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Mese: Gennaio 2016

Il ghetto ebraico: un silenzioso labirinto nel cuore di Bologna

Dimenticatevi la frenesia e il traffico di via Rizzoli a Bologna e addentratevi con me nel suo ghetto ebraico.

Era il 1506 quando lo Stato Pontificio sottometteva Bologna ed era il 14 luglio 1555, in piena età controriformista, quando Papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum, tradotto “perché è oltremodo assurdo”, costringeva intere comunità ebraiche ad emigrare. In breve, la bolla consisteva in una legge che limitava i diritti degli ebrei e imponeva ai credenti di portare un distintivo giallo che li escludeva dal possesso di beni immobili e dall’esercizio di alcune professioni, tra cui quelle sanitarie. Ma soprattutto sanciva la costruzione di apposite aree entro le quali gli ebrei avrebbero dovuto obbligatoriamente vivere, i ghetti. In particolare, gli ebrei bolognesi vennero rinchiusi l’8 maggio del 1556 e ci rimasero fino al 1593, quando furono definitivamente cacciati.

Oggi il ghetto, delimitato da via Zamboni, via Oberdan e via Marsala, conserva la struttura urbanistica originaria, ovvero un complicatissimo groviglio di vicoli stretti e portici in sequenza, avvolti da un’atmosfera così tranquilla da avere l’impressione di trovarsi in un’altra città. L’accesso all’area era regolata da due cancelli: il primo all’imbocco con via De’ Giudei, e il secondo nell’attuale via Oberdan (un tempo via Cavalliera). Percorrendo via del Carro si incontra via dell’Inferno, l’arteria principale, dove al civico 61 vi sorgeva la sinagoga del ghetto, di cui oggi ne rimane solo una targa in memoria.

Dunque, posate cartine e mappe e lasciatevi guidare dalla mano di Fatima. Vi condurrà tra le vie di questo emblematico labirinto, fino al Museo Ebraico in via Valdonica, dove avrete la possibilità di ripercorrere la storia della comunità ebraica bolognese e non solo.

Una riflessione: minoranza che avanza

Parlare di Giorno della Memoria significa impegno a riflettere, a richiamare nella mente le cose apprese.

E se l’omofobia, la paura del diverso e le discriminazioni in genere sono le nuove malattie della società odierna, iosonominoranza.it  è il farmaco orientato a curarle.

Iosonominoranza è un progetto di Think community che nasce nel contesto veronese, uno spazio di condivisione e di scambio per proporre il nostro punto di vista minoritario, si legge. Il sito (nomination ai Macchianera Italian Award 2015, tra i migliori siti LGBT) è un agglomerato di contributi di vario genere, un contenitore aperto alla partecipazione di tutti, che restituisce una panoramica sulla lotta contro tutte le discriminazioni. Come tutti i progetti ben riusciti nasce da un bisogno: superare l’incomprensione, l’intolleranza, la sensazione di non accettazione e diversità. Il fine ultimo è proprio quello di costruire una società più aperta, unita, sana e rispettosa della diversità di ognuno, qualunque essa sia; il mezzo è quello di un orgoglioso e festoso condividere che cerca, nel frattempo, di abbattere tabù e sradicare ignoranze.

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Attualità, cultura, testimonianze, esperienze, petizioni, approfondimenti, sono tante le sezioni in cui il sito è articolato. Tra le parti più scanzonate possiamo citare la rubrica video Pink Logan Risponde, animata dall’ esuberante drag queen Pink Logan, pensata per risolvere dubbi e rispondere alle domande della community. Altra felice risorsa di intrattenimento sono i loaded del programma radio @GayBar di Radio Stonata, dedicato alla comunità LGBT italiana: vero e proprio progetto sociale che di puntata in puntata affronta e approfondisce un argomento differente.

Selezionando uno fra i tanti percorsi offerti, posso menzionare la sezione Fuori dall’Armadio, dedicata al coming out. Lungi dal voler indicare una sorta di percorso obbligato, vuole semplicemente essere un punto di riferimento o appoggio per tutte quelle persone che hanno intenzione di dichiararsi ai loro cari. Dall’accettazione di sé stessi si passa attraverso le ragioni, i modi, i tempi per arrivare sino alle reazioni, alla creazione di un momento di transizione condivisa, di ascolto e comprensione reciproca.

 

L’ evento significativo del passato weekend, quando le associazioni LGBT si sono riversate nelle piazze al grido di #svegliaitalia, in vista della discussione al senato del ddl sulle unioni civili, è uno spunto di riflessione su cui il Paese non può più temporeggiare. Visitare iosonominoranza è un’occasione per imparare a vedere l’altro, liberandosi da inutili specchi deformanti. Opportunità per riflettere.

Guardare oggi la storia nei paesaggi di Varsavia e Berlino

Beatrice atterra in aeroporto, di ritorno dalla Polonia; la vado a prendere con una punta d’invidia e molta curiosità: dovevo essere con lei ad esplorare una tra le più famose città teatro della Seconda Guerra Mondiale, ma gli impegni lavorativi me lo hanno impedito.
Così appena sale in macchina, la investo di domande; non vedo l’ora di sapere: «Com’è Varsavia?»
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Mi aspetto racconti di monumenti e memoriali, essendosi nella sua breve gita concentrata sulla Città Vecchia, invece Beatrice inizia descrivendomi parchi e palazzi:
«Il parco Lazienki è un’immensa distesa di verde al centro della città, intervallato da architetture sei/settecentesche. È come un giardino incantato in cui appaiono palazzi da fiaba, laghi e statue; tra cui il monumento a Chopin, uno dei più famosi di Varsavia.»
La interrompo subito: io voglio sapere del sapore di storia della città, del suo ghetto e di come i suoi abitanti ci camminino. «Ma il ghetto è rappresentato soltanto da una linea tracciata a terra che ricorda le mura che lo cingevano; puoi camminare da una parte all’altra, ma anche passarci sopra, e puoi non accorgertene nemmeno! All’interno c’è la Via della Memoria, con alcuni monumenti dedicati agli ebrei.»
«E quindi che impressione dà muoversi tra le case di Varsavia?» «La città è molto bella, ricca di palazzi colorati, di giardini e piazze; ovunque si posi lo sguardo, s’incontrano attrazioni esteticamente indiscutibili: dall’impeto della Statua della Sirena ai caldi mattoni del Castello Reale, dalla maestosità della Cattedrale di San Giovani Battista al fiabesco Barbacane. Se però cerchi un riscontro all’immagine della città di cui raccontano i libri di storia, allora ciò che ti circonda appare come un grande parco giochi: tutto è stato ricostruito, fino a non lasciare traccia dei bombardamenti subiti.»
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La mia mente, con un breve volo pindarico, si sposta alla città di Berlino, dove io e Beatrice abbiamo passato qualche giornata assieme, un po’ di mesi fa. Ovviamente penso al gigantesco Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa e al Museo Ebraico, ma soprattutto la mia memoria si concentra sull’atmosfera che aleggia nella città: su quei segnali di passaggio della storia e di continuo rinnovamento dei tempi che parlano in tutte le strade. Massima espressione del sincretismo epocale è l’East Side Gallery, quotidiana reinterpretazione del concetto di libertà, ma anche ultimo tracciato di un muro che sollecita la memoria storica. Con un sorriso ricordo il travagliato viaggio che abbiamo intrapreso per raggiungere il quartiere russo, dove aveva sede una collettiva di performer provenienti da tutta Europa, e i pasti a base di noodles cinesi vegetariani, mentre Beatrice si gettava nell’ennesimo kebab turco; ripenso all’accoglienza dell’ostello francese e dei suoi piccoli letti in legno e al pessimo caffè americano preso per scaldarsi dal vento di Alexanderplatz.
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Due modi diversi di interpretare la storia, due modi diversi di rapportarsi al presente: Varsavia si è raccolta in se stessa ed è oggi un piccolo gioiello settecentesco entro l’Europa del XXI secolo; Berlino si è aperta all’esterno, diventando baluardo europeo dell’internazionalità, dell’integrazione e dell’innovazione. Entrambe sono città che raccontano una storia e che si fanno emblema di come l’estetica di una città influenzi gli orizzonti anche interiori di chi la abita.
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Le cicatrici di Lanzmann

A tutti quelli che conoscono a menadito il lavoro di Claude Lanzmann farà piacere sapere che è in arrivo un biopic, firmato dal giornalista americano Adam Benzine, nominato nella cinquina dell’Academy come Best Documentary Short Subject. Claude Lanzmann, francese, scrittore, insegnante e regista, amico di Simone de Beauvoir e di Jean-Paul Sartre nonché direttore di Les Temps

modernes, nel 1973 inizia a lavorare a quella che passerà alla storia del mondo (e del cinema) come un’opera magna: Shoah esce nel 1985 e parla dell’olocausto attraverso un’eccezionale finezza di regia e montaggio; 11 anni di lavoro e 10 ore di film che hanno consacrato Lanzmann nell’olimpo dei maestri d’indagine del reale. Serio e pacato, Lanzmann volge la sua ricerca verso i testimoni oculari, le persone che hanno vissuto il rispetto delle regole senza domande e adotta un punto di vista interno su un sistema folle e ordinario. Shoah è un fiume di parole, frammentato da quadri bucolici dei luoghi di morte; nessun repertorio, ché «l’immagine uccide l’immaginazione»: a parlare è la storia degli uomini.

La Soluzione Finale non fu mai dettata da un ordine scritto, ma da una burocrazia che fu «una successione di piccole tappe, superate secondo una logica» scrive Giuseppe Genna, al termine della quale «i burocrati sono diventati inventori». Shoah è testimonianza eccezionale nonché lezione fondamentale sulle possibilità del documentario, sul suo linguaggio e sulla sua grammatica.

Locandina del film Shoah e copertina del DVD.

Dopo anni di lotta con gli spettri di Shoah, nel 2013 arriva Le dernier des injustes, la storia di Benjamin Murmelstein, il primo intervistato da Lanzmann a Roma negli anni ’70 e da subito meritevole di un film a sé.

Tre decani si alternarono all’ “amministrazione” del ghetto-modello di Theresienstadt, 60km da Praga, specchietto per le allodole per il resto dell’Occidente: l’ultimo e l’unico decano sopravvissuto fu Murmelstein, al lavoro con “il demone” Eichmann anche per le liste di chi doveva restare e chi doveva partire.

Scagionato dal tribunale cecoslovacco dall’accusa di collaborazionismo, Murmelstein è passato alla storia come figura estremamente controversa e Lanzmann ne restituisce un’immagine complessa, al di là del bene e del male. Curiosamente, lo stesso anno Claudio Giovannesi completa un altro pezzetto del puzzle, filmando l’isolato WOLF Murmelstein, il figlio dell’ultimo degli ingiusti.

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Scena da Le Dernier des Injustes.

In un mondo composito di testimoni e fatti storici, Lanzmann ha sempre messo a punto la sua versione, lavorando a tesi. Non fategli domande: quello che c’era da dire è già nell’autobiografia Le lièvre de Patagonie (2009) e nei suoi film.

Intervistarlo è compito arduo, ma questo non ha dissuaso Benzine. Spectres of the Shoah è il documento finale, il passaggio in cui l’intervistatore passa dall’altro lato e racconta l’approccio alla materia, che agli albori non superava la nozionistica generale sui numeri. Quello che non sapeva è quanto questo gli avrebbe cambiato la vita: l’angoscia che continua a pervadere l’autore e che, conseguentemente, non può mancare nello spettatore; la stanchezza, che gli ha impedito per anni di mettere mano alla storia di Murmelstein. Oltre questo, nell’intervista di Benzine c’è tutto il processo produttivo, compreso l’inganno necessario su soldi e tempi per portare a termine la ricerca, compresa la spinta oltre i limiti con i suoi intervistati, messi alle strette e portati a parlare, a rivelarsi. Benzine fa un ritratto calcolato, arricchito da altro materiale inedito dall’Holocaust Memorial di Washington, creando un film di taglio giornalistico, primariamente per il pubblico americano.

Per chi non ha mai segnato Shoah tra i film da vedere, un consiglio senza retorica: 9 ore e mezza passano come un fulmine e lasciano davvero un’emozione irreversibile. Farà da testo la realtà, dove le cicatrici del regista sono quelle di chi ha percepito l’umanità. È la memoria dell’oppressione che vivono tutti i popoli sotto nuove e vecchie dittature, scoperte o mal celate sotto la coperta dell’Occidente democratico. È ricordare che in Europa non manca mai il ritorno inutile di spinte nazionaliste.

Per chi non fosse ancora convinto di rinunciare alla fiction, almeno per dovere di cronaca vale la pena di segnalare un’altra opera cinematografica di qualità, ché si possono superare Schindler’s list e Benigni: date una chance all’ungherese László Nemes, già assisente di Béla Tarr, e alla sua opera prima Son of Saul. Dentro vi troverete, ancora, tutte le cicatrici di Lanzmann.

American concentration camps during WWII, the other side of persecution

Holocaust Memorial Day (HMD) is the anniversary of the liberation of Auschwitz concentration camp by the Soviet Army in 1945, and it’s also the occasion for remembering the victims of Nazi Persecution, at least for one day in a year. Pequod Rivista would like to delve deeper into the matter of concentration camps crossing the Atlantic Ocean to report a quite underrated fact, the existence of American concentration camps during World War II.

After December 7, 1941 the position of the United States about WWII changed, as a consequence of the unexpected Japanese aircraft attacks on the US Pacific Fleet at Pearl Harbor in Hawaii. American reaction was as harsh as such an unfair attack had been – in facts, Japanese hadn’t declared war to US and Pearl Harbor events came just out of the blue. Not only did American government decide to enter WWII after that tragic event, but also it established the building of several concentration camps for Japanese-Americans in the western part of United States.

Original WRA caption: San Francisco, California. Exclusion Order posted at First and Front Streets directing removal of persons of Japanese ancestry from the first San Francisco section to be effected by the evacuation. Source: http://www.densho.org  
Original WRA caption: San Francisco, California. Exclusion Order posted at First and Front Streets directing removal of persons of Japanese ancestry from the first San Francisco section to be effected by the evacuation. Source: http://www.densho.org

After the bombing, President Franklin Roosevelt authorized to incarcerate 120,000 Japanese-Americans, both adults and children (referred to as “Nisei”, term indicating Japanese immigrants’ children in USA), with no distinction between immigrants and citizens.  According to Executive Order 9066 (link) and to Public Law 503 (link) the US government gave the Army the power to exclude Japanese-Americans from American society in case of “military necessity”. Later, from February 1942, people of Japanese ancestry were forced to move from the West Coast to the inland western states. The aim was preventing Japanese-Americans from sabotaging and spying on the US affairs in favor of their home country.

Source: https://en.wikipedia.org/wiki/Internment_of_Japanese_Americans
Source: https://en.wikipedia.org/wiki/Internment_of_Japanese_Americans

The War Relocation Authority (WRA) tried to run camps as small cities, where the Japanese-American inmates could go to school, do recreational activities and go to the market, even hold elections for self-government. Located in the desolate desert, the internment camps were shaped as blocks of wooden barracks with communal bathrooms, laundry facilities and dining halls, surrounded by barbed wire fences along the perimeter and by watching towers overlooking the inmates.

Copyright Ansel Adams: “Mrs. Yaeko Nakamura and family buying toys with Fred Moriguchi.”
Copyright Ansel Adams: “Mrs. Yaeko Nakamura and family buying toys with Fred Moriguchi.”
Source: https://en.wikipedia.org/wiki/Internment_of_Japanese_Americans  
Copyright Ansel Adams: “Nurse Aiko Hamaguchi, mother Frances Yokoyama, baby Fukomoto.”

At the end of 1942, a feeling of unrest among the inmates was animating the camps. The WAR circulated a questionnaire in order to figure out how many of those Japanese-Americans were loyal or disloyal toward United States. Those who proved to be loyal could leave the camps but were forced to enlist. In 1944 the government started drafting men from the internment camps. Most of them seized the moment, as it was the only way to restore their honor, but 300 of them strongly refused to fight for a country that had ignored and cancelled their civil rights.

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“Goodbye my son”, by Henry Sugimoto (1942).

With the end of the war, all the concentration camps were quickly closed, with the exception of Tula Lake, and the Japanese-Americans started to go back home, trying to integrate themselves again within the American society. Once they were back their lives were all but easy. On one hand, those who went back to the city found it hard to find accommodation and job; on the other, people who had come from the countryside found out that they had lost their farm and had to start again as farmers.

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Charles Isamu Morimoto, a well- know artist in Los Angeles, he documented his life in Manzanar’s camp.

Only in 1988 the US government officially apologized for the “grave injustice” done to Japanese people during the war. Actually, also in the immediate postwar many Americans had recognized the injustices of the wartime. Nowadays it’s really important to remember and to understand what happened during WWII in the United States, especially considering the contemporary issues connected to terrorist threats. The diffused opinion that governments are allowed to overpass civil liberties in the name of public safety should consider how dangerous some decisions might be, remembering that in the past many innocents lost their lives and their freedom only because of blind fear of the unexpected and of the unknown.

Cavie umane ieri e oggi: i volontari, gli inconsapevoli e gli ingannati

Tra gli orrori che si sono consumati nei lager nazisti, gli abusi della sperimentazione scientifica su cavie umane non si discosta per obiettivi e risultati dalla “soluzione finale”: due operazioni nate dalla volontà di affermare la supremazia della razza ariana e destinate a condurre milioni di persone alla morte. Tra queste, i deportati chiusi in camere di decompressione, per testare quanto si potesse sopravvivere ad alta quota senza pressurizzazione; quelli nutriti solo con acqua salata o quelli cui furono asportati ossa e arti, abbandonati a una rapida morte per infezione.

Questa aberrante combinazione di darwinismo sociale e teorie eugenetiche trovò terreno fertile anche prima dell’avvento dei fascismi e non solo nel Reich hitleriano, come confermano le pratiche di sterilizzazione su soggetti accuratamente selezionati negli Stati Uniti e negli evoluti Paesi scandinavi, seguiti da Canada, Francia e Giappone. Ma soprattutto, la storia delle sperimentazioni pericolose e spesso segrete si è protratta ben oltre il secondo conflitto mondiale, dalle ricerche sugli effetti della radioattività a est e a ovest della cortina di ferro fino ai test di farmaci dei giorni nostri, nonostante l’approvazione del Codice di Norimberga e della Dichiarazione di Helsinki, documenti fondamentali per la tutela dei diritti dei soggetti sperimentali.

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«Se la storia della sperimentazione clinica sull’uomo può insegnarci qualcosa, dalle sanguinose pratiche di vivisezione del millennio appena concluso fino al Tuskegee Study sulla sifilide, è che il peso dei possibili abusi tende a ricadere su quelli tra noi che sono più poveri e socialmente più deboli». Così scriveva nel 2007 la giornalista Sonia Shah nel suo libro-inchiesta Cacciatori di corpi, ricordandoci che i progressi della ricerca medica, di cui beneficiamo tutti, sono spesso il risultato di innumerevoli test condotti su centinaia di esseri umani che non ne traggono alcun vantaggio o addirittura ne rimangono danneggiati. Qualche decennio fa erano i malati psichiatrici e ospedalieri, i detenuti e gli immigrati, perfino le donne incinte e i bambini; oggi sono persone povere e bisognose di cure dei cosiddetti “Paesi in via di sviluppo”, ma anche i volontari dei Paesi europei, attirati più dai facili guadagni che dalla voglia di contribuire al progresso scientifico.

La morte recente di uno dei partecipanti alla sperimentazione di un farmaco promossa dal laboratorio francese Biotrial ha riacceso i riflettori sui numerosi volontari che si prestano ai trials clinici per i medicinali sperimentali. Si tratta di casi piuttosto rari (uno degli ultimi circa dieci anni fa, il ricovero in terapia intensiva delle sei “cavie” che avevano assunto un antileucemico a Londra), che le case farmaceutiche cercano di scongiurare attraverso opportune precauzioni; anzitutto criteri di selezione rigorosi, la sottoscrizione del “consenso informato” e il limite di partecipazione a un test ogni tre mesi. Inoltre nel Canton Ticino è stato istituito un registro dei volontari sani, di cui il 90% sono italiani di Milano, Varese e Como.

La vicina Svizzera attira molti giovani come Lorenzo, 34enne romano che un anno fa raccontava a Il Giornale la sua storia di «sperimentatore»: laureato in giurisprudenza ma disoccupato, preferisce passare qualche settimana in altri Stati europei piuttosto che cercare lavori poco remunerativi. Certo dev’essere difficile vivere nell’Italia della crisi se si possono avere un compenso giornaliero di 200 € circa e un check-up gratuito, ma i Comitati etici avvertono di non sottovalutare gli effetti collaterali e non illudersi di fare di questa attività un lavoro continuativo. È dello stesso avviso l’Università di Trento, che gestisce il gruppo Facebook “Bacheca Esperimenti” per “reclutare” nuovi soggetti per test di natura psicologica e cognitiva.

Talvolta la decisione di sottoporsi a test per la ricerca farmacologica sembra essere presa un po’ troppo alla leggera, ma quest’impressione diffusa rimane spesso taciuta: dal business della sperimentazione scientifica traggono vantaggi reciproci i volontari e le case farmaceutiche, interessate a superare velocemente le quattro fasi che permettono infine di introdurre il nuovo prodotto sul mercato.

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Tempi rapidi e costi molto contenuti, questo sembra spingere le aziende leader dell’industria farmaceutica in Sud America, Africa e Asia, dove sono state condotte sperimentazioni caratterizzate da gravissime carenze etiche che non sarebbero state tollerate nelle sedi occidentali. Tra gli ultimi scandali quello svelato da un’inchiesta del quotidiano inglese The Independent: nel 2011, in diversi villaggi dell’India avevano partecipato ad almeno 1.600 test clinici per conto di colossi come Pfizer, Merck e AstraZeneca più di 150mila persone, perlopiù analfabete e povere, del tutto inconsapevoli di essere cavie di sperimentazioni cliniche. Di queste, tra il 2007 e il 2010 almeno 1.730 sono morte perché già malate (e non curate) o proprio a seguito dei test effettuati.

Il rischio che la delocalizzazione degli esperimenti scientifici si trasformi in una nuova forma di “colonizzazione” è già realtà, come osserva il Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento La sperimentazione farmacologica nei paesi in via di sviluppo (2011), perché in Paesi in condizioni socio-economiche svantaggiate «il concetto di ricerca tende ad essere confuso con la cura e l’assistenza medica». È impossibile, in questi casi, parlare di “volontari”: spesso i soggetti si sottopongono alla sperimentazione di nuovi farmaci per ricevere pasti gratuiti, senza alcuna consapevolezza delle funzioni di un vaccino o del loro stesso ruolo in una ricerca scientifica. Una consapevolezza che non manca agli enti promotori e ai governi dei Paesi occidentali, costantemente  richiamati al rispetto dei diritti umani, di tutti gli esseri umani e a rinnovare le proprie procedure, in direzione di una nuova etica per la bioetica.

Secondo il CNB, il “gap” culturale tra Paesi ricchi e Paesi a basso reddito potrebbe essere colmato elaborando nuove forme di comunicazione attente non solo ai cavilli formali, ma anche all’effettiva comprensione da parte dei soggetti coinvolti; una sorta di mediazione culturale che riduca lo squilibrio culturale tra tradizione occidentale e usanze locali, avvicinando il mondo della medicina alla società.

Probabilmente ne deriverebbero grandi benefici anche per le “cavie” dei Paesi più ricchi, dove il “consenso informato e volontario” si è ridotto a una pratica burocratica che protegge le parti a livello legale, ma che chiarisce ben poco dei rischi delle sperimentazioni. Di certo allontanerebbe il rischio di uno sfruttamento più o meno celato dei «più deboli» economicamente, che si trovino a Nord o a Sud del globo.

Cavie Umane, Svizzera in Canton Ticino ad Arzo, presso la Cross Research vengono sperimentati nuovi farmaci su volontari,

La ruta del Desierto: i colori di Atacama

Percorrere la Ruta del Desierto è un’esperienza che regala paesaggi mozzafiato. E’ la strada che collega le estremità dell’immenso Deserto di Atacama.

Si passa dalla desolazione dei luoghi più remoti alla caotica frenesia delle città. Queste ultime sembrano isole lontane e scomunicate tra loro. Nei centri abitati la vista è quasi surreale, si scorgono contrasti cromatici molto forti: il giallo secco e arido della sabbia, l’azzurro intenso del cielo, il profondo blu dell’oceano, sfumato dalla spuma bianca delle onde che si rompono su se stesse senza sosta, il grigiore di case tutte uguali da dove spuntano, di tanto in tanto, edifici altissimi.

Penetrando nella distesa di sabbia, la presenza dell’uomo si fa più rara e lascia spazio ai disegni della natura. Il paesaggio è riarso, assetato, il sole impera e si rispecchia nelle macchie di sale e acqua che si incontrano ad alta quota. In primavera il deserto rinasce e ci fa scoprire l’incanto della fioritura che irrompe con forza nel panorama brullo.  La vivacità del lilla, verde e dell’azzurro  dipinge il deserto con giochi di luci, colori e aromi inusuali e meravigliosi.

 

Il fascino latino della cultura

L’associazione più frequente che viene in mente è quella con le baby gang, poi le storie di violenze, traffici di droga e le connessioni con il crimine organizzato italiano. Quando si parla di America meridionale, a parte che per le spiagge e tumbler colmi di mojito da sorseggiare sdraiati all’ombra di una palma, non vengono in mente immagini di sviluppo e progresso.

Forse è un filo rosso che lega tutti i “sud” del mondo. Pensiamo a ciò che noi italiani immaginiamo pensando al nostro sud. Forse. Il punto però, è che esistono realtà di cui non riusciamo nemmeno a definirne il peso specifico a livello sociale. Associazioni, nomi e numeri per fare sentire la voce, e non solo, di un’intera comunità che, lungo la nostra penisola, rappresenta più del 7% della popolazione straniera residente in Italia. Secondo i dati diffusi dalla fondazione Moressa (link) 354.186 immigrati latino americani. Il 62,7% sono donne; 66 mila i minori a scuola. La nazionalità più rappresentata è quella peruviana (98.603), seguita da quella ecuadoregna e da quella brasiliana .

Tra le tante iniziative messe in piedi dalle varie associazioni presenti nel nostro territorio, risulta da segnalare l’Associazione per la Promozione della Cultura Latinoamericana in Italia (APCLAI ) che dal 1985 si occupa di valorizzare gli aspetti della cultura dell’America meridionale attraverso forme espressive artistico-letterarie.

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In particolare, segnaliamo il festival del cinema Latino Americano di Trieste (link) – dove la stessa associazione è ormai radicata – che da anni ospita eccezionali opere prime, accompagnati dalla presenza costante di artisti e intellettuali di levatura internazionale.

Da Marcela Serrano a Luis Sepulveda, a Santiago Pol e Marco Müller (Direttore del Festival di Venezia), molte personalità, negli anni, hanno dato lustro a questo festival che si svolge ogni anno nel mese di ottobre.

Non meno interessante, l’attività svolta dall’IILA (Istituto Italo-Latinoamericano) che negli anni ha saputo ritagliarsi uno spazio importante per le attività svolte sia in ambito culturale che dal punto di vista istituzionale, grazie alla collaborazione con istituzioni di profilo italiano ed europeo.

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Da otto anni, la stessa associazione, organizza il festival “América Latina Tierra de Libros” che quesst’anno si è svolta nell’ambito della XIV edizione di “Più libri più liberi” – Fiera nazionale della piccola e media editoria. Un’ulteriore occasione per ribadire come la cultura Latinoamericana tiene continuamente accesi i riflettori sulla propria letteratura, nel solco della tradizione che l’ha segnata nei secoli e che ha consegnato i grandi narratori e poeti che ben conosciamo, da Garcia Marquez a Pablo Neruda, per citare i più conosciuti.

Una cultura -quella Latinoamericana- capace di ritagliarsi uno spazio ben definito nell’universo culturale e che oggi trae nuova linfa anche dal prezioso lavoro di queste comunità e associazioni.

Viaggi Vintage: il Perù degli anni ’80

Sono passati diversi anni da quando Antonella è stata in America Latina, all’epoca era una giovane sposa che amava la montagna e che col marito aveva deciso di scoprire le vette delle Ande peruviane; oggi è una signora in carne che ha ancora le montagne vicine, ma ha smesso di scalarle. Ogni qualvolta sente parlare di Perù, il suo sguardo si fa attento e tiene ben in vista in salotto il quadro di lana che ha portato dal suo viaggio; la realtà peruviana ha fatto breccia nel suo cuore ed è felice di condividere le sue esperienze, che più che di montagne, parlano di persone.

Antonella negli anni ’80 sull’altopiano peruviano.

Antonella Ferrari è partita per il Perù a metà anni 80 come membro di una spedizione CAI; all’epoca il solo aeroporto dello stato era situato a Lima, che come altre capitali dell’America Latina, dall’Ottocento aveva accolto molti migranti italiani.
«Quando noi siamo arrivati, gli italiani erano molti e vivevano da benestanti; avevano case basse e bianche, dagli ingressi rialzati e con giardini rigogliosi. Anche noi dormivano in un bellissimo albergo che nella hall ospitava fiori e colibrì e una delle prime sere fummo invitati in un ristorante di lusso su palafitte.»
Qui la prima immagine di realtà locale: «Lungo il pontile d’ingresso c’era un indigeno che suonava un carillon a manovella, mentre una scimmia ballava. Il nostro ospite commentò: “Povera scimmietta!” Io gli risposi: ”Povero lui!” Ed ebbi un blocco allo stomaco per il resto della cena.»
Tra gli italiani che incontrarono, Padre Taddeo accolse a braccia aperte le medicine destinate alla baraccopoli di Gnagna di cui era direttore, un addensamento di casupole in terra e sterco raccolte attorno a chiesa e scuola, e regalò loro un ricordo unico: «Accompagnammo il Padre ad un funerale; entrammo in una stanza di terra che ospitava una bara di ferro e dopo che fummo presentati, i famigliari ci strinsero la mano: erano onorati che degli stranieri fossero giunti da lontano per salutare il loro caro defunto.»

«A Lima passammo pochi altri giorni e li vivemmo da turisti; la città era piacevole, con il mercato stabile in cui gli indigeni vendevano i loro prodotti dentro casupole stipate d’ogni tipo di merce: dai mestoli ai vestiti in lana di alpaca, dai tappeti ai gioielli in bronzo imitanti gli splendidi monili del vicino Museo dell’Oro. Avrei voluto portare tutti quei colori a casa con me! Ricordo che mi colpì un piccolo presepio, chiuso in un guscio di noce.»
Il resto del mese trascorso in viaggio fu speso scalando le montagne; il gruppo di Antonella si allenò sulla Cordigliera Nera, raggiunta sfidando i precipizi con un piccolo pulmino stipato d’umanità e animali, e sfidò i 6768 metri del Huascarán; attraversarono Machu Picchu, ne sorvolarono i dintorni; raggiunsero Cuzco.
Qui l’episodio che più s’impresse nei ricordi di Antonella:
«Un padre semivestito, magro fino a mostrar le costole, portava per mano la sua bambina, coperta solo con una maglia larga, scalza. Attraversavano il mercato e uno dei miei compagni si avvicinò a me chiedendomi di portar loro il denaro che mi porgeva; io ero piccolina e magrolina, con discrezione mi avvicinai all’uomo. Questi quando gli porsi il denaro s’inginocchiò davanti a me e ringraziò Dio. »

Antonella oggi, accanto ad alcuni souvenir di viaggio, tra cui il quadro di lana portato dal Perù.

Buscando a Gastón, riscatto sociale e cucina politica

Maggiore attenzione ai prodotti alimentari e alla loro filiera produttiva, tutela dell’ambiente e delle specie che lo abitano, riscoperta di processi slow: questi i temi che animano la discussione mondiale attorno al cibo. A questa si è accompagnata, nel corso dell’ultima decade, una massiva produzione di cinema documentaristico specializzato nel racconto legato all’ambiente culinario. Proprio tra qualche settimana la sezione Kulinarisches Kino della Berlinale, curata da Thomas Struck e realizzata in partnership con l’International Slow Food Movement, compie il suo 10° anniversario, con il motto “Make Food Not War”.

Proprio dalla selezione Berlinale 2015 arriva Buscando a Gastón dell’indipendente Patricia Peréz, autoprodotto con la sua Chiwake Films. Dopo 14 anni di esperienza in produzione e televisione tra Perù e Stati Uniti, la Pérez decide di rivolgersi solo al food film. Il lavoro Mistura. The Power of Food (https://vimeo.com/21245206) parte dall’annuale “feria gastronomica más importante de Latinoamérica”, Mistura (http://mistura.pe/), fondata nel 2007 e organizzata dall’Apega (Sociedad Peruana de Gastronomía), per porre l’accento sullo stato di salute del Perù, paese che si è alzato in piedi dal Duemila imbastendo una rivoluzione che passa dal «nuevo escudo national», la cucina, guidata da un leader, il cocinero Gastón Acurio.

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Già fondatore dell’Apega (e di Mistura), classe 1967, Gastón nasce all’interno della borghesia limeña, figlio dell’ex-senatore Gastón Acurio Velarde, ministro del governo Terry, che lo spinge a studiare legge in Europa. A Parigi, dove viene meno il controllo, il giovane Gastón però abbandona giurisprudenza per dedicarsi alla cucina: la tradizione francese – negli anni ’90 ancora la più lodata e raffinata cucina del mondo – e l’incontro con la futura moglie Astrid Gutsche alimentano la passione e la ricerca gastronomica. Ma è il Perù, il paese natio, dove Acurio desidera di tornare a lavorare: qui si trasferiscono nel 1993 e un anno dopo apre Astrid&Gaston – Haute cucine, a Miraflores. Si parte dalla cucina francese, integrando le contaminazioni della tradizione peruviana dalle conquiste spagnole in avanti (500 años de fusión titola uno dei libri di Acurio) e la ricerca di sapori e profumi autoctoni.

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Vent’anni dopo, nel 2013, Gastón Acurio è un uomo che ha votato se stesso alla realizzazione di un progetto d’impianto sociale, alzando il coperchio della fumante ricchezza culinaria del Perù (e del latinoamerica), creando occupazione, istruzione e urbanizzazione delle periferie: l’Istituto de Cocina Pachacútec per le nuove generazioni; appoggio a progetti per l’infanzia dedicati alla cultura del cibo salutare e naturale; esportazione e utilizzo dei prodotti tipici. Largamente divulgativo e promozionale, Buscando a Gastón manca di un vero intento cinematografico, ma restituisce il ritratto di un personaggio carismatico e consapevole della ricchezza del suo ruolo e del suo Paese. Acclamato dalle folle, Acurio parla allo spettatore attraverso drammatici primi piani in bianco e nero (gli stessi riservati alle interviste illustri a Rene Redzepi, Massimo Bottura, Rodolfo Tafur). Il resto è a colori: un giro nei suoi ristoranti, da Lima a San Francisco all’Europa; un viaggio tra le tipiche comunità lavorative peruviane; riconoscimenti internazionali e scene di vita quotidiana. «Il futuro è l’identità locale ma rivista in versione globale», sentenzia il saggio Acurio.
Al di là del film, nel 2016 i rumors lo vedono – non troppo a torto – ad un passo dalla candidatura politica. Se così fosse, ci sarebbe da chiedersi se il vero riscatto sociale (e politico) del Perù passi davvero dalla sua cucina o se rischi di essere ancorato all’immagine carismatica di Gastón.

 Territorio y Acción Colectiva – when people shape territories

It is extremely hard to define which path to development the societies should follow. It is even harder to establish which kind of development can be considered as sustainable. But I strongly believe that when people become protagonists and crucial actors of their own territories, this should be perceived as boosting development processes.
This is the reality that I found in Talca, Maule Region, Chile. Here, I spent few months to take the final internship of my master degree in Local Development at the University of Padua. I arrived in Chile with the will, the hope and the desire to put in practice my academic background and I had the opportunity to work for Surmaule, an NGO working for 10 years in the city of Talca. The peculiarities of this association are the deep commitment for the public issues and the strong bond with the different social actors in order to encourage and promote the territorial transformations and processes of change. Through the training, education, collective work, the empowerment, the articulation of the actors and the analysis of social processes, Surmaule boosts the democratic and participative construction of the society. In 2015, the NGO developed 12 different projects with the communities of the city and the region, enhancing their capabilities to create networks, manage and impact the public agenda.

Las Américas, Talca
Las Américas, Talca

Among the several projects, I chose to work as a trainee in Territorio y Acción Colectiva– TAC” (Territory and Collective Action).  This project was born two years ago and aims to enhance the capabilities of local actors, by turning them into the motors of the development of their own territory, by means of prioritisation of actions and planning strategies. The project has been implemented in three neighbourhoods of Talca (Las Américas, Territorio 5 and Unidad Vecinal 46), in the northern peripheral part of the city. The projects have been carried out in the different neighbourhoods in different moments, but the methodology used has been the same for all the territories.

The process consists in 5 steps: first, meeting the inhabitants and trying to understand with them which are the most relevant problems of the area; second to organize an educational process during which people bolster their knowledge about citizenship and democracy; third to map their territory and identify where and how the several problems appear; fourth to produce an assessment of the social study of the territory in which people can describe their territory, its needs and potentialities and define their strategies of action. Finally, the inhabitants and the most important actors of the neighbourhood establish a territorial table, whose aim is to start debates and dialogues with public authorities in order to take actions and initiatives to improve the territories.  Thus, problems such as housing, transport, connectivity, environment, security, communitarian equipment, public spaces, communication and services are proposed to be solved by people with bottom-up strategies and perspectives.

The formative phase in the territory Unidad Vecinal 46
The formative phase in the territory Unidad Vecinal 46

In that way, people get to know, understand and strengthen their own territory. The latter stops to be seen as a given, fragmented and dead space and, thus, it becomes a social construction and product in which inhabitants become active actors of their area, by defining their needs and identifying their potentialities. Territories become territorialised, that is to say that people foster their capacities to stimulate processes of transformation. Moreover, in the perspective of collective action, people have, on one hand, the opportunity to build up processes of common knowledge, identity and values and, on the other, have the possibility to influence the relations of power and the decision-making processes  that often define and shape territories with a top-down perspective.

Urbanization in Talca
Urbanization in Talca

 In Chile, cities are often the product of the neo-liberal policies implemented during the Pinochet’s dictatorship that dominated the state for 17 years. This kind of city produces itself spatial fragmentation: the division of the space perfectly responds to the model centre/periphery and creates smaller territories. This dichotomy splits the city in smaller spaces. Each one of these “smaller territories” is more and more characterised by social and economic homogeneity and provoke inequalities among the different parts of the same cities. Not all the citizens have the same opportunities and access to the city: the peripheral areas still remain in a situation of segregation and social exclusion. Through the possibility to question and re-think their own space, the citizens are granted the chance to redefine and claim their right to the city.

Territorio 5 public report of its activities
Territorio 5 public report of its activities

The importance of experiences like TAC is to offer a concrete and alternative model to the individualised society. People start to build bond ties with their space, creating a background of trust and communication. Territory is being collectivised through the valorisation of its specificities and the empowerment of its human capital. The challenge that should be maintained and always called out is to incite and encourage the collective work of the civil society. The latter might always preserve its proactive role and be able to define its own ideal of territory and neighbourhood, by stimulating inclusive, democratic and participative processes

Contacts and information: 

http://surmaule.cl/ 
http://accionyterritorio.cl/

Il futuro rinnovabile dell’Uruguay

Quella che sto per raccontarvi è la storia di un piccolo Paese affacciato sull’Atlantico un Paese di 3,4 milioni di abitanti, un Paese che ha deciso di intraprendere una nuova strada. Il Paese in questione è l’Uruguay e la decisione che ha preso riguarda il rinnovamento del proprio sistema energetico. In meno di dieci anni, infatti, le emissioni di carbonio sono state drasticamente ridotte tanto che ora le energie rinnovabili soddisfano il 94,5% del fabbisogno elettrico del Paese. Tutto ciò senza particolari sussidi governativi o aumenti dei costi energetici per i cittadini. Anzi, al contrario i prezzi si sono  abbassati ed inoltre i black-out si verificano  meno frequentemente grazie ai diversi sistemi utilizzati per produrre energia pulita, quando invece in passato poteva succedere che le centrali alimentate solo con combustibile fossile non reggessero la domanda.

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L’energia rinnovabile proviene in buona parte dagli impianti eolici ma anche da quelli idroelettrici e dalle biomasse. I miglioramenti introdotti in questi settori, ed in particolare in quello idroelettrico, dove le dighe delle centrali trattengono più a lungo l’acqua dopo le stagioni piovose riducendo così i periodi di siccità senza causare alcun danno alla produzione energetica nazionale, si uniscono al clima che favorisce l’uso delle rinnovabili consentendo una grande produzione di energia. Più energia vuol dire poche importazioni dall’estero e, anzi, paradossalmente, nel caso in cui si avesse un surplus della produzione si sarebbe nella condizione di poterla vendere. Qualche anno fa, prima della “rivoluzione verde” tutto ciò sarebbe stato impensabile. Il petrolio rappresentava una buona fetta delle importazioni dell’Uruguay e, come se non bastasse, erano in cantiere progetti per comprare gas dall’Argentina. Ora, invece, la spesa che più incide sulle importazioni è quella per le turbine eoliche, una vera e propria inversione di rotta!

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Ma questo grande successo è stato possibile anche grazie alle politiche del Paese in materia energetica a cui si aggiungono una democrazia forte ed un’economia sana. Di conseguenza gli investitori stranieri trovano terreno fertile in Uruguay dove la concorrenza ha fatto abbassare notevolmente i prezzi degli appalti. Le tariffe agevolate e le spese di costruzione e manutenzione più basse e stabili, inoltre, garantiscono un profitto certo. L’energia rinnovabile è diventata un business in Uruguay: sette miliardi di dollari, pari al 15% del PIL nazionale annuo, sono stati investiti in questo settore, cinque volte in più rispetto la media dell’America latina.

Una pala eolica a Tarariras, a 180 chilometri ovest di Montevideo, Uruguay (MIGUEL ROJO/AFP/Getty Images)

È vero, il modello uruguayano non può essere adottato da ogni singola Nazione perché le differenze sono troppe ed i contesti sociali, ambientali e politici vari.  Tuttavia prendere esempio non è vietato però, necessitano scelte decise e concrete, basta solo iniziare.

Una cantata anarchica per De André

Erano tante le persone che lunedì sera, nonostante il freddo e la minaccia di pioggia, si sono incontrate in piazza del Duomo, a Milano, per omaggiare, con le sue stesse note e parole, una delle voci più amate del cantautorato italiano, quella di Fabrizio de André, nel giorno del diciassettesimo anniversario della sua morte.

Tra chitarre, percussioni, abbracci e bottiglie di vino si è svolta la Cantata Anarchica, un raduno che, nato spontaneamente, da cinque anni a questa parte è diventato tradizione consolidata e richiama sempre più gente, di ogni età e provenienza: c’erano giovani e meno giovani, italiani e stranieri; c’era chi sapeva suonare, chi sapeva cantare, e anche i meno intonati, al suono delle parole di Faber, si sono uniti al canto, che è durato dalla sera fino a mattina.

La partecipazione di una tale quantità e varietà di persone è la dimostrazione di come la poesia di De André, per un poco, senza pretese, sia riuscita ad entrare nel cuore di molti, in modi e momenti diversi, e rimanga viva anche oggi.

 

Quando il nemico diventa la strada

“Via del Campo c’è una bambina 
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina”.

L’8 Febbraio sarà la giornata contro la tratta e lo sfruttamento sessuale. Giornata importante che ci ricorda come questo problema sia ancora presente e molto diffuso, tuttavia, diverse associazioni  (ma non solo) sono nate con l’ unico scopo di combatterlo. Una di queste è nata a Bergamo nel 2001 e si chiama la melarancia onlus la cui coordinatrice principale è la dottoressa Marzia, «La mela in quanto frutto di tutti i giorni indica la quotidianità, mentre l’arancia con i suoi spicchi indica tutti i servizi, come l’ospedale, l’A.S.L., il servizio per gli immigrati ecc…, a cui noi ci appoggiamo per dare vita ad un progetto integrato che vive nel quotidiano». La melarancia onlus nasce in un contesto ben preciso: nel 1998  è entrata in vigore una legge, il decreto 286/98, che  riconosce che in Italia esistono vittime di sfruttamento sessuale, «Da quell’ anno iniziarono a nascere associazioni per combattere questo problema, Bergamo, però, ne era sprovvista ed è qui, quindi, che arriviamo noi», spiega la dottoressa.

L’associazione opera grazie ad un’equipe formata da educatori e volontari competenti e copre l’intera provincia di Bergamo. Con quattro uscite alla settimana, due di giorno e due di notte, la squadra si reca nelle zone dove la prostituzione è più frequente ed entra in contatto con le ragazze. Nel 2015 i casi registrati sono 498, donne che sono in prevalenza di nazionalità rumena ed albanese ma anche, seppur in maniera minore, polacche, russe, e sudafricane. Oltre a combattere lo sfruttamento delle donne sulla strada, la onlus è attiva, da circa sei anni, anche sul fronte della prostituzione invisibile, quella che avviene tramite annunci e all’interno di spazi chiusi. «Teniamo monitorati i siti di annunci delle donne e le contattiamo per telefono proponendo un servizio di prevenzione ed assistenza, un po’come facciamo con le donne sulla strada», mi racconta la coordinatrice.

 

 

La promozione delle donne in condizioni di disagio, vittime dello sfruttamento sessuale e il loro affrancamento dalla schiavitù, o ancora, l’integrazione sociale di persone emarginate attraverso servizi atti a soddisfare i loro bisogni, sono solo alcuni degli obbiettivi che l’associazione si prefigge. Uno degli scopi più importanti dell’attività riguarda l’aspetto sanitario: spesso, la condizione di emarginazione in cui vivono le ragazze fa sì che non siano consapevoli di quali siano i diritti loro garantiti in materia di sanità, quindi, da questo punto di vista la figura dell’ operatore è importantissima in questo campo poiché funge da tramite e da aiuto tra la ragazza ed il servizio.

 

L’ esempio che questi volontari danno è veramente grande: la loro lotta è una delle più ardue anche perché il nemico non è semplice da battere. Tuttavia un giorno, come nelle più belle favole, si giungerà ad un lieto fine ed è lì che allora la frase vissero tutti felici e contenti diverrà realtà.

 

Genova in cerca di graziose e memoria

Stazione Principe. Gennaio.

Due giorni di pellegrinaggio per la città con fare vagabondo di chi è sceso per vita alla fermata casuale, sapendo poco nulla del paesaggio ospite. Solo due intenti prefissati:

-girare le zone d’ombra, ispezionarne ogni vicolo, per una maturata idolatria verso la sensibilità di un Fabrizio passatoci;

-ripercorrere ritualmente le strade che fecero da scenario alle giornate del Luglio 2001; testarne l’empatica ferita.

Imbocco la prima via, random, cinque minuti di “tonnara” di passanti e trovo una scalinata;

il primo bacio lo ricevo qui.

Da un pulpito, dalla tribuna elevata frequento il tramonto esaltato dalla caoticità con cui i palazzi hanno deciso di fondere in un tutt’uno la Casa di Genova, la città che scende nell’arancione indistinto di mare e vespro.

Attraverso quartieri. Tante chiese, belle, con apice nella cattedrale semi-gotica di S. Lorenzo.

Ma non è il principale interesse del momento: cerco forni.

Predo specialità in più d’un panificio con curiosità culinaria e sentenzio:

“I Genovesi sono esosi & la focaccia cui siam abituati è un succedaneo scarsino.”

È masticando e con le papille gustative sorridenti che penetro i vicoli in notturna: dal patrimonio mondiale dell’umanità dei palazzi dei Rolli al genuino e brulicante degrado dei carruggi.

Fortezze dei “fuoricasta”, le venature del dedalo ospitano laboratori artigianali, piccoli magazzini, negozietti regolari e non, carne e lussuria e, là dove le vie s’allargano, market e pub.

Ricerco il mio ostello nella zona alta, su per le scalinate (le famose creuze); dagli usci spande sgraziata musica latina; i corpi delle donne ritmati da una cinica, innocente cecità.

Non c’è alcuna graziosa in Via del Campo.

La mattina discendo la città obliqua: sulle banchine e nell’odore forte di pescato, più che in ogni altro scorcio, sta l’anima d’una città portuale. Potresti camminare tutto il giorno lungo gli approdi e Genova e il suo mare continuerebbero a raccontarti una storia intima.

Lasciando le acque e la tavolozza dei condomini svolto a palazzo S. Giorgio (calderone architettonico dove 800 anni di storia convivono) per addentrarmi nel centro nevralgico.

Piazza de Ferrari si apre nel suo eclettismo e neoclassicismo dove gli edifici suggeriscono, con le loro sinuosità, l’incanalarsi nelle fughe di Via Dante e Via XX Settembre.

Da qui divento Genovese. Vado come fossi nella mia città: vedo le piccolezze, le aiuole, i passanti, il “normale”.

Corso Torino: le scritte sui muri aumentano, rievocano nubi bianche, detriti.

Via Montevideo: la fantasia galoppa. Indietro di una dozzina d’anni. Persone piegate, grondanti.

Una giovane mi passa appresso. Me ne innamoro.

Piazza Alimonda: ritorno all’attuale (sono infastidito da idiozie opposte).

È come il passeggiare in un cimitero per un ateo: qui lo spirito interroga la sua natura.

Faccio su un tabacco e penso che a Fabrizio la sua città avrebbe dato ancora tanti spunti di scrittura.

Ho il treno tra due ore e un’ultima tappa.

È architettura fascista, non ci avevo fatto caso prima. Un bel bagno di sole la coccola tutta ma nemmeno una targa a scopo informativo, nessun monito da far scintillare.

Due studenti sembrano divertiti dalla presenza di un “turista” davanti alla loro scuola, sghignazzano verso il mio look fricchettone. Non ricordano dove stanno.

Ma ha senso che lo ricordino?

E poi come potrebbero?

Tutto è stato lavato via.

 

 

In copertina: Facciata del Duomo di San Lorenzo [ph. Yoggysot CCA-SA 3.0]

Storia di una minoranza musicale: il rebetiko

Come scrivere dell’immensità musicale di De André? Con un sentimento di profondo rispetto mi sono lasciata trasportare dagli ascolti e da piccole sensazioni. Un sapore forte di nostalgia, di qualcosa che ricorda la lontananza in sé come stato mentale. Le mie orecchie, abituate e perennemente attratte da sonorità che sanno di est, si sono soffermate su Megù Megun (1990, Le Nuvole) e la più celeberrima Crêuza de (1984, Crêuza de ).

Fulcro di questa attenzione è stato l’inconfondibile suono del bouzouki, un cordofono che assomiglia (detto brutalmente) ad un mandolino con un manico più lungo. È uno strumento dalle radici antichissime che deriva da diversi strumenti a corde già presenti nell’antica Grecia con il nome di pandouris, trichordon (perché, al tempo, aveva tre corde). In generale si può dire che fratelli e cugini di questo strumento si trovano in tutta l’area mediterranea, con qualche incursione in quella mesopotamica, generalmente catalogabili come liuti popolari: cassa armonica piriforme affusolata all’estremità, manico lungo con molti tasti, da tre a quattro corde doppie. La tecnica tradizionale per suonare il bouzouki si basa sull’aumento in velocità dei virtuosismi dell’esecutore: uno degli esempi più eclatanti e che tutti avrete in mente è quello del Sirtaki.

 

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Al di là della musica per danza, il genere musicale che vede la centralità assoluta di questo strumento è il rebetiko, una musica di pathos e disagio, caratterizzante personaggi ai margini della società. Un genere musicale al pari del  jazz, del blues, del fado e del tango (ovviamente contestualizzati nel periodo che vede la nascita di ognuna di queste perle musicali) e che appartengono a categorie sociali considerate “ultime”. Immaginatevi di essere in una grande città commerciale greca a inizio Novecento: Smirne, Salonicco, il porto di Atene; immaginate un miscuglio razziale composto da greci, turchi, europei qua e là, colonie di ebrei, di egiziani. Nei caffè greci tekédhes, tra i fumi dell’hashish i rebetes cantavano le loro storie di amori impossibili perché illeciti, aneddoti sulle galere, carcerati e polizia, avventure di droga che si facevano beffa delle forze dell’ordine utilizzando termini gergali per sfuggire alla censura.

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Parlo di disertori, di criminali che attraverso la musica trovavano la valvola di sfogo accettata (più o meno) dalla società e dai suoi ascoltatori. Un elemento che accomuna questi generi musicali che vogliono distaccarsi da tutto ciò che rappresenta le regole, l’ordine imposto, la musica “colta” rappresentante gli alti strati della società, è sicuramente l’improvvisazione: l’aspetto per cui oggi siamo totalmente rapiti e appassionati da queste musiche. Come in tutti i generi musicali si vede anche la tipizzazione del musicista nella società: traspariva un atteggiamento di forte misoginia, l’omaccione che fa il duro con baffi e capelli lunghi, brillantina come se piovesse, vestiti trasandati e larghi per nascondere i coltelli.

Dagli anni ’50 questo genere abbandona i malfamati caffè dei porti greci per aprirsi a stili e pensieri più moderni. Questo grazie a musicisti che ripresero lo stile e il bouzouki, come nel caso di De André, che nelle sue canzoni è riuscito a dar voce e umanità agli emarginati oltre che a porre le basi per quel successivo filone di musica etno-folk-rock.

Native American invitation to cultural resistance

Civilization and savagery. Progress and primitivism. Culture and illiteracy. Morality and violence. These are well recognizable oxymorons, the ‘good vs bad’ type of oxymorons. But more than bare rhetorical devices, these words are the labels traditional narrations have always used to describe the relation between the European colonizers and the native peoples of America, popularly referred to as the ‘Cowboys and Indians’ fight.

As bearers of knowledge and civilization, the European people that landed in America felt the right to use the most cruel and deplorable means to impose their power over the natives, killing thousands of people and repressing a culture they wouldn’t even consider. Not to mention the Reservations and the ethnical discrimination that followed and continued for years, even when decades had passed since the first brutal Indian wars.

Whereas today history has been reconsidered and the treatment reserved to Native American people is strongly condemned, Native American culture is still widely underrated. Especially in Europe, the knowledge of indigenous culture is mostly reduced to some ethnical-based stereotypes, which may have lost their negative connotation but still maintain that original feeling of superiority. That’s to say, our curiosity is animated by those Indian habits and traditions that we consider exotic and fascinating, as our mind is populated by stories of magical rituals and dances that we fundamentally consider primitive, although interesting.

Robert Orduno, "Quanah Parker"
Robert Orduno, “Quanah Parker”

What we unfortunately ignore is that despite of the perpetuated violence they’ve suffered, Native American people have been able to keep a culture alive. The wisest answer to violence given by these helpless people has been a tenacious cultural resistance, of which the creation of a literature is a fundamental aspect. Here’s the biggest challenge of Native American people: preserving a cultural that was mostly spoken creating a written tradition. Most of us would never expect how dynamic contemporary Native American culture is, and how complex and worthy Native American authors’ works are.

Despite of the many differences occurring between the several representatives of American indigenous culture, what characterizes most of them is the seeking of a personal and effective way to maintain tradition alive using writing. The connection with tradition and history is fundamental, although not to be intended according to the simplistic European-centered perspective that tends to see Native Indian tradition as something static that needs to be kept safe in a museum showcase and wiped every now and then. The tradition that is at the core of contemporary Native American cultural works is instead something dynamic, constantly moving, often controversial and not easy to deal with. And the fact that English language is the main means through which these attempts are done only makes things more interesting, as Native authors manage to preserve their traditional culture using the language that threatened their tradition itself.

Laguna Indian writer Leslie Marmon Silko (born 1948)
Laguna Pueblo author Leslie Marmon Silko (born 1948)

Here’s the beginning of Leslie Marmon Silko’s Language and Literature from a Pueblo Indian Perspective, an essay in which the contemporary Laguna Pueblo writer well clarifies the complexity that leans underneath contemporary Native American literature:

“Where I COME from, the words most highly valued are those spoken from the heart, unpremeditated and unrehearsed. Among the Pueblo people, a written speech or statement is highly suspect because the true feelings of the speaker remain hidden as she reads words that are detatched from the occasion and the audience […] My task is a formidable one: I ask you to set aside a number of basic approaches that you have been using and probably will continue to use, and, instead, to approach language from the Pueblo perspective, one that embraces the whole of creation and the whole of history and time.*”

Contemporary Native American Literature is an example of positive resistance, an example of constructive power and an invitation to go beyond the surface of stereotypes, embracing the challenge of finding new ways to tell our own story.

Special thanks to Dr. Ewelina Bańka, the person who made me overcome stereotypes and discover the fascinating world of contemporary Native American Literature.

* Silko, Leslie Marmon. “Language and Literature from a Pueblo Indian Perspective. 1996. Rpt. in Nothing But the Truth: An Anthology of Native American Literature. Edited by John L. Purdy and James Ruppert. Upper Saddle River, NJ; Prentice Hall, 2001. 159-65.
Cover photo: Staff Sgt. Brittinie Alvarez, 811th Security Forces Squadron team leader, gives remarks during the Native American Heritage Month celebration at the 459th Air Refueling Wing auditorium Nov. 30, 2015 (photo by Staff Sgt. Kat Justen).

A forza di essere vento

 

 

Čvava sero po tutea
i kerava
jek sano ot
i taha jek jak kon kašta
vašu ti baro nebo
avi ker.
kon ovla so mutavla
kon ovla
ovla kon aščovi
me ğava palan ladi
me ğava
palan bura ot croiuti.
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò
un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
perché l’aria azzurra
diventi casa.
chi sarà a raccontare
chi sarà
sarà chi rimane
io seguirò questo migrare
seguirò
questa corrente di ali.

 

Questi i versi finali in romani, lingua madre del popolo Rom, della canzone Khorakhané scritta da Fabrizio De André e parte dell’album Anime salve. Versi di una poesia del Rom Giorgio Bezzecchi e cantati nel disco da Dori Ghezzi. Versi che concludono una ballata lenta che ci parla dello stile di vita e dell’assoluta libertà del popolo Rom e in particolare dei Khorakhané.
Nel suo tredicesimo album il cantante genovese insieme al concittadino Ivano Fossati intraprende un viaggio nell’anima del mondo degli umili, degli spiriti solitari, dei reietti, degli emarginati. Il filo conduttore è la solitudine che permette di essere liberi e non condizionati dalla società. Solitudine che trae origine, spiega De André, da comportamenti diversi dalla maggioranza degli esseri umani e quindi considerata deviante. Comportamenti dovuti a culture millenarie che certi popoli si portano dietro e non hanno intenzione di abbandonare. Questo è il caso dei Khorakhané, Rom musulmani, originari del Kosovo e migrati in Italia prevalentemente nella seconda metà del 1991, in concomitanza con l’aggravarsi della situazione nella ex-Jugoslavia.

 

Zingari, Gitani, Rom come li si sente chiamare oggi, sono composti al loro interno da diverse comunità che parlano, o parlavano in passato, dialetti variamente intercomprensibili che derivano dal sanscrito. Originari dall’India del Nord, girano il mondo da più di duemila anni e sono distribuiti principalmente nei Balcani e in Europa centro-orientale. Un dato costante lo si ritrova nelle persecuzioni che hanno sempre subito, dal loro apparire nel medioevo europeo fino alla programmazione del loro genocidio durante il nazismo. Insieme agli ebrei almeno mezzo milione di Zingari persero la vita nei campi di concentramento. Nonostante ciò, sembrava non fossero poi così importanti e nessuno fu chiamato a testimoniare nei processi ai gerarchi nazisti.

“i figli cadevano dal calendario
Jugoslavia Polonia Ungheria
i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via”

Il viaggio è parte della loro natura, è necessità e diventa metafora di libertà, di vicinanza alla natura e allo spirito naturale. Il vento è ciò che più gli assomiglia e raffigura meglio la voglia di libertà del campo rom. De André non nasconde che questa loro propensione li porti, a volte, a dover affrontare condizioni dure e di miseria in cui sono costretti a vivere. Tuttavia essi conservano qualità conosciute solo ai viaggiatori che li rendono saggi, sensibili e vicini alla natura. Il viaggio stesso rende ricca e dolce la loro esistenza, canta magistralmente Fabrizio.

“quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio, viaggiare”

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Alcuni Rom rubano, è vero. Alcuni italiani rubano, è vero. Alcune banche rubano, è vero. Che siano dei ladri è uno degli stereotipi che più si sentono sui Rom. Tradizionalmente erano, e sono ancora in parte artigiani, lavoratori di metalli, addestratori di cavalli, giostrai, indovini e cartomanti. Lavori, in gran parte, ora caduti in disuso a causa delle grandi fabbriche e del concorrenza sfrenata del capitalismo in cui viviamo. Si difendono, quindi, come possono e alcuni di loro rubano. I comportamenti illegali di alcuni tuttavia non giustificano il fatto di etichettare un’intera cultura millenaria come tale. E in più, non mi sembra onesto puntare il dito su di loro quando viviamo in un periodo storico in cui la corruzione e i furti sono all’ordine del giorno, soprattutto a livello istituzionale. In questo clima diffuso indignarsi di fronte a chi ruba per sopravvivere lo trovo squallido, ipocrita e populista.

“e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio”

Pure Salvini ha usato De André per farsi pubblicità e darsi arie da intellettuale che palesemente non gli si addicono. Purtroppo le canzoni non le ha capite e nessuno gliele ha spiegate. Lui e la sua rozza retorica razzista continuano ad attaccare e strumentalizzare la questione rom senza aver capito nulla di questa cultura secolare. De André lo cantava divinamente e attraverso l’intensa lirica rilascia tutta la meraviglia di essere vento in una società sempre più omologata. Matteo Salvini avrebbe dovuto studiare di più o semplicemente provare a guardare al di là del suo ego o del suo opportunismo politico che passa sopra tutto, proprio come le ruspe che tanto osanna.

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Affetti o afflitti, si interroga De André, da “dromomania” viaggiano e si spostano di continuo, girando il mondo e non stabilendosi mai in un posto. Da duemila anni sempre in cammino senza armi e, malgrado le dicerie, non hanno mai fatto del male a nessuno o iniziato guerre. “Se si dovesse dare un Nobel per la pace ad un popolo, quello Rom sarebbe il più indicato” spiega Fabrizio presentando questo brano a Roma nel ’98 e aveva tremendamente ragione.

 

Giro di boa, edizione 2016

Anno nuovo, linea editoriale rinnovata!

Il 2016 è per Pequod Rivista un anno di grandi cambiamenti. Dopo quasi tre anni di intensa attività giornalistica, il magazine è cresciuto assieme ai redattori e al personale che l’ha costituito e rafforzato. Ogni progetto viene nel tempo edificato dalle passioni e peculiarità delle persone che lo compongono, nondimeno dai complimenti degli appassionati e dalle critiche di ognuno, certe volte costruttive e in altri casi talmente fuori luogo da risultare geniali. In qualsiasi caso, si cresce, si esce e si fanno le prime bevute con la consapevolezza che la nausea di oggi rafforzerà lo stomaco di domani: Pequod Rivista è entrata nella sua fase più matura, con una nuova linea editoriale che si prefigge il duplice obiettivo di accettare nuove sfide e rispettare le radici fondanti del periodico.

Durante una riunione di inizio dicembre, un’idea iniziò a rimbalzare fra le menti e i cartoni per la pizza dei redattori di Pequod, una nuova proposta editoriale: scegliere per ogni settimana una tematica da sviscerare nei più minuziosi dettagli attraverso le nostre sei sezioni. A ciascuna settimana, una sua tematica, selezionata a seconda di eventi importanti attuali, anniversari, ricorrenze internazionali, e altri avvenimenti che a nostra detta meritano di essere ricordati o sottoposti all’attenzione del lettore. Da ora in poi, ogni lunedì mattina scoprirete l’argomento settimanale seguito dalle motivazioni che ci hanno spinto a sceglierlo e qualche anticipazione sugli articoli che seguiranno.

Ogni giorno la redazione, che avete imparato a conoscere con gli ultimi post, si impegnerà a proporvi un’informazione seria e approfondita, in linea con gli eventi attuali e attenta agli episodi più significativi della nostra contemporaneità. Non mi resta che auguravi buon viaggio dunque, fra i nuovi mari e gli articoli inediti che vi avevamo promesso.

 

Francesca Gabbiadini

Direttrice