EU principles. They would restrict easy border crossing for everyone – unskilled workers, bright talent and Britons wishing to move abroad alike. Have the people in favour of Brexit thought about that? Have they thought about the impact it would have on the lives of millions of people and their families?

We still don’t know what the practical consequences will be for Europeans already living and working in the UK. The uncertainty and fear have led to more and more people living in the UK applying for British citizenship.

I’m planning to do it myself if necessary, as a desperate move to stay in the country. While a British citizenship costs a minimum of £1,000, my life is here now, after studying and working in the UK for more than five years.

I live with my boyfriend and I can’t imagine moving back to my hometown. I have chosen this life and I won’t allow anyone to take it from me.  I just hope that the British people show an open-minded view of the world, not a closed off island mentality, by voting to stay in Europe.

L’altra faccia della Polonia: WROCŁAW, capitale europea della cultura 2016

Continua la collaborazione di Pequod con il magazine bolognese The Bottom Up. Questa volta abbiamo deciso di confrontare punti di vista su un evento di fondamentale importanza per l’Europa contemporanea, le elezioni in Polonia. A questo link quello che aveva scritto il nostro Matteo Fornasari sulla questione. Qui di seguito l’ottimo lavoro del collega bolognese Mattia Temporin. Buona lettura!

Tradizionalmente l’anima della Polonia è sempre stata considerata divisa in due parti dal punto di vista culturale: una parte settentrionale aperta all’Europa, al cosmopolitismo, fulcro industriale del paese dove le classi colte e alto-borghesi hanno trovato il loro habitat naturale di proliferazione; una parte meridionale dove invece la forte tradizione rurale si è unita ad un conservatorismo di stampo nazional-cattolico, riluttante nell’assimilare le novità e gli influssi che arrivavano dall’esterno. Questa divisione netta tante volte non ha tenuto conto della presenza nel sud di notevoli centri urbani, i quali hanno rappresentato nel corso dei secoli l’incontro, e la convivenza di popoli, lingue, religioni e tradizioni culturali differenti. Inoltre molte di queste città hanno vissuto buona parte della loro esistenza sotto amministrazioni non polacche, implementando ancora di più il loro variegato background culturale. Uno di questi straordinari esempi, visibile attraverso le memorie che il passato ci lascia attraverso monumenti, chiese, statue, e stili architettonici diversi tra loro, può essere pienamente rappresentato dalla città di Wrocław, capoluogo del Voivodato della Bassa Slesia, nel sud-ovest del Paese, incastonata tra Repubblica Ceca e Germania. Appartenente per più di 200 anni al regno di Prussia prima, e alla Gemania riunificata poi, fino al 1945, la vecchia Breslau sarà nel 2016 la capitale della cultura europea, condividendo il trono con la basca San Sebastián. Scopo della città designata, a partire dall’inizio del programma nel 1985, è quello di mostrare ad un ampio pubblico internazionale la sua offerta culturale, attraverso l’organizzazione di eventi differenti che coprono gli ambiti della musica, della letteratura, delle arti visive e non solo.
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E’ significativo come in un momento delicato e significativo dal punto socio-politico per la storia del Paese, proprio la Polonia si ritrovi, quasi per caso, ad ospitare la città regina della cultura continentale. A fine ottobre infatti il partito guidato da Jarosław Kaczinski, PiS (Prawo i Sprawiedliwość, tradotto in italiano Diritto e Giustizia), ha ottenuto una schiacciante vittoria alle elezioni legislativa, conquistando la maggioranza assoluta dei seggi alla Sejm, la Camera dei Deputati del parlamento. La piattaforma nazional-conservatore ha ottenuto uno schiacciante successo cavalcando l’onda dell’euroscetticismo e della fobia nei confronti dei migranti e dei rifugiati siriani. Un generale sentimento di intolleranza e chiusura nei confronti del quale l’attività che si svolgerà a Wrocław per tutto il prossimo anno sembra rappresentare un interessante parafulmine.

 
Il multiculturalismo a Wrocław si respira girando la testa in ogni angolo: nonostante la seconda Guerra mondiale e l’avvento del regime socialista abbiano determinato un terremoto di tipo etnico-demografico, la presenza dei vecchi abitanti della città, ebrei e tedeschi in primis, è notevolmente visibile. Il passato teutonico passa attraverso la magnificenza del Rynek, la piazza centrale nella Stare Miasto (città vecchia), e dallo splendido palazzo del Municipio (Ratusz). Quella ebraica da uno dei cimiteri più belli e più curati d’Europa, vicino in magnificenza solo al cimitero di Praga narrato da Umberto Eco. Grande circa 5 ettari e ospitante qualcosa come 12.000 lapidi, annovera tra i suoi ospiti importanti esponenti del passato dell’intellighenzia ebraica, tra i quali Ferdinand Lassalle, una delle figure di spicco della socialdemocrazia tedesca dell’800.
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“Spazi per la bellezza”, il motto che abbiamo pensato per la manifestazione, significa trasformare la struttura della città. Il nostro secondo motto, “metamorfosi delle culture” rappresenta la chiave del multiculturalismo, e quindi dell’“identità della città”.  Così si è espresso Jarosław Fret, presidente del Consiglio dei curatori della manifestazione e direttore della parte riguardante le esibizioni teatrali. Centinaia di migliaia saranno gli eventi che riempiranno l’anno dell’evento. La parte relativa ai film non si occuperà solo di cinema polacco (con la partecipazione di Paweł Pawliskowski e della sua acclamata Ida), ma avrà anche un’ampia scelta di opere internazionali. Ampio spazio sarà dedicato anche ad un settore nevralgico come la letteratura: infatti la città occuperà una postazione di grande importanza dato che sarà per il 2016 anche la Capitale Mondiale del libro, decisione presa sia dall’UNESCO che dalle grandi associazioni internazionali dell’editoria. La parte dedicata alla musica avrà tra i dominatori anche il nostro Ennio Morricone, il quale celebrerà i 60 anni di carriera con un concerto nella suggestiva cornice della Hala Stulecia, il Palazzo del Centenario costruito nel 1913 per ospitare l’esposizione universale. Un nonno dell’attuale padiglione Italia di Expo 2015, solo senza code chilometriche e stand enogastronomici di lusso, nella quale durante la primavera/estate si può ammirare lo spettacolo pirotecnico delle fontane, o compiere una salutare passeggiata nello splendido giardino giapponese, all’interno del grande parco Szczytnicki. 
 
E’ difficile, parlando di quello che ospiterà Wrocław nei mesi a venire, non tornare sulle tematiche di stretta attualità che la Polonia sta vivendo. Un avvenimento così marcatamente europeo ed europeista (anche per i grandi fondi economici che l’Unione Europea metterà a disposizione) suona come un ossimoro se pensiamo a quanto l’elettorato abbia lanciato un monito di profonda distanza con quelle che sono le politiche e gli obbiettivi di Bruxelles. La forte spinta propulsiva che una manifestazione di questo tipo ha di solito però potrebbe anche tramutarsi in una sorta di mezzo attraverso il quale la società civile darà un segnale opposto a quello che è stato espresso attraverso le urne. Non possiamo stabilirlo ora, ma fa sempre piacere pensare che la cultura sia sempre il mezzo più efficace per arginare pericolose derive di isolazionismo ed intolleranza. La città, la Polonia e l’Europa, potrebbero avere la grande possibilità che si può andare ben oltre politici che dichiarano i rifugiati come “portatori di malattie e violenze”.
Scritto da Mattia Temporin.
In copertina: municipio di Wroclaw

Skopje, Alessandro Magno e l’affabile kitsch

La Macedonia è assolutamente un Paese da visitare. Non ci sono altri modi per descrivere la straordinaria coesistenza di bellezza paesaggistica, cultura e grandezza delle sculture create a onorare la magnificenza della sua storia.

La stravaganza del luogo si percepisce immediatamente, già dal primo incrocio nella capitale Skopje: un albero ha gli occhi. Sì, dei veri occhi cartonati fra le fronde. Dopo il ponte, sul fiume, un vascello ti riporta alla mente le spaventose avventure vissute sulla nave dei pirati a Gardaland. Poi giungi in centro, parcheggi, inizi a cercare un ristorantino per un boccone e… della musica classica ti impedisce di sederti, costringendoti a procedere sino a Piazza Macedonia, la piazza più assurda e allo stesso tempo calorosa dell’Europa dell’Est!

Sin da lontano, la maestosa statua di Alessandro Magno e del suo cavallo imbizzarrito troneggia sui restanti monumenti, alta e imponente su un piedistallo di cemento, che assieme raggiungono la bellezza di 30 metri. “Il guerriero a cavallo”, forse di 30 tonnellate, è addirittura più altro degli edifici circostanti. Il 21 giugno 2011 la statua è stata eretta non senza numerose polemiche, che hanno diviso la nazione in sé e scatenato l’indignazione greca in merito alle origini dell’eroico Alex (un ottimo spunto di riflessione nell’articolo di Osservatorio Balcani e Caucaso). I miei scatti non si concentrano però sull’accezione geopolitica delle statue macedoni, ma vogliono invece sottoporre al vostro arguto sguardo la vivibilità di una piazza creata appositamente per l’incontro e il gioco. Buon divertimento!

Picwant: a caccia di fotografie

Per la sezione nuove premesse, questa settimana Pequod vi porta a conoscere Lucia Sabatelli, senior photo editor per Picwant.

Lucia si appassiona alla fotografia molto presto. È lei stessa a raccontarci i suoi primi approcci con la materia: «Mio padre aveva dei vecchi numeri di Epoca e di Storia illustrata; leggevo dello sbarco in Normandia e osservavo con grande attenzione le foto di Capa, o delle conseguenze dell’inquinamento da mercurio documentate da Eugene Smith.»
Lucia decide così di dedicarsi completamente a questa sua passione per la fotografia, seguendo quanti più corsi possibile per accrescere le sue capacità e abilità, e per nutrire il suo desiderio di imparare il più possibile riguardo questo suo grande interesse.
Nel 90/91 segue un corso annuale presso la fondazione Marangoni di Firenze, seguito da un corso di ritratto nel reportage, fotogiornalismo e sviluppo in bianco e nero al London College of Printing. Sempre a Londra, segue anche un corso presso la scuola Fotofusion, su fotografia di studio, photoshop, sviluppo e stampa a colori.

Fotografia di Ahmed Alkhalifa

È a questo punto che, nel 2001, inizia a lavorare nel settore:«Ho iniziato a collaborare con Mission Studios, agenzia fotografica fondata da Dave Hogan, fotografo del Sun, occupandomi della ricerca delle foto pubblicate su quotidiani e magazine, della distribuzione immagini ai clienti, e di lavorazione immagine e captioning».
Dopodiché, nel 2003, Lucia passa a WireImage, agenzia americana, dove si occupa, fra le altre cose, di supportare i fotografi dell’agenzia ai diversi eventi a cui partecipano.
Dal 2005, invece, è iniziata la sua collaborazione con Getty Images, prima come field editor, poi come assignment editor.

Fotografia di Howard Treeby

Dal 2014 inizia una nuova avventura per Lucia. Comincia infatti la sua collaborazione con Picwant (link), giovane agenzia dedicata alla mobile photography. Picwant permette a tutti quanti noi di inviare foto e video scattati con un semplice smartphone. L’agenzia offre aiuto sia agli utenti che ai professionisti: Picwant aiuta gli utenti a vendere le proprie fotografie ai professionisti, ed è utile, per questi ultimi, per comprare fotografie a buon prezzo.
In particolare, Lucia seleziona materiale iconografico per l’archivio in base a qualità e vendibilità di immagini e video, ma non solo: il suo compito è anche quello di scoprire nuovi talenti, facendo attività di scouting, e quello di curare le relazioni con i fotografi. All’interno di Picwant, inoltre, Lucia contribuisce alla crescita dell’agenzia curandone i contenuti, e collaborando con i fotografi per la realizzazione di servizi e storie.

Fotografia di Francesco Platania

Per quanto riguarda il futuro, l’obiettivo di Lucia è far diventare Picwant un punto di riferimento nel campo dell’editoria nazionale ed internazionale. In particolar modo, il progetto “storie e reportage”, sviluppando un team di fotografi presenti in tutto il mondo, che realizzi servizi solo e soltanto attraverso smartphone.

 

In copertina, fotografia di Hans Borghorst

Il segreto del viaggiatore low-cost: l’ospitalità

Sono convinta che tutti abbiamo quell’amico su Facebook che sembra essere sempre in giro per il mondo. Quello che ieri ha messo una foto di fronte al limpido mare greco, oggi una mentre abbraccia un’antica statua buddhista in Vietnam e domani chissà… il Taj Mahal? Per me quell’amico è Pierpaolo. Ha 21 anni e studia a Berlino nella Facoltà di Relazioni Internazionali. Ci conosciamo da molto tempo e ormai conosco il suo segreto.

Si sa, la vita da studente non permette spesso grandi sforzi economici e (soprattutto con l’avvicinarsi degli esami) ci si ritrova a sognare mete esotiche da sogno o grandi città da esplorare. «Ho la fortuna di abitare a Berlino» dice «e di essere ben inserito in una comunità internazionale di amici. Conosco portoghesi, brasiliani, francesi.. insomma ragazzi da tutto il mondo qui per un’esperienza temporanea o duratura di studio. Mi capita spesso di ospitarne qualcuno a casa mia, anche amici degli amici in visita e capita ancora più spesso che questi, ricambiando l’ospitalità, mi invitino a passare del tempo da loro».

Vista di New York
Vista di New York

Giusto la scorsa estate era andata a trovarlo un’amica statunitense conosciuta in Italia. Dopo aver passato una serata in compagnia lei chiese se gli sarebbe piaciuto andarla a trovare a casa sua, a New York. Senza farselo ripetere due volte Pier accettò e agli inizi di agosto partì per la Grande Mela ospitato dalla sua amica e dalle sue coinquiline. «New York è una città fantastica, non si ha un momento di pausa perché ci sono moltissime cose da fare e da vedere. Non mi è piaciuto moltissimo il centro, mi sono sentito soffocare dai grattaceli, che, anche se un sole bellissimo splendeva sulla città, non ne lasciavano filtrare i raggi fino alla strada. Quello che ho preferito di New York è il suo lato più giovanile, artistico, alternativo, dei piccoli caffè e bar (il quartiere di Greenwich e l’East Village, così come Williamsburg). Qua i palazzi sono bassi, il sole riesce a toccare l’asfalto e le persone non corrono. Inoltre mi è piaciuta molto Brooklyn, con il suo miscuglio di culture e razze diverse. E la musica! É ovunque, non ho mai visto una città in cui si respiri musica per le strade così come a New York».

Pier e la sua ospite a New York
Pier e la sua ospite a New York

Ma questa era solo la prima parte del suo viaggio. Dopo due settimane ha preso un aereo diretto a São Paulo, Brasile, dove lo aspettava un’altra amica conosciuta a Berlino, di origini portoghesi, appena trasferitasi in città. Racconta che tutti prima di partire cercavano di dissuaderlo dal fare tappa a São Paulo perché considerata, anche dagli stessi brasiliani, una delle città più pericolose, soprattutto per chi, come lui, è gringo, uno straniero con una cultura diversa. «In realtà mi sono trovato benissimo. Certo i primi giorni ero preoccupato e passavo la giornata con le mani in tasca per assicurarmi di avere ancora il portafoglio ed ero nervoso perché essendo rosso di capelli attiravo gli sguardi di tutti ovunque andassi. La città è estremamente multiculturale, così come il Brasile stesso: discendenti di europei, di africani, meticci, arabi e giapponesi! Mi è rimasta nel cuore». E ancora più di São Paulo è stata Rio de Janeiro a farlo innamorare, con i suoi colori e la sua vitalità. «A Rio ho alloggiato in un ostello (pagando davvero pochissimo) e mentre le giornate le trascorrevamo in città, la sera ci si ritrovava nella sala comune a cantare e parlare. Mai feci scelta migliore di studiare un po’ di portoghese prima di partire!»

Una colorata bancarella di Rio de Janeiro
Una colorata bancarella di Rio de Janeiro

L’influenza del genio: da Brescia a Parigi tra Chagall e Picasso

Sin dall’età ellenistica il termine mimesis è presente nel campo artistico, in quanto si riconduceva il concetto stesso di arte come imitazione della realtà. L’attività dell’artista raramente nasce dal nulla, tutti subiscono influenze, emulano e assorbono le esperienze circostanti.

Esiste certo l’eccezione del genio creativo, dell’autodidatta, ma come disse Picasso: «Gli artisti mediocri copiano, i geni rubano». Il grande estro spagnolo riteneva dunque impensabile che l’opera di talento potesse nascere orfana di qualsiasi influenza, anzi Picasso giustifica, senza filtri, la possibilità di impadronirsi del modello, ma solo se dotati della capacità di attraversarlo e renderlo incredibilmente originale da far scomparire il confine di appartenenza.

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Senza però infrangere alcun copyright più che di imitazione, parliamo di ispirazione, di allievi diretti e indiretti, che intrisi degli insegnamenti del maestro, riproducono opere uguali o a tratti simili, omaggiandolo.

L’eco dell’arte non ha limiti di persistenza tanto da trovare tracce caravaggesche nel realismo ottocentesco e di Picasso e Chagall nei contemporanei.

Oggi Pequod vi propone due esposizioni geograficamente distanti, ma parallele, che seguendo i percorsi di diversi artisti contemporanei, rivelano quanto imparare dai grandi modelli possa rendere ricchi se stessi e l’arte.

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Per i più patriottici si inaugura oggi la mostra dedicata a Mark Zacharovič Šagalov, il celebre artista bielorusso meglio conosciuto come Chagall, che solo qualche mese fa colorò le pareti del Palazzo Reale di Milano. Quest’oggi invece le tinte accese e le linee morbide, quasi impalpabili, sono ospiti del complesso museale Santa Giulia di Brescia. 

Con una piacevole sorpresa: all’esposizione partecipano anche i lavori del premio Nobel Dario Fo (in copertina), attore, scrittore e pittore professionista, che nella sua lunga carriera è stato spesso ispirato da Chagall in molti dipinti. Fo dichiara di sentirsi molto vicino all’artista ebreo per il gusto dell’impossibile, per il surreale e per il paradossale.

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Per chi invece dovesse decidere per un last minute, anche Parigi offre confronti su tela tutti ispirati a Picasso, dall’omonimo titolo Picasso Mania. La mostra, allestita nel Grand Palais della Galerie Nationales ormai dal 7 ottobre, sarà visitabile fino alla fine di febbraio, come quella bresciana.

Le sale museali ci offrono una piacevole rassegna di opere appartenenti alle varie fasi creative e stilistiche di Picasso, affiancate da opere contemporanee di artisti come Lichtenstein, Kippenberge, Hockney, Johns.

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Entrambe le esposizioni intendono dimostrare la relatività di un modello e le sue infinite possibilità di interpretazione. Centrale è anche il ruolo che i colossi della creazione rivestiranno per sempre nella storia dell’arte, ponendo l’accento sulla tradizione moderna come il cubismo, il fauvismo o le avanguardie che, come ogni corrente sovversiva inizialmente colpita da critiche sferzanti, lascia il proprio solco nell’opera delle nuove menti dell’arte.

Anita, a bright and talented girl from Latvia

Today we have met a young smart and brilliant Latvian girl, her name is Anita, she lives in Nijmegen and she concluded her first master in Linguistics one month ago. After it she has just started a Research master in Language and Communication which is part of a new joint master program offered by the Radboud University Nijmegen and the Tilburg University.

Anita, you have a very intercultural education background, I know you speak fluently four languages, respectively, Italian, English, Russian and of course Latvian…

« I took my bachelor degree in Latvia, but at first I did not know what to study exactly after high-school.  I was interested in Journalism and at the same time there was a very interesting bachelor program on Intercultural Relations between Latvia and Italy. The same year I finished high-school a new cycle was about to begin – it was something totally different and challenging so I decided to do it. »

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Anita with her former housemates

 Get a very multicultural education seems to be a very strategic choice made by several European students who decide to invest in their future moving abroad, getting used to new habits and lifestyles. Why did you decide to move to the Netherlands for your master ?

«Well, my sister was studying in the Netherlands before me, she could vouch for the high level of education since I was looking for Universities with high standards in terms of  education and research. Especially the latter aspect was very important for me and it turned out that Radboud University was also a great university for research »

Leaving your own country for new challenges abroad is not always easy as may appear, there are several aspects which must be taken into account such as the new culture you are living in, the new habits and also the new lifestyle of that country. How is you daily life in the Netherlands ? Is there something you miss the most from your own country?

« If I don’t have to attend lectures I usually go to my office at the MPI (Max Planck Institute for Psycholinguistics ) to keep on working on my current research. If I have to compare my lifestyle here to my Latvian one, I would say that here I am a bit antisocial in the sense that I am really focused on my studies and research so I cannot invest a lot of time in establishing new friendships which require time. Culturally speaking I really miss my Latvian tasty food, I also miss going out because the way of partying is completely different from the Dutch one. However, the thing I miss the most is that feeling of belonging which is the result of years and years spent in your own country, the feeling you have when you cross a bridge you know since you’ve been six, the mental association you have when you travel through a path you know perfectly. »

Anita during a conference
Anita during a conference

It clearly appears that you’re investing time, efforts and money in your education, as previously mentioned this type of choice is driven by the added value that such experience can bring both from the personal growth point of view and for the educational enrichment itself. What are your future plans? After your master degrees would you like to remain in the Netherlands?

« I would like to apply for a PhD after my master, I want to become a researcher in the field of Language and Communication. From the very start my main interest was Multimodal Communication but for my PhD I would like to link it to Developmental psychology. Well,  it all depends on the chance to find a PhD position suitable for me, I wouldn’t mind changing country since I believe it would be extremely valuable to change setting in order to grasp more knowledge from a different perspective.»

 Apart from your deep interest in Communication, Language, and Psychology, I know that you are also an active photographer. Few of your works are available here www.anitagigante.blogspot.com . Could you tell us a bit more about it and when exactly you started with photography?

 «I’ve always liked to take pictures, I started with a basic digital camera, the cheapest one you buy before a trip somewhere. I was always trying to make better and more artistic pictures, that was the challenge. In 2011 I went on Erasmus to Italy, there I realized I wanted to move to a higher level  so I started taking pictures of landscapes and architecture because I was hesitant  to ask people to pose for me when my skills were not that good yet. I experimented first, trying to improve my technique every time till my transition from landscapes to  portraiture began. It was in 2013, precisely in Sicily where I realized my first “real” artistic  photo shoot with my Latvian friend .  From that moment onwards I only focussed on working with people. The main important thing for me is that the models are happy with the pictures I am taking; they have to recognize them, like them, and identify themselves. Moreover,  when shooting my personal projects I never pay to the models, it ‘s always a collaboration; so I want to make sure they love the end product and they feel proud to have participated in bringing it to life»

Anita’s first photo shoot with her friend  Anna
Anita’s first photo shoot with her friend  Anna

Latvia entered the EU in 2004, exactly 10 years later move a step forward to the Eurozone. How was perceived this change by the public opinion? Which is the general sentiment about it ? How do you perceive the European Union?

«In my opinion, the entrance in EU was perceived like something  that has just to be done and it seemed like a logical step forward for a small country like Latvia. As regards the adaptation of the Euro currency there was a fair currency change campaign; the state promoted a fair change, so the public opinion appeared to be rather satisfied. It was pretty funny the fact that I came back and I could use the same currency I was using here. Thankfully we didn’t have to face problems like Italy when the currency was changing.

When I think about the European Union I think about this great initiative to gather different  European countries and making it possible to gain experiences all around Europe. This is a great chance for young people to discover new cultures and to broaden their horizons. What I find really interesting is that when I was younger I was amazed  by meeting people from a different country, you hear a foreign language and you try to guess the nationality, maybe you chat with them and you discover they are from Portugal.Well this kind of surprise effect doesn’t happen anymore because nowadays our countries are so multicultural and open that several languages and cultures coexisting at the same time is absolutely normal. I would say that we are the transition generation, the one which noticed this shift to a more globalized reality.»

Dentro e fuori la Polonia post elezioni

La Polonia decide di svoltare drasticamente a destra: il partito nazionalista PiS (Diritto e Giustizia) dell’ex primo ministro Kaczynski ha raggiunto la maggioranza assoluta dopo le ultime elezioni. La premier designata Beata Szydlo ha la possibilità, quindi, di formare un esecutivo senza coalizioni politiche e con oltre la metà dei seggi della Dieta (Sejim in polacco, la camera bassa del parlamento) disponibili. Non era mai successo dal 1989. Come non era mai successo che, dalla caduta dell’Unione Sovietica, ad entrare in parlamento fossero solo partiti di destra o di centro-destra lasciando fuori quelli tradizionalmente di sinistra. Foto 1

‘’Portiamo Budapest a Varsavia’’, recitava uno degli slogan in campagna elettorale e il rischio che la Polonia si trasformi in un’Ungheria stile Orbàn è più di una semplice ipotesi. Del resto l’ideologia nazionalista anti-europeista, xenofoba, e anti-immigrazione del partito di Kaczynski è ben nota. Tanto è vero che, sempre in campagna elettorale, la destra polacca sosteneva la necessità di fermare i flussi migratori perché ‘’portatori di malattie e minaccia alla sicurezza del Paese’’ (da La Stampa on-line del 25/10/2015) considerandoli un vero e proprio ‘’problema’’. Posizione che trova terreno fertile in Polonia anche perché buona parte della popolazione non ha visto di buon occhio il fatto che il governo precedente abbia accettato le quote di rifugiati richieste da Bruxelles. Non meno pesante è la dichiarata volontà di sottrarsi ai diktat europei e alla non adesione all’euro, rilanciando la crescita del Paese difendendo i valori cattolici e patriottici. La Polonia sarà un po’ meno tedesca, quindi, e sempre più lontana dall’orbita di Mosca a tal punto che si fa largo l’ipotesi di incrementare il numero di basi militari Nato sul suolo polacco.Foto 2 (1)

Gioisce Matteo Salvini che, appena dopo le elezioni, scrive sul suo profilo Facebook ‘’Grazie Polonia! Il libero voto dei polacchi è la vittoria di chi sogna un’Europa diversa, più attenta al lavoro e meno agli interessi di banche e multinazionali, incalzando sul tema dell’immigrazione ‘’ha stravinto chi vuole controllare l’invasione clandestina e pensa prima al lavoro e ai diritti della sua gente’’. Si schiera dunque a favore del nuovo governo polacco la Lega Nord, prospettando che presto una svolta radicale di tale portata arriverà anche in Italia. Chi non è contento è la cancelliera Angela Merkel che vede andare in fumo il processo di integrazione portato avanti con Varsavia negli ultimi anni, e l’ombra del sentimento anti-tedesco aleggiare sulla Germania.Foto 3 (1)

L’Europa sta vivendo un periodo di transizione: le elezioni polacche hanno messo in ginocchio il continente contribuendo alla nascita di un forte fronte anti-europeo e soprattutto ultranazionalista. Quali conseguenze porterà tutto ciò? È presto per dirlo, ciò non toglie che quello che aspetta l’UE potrebbe essere un futuro molto incerto.

Circo Zoè: naufragare a corpo libero

Il circo è un’arte molto controversa, inutile fare giri di parole. Affascina, sbalordisce, diverte.

In Italia, l’arte circense va a scontrarsi in modo particolare con una tradizione illustre e antica, oltre che con l’attualità. Da una parte, la famiglia reale del circo italiano, gli Orfei, che tuttavia oggi trovano forti ostacoli nell’ambientalismo, così che non passa una tournée in cui non siano boicottati dagli animalisti; dall’altra parte, invece, la bellezza del corpo umano e il fascino di mille storie da raccontare con la musica e le immagini, valori alla base del circo moderno più conosciuto, ovvero il Cirque du Soleil.

Più vicino a quest’ultimo modello è Circo Zoè, vero circo d’autore nato nel 2011 da Chiara Sicoli e Simone Benedetti (circensi) e Diego Zanoli (musicista compositore). Italiano di nascita, Circo Zoè si avvale di 10 artisti fra italiani, francesi e brasiliani, nella convinzione che l’internazionalità della compagnia sia un valore aggiunto al progetto artistico.

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Il debutto al Teatro Astra di Torino con lo spettacolo di presentazione, Zoè, da subito pone le basi su cui lavorare.

Quel che contraddistingue questo progetto e chi lo ha creato è proprio la motivazione e il pensiero artistico: «Il circo è una forma d’arte e di conseguenza è attuale quanto ogni altra forma d’arte, sono le scelte artistiche di ogni spettacolo che lo definiscono» afferma Simone, conscio del passato e del dibattito attuale su tale forma d’arte, ma al contempo deciso nel suo proposito.

«Noi abbiamo scelto di definirci circo d’autore perché  semplicemente quello che è, siamo autori delle nostre opere. Contemporanei e attuali lo siamo per definizione,  le tecniche che utilizziamo sono centenarie, riviste e riadattate. Abbiamo deciso di creare la nostra compagnia di circo perché l’essere artisti porta ad amare la libertà di espressione che solo essendo autori di se stessi può esprimersi al meglio».

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Questo è decisamente un modo nuovo di vedere il circo, ma del tutto convincente. Circo Zoè sfrutta le potenzialità del corpo umano per mostrare quanto l’uomo sia fragile, di per sé, ma affascinante allo stesso tempo: fare arte circense significa rivendicare la verità.

Continua Simone: «Oggi il circo emerge come espressione di una rivendicazione legata al vero. Non quindi alla narrazione (come altre forme d’arte) bensì all’autenticità del gesto e della sua relazione. Il corpo non è imitativo, narrativo o lirico; il gesto parte da una necessità di conoscenza del limite, espresso in un contesto performativo. Secondo noi, il circo rimane legato a una forma che esprime il corpo in condizioni extraquotidiane: non come manifestazione del diverso ma come rivendicazione di un sapere legato al corpo e alle sue possibilità».

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Attualmente, la compagnia è in tournée con lo spettacolo Naufragata, che sta riscuotendo molto successo di pubblico, anche al di là degli ostacoli da superare.

Il circo, infatti, sebbene sia in una situazione positiva e stia pensando a un nuovo progetto (che potrebbe essere pronto per il 2017), comunque deve far fronte alla crisi e alla carenza di fiducia da parte non solo degli operatori (per evidenti motivi economici) ma anche da parte del pubblico, la cui maggioranza non sa bene come porsi di fronte a questa realtà vecchia eppure nuova.

In ogni caso, già nei precedenti spettacoli sono stati notati l’interesse e nuova curiosità verso l’arte circense: chissà se sarà proprio Circo Zoè a cambiare le cose.

Vivere nella Parigi del terrore

Ieri sera, Venerdì 13, alle 22:30 mi trovavo nella zona di Marcadet Poissoniers. Non troppo lontano da uno di punti nevralgici degli attacchi terroristici. Stavo accompagnando a casa una mia amica in un quartiere che la sera non è uno dei più sicuri. Fermi al semaforo vediamo sfrecciarci davanti un mezzo della polizia ad alta velocità. Un incidente, pensiamo. Ma quando alla prima auto ne seguono altre due, poi tre, quattro e altrettante ambulanze, iniziamo a scartare tutte le ipotesi, dall’incendio alla rissa. ” Sono sicura che è un attentato”, mi dice la mia amica ma io non voglio pensare a questo. E’ troppo assurdo. Troppo impossibile. Non faccio in tempo a rincasare che ricevo una telefonata. E’ lei che mi dice con un tono a metà fra la disperazione e la paura che ci sono stati più attacchi terroristici a Parigi.

Entro in casa e mi precipito al computer. Verifico le notizie e ogni secondo di più rimango attonito e sconvolto. Il telefono, skype, facebook e tutti i mezzi che ho per comunicare col resto del mondo iniziano a squillare. Parenti e amici che ti chiamano per sapere se stai bene, se sei vivo. E’ insensato, penso, sono a Parigi, non in un territorio di guerra in Medio Oriente. Nel frattempo la situazione si fa sempre più chiara. Nel continuo susseguirsi di informazione il quadro si fa sempre più drammaticamente chiaro.

Decido, con un po’ d’incoscienza, di uscire di casa e raggiungere la mia amica per recarsi su uno dei luoghi e vedere cosa accade. L’atmosfera per le strade è surreale. Le stesse persone che avevo visto allegre discutere ai tavolini dei bar dieci minuti prima, rincasando, adesso sono attaccate ai telefoni; qualcuno corre, non si capisce perché o verso dove. E’ come l’effetto di un alveare scosso. Il silenzio della normalità viene in un attimo scosso e il primo effetto è quello di un ronzio continuo, un caos dove tutti si muovono disordinatamente.

Il nostro progetto di recarci in loco non ha avuto successo. L’unica possibilità è tornare a casa, e veloci. Correre, correre al nido. Per le strade, ormai deserte, quelle poche persone che camminano ti urlano “rentrez chez vous“. Ecco quelle api che prima popolavano i bar e si muovevano in maniera caotica e spaventata non ci sono più. Le serrande si abbassano. I tavoli si svuotano. I marciapiedi sono deserti.

Chiudo la porta di casa. Io sono stato fortunato. Io sono vivo, stavolta. Ma domani?

Parigi sotto attacco: loro, noi e i social

Ce la descrivono come una Parigi fredda, immobile, esanime. Esattamente come quei corpi (il numero è ancora incerto, ma le fonti sanitarie parlano di 127 morti) fotografati e apparsi sui canali di informazione di tutto il mondo, avvolti nelle coperte termiche o, in loro assenza, nelle lenzuola che i condomini lanciavano dalle finestre. Immagini, suoni, parole che riecheggiano nella piazza digitale di Internet e che giungono fino agli altri. Gli altri, nel cuore della notte, gli altri, distanti ma vicini, gli altri, che non possono essere là fisicamente ma che si stringono attorno a questa città ferita due volte e ai suoi cittadini stremati. Esattamente come stiamo facendo noi adesso. Rifletto su come sarebbe andata se non ci fossero stati i social, le dirette web, i giornali on line, se loro non ci avessero informati, secondo per secondo, di quello che stava accadendo ai parenti, agli amici o semplicemente a persone qualunque alle quali, tuttavia, ci sentiamo filantropicamente vicini. Forse sarebbe andata peggio, forse sarebbe andata meglio.

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Peggio, perché molti parigini non avrebbero potuto comunicare con le loro famiglie che, da casa, ascoltavano inermi le notizie dei sette attacchi terroristici. Dopo il primo assalto a un bar ristorante tra il X e l’XI arrondissement, avviene l’eccidio più grave, quello alla sala del Bataclan, dove era in corso il concerto degli Eagles of Death Metal. 100 morti, moltissimi i feriti anche gravi, mentre i sopravvissuti riescono lanciare l’SOS attraverso Facebook. È quello che è successo a Benjamin Cazenoves che dall’interno della sala per concerti posta sul suo profilo: “Sono dentro al Bataclan. Primo piano. Feriti gravi!”. E aggiunge “Fate in fretta!!!!”. Benjamin si salva e sempre su Facebook ringrazia: “Un pensiero per tutti coloro che non hanno avuto “fortuna” stasera . Un grande ringraziamento per il RAID [Recherche Assistance Intervention Dissuasion, ndr] e la BRI [Brigade de recherche et d’intervention, ndr]. Infine, grazie per tutti i messaggi. Un abbraccio”. Una ragazza italiana ai microfoni di SkyTg24 racconta: “Stavo per uscire. Volevo fare la solita passeggiata con il mio cane, qui nel X arrondisement, quando ho scorso il mio wall di Facebook. Sono rimasta impietrita e mi sono chiusa in casa”. E infine dall’altro lato della città, dove si gioca l’amichevole Francia – Germania, dei kamikaze si fanno esplodere fuori dallo Stade De France. All’interno il clima è surreale: migliaia di spettatori si riversano (per fortuna) in campo e non mancano le immagini di chi imbraccia il telefono per chiamare a casa o di chi picchietta sullo schermo del suo smartphone per postare foto e stati. Magari su Facebook, dove un’applicazione permette all’utente di fare sapere a tutti gli amici che è a Parigi ma che sta bene ed è al sicuro. Proprio come ha fatto il nostro Andrea Turchi, a Parigi per l’Erasmus ma vivo.

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Meglio, perché anche i sostenitori del terrore hanno usato i social, ma l’hanno fatto impunemente con l’unico scopo di fare la loro squallida propaganda, di diffondere basse sentenze di odio misto a fanatismo. “La Francia manda i suoi aerei in Siria, bombarda uccidendo i bambini, oggi beve dalla stessa coppa”, è quanto afferma il canale Dabiq France (la rivista francese dello Stato islamico) assumendo la paternità degli attentati. Non solo. Su Twitter si diffondono gli hashtag #Parisonfire e اريس_تشتعل# che inneggiano alla rivendicazione islamista sull’Occidente, accompagnati dal sinistro proclama “ora tocca a Roma, Londra e Washington”. Fino a toccare il fondo con “Ricordate, ricordate il 14 novembre di #Parigi. Non dimenticheranno mai questo giorno, così come gli americani l’11 settembre”. Lo scrive Rita Katz sul Site citando canali dell’Isis.

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Peggio, perché non ci sarebbe stato il modo di dimostrare la tanta solidarietà della popolazione. È notte quando qualcuno crea l’hashtag #PortesOuvertes per dare ospitalità a chi scappa e cerca un luogo sicuro in cui fermarsi: tempo un’ora e l’hashtag diventa trend topic, allargandosi in tutta la città. Così, come nel più improvvisato degli Airbnb, si offrono spontaneamente letti, divani o semplicemente si chiede alle persone affacciate alle finestre di aprire la porta del condominio.

 

Meglio, perché nell’evoluto Occidente ci sono figure, di ahimè grande visibilità mediatica, che non hanno ancora capito che di fronte alla morte le parole di rispetto sono l’unico gesto concesso. Tuttavia si ostinano a fare la loro bieca propaganda anche sulla pelle ancora calda di quei corpi macchiati di sangue, usando i social media come cassa di risonanza per le loro folli idiozie. Mi riferisco ad alcuni politici nostrani e a qualche editore loro amico (o servo): mentre la destrorsa Marie Le Pen ha avuto il buon gusto di tacere di fronte agli attacchi e, anzi, di fermare la campagna elettorale, i vari Matteo Salvini, Maurizio Gasparri, Vittorio Feltri e Gianni Alemanno non hanno perso occasione per strumentalizzare la tragedia e urlare, a suon di 140 caratteri, insulti e parolacce. “Sciacalli” li hanno definiti, e credo che sia il modo migliore per metterli a tacere. Quello che, invece, deve restare è il compianto per le persone morte, l’affetto per chi si trova in quella città e la determinazione a fare in modo che questi fatti non si ripetano mai, mai più.

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In copertina: Bataclan prima dell’attentato [ph.Parigi Sharing CC BY-SA 2.0/Wikimedia Commons]

La folle giornata di Figaro

«Qui non si parla che del Figaro, non si suona, non si strombetta, non si canta, non si fischia che il Figaro, non si va a sentire altra opera che il Figaro. Eternamente Figaro!».

Queste le parole del ventinovenne Wolfgang Amadeus Mozart dopo il grandissimo successo della sua opera al Teatro Nazionale di Praga, dal 17 gennaio 1787. Le nozze di Figaro, ossia la folle giornata, finita di comporre il 29 aprile, fu messa in scena al Burgtheater di Vienna il 1 maggio 1786.

Parliamo di un’opera buffa in quattro atti (K 492) ispirata alla commedia La folle journèe ou le mariage de Figaro, dell’autore francese Pierre Caron de Beaumarchais (che compose la trilogia di Figaro: Il barbiere di Siviglia, Le nozze di Figaro e La madre colpevole) sulla quale si basa il libretto di Lorenzo Da Ponte.

L’intreccio di quest’opera in quattro atti ruota intorno all’amore di Figaro e Susanna e alla loro ferma volontà di sposarsi, a dispetto di tutte le complicazioni e gli sconvolgimenti causati dai piani malefici del Conte d’Almaviva: innamorato di Susanna, la serva della Contessa, cerca di imporre sulla poverina lo ius primae noctis (“diritto della prima notte” – dai tempi dei signori feudali, si tratta del diritto di quest’ultimo di trascorrere la prima notte di nozze con la sposa di un suo servo, in occasione del matrimonio). Un intreccio folle e incalzante della durata di un giorno in cui uomini e donne di barcamenano tra passioni travolgenti, momenti drammatici e comici. In linea con le altre opere dapontiane è l’ambientazione reale ce appartiene al vissuto degli spettatori contemporanei, nel caso specifico parliamo del castello del conte Almaviva vicino a Siviglia.

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Un’opera incentrata sull’irrequietezza della ricerca della persona giusta da amare, con forti ripiegamenti sulla nostalgia, sull’alternanza animalesca tra l’amore e la morte. Un amore che Mozart non intende come un capriccio ma come un bisogno che l’uomo ha nel suo cercare di continuo la “donna giusta” .

Per il giovane compositore quest’opera rappresenta un pretesto per prendersi gioco delle classi sociali dell’epoca (che in breve tempo sarebbero state investite dal turbinio della Rivoluzione francese). In ogni caso è presente la “rivincita” dei servi che si dimostrano più intelligenti e signori dei loro signor padroni.

 

Le Nozze di Figaro al Teatro Pergolesi di Jesi (regia di F. Bellotto, produzione Fondazione Pergolesi Spontini e Teatri e Umanesimo Latino)

In questo periodo Mozart, per conquistarsi la stima generale, si stava interessando soprattutto all’opera buffa italiana: il genere operistico con il quale i compositori dell’epoca potevano allargare il proprio pubblico e con un librettista italiano come Da Ponte andrò dritto al segno. Non si limitò a presentare una traduzione dell’opera di Beaumarchais ma ne trasse invece un’imitazione, un estratto; l’obbiettivo era quello “di offrire un quasi nuovo genere di spettacolo ad un pubblico di gusto sì raffinato e di sì giudizioso intendimento”.

Creando un’opera comica di tendenza Mozart e Da Ponte ampliano e aumentano i momenti di pezzi d’insieme e dei concertati d’azione (sono i duetti, terzetti, quartetti, quintetti, sestetti e finali d’atto), questo perché si riusciva a far agire i personaggi a seconda di come si presenta sul momento la situazione drammatica. È in questi momenti che il musicista può isolare le reazioni dei personaggi nelle situazioni più diverse e svilupparne l’individualità psicologica.

Louie

Forse non molti lo sanno, ma questo 6 novembre sono andate in onda su Fox Comedy le prime due puntate della quinta stagione di Louie, una serie che condivide con molte altre il triste destino di non ricevere l’attenzione che invece meriterebbe. Ma proprio gli aspetti che più rischiano di allontanarla dal pubblico mainstream sono quelli che la rendono essenzialmente unica nel suo genere. E il modo migliore per introdurla è parlare dell’uomo che le ha dato vita, indissolubilmente legato a questa sua creatura.

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Louis C.K. inizia la sua carriera come stand-up comedian prima a Boston e poi, dal 1989, a Manhattan, dove vive attualmente. Già da subito lavora anche in campo televisivo, scrivendo episodi per vari talk-show, tra cui il Late Show di David Letterman e simili, fino a quando nel 2006 va in onda su HBO Lucky Louie, dove figura come creatore e attore protagonista. La serie però non ha successo e viene cancellata dopo la prima stagione e a causa di questa brutta esperienza C.K. perde l’interesse nel mondo della TV e respinge molte offerte da reti importanti. Ma è qui che le cose si fanno interessanti: il presidente della rete FX (che per intenderci ha sfornato prodotti come American Horror Story, The Americans, Fargo) si incontra con Louis, con l’intenzione di trovare un accordo. C.K. quindi accetta il modesto budget di 200.000 dollari per produrre l’episodio pilota, in cambio però di libertà creativa assoluta.

Louie è uno dei rarissimi casi in cui gli executive della rete non possono mettere bocca su niente, nemmeno con delle note. La serie infatti è scritta, diretta, interpretata e prodotta dallo stesso ideatore, che si occupa in prima persona di ogni aspetto, anche del montaggio, che realizza comodamente da casa sul suo MacBook Pro, mentre le figlie sono a scuola. Ma non si limita a questo, in quanto la serie è a tutti gli effetti una versione romanzata della sua vita a New York, dove Louie, divorziato e padre di due figlie, ci mostra quanto possa essere esilarante, folle e surreale la quotidianità.

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Al contrario della maggior parte delle sit-com, dove la rigidità del formato è un elemento portante, qui troviamo una struttura decisamente inusuale e atipica: le performance dal vivo di stand-up si alternano alle sue vicende personali, con queste due linee narrative che a volte, ma non per forza, sono connesse a livello di tematiche. Ma a detta dello stesso Louis C.K. il messaggio da veicolare è più importante del format, e ciò diventa evidente a partire dalla terza stagione, dove non necessariamente sono presenti i momenti di stand-up o la sigla iniziale e alcune storie vengono raccontate in un arco di più puntate, sistema che diventa poi dominante dalla stagione successiva.

Il grande successo di critica è dovuto senz’altro alla scrittura brillante e anticonvenzionale della serie, che ha guadagnato all’autore ben due Emmy Awards. Le tematiche sono le stesse che C.K. tratta nei suoi spettacoli dal vivo: il sesso e il divorzio, la religione, la depressione, il capitalismo, l’orientamento sessuale e molto altro. Ma è il modo in cui essi vengono trattati che stupisce e diverte: esperienze e conversazioni di tutti i giorni sono viste da una prospettiva totalmente alienata, una posizione critica verso il mondo e chi lo abita, uno humor nero e fuori dalle righe che ci apre gli occhi sulle assurdità su cui ormai si basa il nostro stile di vita.

 

 

Torino Film Festival 2015 – TFF33 – Annunciato il Programma

158 lunghi, 15 medi, 32 corti, 50 anteprime mondiali, 20 internazionali, 8 europee, 71 anteprima italiane. Questi i numeri della trentatreesima edizione del Torino Film Festival che si svolgerà nel capoluogo Piemontese dal 20 al 28 Novembre 2015.

Molta la carne sul fuoco ed alta la qualità di un programma che, come ogni anno, si preannuncia ricco di novità e chicche per gli amanti della settima arte.

Una edizione che guarda al futuro e alle nuove promesse, ma con uno sguardo attento e memore del passato. Spazio dunque al ricordo e alla commemorazione a partire proprio da un omaggio ad Orson Welles, a cui questa nuova edizione è dedicata, con tre capolavori (Citizen Kane, Mr. Arkadin e Touch of Evil) e quattro grandi restauri: Tragica alba a Dongo di Vittorio Crucilla’, Giulietta degli spiriti di Federico Fellini, West and Soda di Bruno Bozzetto ed infine Terrore nello spazio di Mario Bava, presentato eccezionalmente da Nicolas Winding Refn. Sarà inoltre ricordata Chantal Akerman, regista belga scomparsa lo scorso ottobre, e il regista Wes Craven, a cui sarà dedicata un’intera maratona notturna all’insegna del genere Horror (appuntamento il 21 Novembre dalle 22 alle 6).

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Si parte dunque il 20 Novembre con il film di apertura, nonché anteprima italiana, Suffragette di Sarah Gavron, con Carey Mulligan, Helena Bonham Carter e Meryl Streep.

A seguire pellicole tanto attese quanto eccezionali: da The Assassin di Hou Hsiao-hsien, vincitore del premio come Miglior Regia all’ultimo Festival di Cannes, a La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi, e ancora Sunset Song di Terence Davies, Quel fantastico peggior anno della mia vita (Me and Earl and the Dying Girl) di Alfonso Gomez-Rejon, vincitore del Gran Premio della Giuria e del Premio del Pubblico al Sundance Film Festival 2015 e tanti altri.
Il Mediterraneo sarà quest’anno al centro delle rotte imprevedibili di TFFdoc con un focus di 9 opere filmiche incentrate su questo oggetto inafferrabile (da non perdere Méditerranée di Jean-Daniel Pollet) mentre la sezione Onde ci porterà verso l’esplorazione del linguaggio, degli spazi e del tempo sospeso, della ricerca di identità. Grande momento di Onde sarà l’inedito Super8 di Glauber Rocha che ci fornirà un controcampo privato di uno dei padri del cinéma nôvo, o il più recente Cemetery of Splendour, l’ultimo straordinario film di Apichatpong Weeresethakul presentato nella sezione Un Certain Regard all’ultima edizione del Festival di Cannes.

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Questioni di vita o di morte sarà infine il titolo della piccola rassegna curata da Julien Temple, concepita dal suo nuovo film, The Ecstasy of Wilko Johnson, nel quale Temple alterna riprese di Wilco Johnson (attore e chitarrista dei Dr. Feelgood) a brani di film classici che raccontano le sensazioni di persone alle prese con il pensiero della morte. Tra i film selezionati, oltre all’anteprima italiana di The Ecstasy of Wilko Johnson, figurano opere surreali, poetiche e fantasiose di grandi registi del passato: Oil City Confidential di Julien Temple, A Matter of Life and Death di Michael Powell ed Emeric Pressburger, La Belle et la Bête di Jean Cocteau, Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo) di Ingmar Bergman, Sayat Nova (Il colore del melograno) di Sergei Parajanov ed infine Stalker di Andrei Tarkovsky.

Per informazioni relative alle modalità di accesso e alle location: www.torinofilmfest.org

Mentre il programma è consultabile al seguente indirizzo: www.torinofilmfest.org/programma

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The wall is gone

“The wall is gone” – that’s what they say in Goodbye Lenin, one of the most popular movies about the Berlin Wall and its fall.
On November 9th, 1989 the symbol of Soviet Power and Cold War fell, and since that moment the whole world has changed a lot. The Berlin Wall represented the world before Europe, whereas Europe means unity, freedom and mobility. In facts, less than three years later, in 1992, the Maastricht Treaty was signed and in that moment European Union started to become what it represents nowadays.

Were people aware, back in the Autumn of 1989, of the huge meaning of that event? Could they imagine the historical relevance of such a real, material happening like the distruction of a wall? Sure we know that it was probably the greatest party ever, that the feeling of excitement was filling the air and everybody could perceive that. But what was the crowd really thinking of in that moment?berlin_celebrating3We’ve all probably heard of the famous speeches had by politicians or other authorities, who claimed the historical importance of the fall of Berlin Wall and spoke about its political consequences. But even they couldn’t ignore the fact that people in the streets were celebrating like never before, making the city a huge and uncontrollable party. Margaret Thatcher defined November 9th “a great day for freedom”, Horst Köhler, former German President, said that «the Wall was an edifice of fear. On the November 9th… it was a place of joy» and even Angela Merkel, who was a young girl at that time, probably joined the celebrations, after making it through the Bornholmer crossing and phoning her aunt in Hamburg from the west side of the Wall*.

Nonstop celebrations, music, joy and laughs – that’s what best represents the fall of Berlin Wall among the young people in Berlin. They were finally able to be free, to live their city and to see their families finally brought back together. But they probably couldn’t imagine what that was going to mean for Europe. Most of them were associating the end of the Wall era to the end of Communism and the start of Capitalism, the two opposite worlds that the Wall was keeping apart. But it was still impossibile to realise that that moment was also the beginning of a new way of living Europe and especially the borders. The Wall of Berlin was just another example of how men can build and destroy borders themselves; from that moment, many borders were destroyed in Europe, opening new possibilities and giving millions of people the possibility of feeling European.

Today, one day after the 26th anniversary of the fall of Berlin Wall, many people might wonder whether the world has learnt the lesson. Many walls were destroyed, but many have been built since then. How could people forget the joy given by that moment of conquered freedom? How could people forget about the sadness and the pain caused by the absence of liberty? That might sound rhetorical, but in these days, remembering November 9th, more than other days, we should really understand that the freedom and possibilities that Europe has given us in the last two decades is not something to be given for granted.6a00d8350417e069e20120a663b906970b-800wi

*Here‘s an interesting article by The Telegraph for those who want to discover some underrated stories of people in Berlin in those days.

Sinodo 2015: tra geopolitica ed ermeneutica

Succede che, in una famiglia, le persone crescano e autodeterminandosi, imparino a recitare il proprio ruolo sul palcoscenico della vita. Così, nella grande famiglia della Chiesa Cattolica, talvolta i pastori dislocati negli angoli più remoti del mondo, influenzati dalle diverse culture dei posti stessi che li ospitano, discostino il proprio pensiero dalla linea originaria su cui si erano formati come uomini di chiesa, teologi e Pastori. Succede, quindi, che ora in veste di padre premuroso, ora di monarca assoluto, il Santo Padre convochi il Sinodo, l’adunanza di Vescovi disciplinata dall’art.342 del Codice Canonico, per fare quadrato, per misurare la volontà delle diverse anime che costituiscono la Chiesa circa la disponibilità al cambiamento nei confronti di una Società che, molto più velocemente di loro, cambia, adottando valori universali diversi e per certi aspetti rivoluzionari rispetto l’antico ordine dell’uomo, della famiglia, della vita.

L’adunanza svoltasi dal 4 al 25 Ottobre 2015 ha avuto quale focus  “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo”,  Già la famiglia. Ma quale famiglia? La famiglia esclusivamente etero? La famiglia fondata su un’altra famiglia affondata? Si tratta di questioni da affrontare con la lucida consapevolezza che il mondo non è più lo stesso di qualche tempo fa.religioni_nel_mondo_800

L’indissolubilità del matrimonio sempre più flebile, la libertà sessuale, la teoria gender, la procreazione medico assistita sono tutti macrotemi con cui  la Chiesa dovrà fare necessariamente i conti, altrimenti la stessa sarà destinata ad un ruolo marginale, a vantaggio di quelle professioni di fede che avranno saputo meglio interpretare le richieste avanzate dalla temporalità della seconda decade degli anni 2000.

A questo punto si annoda la matassa: la necessità di rincorrere l’ermeneutico, di adattare la dottrina millenaria allo sviluppo del presente, senza snaturarsi o sconfessarsi. Perché, come in un gioco di invisibili equilibri dettati dalla geopolitica, la Chiesa, cedendo al nuovo, all’insieme di valori perpetrati dalle Società occidentali, dovrà stare ben attenta, a non cadere in contraddizione con le radici storiche del pensiero cristiano – cattolico, radici che, ora più che mai, sono ben innestate  in altre zone del pianeta dove il pensiero tradizionale resta più intrinseco nella società. Palesato ciò, lo spauracchio dunque è la parola Scisma.

In questo disgregato scenario, su questo altalenante sipario di rivoluzionari e reazionari saranno, negli auspici del Pontefice, i contributi prodotti nel mese scorso, dai 13 circoli (4 in lingua inglese 3 in italiano e francese, 2 in spagnolo e 1 in tedesco) di alti prelati, ad indicare un’unica strada alla Chiesa Romana. Gli auspici in sede di proclamazione dell’evento, restano ben descritti dall’espressione del Cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo, il quale spiegò la necessità dell’adunanza attraverso un laconico “ Dobbiamo guardare più in là”.

Le sfide sono molte. Dalle prime indicazioni, le iniziali divergenze tra i diversi gruppi di lavoro sono state appianate. Il documento finale adottato è costituito da singoli passaggi, che hanno ottenuto la maggioranza dei 2/3 dei voti. Lo stesso documento, avendo carattere esclusivamente consultivo, costituirà un possibile criterio consegnato al Papa per potersi meglio orientare nelle sue scelte future durante il suo pontificato, a cui, comunque, spetterà la parola finale da apporre a qualunque argomento trattato in sede sinodale.images

Durate l’intera seduta qualche segnale di apertura si è potuto riscontrare dal  gruppo tedesco, attraverso un forte atto di auto-responsabilizzazione, un mea culpa nei confronti di ragazze madri, figli illegittimi, conviventi, omosessuali, divorziati risposati. Infatti si legge nel testo: “Nel tentativo mal concepito di sostenere la dottrina” sono stati sostenuti “atteggiamenti duri e spietati che hanno determinato la sofferenza delle persone”. Risulta necessario, sottolineano i prelati tedeschi, “maturare un linguaggio adeguato e rinnovato sulla sessualità”. Ma senza aprire alla teorie gender. “Ogni ideologia che sta provando a rendere il genere un costrutto o una scelta individuale non sarà accettata”, ha sottolineato in conferenza il Cardinale Reinhard Marx.

Nei documenti dei diversi circoli, emerge con toni diversificati anche la questione dell’omosessualità. Il gruppo italiano, il gruppo C,  coordinato dal Cardinale Angelo Bagnasco, invita “ad un approfondimento antropologico sul tema”, il moderatore inglese del gruppo A il Cardinale George Pell (rappresentate della linea conservatrice) invita le famiglie ad accettare le persone che al loro interno manifestino tendenza omosessuali, “raccomandandoli però di insegnarli il valore della castità”.

Concluso l’incontro, il Papa ha ringraziato per il lavoro svolto, ha letto e probabilmente prenderà spunto per eventuali future decisioni. Anche se, da non addetti ai lavori, ma da semplici cittadini credenti o no, non ci sembra di essere in presenza di sconvolgenti novità. Leggendo quanto espresso dai gruppi di lavoro, pare piuttosto tutto fermo e congelato su antiche posizioni ecclesiastiche che probabilmente rimarranno tali anche post-Sinodo. Per due particolari aspetti: il primo di natura squisitamente teologica, in quanto le richieste della moderna società, saranno sempre più discostanti dall’ermeneutica di millenni fa e da chi ne è il custode. Il secondo per scelte di opportunità, dove il “nuovo” grande bacino di utenza, leggasi fedeli, ora è geograficamente dislocato in aree dove la richiesta di tale “modernizzazione dell’Istituzione Chiesa” non è certo una prerogativa, anzi potrebbe risultare solo controproducente ai fini di assoldamento delle anime, che potrebbero “smarrirsi” verso una confessioni in grado di intercettare le necessità più ortodosse di certi territori.

Insomma non è la volontà della parti la sola condizione necessaria a perché due opposte visioni convergano, talvolta le due visioni, entrambe legittime, non potranno mai integrarsi e condividersi perché radicalmente diverse e inconciliabili, o perché non particolarmente interessate a fondersi, perché fuori dall’Europa la parola Scisma echeggia e risuona sinistra fino a Roma.

 

Fotografia in copertina via vaticano.com

BOLO Paper: quando l’editoria incontra la grafica e il design

Questa settimana Pequod vi porta alla scoperta di BOLO Paper, una realtà editoriale molto particolare e ricercata, che si occupa di fotografia, design, grafica e promozione di nuovi talenti.

I loro prodotti sono non convenzionali: libri in vari formati, illustrazioni, cartoline, collages, newspaper, etc.

Ci siamo fatti spiegare da Marco Nicotra, Independent Publisher e Graphic Designer, di cosa si occupano.

Che cosa è e cosa vuol dire BOLO Paper?

«BOLO, che solitamente è inteso come quel miscuglio che si ha in bocca masticando, rappresenta per noi una metafora creativa secondo la quale ogni nostra pubblicazione è un mix – apparentemente inappropriato – di immagini che erano originariamente destinate ad altri contesti e che, unite ad altre altrettanto fuori luogo, creano spesso un effetto di straniamento negli occhi di chi guarda.

Il perchè di Paper è facilmente intuibile, poiché è la carta il materiale che utilizziamo per produrre le nostre pubblicazioni, quindi la materia prima che è protagonista. Un medium dato quasi per scontato, ma che scontato non è: se non fosse esistita la carta non sarebbe esistito nemmeno il progetto, perlomeno non nella conformazione che ha oggi».

Ultimamente la stampa ha iniziato a parlare di voi: quella nazionale per la vostra partecipazione all’Elav Indie Fest; quella internazionale per alcune vostre pubblicazioni, come quella di Candidates di Pascal Felloneau. Voi ritenete che sia necessario affermarsi prima a livello nazionale o a livello internazionale? O provare contemporaneamente su entrambi i fronti?

«Non riteniamo che sia importante affermarsi. L’importante per noi è fare quello che ci diverte nel tempo che ci è stato dato a disposizione, e questo progetto ne è la celebrazione massima e continua da quasi 5 anni. Il tipo di prodotto che realizziamo era inizialmente più appetibile all’estero, ma ultimamente le cose si sono un po’ ribaltate, sebbene continuiamo a frequentare fiere ed eventi legati all’editoria indipendente sia in Italia che fuori, senza alcuna preferenza».

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Il vostro modo di fare editoria è strettamente legalo alla grafica, al design e all’arte, che sono anche l’oggetto del vostro lavoro. Perché avete deciso di sviluppare un progetto editoriale in un campo così interessante, ma allo stesso tempo così complesso?

«La grafica, che in questi progetti a volte molto autoreferenziali si tinge di un aspetto più artistico, è semplicemente il metodo, la tecnica che abbiamo approfondito negli anni, tra università e interesse personale, per esprimere un desiderio creativo spesso inespresso nella quotidianità lavorativa dell’ufficio. Il progetto ci è servito come valvola di sfogo per poter fare autonomamente delle cose che ci piacessero, senza limiti di alcun tipo, dove fossimo finalmente noi ad avere l’ultima parola».

Recentemente avete anche lanciato il servizio BOLO LAB, per selezionare dei progetti validi perché «Possano trovare una forma cartacea, per seguirne la finalizzazione, la stampa a prezzi calmierati, ed infine per dare un aiuto nella promozione». In cosa consiste questo servizio nello specifico? Quali sono i criteri di selezione?

«BOLO Lab è un servizio nato per far fronte alla crescente richiesta da parte di illustratori, fotografi o artisti che hanno per le mani progetti molto interessanti, ma che non conoscono tutti gli step per autoprodurre una pubblicazione che li rappresenti, ed è proprio questo che facciamo, seguiamo l’autore: dal concept iniziale al layouting della pubblicazione, dalla stampa alla distribuzione. Le modalità dipendono da persona a persona e il criterio di selezione è legato a quanto il progetto proposto sia vicino al nostro mondo, a quanto quindi ci interessi rappresentarlo».

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Non ci resta che invitarvi a dare un’occhiata al loro sito, per vedere come la grafica, l’editoria, la fotografia e il design possano fondersi in qualcosa di veramente unico e nuovo!

Caravan Orkes-tour: il nostro viaggio musicale

È finalmente il giorno della partenza! Prepariamo tutti i bagagli per bene, riempiamo le custodie degli strumenti e ci dividiamo i “pesi massimi”. Siamo in nove all’aeroporto, tutti con le nostre magliettine colorate e i cappelli da ceffi balcanici: la Caravan Orkestar è pronta per questa nuova avventura. Tre concerti in pochi giorni e 3000 kilometri da percorrere.
Un tour che in realtà è cominciato molti mesi prima: persone, bagagli, strumenti musicali e aerei sono complicati da gestire (soprattutto quando si tratta di “un bandone” composto da più di venti persone), anche se ciò non ha fatto altro che alimentare in noi l’impazienza e l’emozione per questa esperienza tutta da provare. Per questioni logistiche siamo partiti in nove, appunto, direzione Soisson: un angolo di verde e magia nella regione francese della Piccardia.

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Qui siamo stati amorevolmente ospitati da la Lanterne Magique, una compagnia circense che ha sede fissa in un’antica corte con tanto di pista per i cavalli, un grande chapiteau, vecchi caravan (!) restaurati nel cortile e un centinaio di bambini e ragazzi, arrivati per un campo scuola sulle discipline circensi. La cordialità, i sorrisi e la grande attenzione nei nostri confronti ci hannno fatto sentire protagonisti!

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Nelle giornate francesi per nulla ci sembrava di lavorare: quello che era lavoro, cioè il concerto, arrivava sempre alla fine di ore condivise ed era al contempo una naturale prosecuzione di quel che vivevamo prima e un anticipo di quel che sarebbe successo dopo l’esibizione. Anche a divertirci la notte in cui non abbiamo potuto dormire, siamo riusciti a divertirci: dopo il secondo concerto francese ci siamo fiondati in aeroporto, direzione Cagliari. Ormai svegli e “caffeinati”, abbiamo impiegato le ore di ritardo un po’ vagando per l’aeroporto, un po’ suonando un pianoforte scordato, un po’ giocando, per poi finalmente raggiungere il resto del gruppo giusto per l’ora di pranzo. Abbiamo caricato noi stessi e tutto l’ambaradam su un pulmino diretto a Sant’Antioco.

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In un gruppo composto da così tante persone normale è che ci si separi in gruppetti più piccoli: chi si è goduto blu del mare sardo, chi si aggirava curiosando per le viuzze del paese, chi dormiva; il concerto diventa il momento comune, richiede maggior concentrazione e attenzione a quel che ti succede attorno, quello che fanno gli altri. Non è una situazione migliore o peggiore, solo diversa e più slegata dal prima e dal dopo esibizione.

Anche l’accoglienza di Sant’Antioco è stata molto partecipata, ma le lunghe prove pomeridiane, il lunghissimo sound check e la presenza del maestro Jovica Jovic (con cui avremmo suonato di lì a poco) non han fatto che aumentare la tensione e l’adrenalina. Ciò ha inevitabilmente portato ad un concerto spettacolare, sentito e apprezzato, nella location mozzafiato dell’Arena fenicia: una bomba di emozioni che di certo faticheremo a dimenticare.

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Un viaggio diverso dal solito in cui l’attenzione verso gli altri, la condivisione degli spazi, delle tempistiche e dei problemi logistici hanno solidificato il senso di gruppo. La vacanza da musicoturista è davvero qualcosa di speciale, ma che sicuramente richiede allenamento!

Proiezioni pocket: tutta la magia del cinema in meno di venti minuti

L’idea è quella di un pezzetto di legno che si incastra nella pelle e ci rimane, infastidendo, ma stimolando: da qui sono partiti i ragazzi della Scheggia, associazione culturale milanese nata nel 2004, che collaborando sotto il segno della ricerca e della sperimentazione propongono nuovi percorsi visivi e riflessivi.

Negli anni l’organizzazione cresce e diventa punto di riferimento per eventi e rassegne cinematografiche, realizzando grandi progetti come i festival Milano Wants to Be Independent, Dispersival e Cinemartpresso il Parco Martesana.

Dopo aver lasciato la sede storica di via Dolomiti a Milano, hanno iniziato un pellegrinaggio che ha proposto il cinema in svariati luoghi e formati: locali, muri di città; nasce poi una collaborazione duratura con Santeria in via Ettore Paladini con le Cinemerende-film belli e poco visti, dove si proietta in lingua originale, e Spazio Ligera in via Padova.

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Tra le bancarelle di Levi’s consumati del mercatino delle pulci pettinate di via Stazio, abbiamo scorto un furgoncino e una gran folla: il furgoncinema!

L’idea di un cinema itinerante era già nota in Italia, ma non in formato ridotto e vintage: tutto nasce un anno e mezzo fa dall’incontro della passione della Scheggia con l’estro della Salumeria del design indirizzandosi verso rassegne legate alla città, con proiezioni che non durassero più di venti minuti, come Milano calibro nove, L’amore in città e Cinema da tavola.

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Nelle vostre rassegne è quasi sempre presente una nota marginale ed insolita, unita all’inusuale luogo delle proiezioni, da dove nascono tutti i progetti?

«Le nostre rassegne sono il frutto di collaborazioni e proposte che riceviamo, con il tempo il livello è cresciuto e noi con loro, ma quello che abbiamo sempre ricercato è il “poco visto”, qualcosa di interessante e originale, perché crediamo nella scoperta del nuovo, la conferma del vecchio la lasciamo ad altri».

Entrare nel vostro furgone è come partire per un viaggio rimanendo fermi, chi sceglie le mete visive? Cosa vorreste che rimanesse a chi si accomoda sulle vostre poltroncine?

«Le mete visive sono selezionate e montate ad hoc da uno di noi. La scelta di realizzare episodi legati a Milano ci è parsa subito la più adatta in virtù dello spazio e del tempo e anche per questo non consideriamo ripetibile il progetto altrove, vorremmo compiere un viaggio in una sorta di scatola della memoria: com’era Milano, com’è cambiata. Ci piacerebbe rimanesse la magia del cinema, anche se in formato pocket».

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Al mercatino vi abbiamo visti tra i meandri dell’handmade, del vecchio che trova nuova vita nelle mani dei nuovi arrivati: l’eredità cinematografica dei colossi della settima arte che fine è destinata a fare?

«Il cinema italiano dagli anni cinquanta in poi e quello di genere ha lasciato davvero una grande eredità e alcuni periodi, come alcuni autori, sono ancora considerati all’estero come dei maestri a cui rifarsi.  Ora l’industria del cinema crediamo sia cambiata: si va verso un cinema sempre più tecnologico, tridimensionale, dimenticandosi appunto che la magia del cinema e il suo stupore sono molto più semplici da realizzare, consigliamo a questo proposito di andare a vedere i film di Georges Méliès!»

Progetti per il futuro?

«Ad ora, quello a cui stiamo lavorando è il festival all’aperto nel parco della Martesana: Cinemart Film Festival, giunto alla sua terza edizione, si tratta di un progetto davvero ambizioso e che crediamo possa crescere negli anni. Però come diceva Joe Strummer: “il futuro non è scritto“».