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Mese: Febbraio 2016

Case passive: un’architettura ecosostenibile

In tempi in cui l’ecosostenibilità è diventata un’esigenza più che una tendenza, il mondo è alla disperata ricerca di nuove soluzioni rispettose dell’ambiente e in grado di evitare sprechi energetici. Sebbene il progresso sia una delle cause intrinseche degli attuali problemi ambientali, il progresso stesso può e deve escogitare soluzioni environmental-friendly. L’innovazione green deve iniziare dalle nostre case, diventare protagonista del nostro quotidiano. Solo così il cambiamento positivo può avere una speranza concreta di prendere piede e generare una vera e propria rivoluzione nel modo dell’uomo di rapportarsi all’ambiente.

Già da tempo l’architettura è consapevole delle potenzialità di una progettazione ecosostenibile nella lotta comune a favore dell’ambiente. È infatti nel 1988 che nasce il protocollo Passivhaus, dalla collaborazione tra lo svedese Bo Adamson e il tedesco Wolfgang Feist. I due architetti, finanziati in parte dalla Repubblica Federale Tedesca, ebbero la possibilità di realizzare delle Passivhaus, “case passive”, che fino ad allora avevano rappresentato solamente un’idea, un concetto puramente teorico, seppure interessante.

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Ma che cosa è una casa passiva? Una casa passiva è un edificio in grado di coprire la maggior parte del fabbisogno energetico per il riscaldamento o raffrescamento ambientale interno mediante l’utilizzo di dispositivi passivi. In altre parole, un edificio passivo non ricorre ad impianti termici tradizionali, poiché è in grado di mantenere un’adeguata temperatura al suo interno senza impiegare energia, o utilizzandone una quantità minima. Le case passive sono quindi quasi totalmente autosufficienti e capaci addirittura di produrre ed accumulare un surplus energetico convertibile anche in energia elettrica, oltre che termica.

Questa definizione trova una dimostrazione tangibile nel primo esemplare di Passivhaus realizzato nel 1991 da Feist a Darmstadt, in Germania. Le quattro villette a schiera progettate secondo il protocollo Passivhaus sono tuttora attive e consumano soltanto 10 kWh al metro quadrato, una cifra davvero irrisoria. Alla base del progetto di Wolfgang Feist c’è la semplice ma fondamentale intuizione che tutto possa produrre calore in una casa, dal sole alle persone che ci vivono fino agli elettrodomestici. E il successo di questa intuizione è dovuto non solo all’evidente risparmio energetico ed economico, ma anche alla spendibilità del progetto: potenzialmente tutti gli edifici possono diventare passivi.

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Quali sono gli strumenti e le caratteristiche della Passivhaus? Contrariamente a quanto si possa credere, non ci sono particolari vincoli sul materiale in cui debbano essere costruite le case passive: legno strutturale, cemento armato o mattoni possono egualmente essere i materiali di costruzione di una casa ecosostenibile ed autosufficiente dal punto di vista energetico. L’architettura passiva sfrutta le proprietà intrinseche di ciascun materiale, essendo a conoscenza della capacità di ciascuno di accumulare e rilasciare calore. Pannelli solari, pompe di calore, serbatoi d’acqua e strati di materiali diversi a costituire le pareti: questa la chiave del funzionamento delle case passive. Sfruttando dunque le energie rinnovabili questo tipo di architettura promuove l’armonia fra uomo e ambiente, dimostrando che una maggiore conoscenza della natura e delle materie prime può rappresentare un vantaggio per gli esseri umani senza tuttavia implicare per forza uno sfruttamento delle risorse.

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Come si è evoluto il sistema della Passivhaus dal 1991? Dalle villette di Darmstadt è stata fatta molta strada, afferma Feist, che oggi dirige il Passive House Institute and International Passive House Association. Nel 2013 erano 50.000 gli edifici costruiti secondo gli standard della casa passiva. E non sono soltanto unità residenziali: uffici, scuole, palestre, alberghi, supermercati e piscine sono stati costruiti secondo i parametri ecosostenibili e a risparmio energetico. Anche i confini geografici non rappresentano un limite alla Passivhaus, i cui principi fanno sì che il modello possa funzionare in qualsiasi condizione climatica. Così scrive infatti Feist: «dieci candeline o perfino il calore corporeo di quattro persone sarebbero sufficienti per riscaldare una casa passiva di 20 metri quadri in pieno inverno, anche in zone dal clima particolarmente freddo».

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La casa passiva è quindi qualcosa di vero, efficace e fattibile, senza limiti apparenti. Tuttavia attualmente questi edifici sono diffusi principalmente in Germania, Austria, Paesi Bassi e altri paesi del Nord Europa. Anche in Italia esiste un numero piuttosto significativo di esperienze simili. Tuttavia a livello normativo vi è ancora molta strada da percorrere prima che questo brillante modello di architettura ed edilizia rispettosa dell’ambiente diventi davvero lo standard delle costruzioni del presente e del futuro. L’Austria finora sembra essere il modello da cui prendere esempio: dal 2015 la casa passiva è lo standard prescritto per tutti gli edifici, senza considerare che già dal 2007 questo standard era stato reso obbligatorio nella regione austriaca del Vorarlberg. La speranza è che la diffusione della Passivhaus e la sua innegabile efficienza ci convincano ad essere più lungimiranti quando si tratta di energia e soprattutto che l’uomo capisca veramente gli indubbi vantaggi del saper vivere in armonia con l’ambiente.

 

Ex-Telecom: storia di una comunità

articolo e fotografie di Michele Lapini

Il 4 dicembre 2014 circa 300 persone insieme al collettivo Social Log occuparono l’ex sede della Telecom in via Fioravanti 27, a Bologna. Lo stabile, posto esattamente di fronte agli uffici del nuovo Comune, era vuoto da diversi anni e lo scopo dell’occupazione era quello di dare un tetto a famiglie, bambini, singoli e anziani. Da quel giorno, fino al triste epilogo dello sgombero il 20 ottobre, dentro quelle mura e dietro quelle finestre, è nata una comunità meticcia e solidale, che ha saputo aprire le porte delle proprie case a tutta la Bolognina e a tutta la città.

Esperienze di mutualismo e solidarietà, intrecci di culture e religioni, creazione di una coscienza sociale e politica che ha costruito in questo quasi anno, un’esperienza tra le più importanti degli ultimi anni nella città di Bologna.

Dalla ludoteca ai mercati contadini di CampiAperti, dai laboratori per i bambini a quelli per i più grandi. Un intreccio di esperienze e una contaminazione che non si vedeva da tempo in questa città. Un’esperienza di alto valore sociale che è stata stroncata da decine di blindati e centinaia di agenti in antisommosa il 20 ottobre, dopo 16 ore di resistenza sul tetto e in strada.

Per uno stato che non tortura

Sotto la pioggia quell’agente mi raccontava di qualcuno che non somigliava a mio fratello. Continuava a ripetermi che si era lasciato andare. Ed io continuavo a non capire. Ho fatto due tre domande, evidentemente troppe, visto che lui alla fine con aria infastidita mi ha detto: “Comunque controllate le carte, sono a posto”. Le “carte” che ti fanno sentire ancora più sola.
E cosa c’entrano le carte con la morte di mio fratello?
In un istante la disperazione è scomparsa.
In un istante è arrivato il senso di solitudine.
In un istante ho capito che se volevo trovare risposte alle mie domande avrei dovuto rimboccarmi le maniche. Ed essere forte.
Ilaria Cucchi

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Questa settimana in cui parliamo di opposizione al potere nell’anniversario della morte di Boris Nemcov, avversario politico di Putin, il tema della repressione e dei morti di Stato grida vendetta. L’incredulità e la rabbia per la morte di Giulio Regeni ancora bruciano e riportano la pratica della tortura al centro del dibattito. Reato che in Italia non esiste e che ci catapulta sullo stesso livello oscuro di una dittatura poliziesca come l’Egitto di oggi, in cui la tortura di Stato è utilizzata con gli oppositori o sospettati tali, sempre più frequentemente. L’Onu, la corte Europea dei diritti Umani, le famiglie delle vittime, Amnesty International e altre centinaia tra associazioni, ONG e una società civile sempre più cosciente chiedono che l’impunità abbia finalmente fine. Dopo timidi tentativi al ribasso, da mesi il ddl sull’introduzione del reato di tortura è fermo al Senato e si è smesso di parlare dell’argomento, secondo un copione che è sempre lo stesso. Rimandare la questione  a quando sarà più conveniente per i sondaggi o, meglio, non discuterla mai. Renzi, piuttosto che affrontare il tema pubblicamente e in parlamento, ha preferito proporre di pagare per intero il risarcimento alle vittime della Diaz chiedendogli però di ritirare i ricorsi a Strasburgo. La posizione del governo è chiara, meglio dimenticare alla svelta questa brutta storia annullando le sentenze in arrivo dalla Corte Europea lasciando il vuoto giuridico che continua a proteggere chi tortura e ha torturato. Chi di questo, invece, ne parla e non si lascia intimidire dalle difficoltà nell’affrontare pubblicamente e politicamente il tema sono i curatori del libro Per uno Stato che non tortura di Caterina Peroni e Simone Santorso.

«Il libro è un primo tentativo e l’unico finora in Italia di provare a ricomporre una serie di discorsi di ambiti disciplinari e esperienze diverse intorno agli abusi in divisa per costruire un nuovo paradigma di lettura. E’ un tentativo organico di rivedere la questione della tortura e degli abusi istituzionali, al di là degli episodi. Abbiamo tentato di fare ciò perché queste violenze rappresentano una brutale normalità che ha già fatto troppe vittime. E’ un fenomeno radicato all’interno delle istituzioni. Non stiamo parlando “solo” di abusi di polizia, dobbiamo ricordarci che di divise ce ne sono tante» ci ricorda Caterina durante una chiacchierata negli spazi del BiosLab a Padova.
«Quando oggi nominiamo i morti di Stato subito capiamo di cosa stiamo parlando. Questo accade perché qualcuno è riuscito a nominarlo e a farlo emergere come problema strutturale. Non una denuncia episodica, non eccezioni o mele marce ma pratiche intrise d’odio e fascismo. E’ solo grazie ai familiari dei morti ammazzati nelle caserme o durante fermi che oggi riusciamo a ricomporre queste violenze in un discorso strutturale. Grazie a loro si è riuscirti ad agire la denuncia in maniera politica e non solo giudiziale e vittimistica.
Ilaria Cucchi, che per me è un mito, è riuscita a esporsi per anni chiedendo la verità occultata sulla morte del fratello e a fare in modo che altri casi venissero ricondotti allo stesso frame. Lei e Patrizia (madre di Aldrovandi) si sono messe d’accordo e si sono unite per dare visibilità a altri casi simili ai loro creando ricomposizione».

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Il libro è diviso in tre sezioni. La prima parte riguarda il diritto e quindi il dibattito intorno alla legge che non c’è. Dibattito interessante e controverso riguardo di quale legge abbiamo veramente bisogno e come sviluppare in essa il concetto di tortura. Reato che non può essere commesso da chiunque ma è messo in atto da chi ha il potere per diritto. Esso è un reato specifico delle istituzioni argomenta Mosconi, è un reato messo in atto da chi dispone dei corpi per diritto. Esistono altri reati per giudicare violenze, lesioni, omicidi ma è diverso e più grave se un poliziotto o un medico fa violenze su chi è sottoposto alla loro tutela.
Gli autori tentano inoltre di uscire dal concetto di tortura visto “solo” come estorsione di informazioni derivato dal diritto di Guantanamo e della guerra al terrorismo. Il nuovo paradigma securitario produce infatti soggetti di serie B, nel libro chiamati “gli infami”, che hanno meno diritti dei normali cittadini. Soggetti che vengono declassati che hanno meno diritto alla vita perché migranti, tossici, barboni.. E’ in atto una rappresentazione denigratoria di questi soggetti devianti che finiscono per essere considerati corpi sacrificabili.
Altro punto di discussione riguarda il connotato della reiterazione che una violenza dovrebbe avere per essere considerata tortura. Essa dovrebbe essere composta da una serie di atti reiterati per essere definita tale. Si cerca di smontare quindi questa raffigurazione al ribasso del reato nonché tentativo di svuotare il concetto di tortura paragonandolo a un reato comune. Se avviene un waterboarding una volta ha bisogno di essere ripetuto per essere considerato tortura?

La seconda sezione empirica e di ricerca affronta tutte le forme di tortura messe in atto dall’autorità che tiene qualcuno privo della libertà e che quindi dispone dei corpi dei soggetti che tiene in custodia. E’ un discorso ampio che riguarda tutte le figure istituzionali. A partire dai Cie con l’assurda detenzione amministrativa, agli OPG e tutti i discorsi sulla contenzione. La sezione sulla violenza inizio con un saggio di Salvatore Palidda che sviluppa un discorso sulla polizia. Tortura e violenza della polizia entrano nel quadro della postmodernità liberista della guerra permanente e nella guerra portata a casa.
Altro tema che viene snocciolato da Santorso riguarda la violenza del carcere come forma di tortura. Misure e condizioni carcerarie disumane che possono essere considerate tortura e per cui in passato Strasburgo ha già condannato l’Italia a risarcire i detenuti.

La terza parte indaga le forme di resistenza nate dall’attivismo di familiari, persone coinvolte e esperienze militanti. Episodi che hanno prodotto processi di soggettivazione, presa di consapevolezza e prodotto una denuncia aperta e dolorosa. E’ grazie a  Ilaria Cucchi, Patrizia Moretti, Lucia Uva che si ha avuto un ricomposizione e oggi si parla di morti di Stato in maniera strutturale e non episodica. Loro, tutte donne, e non è un caso, hanno sollevato la questione della tortura e persino governo e parlamento l’hanno dovuto affrontare per poi affossare le legge. Questa è  anche una questione di genere, di violenze agite sia da uomini che da donne ma che ha radici profonde in una cultura machista e fascista molto forte. Cultura sviluppata negli addestramenti intrisi di violenza autoritaria, umiliazioni, sadismo e forme di prevaricazione come spiega Checchino Antonini nel suo saggio.

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Nella scrittura del libro partecipa anche Acad, Associazione Contro gli Abusi in Divisa, che nasce dalla volontà di dare sostegno alle famiglie delle vittime e a coloro che non hanno accettato una verità giudiziaria che troppe volte garantisce impunità a chi indossa una divisa. Il progetto vuole essere un piccolo ma concreto impegno di lotta a fianco di chi ha subito abusi: dal supporto legale, al divulgare e portare a conoscenza dell’accaduto, ad un numero verde di pronto intervento, perché non si ripeta ciò che è successo già troppe volte.

Perché se la giustizia fosse davvero giusta e davvero uguale per tutti, seguirebbe un percorso dovuto e regolare e soprattutto lo seguirebbe indipendentemente dagli sforzi disumani che invece vengono chiesti a persone che hanno subito un sopruso così grande.
Insomma se in quel preciso istante non avessi deciso di combattere, perché di combattere si trattava e si tratta ancora, mio fratello Stefano sarebbe ufficialmente morto “di suo” come tanti, troppi altri ogni anno nelle nostre carceri, nei commissariati, nei centri di detenzione per migranti.
Invece non è stato così.
Ilaria Cucchi

Da Abidjian al Piemonte per fuggire la guerra

Seduto al tavolo esterno del bar dove mi aspetta, Moussa, sigaretta nelle labbra e cellulare tra le dita, impone la mole della sua muscolatura scura e definita sull’intonaco bianco della facciata. Da lontano, la sua immagine è una fotografia rappresentativa d’una virilità moderna: forte e impegnato, sicuro e attivo. Ciò di cui si appresta a raccontarmi, del resto, richiede tutta la forza d’un uomo per essere vissuto, sebbene lui fosse solo un ragazzo quando la guerra ha bussato alla sua porta e a quella di tanti suoi compatrioti, anche più giovani di lui. La guerra ha bussato e gli ha chiesto di fare una scelta; Moussa ha lasciato la casa cui quella porta era infissa.

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Nato negli anni ’80 ad Abidjian, capitale della Costa d’Avorio, e figlio di un imam, Moussa mi racconta di un’infanzia semplice e spensierata; di una famiglia numerosa alla maniera islamica, con tre madri e un folto gruppo di fratelli delle più disparate età; di un quartiere multiculturale, multietnico e multireligioso, aggregato dall’appartenenza a una comunità ormai consolidata da anni di rispetto reciproco.
«Anche se non eravamo uno stato economicamente stabile, vivevamo in pace. Nel 2000, tutto cambiò. Alle elezioni statali erano stati commessi dei brogli per non fare eleggere Ouattara; i suoi oppositori sostenevano non fosse ivoriano perché il padre era originario del Burkina Faso, offendendo i cittadini discendenti dei numerosi migranti dei paesi vicini. Da un giorno all’altro scoppiò la guerra e il paese si divise. Da un giorno all’altro le persone si riconoscevano in base a religione ed etnia. Da un giorno all’altro io fui, prima di tutto, musulmano e djoula.»

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Lo sguardo di Moussa si fa docile e vago, mentre mi racconta dei pochi mesi di guerra civile che ha vissuto: «Ci si muoveva sempre con prudenza e di soppiatto, come i gatti. Di ogni rumore cercavamo di capire l’origine; non potevamo più fidarci di nessuno ed io, avendo sempre frequentato ragazzi cristiani, mi ritrovai senza amici.»
Un episodio notturno ha spinto Moussa a partire: svegliandosi, una pistola puntava la sua fronte. «Era l’arma che di notte tenevo sotto il cuscino, in caso qualcuno entrasse in casa. In quel momento mi resi conto che avrei dovuto fare una scelta: per i musulmani, avrei dovuto riconoscere il mio sangue djoula e uccidere il nemico cristiano; per i cristiani, avrei sempre rappresentato un pericolo. Scelsi di non uccidere e di partire per l’Europa.»

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Grazie alle conoscenze del padre, a vent’anni Moussa prese l’aereo che gli garantì di avere salva la vita; atterrò nel nord d’Italia e venne rifugiato in un paese sulle montagne del Piemonte. «L’organizzazione del viaggio fu rapida; solo quando l’aereo decollò, mi fermai realmente a pensare a ciò che stavo facendo: lasciavo il mio paese, la mia famiglia, la mia vita. Chissà chi avrei potuto rivedere, chi non avrei rivisto mai più. Sapevo che non avrei più riavuto l’armonia e la serenità della mia adolescenza. Atterrando, il freddo penetrante del vento europeo, l’orizzonte chiuso dalle montagne, il cielo così opaco; mi sarebbe mancata la mia terra, il suo sole, il calore della sua gente.»
Oggi, la vita di Moussa si è stabilizzata in Italia: lavora come falegname e condivide un appartamento con due compatrioti; la Costa d’Avorio è uscita dalla guerra, ma ancora non può definirsi un paese del tutto stabile. «Ho imparato ad amare la terra in cui vivo, il vento fresco d’estate e il modo in cui la società è organizzata. Potrei tornare in Africa, ma ho perso molto di quello che avevo a casa; non sono la stessa persona che è partita e il mio paese non è lo stesso che ho lasciato. Ma certo un giorno vorrò rivederlo.»

 

In copertina: vista aerea del quartiere Plateau di Abidijan, Costa d’Avorio [particolare dalla fotografia di Marku1988 CCA-SA 3.0 by Wikimedia Commons].

«Cadrà fra poco esanime chi fu predetto re»: l’omicidio di Macbeth

C’è chi sceglie di opporsi al potere con la forza delle idee per un mondo più giusto, spesso sacrificando la propria vita sotto i colpi di un governo repressivo, e chi imbraccia le armi per le proprie fantasie di onnipotenza politica. L’ambizione omicida al potere che seduce e terrorizza è il motore del Macbeth shakespeariano, tragica riflessione sul rapporto tra governanti e governati, sulla presa e la perdita di potere. L’autore non è estraneo a certe tematiche e qui le sviluppa in uno scenario a tinte fosche: Macbeth uccide nel buio della notte, ed è l’oscurità che invoca a coprire le sue efferatezze; rosso è il sangue che macchia i corpi morti e le mani colpevoli, che una Lady Macbeth sonnambula tenta di lavare ossessivamente, schiacciata dal peso del crimine, ma per cui non basterà «l’intero oceano del grande Nettuno».
Insomma, chi dice Macbeth dice tragedia, e lo sanno bene i teatranti inglesi, che non osano pronunciarne il nome per scaramanzia. E pensare che quest’opera ha ispirato rappresentazioni teatrali in tutto il mondo: Pequod fa un salto indietro e uno in avanti per raccontarvi la vitalità di un soggetto teatrale e di una visione grandiosa e terribile dell’umanità.

Il Macbeth di Giuseppe Verdi
Propenso alle idee repubblicane (dopo una bella chiacchierata con Giuseppe Mazzini), considerato l’artista più rappresentativo dell’Italia risorgimentale e liberale, Verdi se ne uscì con Macbeth il 14 marzo 1847, presso il Teatro della Pergola di Firenze. Fu un grande successo ma ben presto dimenticato; l’opera tornerà alla ribalta in una nuova versione, con la super star Maria Callas, nel dicembre 1952, al Teatro alla Scala di Milano.

L’incondizionata ammirazione che Verdi provava nei confronti di Shakespeare, insieme alla scelta di altri prestigiosi soggetti d’opera, lo resero il tramite del miglior teatro europeo in Italia. Nel corso dell’Ottocento il compositore s’imponeva sempre più nella scelta della fonte letteraria e nella realizzazione del discorso drammatico, e il povero Francesco Maria Piave, librettista di fiducia di Verdi, si armò di santa pazienza. Nel loro «pesante conflitto epistolare» c’è un richiamo ossessivo a una prosa più concisa e all’alleggerimento della fonte originale per avvalorare la situazione drammatica.

L’opera divenne archetipo della brama di potere e dei pericoli che essa comporta: un soggetto che calzava a pennello con lo spirito del tempo. Si puntava alla compartecipazione emotiva del pubblico alle storie e alle vicende dei personaggi, con melodrammi costruiti su amori, ambizioni e rimorsi.
Ancora oggi la messa in scena di un’opera simile non può non essere finalizzata a scuotere il cuore e la coscienza del pubblico. Fin dalla Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene, la scena italiana aveva intuito le grandi potenzialità dell’opera shakespeariana e di recente hanno calcato i palcoscenici Macbeth eccentrici e deliranti, come quello impersonato dall’istrionico Giuseppe Battiston, e addirittura versioni al femminile, vedi Susanna Costaglione nell’adattamento di Claudio Di Scanno, spunto per il film Macbeth – Neo Film Opera di Daniele Campea.

Il Macbeth della Compagnia Carlo Colla & Figli
A breve vedremo l’orrore e la disperazione di Macbeth animati da una compagnia di marionette: la Compagnia Carlo Colla & Figli tornerà al Piccolo Teatro Grassi di Milano, dal 10 al 19 giugno, con la nuova versione di uno spettacolo nato americano, nel 2007, e portato in Italia nel 2010. Il ritorno in grande dell’arte delle marionette, il tramite più popolare per la divulgazione dei classici letterari e teatrali, lascia immaginare l’incanto di piccole creature che attraverseranno il teatro-teatrino, corpo meccanico e voce d’attore che le segue nel bosco di Birnan e nelle stanze del castello, ma soprattutto quel misto di dolcezza e crudeltà racchiuso nelle grandi storie di tutti i tempi.

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colla dentro

Articolo di Sara Alberti e Alice Laspina

The day Boris Nemcov died

February 27th 2015. It’s Friday at the restaurant in St. Petersburg where Georgij, 23, works as a PR specialist. That weekend he was even busier than usually, as the place was hosting an art exhibition and there were guests all around the place. But Gosha, that’s how most people call him, cannot complain – working in the world of advertisement in a metropolis like Saint Petersburg was what he wanted to do after all. That had become his ambition since his third year at University, when he had realized he would never become a journalist in Russia. In facts, after college Georgij wasn’t really sure about what to do in the future, and the Faculty of Journalism of Belgorod University had seemed to be a good choice. Thanks to some teachers there he had the possibility to create his own point of view on society, politics and Russia. But as his knowledge grew, he became more and more skeptical about the actual possibility to become a journalist in his country. He had started to realize that reporting news in an objective way wasn’t really popular in the Russian Federation, especially in a small province like Belgorod, where he lived and studied.

That’s why he decided to move to the big city, once he had accomplished his studies. And that’s why on February 27th he was at work at the Petersburg restaurant when he found out about what had happened in Moscow. He was having a quick look at the news on his mobile when read that Boris Nemcov, Putin’s opponent, had been murdered in the center of the Russian capital.

Georgij was shocked and started to look for more details online.  “Who did this? Why?” was his first thought. Georgij, who loves sports and cinema, is also very interested in politics and knew exactly who Nemcov was and why his death would cause a crisis within Russian political opposition. A strong, serious and respected man, definitely a leader, probably the brightest leader of Russian opposition. That’s the reason why the Western media guessed Putin might have been involved in his murder, as Boris Nemcov was probably his most relevant opponent. But was Nemcov really a threaten for the Russian emperor? Could someone actually threaten Putin anyway? Gosha doesn’t believe that Vladimir Putin asked someone to murder him. He actually wouldn’t need to ask something like that, as the system built around his person knows exactly what the President wants and would die to satisfy his deepest desires and eliminate every possible obstacle on his path toward absolute leadership. In such a proved context, it had few importance to define who had done it – whether the Chechens, the opposition itself or some Putin hitman – because what really and tremendously mattered was that someone had been killed in the center of the capital with no apparent reason apart from a divergent opinion.

Russian media dealt with the event. Of course they couldn’t avoid to tell that such a public and well-known person had been killed, but they did it in the Russian way. No conjectures nor devastated praises filled the official news in those days, just stately pieces in honour of a respectable former gubernator and not much more.

Of course there was a considerable group of people who couldn’t accept such a terrible event and wouldn’t let it go just as an unfortunate coincidence. These people could be found in the streets of Moscow and Petersburg some days later, on March 1st, and Gosha was among them. Many young Russians, just like him, were demonstrating not only to keep the memory of the victim alive, but also to ask for a change, for a free society where people can go in the streets of the capital without the risk of being shot, no matter what party you vote for or what you think of the people inside Kremlin. Georgij is sad while he walks by the streets of Saint Petersburg, but he’s positively moved by the fact that 10,000 people are walking with him sharing his same fear but above all his same will to make a change. He’s impressed to see people from different generations gathered together in the crowd – students and retired people, sharing the love for freedom and democracy.

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Despite of the impressive participation to these events, no authorities took part to the public demonstrations in honour of Boris Nemcov and the great majority of Russians, including the quasi totality of youth, didn’t show any kind of interest in what happened. Gosha thinks these people don’t see what is happening in their country and even if they see, they just don’t care because what really matters is having bread and money to survive, and this is something Putin was very good at providing them. Back in the 90s, explains Gosha, people had just been thrown into capitalism without any caution, and the results were people starving in the streets with no roof on their heads. Then came Vladimir Putin, telling them that Russia was still a great country and giving them the possibility to reborn together with their beloved nation. Who cares if there’s no democracy nor liberty of expression, Putin gave them money and bread and that’s why they’d always support and trust him.

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Today Gosha is 24 and he’s planning to attend the demonstation that has been organised for next Saturday, the aniversary of Nemcov’s brutal death. People are going to demonstrate in Moscow, Saint Petersburg and in other main Russian cities. Has Gosha lost his hopes, a year after this devastating event that deeply damaged the already weak opposition to Putin’s regime? His answer is firm and convinced – no, he hasn’t lost his hopes, he’s even more willing than before to help his fellow citizens to understand what’s best for them. In facts Georgij has to deal with relatives and acquaintances that support Putin but still hasn’t given up discussing with them every day, showing them documentaries and giving them material to read to make them doubt their certainties. “In the past people saw that things were different elsewhere and made the Decembrist revolt to make a change. I hope that people today will realize that we’re living in a third world country considering the level of human rights and freedom and will feel the need to change something.”

I librai scomparsi di Hong Kong gettano nuove ombre sul futuro della sua democrazia

Lee Bo, hongkongese dalla doppia cittadinanza cinese e britannica, è scomparso il 30 dicembre scorso in seguito a una visita al magazzino della Mighty Current, casa editrice di Hong Kong, di cui è comproprietario. La sua è solo l’ultima di una serie di sparizioni di personaggi legati alla casa editrice avvenute nel corso degli ultimi mesi e non fa che accrescere i sospetti sulla vicenda. La versione più accreditata, seppur negata dal governo di Pechino, è che l’imprenditore sia stato sequestrato dalla polizia cinese a causa delle pubblicazioni “scomode” di Mighty Current, che in passato ha più volte commissionato libri scandalistici su figure politiche di rilievo in Cina. In particolare, a breve sarebbe dovuto uscire un libro sul presidente cinese Xi Jinping, dal titolo Xi Jinping e le sue sei donne, che avrebbe svelato dettagli scabrosi della sua vita privata.

REUTERS/Tyrone Siu
Fonte Reuters

Sospetti di ripercussioni del governo cinese erano già sorti in seguito alla sparizione di altri quattro uomini nei mesi scorsi. Tra di loro Gui Minhai, il proprietario della Mighty Current, è scomparso in Thailandia, mentre altri tre membri dello staff, Lam Wing-kei, Lui Bo e Cheung Jiping, sono spariti durante una visita nella Cina continentale. Gui è in seguito apparso alla televisione cinese, dichiarando in lacrime di essersi volontariamente consegnato alle autorità per un incidente con omissione di soccorso avvenuto a Ningbo, nel 2003. Similmente, pochi giorni dopo la sua scomparsa, Lee Bo ha fatto recapitare una lettera alla moglie in cui sosteneva di stare bene e di essersi recato a Shenzhen di sua iniziativa per «motivi personali» e per «collaborare ad un’indagine giudiziaria». In pochi hanno creduto a questa versione dei fatti e nei primi giorni di gennaio i cittadini di Hong Kong sono scesi in strada quotidianamente a manifestare e a chiedere spiegazioni al governo locale di Leung Chun-ying, notoriamente ritenuto uno stretto alleato di Pechino.

Fonte: Bloomberg
Fonte Bloomberg

Il motivo per cui la scomparsa di Lee Bo ha scosso a tal punto l’opinione pubblica dell’ex-colonia britannica è che, a differenza delle precedenti, è avvenuta proprio ad Hong Kong. Fino ad allora, infatti, i cittadini dell’isola si ritenevano al sicuro dagli “spaventosi colpi alla porta nel cuore della notte”, espressione ben nota ai cinesi, che descrive l’arrivo della polizia nelle case dei dissidenti. In base allo storico accordo sino-britannico del 1984, che ha sancito la cessione di Hong Kong alla Cina nel 1997, la Repubblica Popolare avrebbe dovuto garantire alla città un «elevato livello di autonomia” per i successivi 50 anni. In base a questo principio, che i cinesi chiamano “un Paese, due Sistemi”, Hong Kong possiede una magistratura e un governo autonomi in tutti gli aspetti tranne che nel campo della difesa e della politica estera. Di conseguenza il sequestro di Lee Bo da parte dei servizi di sicurezza cinesi, se confermato, sarebbe una gravissima ingerenza da parte di Pechino, nonché una grave violazione dell’accordo. Per ora il governo Leung ha negato il coinvolgimento della Cina nella sparizione, ma la vicenda non aiuta certo a semplificare la difficile relazione con Hong Kong. Nell’estate 2014 il governo cinese propose una serie di riforme del sistema elettorale dell’ex-colonia britannica che si allontanavano dall’obiettivo del suffragio universale dichiarato nella Basic Law, la costituzione di Hong Kong. Secondo la legge, per i primi dieci anni dal ‘97 il capo del governo avrebbe dovuto essere eletto da un comitato nominato dai principali settori dell’élite della regione, mentre in seguito il voto sarebbe stato esteso all’ intera popolazione, che avrebbe potuto scegliere tra una rosa di candidati nominati da un comitato rappresentativo. Sebbene nel 2007 il governo cinese abbia annunciato che il suffragio universale verrà istituito nel 2017, la proposta di riforma elettorale del 2014 suggerisce che la scelta dei candidati sarà affidata a un comitato elitario, piuttosto simile a quello attuale. Il che implica, dati i rapporti sempre più stretti tra l’establishment di Hong Kong e il governo centrale, che i candidati saranno di fatto pre-approvati da Pechino e non espressione di un libero processo democratico.

Fonte Reuters
Fonte Reuters

Questa proposta ha fatto infuriare i cittadini dell’ex-colonia, in particolare gli studenti, che nell’autunno del 2014 sono scesi in piazza a decine di migliaia contro il governo e a favore della democrazia, occupando per 79 giorni le strade principali del centro di Hong Kong. La protesta, nota in tutto il mondo come “Umbrella movement” in riferimento agli ombrelli usati dai manifestanti per difendersi dagli attacchi della polizia, ha bloccato i punti chiave della città guadagnandosi l’attenzione di tutto il mondo. La risolutezza del governo e il calo del sostegno popolare hanno fatto sì che il movimento si sia concluso in un nulla di fatto, ma i rapporti tra cittadini e autorità continuano ad essere molto tesi: nel corso del 2015 il governo ha rafforzato il controllo su scuole, università e mezzi d’informazione con l’istituzione di consigli di direzione filocinesi.

La scomparsa dei librai di Hong Kong e le proteste che ne sono scaturite si inseriscono in questo contesto di estrema tensione e non hanno fatto che accrescere l’enorme diffidenza dei cittadini nei confronti del governo Leung e di quello di Pechino. Il futuro democratico dell’ex-colonia britannica appare sempre più incerto.

 

Immagine di copertina, fonte Time Magazine

Ti insegno una parola gentile: Ruah

Ruah: un soffio, uno spirito. Una parola che parte dall’Antico Testamento per essere condivisa da cristiani, ebrei e musulmani. Una parola per una filosofia comune d’agire: la nostra responsabilità verso gli uomini e le donne che incontriamo e verso ciò che ci circonda.

Pequod, in questa settimana dedicata alla Giornata Internazionale della Lingua Madre, ha incontrato la Cooperativa Ruah che di questa filosofia comune d’agire ha fatto tesoro e l’ha resa concreta nel territorio bergamasco. Nata nel 1991 come associazione, aprì un centro d’accoglienza presso il Patronato S. Vincenzo di Bergamo «In quel periodo iniziavano ad arrivare le prime grandi ondate di immigrati e sul territorio, prima dell’Associazione, non esisteva nulla. Una volta accolti e soddisfatti i bisogni primari di queste persone, l’esigenza più forte da parte loro era quella di imparare la lingua – anche per un discorso di permanenza nel Paese e di possibilità lavorative (prima si trovava lavoro più facilmente). Nasce spontaneo nel centro d’accoglienza l’avviare corsi di italiano». Queste le prime parole della dottoressa Elisabetta Aloisi, insegnante professionista della cooperativa, durante la nostra intervista.

Con un migliaio di iscritti all’anno, la scuola di italiano della Cooperativa Ruah, ha come obbiettivo primario l’alfabetizzazione e l’insegnamento della lingua italiana. Lingua italiana vissuta come l’idioma ospitante e d’acquisizione. Una necessità che arriva insieme all’integrazione nel nostro paese (ancora troppo legato alla sua lingua madre?).

Come mi spiega Elisabetta, le difficoltà maggiori di questo progetto stanno nella mancanza di materiali, «non si possono usare gli stessi libri di testo che si usano con i bambini ma occorrono dei testi pensati per gli adulti» e nel problema dell’analfabetismo di alcuni studenti. Si aggiunga la motivazione e il tempo da dedicare allo studio: «queste persone che si rivolgono a noi hanno molta urgenza di imparare la lingua ma allo stesso tempo hanno una lavoro, una famiglia». Per questo motivo si cerca di rendere gli orari dei corsi il più possibile flessibili, con una fascia oraria che si estende dalla mattina al pomeriggio, fino alle lezioni domenicali e «grazie ai finanziamenti europei e quelli di altre associazioni riusciamo a fornire dei corsi alle donne con figli piccoli abbinato ad un servizio di baby-sitter sempre all’interno della scuola».

Ci sono corsi di italiano, inglese, francese e arabo, corsi di italiano mirati, per esempio allo studio per l’esame della patente di guida, percorsi di “italiano professionale” e di italiano per l’informatica (il nuovo analfabetismo?). La scuola di italiano Ruah non si limita all’insegnamento teorico della lingua: dopo le ore dietro ai banchi, tra libri e bollette del telefono, si esce! Si va in posta, negli uffici pubblici, al mercato, in Città Alta e alla Gamec. Si impara l’italiano direttamente “sul campo” andando incontro alle difficoltà quotidiane, insieme a proposte più intriganti come i laboratori linguistici collegati a progetti di teatro e di cucina.

L’attenzione per il prossimo è la nascita di questo progetto che mette la lingua madre al servizio di chi desidera renderla propria. È uno scambio, un soffio che passa da un idioma all’altro facendo venire a galla quel che veramente ci accomuna come genere umano.

Muoversi tra i suoni di Dakar: un racconto di multilinguismo africano

In partenza per Dakar, ancora una volta ripongo nel bagaglio a mano, come ancora di salvezza, i miei libri per imparare lo wolof, pur sapendo che il mio è soltanto un piccolo gesto scaramantico di fronte allo straordinario plurilinguismo del Senegal, che non si esaurisce certo nell’incontro tra l’ormai lingua ufficiale di stato e quella coloniale, il francese.

Ancora una volta, riempiendo lo zaino, alleno la mia mente a passare attraverso idiomi diversi, fiduciosa della comprensione che riceverò dal popolo del Paese dell’Accoglienza, come i senegalesi chiamano la loro terra.

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Già in aeroporto, sono travolta dai suoni della folla che cerca di richiamare l’attenzione del mio viso pallido sulle merci in vendita e i taxi in attesa: «Madame! Madame!» «Señora! Señora!» «Miss! Miss!».

Oltre il rumore, riconosco la voce di mio nipote Ndiaw; mi chiama nel suo tono “francesemente” dolce, ”africanamente” basso.

Scopro che la modulazione delle frasi che caratterizza i senegalesi è tra le cose che più mi sono mancate. Lo scopro ascoltando mia cognata Ndeye che in inglese mi indica dove mettere le valigie; è laureata e conosce la lingua dagli anni del liceo; non la parla con scioltezza, ma le nostre conoscenze sono bastate a stabilire tra noi una complicità. Con lei ho attraversato il mercato del quartiere, conosciuto le abitudini delle donne africane, scoperto i segreti di sapori e tessuti; e l’ho fatta ridere ascoltandomi scherzare con i due negozianti della zona che parlano spagnolo, convinti che sia italiano, perché hanno lavorato alle dipendenze di un portoghese.

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Con mio marito abbiamo incontrato anche alcuni senegalesi che l’italiano lo parlano davvero, pur non avendo mai messo piede fuori dal loro paese; mi stupisco del fatto che tutti mi diano la stessa spiegazione: «L’italiano è facile da imparare: basta leggere un libro e cercare di capire il senso comparandolo al francese. Parlare è semplice: si dice così come si scrive.»

Ho toccato con mano la facilità con cui questo popolo apprende nuove lingue: dopo pochi giorni trascorsi in famiglia, mia nipote Sanou, di sette anni, indicando il piatto da cui mangio, chiede: «È buono? Dafa neeχna?», prima in italiano, poi in wolof; spiegando e comprendendo allo stesso tempo. Ha semplicemente ascoltato mio marito tradurre per me nei precedenti pranzi.

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Con mia suocera è stato meno semplice: non parla wolof ma serere, la lingua del villaggio in cui è nata e dell’etnia cui appartiene tutta la famiglia; abbiamo passato molto tempo assieme, io imparando a riconoscere il modularsi della sua voce, lei ripetendo ritualmente le stesse espressioni e riempiendo i silenzi di rosari di buoni auguri, cui io possa rispondere con un internazionale: «Amine». È una lezione che più volte mi è tornata utile di fronte ad anziani che si esprimevano in una delle sei lingue nazionali del Senegal, tra cui la wolof è maggioritaria.

Mia suocera mi accoglie sempre nella lingua madre, con un dolce: «Nam fio? Soob a khamo sama goro, kam khalato gong rek!». (Come stai? Sei mancata mia nuora, ti ho pensato tanto!) Non sapendo rispondere in serere, ripiego sull’arabo, che è la lingua della preghiera e in Senegal, come in molti paesi a maggioranza musulmana, entra a far parte di diversi momenti e riti quotidiani: «Alhamdulillah! Ringraziando Dio!».

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Dall’horror friulano al rap sardo, il fascino delle minoranze linguistiche

Parlare di minoranze linguistiche d’Italia è un po’ come percorrere il Bel Paese in tutta la sua lunghezza. Cartina alla mano, ci spostiamo dall’arco alpino, dove troviamo le minoranze germaniche, al confine orientale, tra le parlate slovene di Trieste, Gorizia e Udine; tutt’altra musica nel Meridione, dove le lingue di antiche popolazioni albanesi risuonano in Sicilia e Calabria con un’eco che arriva fino all’Abruzzo, passando per la Puglia e il Molise, terre di idiomi greci e croati. Una traversata via mare e siamo ad Alghero, tra i suoni del catalano.
Queste le tappe segnate sulla nostra cartina, queste le lingue minoritarie riconosciute dalla legge 482/1999, ma che gusto c’è in un viaggio senza deviazioni inaspettate? Nord e Sud non sono poi così lontani se sentiamo qualche parola di francoprovenzale in Val d’Aosta e Puglia, di ladino o di occitano, che dalle valli piemontesi si riscopre in Calabria.
Carte e cartine semplificano, fino all’esclusione dei dialetti galloitalici e zingari e del curioso tabarchino. Questa miopia non ha impedito però ai molti parlanti in friulano e sardo di usare la propria lingua minoritaria come canale d’espressione privilegiato.

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Il Friuli da brivido di Lorenzo Bianchini
Tra cinema e webserie, il regista traccia una geografia dell’orrore nelle terre del Friuli e le racconta con le lingue del posto: sono in friulano il mediometraggio Dincj de Lune (I denti della Luna, 1999), storia di licantropia, e il primo film, Lidrîs cuadrade di trê (Radice quadrata di tre, 2001), mentre per Oltre il Guado (2013), premiato al TOHorror Film Festival, sceglie un dialetto sloveno parlato al confine.
Radice quadrata di tre si apre sui sotterranei bui e labirintici dell’Istituto tecnico Malignani di Udine, dove Bianchini lavorava come assistente tecnico, una location perfetta per l’avventura di tre ragazzi che, una notte, s’intrufolano nella loro scuola. Più minimalista la storia dell’etologo di Oltre il guado, dove i boschi di Monteprato e il piccolo centro di Topolò si animano di misteriose presenze che incombono dietro una porta o all’angolo di una strada abbandonata.

Sono scorci di luoghi quotidiani, che però Bianchini carica di tensione; lo stesso fa con la lingua, creando uno straniamento inquietante dai dialetti familiari e recuperando le atmosfere delle leggende locali. Un progetto ambizioso, per giunta no/low budget, quello di girare film horror in furlan: produzioni di genere “minoritario” in lingua minoritaria.

La Sardinian old school dei Balentia e i Cor(anta) di Alessio Mura
Anche il rap non è certo un genere tipico della musica italiana, soprattutto in Sardegna e nei primi anni Novanta, quando nasceva Balentia (poi ForeFingers Up!), storica formazione rap sarda che parte da una forte base hip hop e rimescola le carte unendo il funky e l’elettronica, senza dimenticare i doverosi omaggi ai big d’oltreoceano e ai grandi compositori per il cinema italiano. Insomma, l’ostacolo di un dialetto ostico come il sardo si può superare lasciandosi trasportare dal mix di basi, samples e flow, ma anche sbirciando le traduzioni dei testi, incluse nei cd a partire da Bisensi disi (2007).

ForeFingersUp
L’ultimo album del gruppo è Vidas&Rimas (2012), ma l’MC Alessio Mura, in arte Su Maistu, rinasce con Coranta (2015): l’album da solista, realizzato anche con il supporto del crowdfunding, racconta di passioni, per la famiglia, la musica e la propria terra d’origine.

Due terre così lontane, il Friuli e la Sardegna, trovano un appuntamento importante nel SUNS, Festival della canzone in lingua minoritaria, con Suns Sardigna, e insieme si aprono alle innovazioni musicali e cinematografiche prodotte in lingue minoritarie di tutta Europa, testimoniando la loro vitalità non solo in territori circoscritti.

 

In copertina, fotogramma dal film Custodes Bestiae (2004) di Lorenzo Bianchini.

Radio Free Europe: free media (and languages) in unfree societies

What means of communication is more natural than language? Speaking your own mother language makes you feel comfortable and gives the possibility to fully express yourself. In a utopian society everybody could speak his own language without any restriction. In such an idealistic world, promoting languages through radio broadcasting might seem the most natural thing to do.

Indeed no media is more immediate and direct than radio when it comes to spreading the language, as even illiterates are able of understanding its message. Nevertheless, there is something that a non-utopian and realistic world has to deal with and that makes the natural tendency to speak his own mother tongue problematic. Language has been given an ideological and political meaning. Languages have been involved in the construction of peoples’ identity for ages and since XVIIIth century in particular they’ve been used as fundaments of the construction of the nation.

As a consequence, language has become a strong means of power, being censorship the ultimate weapon against those languages which don’t represent the dominant ethnical group within a nation. In this context it is possible to collocate the establishment of Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/RL – official website) at the beginning of the Cold War to transmit uncensored news and information to audiences behind the Iron Curtain. Founded in 1950, Radio Free Europe was funded principally by the U.S. Congress in order to broadcast to those country where communism was censoring and filtering the news.

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Source: http://www.rferl.org/

However, even after the collapse of Communism Radio Free Europe didn’t stop its broadcasting, despite some thought RFE/RL had fulfilled its mission. The need for RFE/RL uncensored information was still a mutual concern and the words of Czech President Vaclav Havel are significant to understand the Radio relevance: “we need your professionalism and your ability to see events from a broad perspective.” Since 1991 Radio Free Europe has broadened its horizons and has reached new audiences. Today it broadcasts to 23 countries in 28 languages, including Iran, Afghanistan, Pakistan, Ukraine, and Russia.

Source: http://www.rferl.org/
Source: http://www.rferl.org/

Not only does RFE/RL journalists fight for information freedom, but also they provide news in peoples’ native languages whereas the government media lack information in those languages. Radio Free Europe gives a voice to those languages which are underrated because of their minority position within the states.

In order to understand its relevance, we might highlight the case of Radio Azatliq, the Tatar-Bashkir section of RFE/RL. In facts, even though Tatarstan and Bashkortostan are autonomous republics (belonging to Russian Federation), Azatliq, with its headquarters in Prague, is the only major international broadcaster for the Tatar and Bashkir communities in Russia, where the government on the contrary seems to limit ethnic minorities’ language rights. And it’s even more surprising to find out that Radio Azatliq content is used to teach the Tatar language to students, as the language used by the broadcasting service is modern and the topics relevant.

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If Free Media in Unfree Societies well summarizes Radio Free Europe/Radio Liberty spirit and aim, we are not afraid to say that defending and promoting native languages is definitely part of its noble mission as well.

“Progetto hindi”: quando la multiculturalità è minacciata

L’India ha alle spalle una tradizione e una cultura millenaria. Settimo per estensione e secondo per popolazione, nel Paese si parlano, e sono riconosciute ufficialmente, 22 lingue diverse e circa 2000 dialetti. E proprio questa diversificazione linguistica ha dato vita al “progetto hindi’”: il premier Narendra Modi, infatti, sarebbe intenzionato a rendere l’hindi l’unica lingua ufficiale e nazionale, a svantaggio delle moltissime minoranze del Paese. Le polemiche non sono di certo mancate, ma la strada intrapresa da Nuova Delhi sembra quanto mai segnata.

 

L’hindi è un continuum dialettale di lingue di ceppo indoeuropeo parlato principalmente nell’India settentrionale. Data questa sua molteplicità è stato riconosciuto il primato al dialetto khari bori, parlato nei pressi di Delhi, sul quale si fonda l’hindi standard. Lingua ufficiale insieme all’inglese ma non lingua nazionale, ecco cos’è l’hindi oggi per questo Paese.

La lingua è un collante fondamentale per la sua società, eppure l’India non ha ancora una sua lingua nazionale. Da non dimenticare, inoltre, il tasso elevatissimo di analfabetismo, più di 287 milioni di persone che non sanno né leggere né scrivere. L’idea di Modi sarebbe, quindi, quella di superare l’uso dell’inglese a livello amministrativo e di ridurre le altre lingue a dialetti, in modo da completare l’unificazione linguistica sotto il segno dell’hindi, di fatto portando a compimento un processo di ‘’nordificazione’’ del Paese. Ma l’impresa è più dura del previsto.

 

È una guerra vecchia di 100 anni quella intrapresa dal Premier: già il Mahatma Gandhi ci aveva provato, nel 1918, con l’istituto di Propagazione dell’Hindi nel Sud dell’India. Il Congresso Nazionale Indiano votò l’hindi come lingua ufficiale nel 1925, ma poco tempo dopo, tra il 1937 e il 1940, esplosero le prime proteste nello Stato federale di Tamil Nadu per proteggere l’identità della lingua tamil, parlata da milioni di persone, e delle altre lingue di ceppo dravidico diffuse principalmente nel sud dell’India. Dalle agitazioni e dagli scontri tra il 1946 e il 1950 nacquero i partiti identitari dravidici, che riuscirono ad acquisire notevole consenso e a preservarlo fino ad ai giorni nostri. Partiti che Modi ha intenzione di colpire sfruttando il suo progetto. Per tutta risposta, però, non mancano manifestazioni di dissenso più o meno eclatanti.

 

Se diventasse effettivo, il “progetto hindi” cancellerebbe in un colpo solo la multiculturalità del subcontinente, quasi fosse un punto debole piuttosto che una ricchezza del Paese, a scapito di un processo di alfabetizzazione e di unificazione linguistica graduale, più lento e impegnativo ma senz’altro rispettoso delle varie differenze regionali.

Giornata Internazionale della Lingua Madre

Dal sito della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO (unesco.it/cni):

“Nel novembre 1999 l’UNESCO ha proclamato il 21 febbraio “Giornata Internazionale della Lingua Madre”. Le celebrazioni della “Giornata Internazionale della Lingua Madre” hanno l’obiettivo di promuovere la diversità linguistica e culturale ed il multilinguismo nella convinzione che una cultura della pace possa fiorire solo dove ognuno possa comunicare liberamente nella propria lingua in tutti gli ambiti della propria vita. L’UNESCO crede fermamente che nell’istruzione sia fondamentale non solo la diversità linguistica e culturale ma anche la tutela, protezione, conservazione delle lingue in pericolo di estinzione.

Perché il 21 febbraio? Gli eventi che hanno condotto all’adozione di questa data iniziarono quando il Governatore del Pakistan occidentale ed orientale dichiarò pubblicamente il 21 marzo 1948 che l’URDU sarebbe diventata l’unica lingua ufficiale per tutto il Pakistan. Ma la maggior parte della popolazione che viveva in Pakistan parlava il BENGALI (o BANGLA) e quindi protestò contro la dichiarazione.

Il 21 febbraio 1952 un gruppo di studenti sostenitori del bengali persero la vita protestando presso il campus universitario di Dhaka contro le autorità pakistane che cercavano di imporre l’urdu. Tutto questo accadde tra le 3.20 e le 3.50 del 21 febbraio del 1952 e questi minuti seminarono nel cuore dei bengalesi il desiderio di una nazione. Iniziò così la lotta per l’indipendenza .

Il significato di questa giornata va oltre il semplice movimento della lingua per rappresentare la lotta per l’emancipazione dall’oppressione. Celebrare questo evento significa contribuire a sviluppare l’identità culturale nazionale che ha fatto dei bengalesi un popolo che abita una nazione indipendente.”

(testo integrale qui)

Video mapping a Bucarest, quando gli oggetti divulgano storie

Dai francesi Lumière alla piattaforma americana YouTube, più di un secolo per la storia delle immagini in movimento, che dal grande schermo approdano sul web, e infine sulle superfici multiformi di oggetti, monumenti e palazzi. Di seguito, voglio mostrare il mio primo incontro con una proiezione di video mapping, scorta quasi per caso sull’ex Casa del Popolo di Bucarest.

Ogni anno a settembre, in occasione dell’anniversario dalla fondazione della capitale rumena, un contest europeo richiama diversi artisti internazionali per la creazione di un video mapping sulla storia di Bucarest. Tra il volto impassibile di Vlad e l’epoca Liberty di inizio Novecento, le inflessibili finestre così come le ampie e spoglie terrazze del Palazzo cambiano sinuosamente forma in un vortice di colori e linee geometriche, trasformando le forme architettoniche in storie mutevoli. Sulla facciata del  secondo edificio al mondo per dimensioni, il dolore al collo per osservare lo spettacolo fa da contorno all’insolito impatto visivo, per concludersi con una serie di giochi pirotecnici.

Improvvisamente, un albero di fronte alla Casa, oggigiorno Parlamento, s’infiamma a causa delle scintille: «I really wish it could burn», sento sussurrare da alcuni amici rumeni, in risposta ai tanti scandali di corruzione che per anni hanno distinto le vicende politiche della Romania. E strana è la coincidenza, a mesi di distanza, con l’ultima tragedia del Paese che prese di mira 400 giovani nell’ottobre 2015 presso il “Colectiv Club”, uno dei locali più popolari della capitale, dove a causa di giochi pirotecnici e del totale disinteresse per  le norme di sicurezza persero la vita 66 giovani. Tra le 20 e le 30 mila persone scesero in strada per manifestare, protagonisti di uno dei più grandi cortei che la Romania ricordi dal 1990, anno della caduta della dittatura socialista. Queste manifestazioni comportarono le dimissioni del governo Ponta e l’inizio di un nuovo decreto anti-corruzione. Da allora, la società civile rumena ha iniziato a prendere coscienza della propria esistenza e della negligenza di un sistema oramai paralizzato tra vecchie ideologie e nuovi scenari.

Da YouTube al grande schermo: l’ascesa di The Pills

Nel febbraio 2005 il Tubo viene alla luce. Web series e video-costruzioni amatoriali trovano ora ospitalità gratuita e generosa. Ed è nel marasma venuto creandosi che frotte di aspiranti “personaggi” si immergono a pesca grande di pubblico & notorietà.

Nello sterminato scenario, andando ad occuparsi del palco nostrano, scoviamo certi youtubers e videomakers le cui  proposte sono tanto seguite e apprezzate da essere valse come rampa di lancio per il debutto in programmi TV piuttosto che in radio o su carta stampata (vedi Frank Matano, The Jackal, la serie Freaks!, etc..). Ma l’approdo al grande schermo dopo la web-gavetta ,ad oggi, (sempre di panorama italico si parla) chi l’ha risolto?

La triade romana The Pills (Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini) dopo quattro anni d’affermazione con le loro video pillole sono ora nelle sale cinematografiche di tutto il Paese con l’opera prima Sempre meglio che lavorare(link) in veste di registi, sceneggiatori e attori.

La pellicola (commedia che mantiene l’impronta distintiva comica a cui hanno abituato i patiti) sta permettendo la diffusione della loro rinomanza, tendenzialmente prima delimitata nel  centro Italia, nelle regioni nordiche dove i lavori precedenti erano poco popolari.

Se molti videomakers affermati considerano YouTube alla stregua di un datore di lavoro, così non è per il trio in questione che dichiara d’aver approcciato al canale senza pretese e ricerca di fama in quella branca dell’immagine in movimento. Tutto nasce, ricordano, come progetto d’inserto video per una rivista on-line gestita da un amico per poi diventare palestra dove affinare le capacità recitative nonché quelle di regia e scrittura. Ma fondamentalmente il proposito ha continuato a vivere per il nobile scopo di “cazzarare”(cit.), per far ridere loro stessi e combriccola nel rivedersi.

La rete è stata quindi sfruttata come piattaforma gratuita e facilmente fruibile dove svolgere l’attività propedeutica all’esordio nel cinema. Sorge una questione economica: con quali finanze si è potuto realizzale il film? Crowdfunding? Autofinanziamento? Ai “regazzi” ,nel 2014, è stata servita da Mediaset la possibilità di contratto (non lasciata scappare) per portare loro nuove pillole in TV su importanti emittenti quali Italia 1 e Italia 2. Palesato il modo.

I fan, preoccupati di un eventuale impoverimento di registro per l’adattamento alla televisione,  sono rassicurati: lungi dal tridente il pensiero di fossilizzarsi sul più facile canale, mero mezzo foraggiatore per realizzare al meglio i progetti a venire.

Se la preparazione tecnica nell’ambito registico ha giocato un valido ruolo (va appuntato che Luca l’anno addietro si era dedicato alla sceneggiatura del mediometraggio Vittima degli eventi di Claudio Di Biagio (link) ,la genuina capacità d’intrattenimento è comunque sostrato e elemento focale nella riuscita del loro percorso.

Tirando le somme, la vicenda dei tre capitolini è indicativa della fresca apertura che il mondo della settima arte inizia a riservare ai “dotati” operatori nel web nonché del potere che la massa di visualizzatori del Tubo ha nel determinare chi saranno i personaggi di domani.

Il debutto di “Rumoroso silenzio”, quando il teatro tocca temi controversi

In occasione della Giornata commemorativa della strage delle foibe (10 febbraio), Pequod segnala il debutto dello spettacolo teatrale Rumoroso silenzio, in scena stasera al Teatro Gavazzeni di Seriate (BG), che vede protagonisti i giovani attori del TNB – Teatro Nuovo di Bergamo, la più giovane compagnia di produzione nazionale, per la regia di Luca Andreini, classe 1997.
Uno spettacolo che ha già fatto parlare di sé, così come la stessa questione dell’esodo degli istriani e dei giuliano-dalmati dalle terre di confine tra Italia ed ex Jugoslavia.

Un'immagine delle prove aperte su TG2 Storie – Racconti della settimana, puntata del 07/02/2016
Un’immagine delle prove aperte su TG2 Storie – Racconti della settimana, puntata del 07/02/2016.

La Storia, quella degli anni conclusivi e appena successivi alla seconda guerra mondiale, vuole che dal 1943 migliaia di fascisti e italiani non comunisti fossero torturati, uccisi e gettati nelle foibe, profonde fenditure carsiche della regione carsica e dell’Istria, ad opera dei partigiani jugoslavi, dando così un forte impulso a un vero e proprio esodo dall’Istria e dalla Dalmazia. Tra gli esuli, ex fascisti e collaborazionisti, ma anche partigiani e sloveni e croati che non volevano, o non potevano, vivere sotto la nascente dittatura comunista di Tito; anche semplici cittadini che, a causa della loro cittadinanza italiana, furono erroneamente etichettati come fascisti e costretti a lasciare la loro terra per sfuggire alla repressione.
La storia, quella messa in scena, ha inizio con una gita scolastica a Trieste, dove un ragazzo si lascia trasportare dalle voci taciute e mai sopite che riaffiorano da quelle terre e narrano dei ricordi atroci dei vinti. Emerge la storia di Ferdinando e Norma, due giovani polesani indecisi sul da farsi, se restare e custodire quel che gli appartiene o fuggire e cercare di salvare il loro amore e le loro vite da un tragico destino che sembra già segnato, mentre tutt’intorno c’è chi lotta, chi si arrende, chi prende posizione.

La Storia ci lascia il conto di migliaia di morti e di profughi, ma anche le posizioni contrastanti di un dibattito non ancora del tutto mediato e risolto, tra chi sostiene e chi contrasta la lettura della vicenda delle foibe in termini di “pulizia etnica” (solo il 30 marzo 2004, a più di sessant’anni dai tragici avvenimenti, è stato istituito un Giorno del ricordo).
Della trama di questo spettacolo, invece, non si sa molto di più, in attesa del debutto, ma tanto è bastato per scatenare forti reazioni, addirittura intimidazioni dirette al regista. Scoppi di petardi fuori dalle sale delle prove, lettere minatorie, scritte sui muri e sulla porta di casa del ragazzo: le date del tour teatrale saranno monitorate dalla presenza della Polizia. E pensare che il testo dello spettacolo è stato letto solo dal cast e dai teatri che hanno ospitato le prove.

Luca Andreini (18), regista di "Rumoroso silenzio"
Luca Andreini (18), regista di “Rumoroso silenzio”.

I giovani attori e il regista, però, non hanno rinunciato al loro progetto, cercando di riportare l’attenzione sulla questione centrale della trama, inquadrata in un contesto storico ben delineato ma non esclusivo: il dramma della perdita della propria identità, intesa come perdita della terra d’origine, degli affetti, della vita; il riscatto nel ricordo e nel racconto, per scongiurare ogni tragica semplificazione del reale e riaffermare l’umanità di quei civili inermi di fronte alla violenza e alla discriminazione.
Il debutto è già sold out, ma rimangono altre due date lombarde (20 febbraio, Teatro don Bosco di Colognola; 26 febbraio, Teatro Villoresi di Monza) per scoprire che cosa ci racconta il “rumoroso silenzio” di una storia rimossa per decenni dalle stesse istituzioni e ripresa da un lavoro, quello di Andreini e del TNB, quantomeno coraggioso.

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Occhi puntati sul mondo

Chi di noi prima di un viaggio non si crea delle aspettative, non cerca d’avere un’idea il più possibile precisa di quello che lo aspetta? Addirittura a volte le aspettative precedono la scelta della meta: andiamo alla ricerca di quel luogo visto in un film, postato da un personaggio noto o condiviso su un forum di viaggi. Sono tante oggi le possibilità offerte di crearci un immaginario circa la nostra destinazione.

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Non è sempre stato così semplice prepararsi a partire. Sebbene da sempre la storia umana ci racconti di viaggi, non solo d’esplorazione e conquista, ma anche ricreativi e d’istruzione, è nel XX secolo, grazie alle tecnologie moderne e alla nascita del turismo di massa, che il rapporto tra viaggio e immagini diventa inscindibile e contemporaneamente complesso.
La teoria sociologica del sight seeing (vedere le cose da vedere) è tra quelle che più si concentra sulla criticità di questo rapporto: per incentivare il turismo di massa, la realtà viene distorta per andare incontro alle aspettative del turista e ridotta a diventare l’immagine che quest’ultimo sta cercando. Il turista diventa colui che non si muove verso le cose ma soltanto verso le loro immagini, riducendo le cose stesse ad immagini.

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Nel tempo qualcosa è cambiato: se da un lato è rimasto il bisogno di crearsi un immaginario prima della partenza, dall’altro cresce il bisogno di una visione autentica, sempre aggiornata e non falsata da intenti pubblicitari. Nascono così progetti come quello del sito Webcams.Travel, che offre la possibilità di gettare uno sguardo direttamente da casa a varie località sparse per il mondo, attraverso immagini fisse di webcam costantemente aggiornate. E non solo da casa è possibile tenere un occhio sul resto del mondo: esistono anche svariate app per supporti mobili che permettono di tenere sempre aperta questa visione su luoghi lontani.

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Sul sito è possibile navigare filtrando la ricerca attraverso diverse categorie: le webcam più famose, le consigliate, quelle appena aggiunte; oppure scegliendo su una grande mappa che mostra tutta la superficie terrestre. Le immagini non sono di elevata qualità e non hanno grande nitidezza, ma offrono un’incredibile varietà di paesaggi: gli obiettivi sono puntati sia su scenari cittadini noti, su spiagge leggendarie e su stazioni sciistiche conosciute anche da chi non ha mai indossato un paio di sci; sia su scorci insoliti, ma non per questo meno interessati e affascinanti.

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Inevitabile a un primo accesso provare a curiosare nelle zone in cui viviamo e che ci sono familiari, magari scoprendo che proprio vicino a noi è appostato un obiettivo sul mondo, per il mondo. Il prossimo passo potrebbe essere quello di cercare e di riconoscere il punto preciso in cui le webcam puntano il loro occhio e chissà, magari viaggiare provando a farci scattare una foto.

Eppur si muove

A partire dal XIX secolo il progresso tecnologico ha aumentato sempre più la possibilità di realizzare e registrare immagini in movimento; la mancanza di mezzi non ha però impedito agli artisti del passato di adottare soluzioni diverse per suggerire ed evocare l’azione.

Le testimonianze di questo intento risalgono ai tempi più antichi: ne è un esempio il frammento di dipinto murale conservato al British Museum di Londra (in copertina), su cui è rappresentata una scena di caccia agli aironi. Il protagonista principale, identificato come lo scriba Nebamon, si erge ritto su una piccola imbarcazione: con una mano afferra le prede mentre nell’altra brandisce l’arma con la quale sta per finirle; l’imminente pericolo ha messo in allerta il gruppo di uccelli che fuggono in un gran agitare d’ali. La situazione si presenta favorevole all’acrobatico gatto di Nebamon che coglie l’occasione per ghermire qualche preda e, come il felino, anche i nostri occhi balzano nello stormo indugiando sui dettagli e seguendo il movimento ascensionale del gruppo di volatili.

Menade danzante
Skopas, Menade danzante, 330 a.c.

Con l’arte greca si raggiungono i vertici dell’arte antica e, anche se parte delle statue sono giunte a noi mutile, possiamo ancora ammirare la bravura di quegli scultori che seppero rendere vivo il marmo. Significativa in questo senso è la Menade danzante che, seppur danneggiata, restituisce comunque il senso di agitazione che la caratterizza: il busto si inarca e l’enfasi del momento è accentuata da dettagli come i capelli scompigliati, il chiaroscuro dal panneggio e l’espressione del viso; l’energia che pervade la statua non può lasciare impassibili, tanto che ancora oggi il marmo sembra danzare.

Correndo avanti nei secoli ecco incontrare il più grande genio del Barocco: Gian Lorenzo Bernini, il quale, nell’Estasi di Santa Teresa, allestisce un vero e proprio spettacolo teatrale. Al centro si trova la santa, colpita con una freccia da un angelo, mentre ai lati, affacciati a dei balconcini, i committenti assistono alla scena e solo il colore bianco del marmo convince l’osservatore che non siamo di fronte a persone in carne e ossa. L’impeto dell’estasi che travolge la santa prende possesso del suo corpo, il panneggio amplifica l’effetto, tanto da sembrare un’onda che si infrange su una scogliera fatta dalle stesse nubi sulle quali Teresa si poggia.

Estasi di Santa Teresa, Gian Lorenzo Bernini
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa, 1647-1652 d.C.

Anticipando Bernini, Caravaggio arriva a un simile esito teatrale in pittura: nel Martirio di San Matteo la drammaticità è enfatizzata dal forte chiaroscuro e dalle molteplici direttrici sulle quali sono impostate le figure. Al centro c’è il santo riverso a terra che, con un ultimo gesto, alza il braccio per difendersi dall’ aguzzino, dall’alto due putti scendono fulminei per consegnare a Matteo la palma del martirio mentre, ai lati, la folla terrorizzata si muove in direzioni opposte aprendosi come un sipario sul tragico evento.

Martirio di San Matteo, Caravaggio
Caravaggio, Martirio di San Matteo, 1599-1600 d.C.

Arriviamo infine ai giorni nostri dove uno dei vantaggi tecnici è l’utilizzo del video e maestro assoluto è sicuramente Bill Viola. Parte del suo operato è incentrato sulla rivisitazione di capolavori del Rinascimento e del Manierismo: egli è riuscito a tradurre in un linguaggio comprensibile e immediato agli occhi di noi contemporanei, episodi che gli uomini del passato conoscevano e leggevano senza difficoltà. Altro merito è quello di aver “allargato il quadro”, nei suoi video infatti si può vedere una sorta di anteprima e di prosieguo delle opere d’arte più famose: nel celebre The Greeting, ispirato alla Visitazione del Pontormo, ripreso poi dal più recente The Encounter, due donne si avvicinano, si salutano e dialogano silenziosamente tra loro con un attento gioco di sguardi per poi stringersi in un rassicurante abbraccio.

The role of the filmmakers against YouTube liquid temporality

YouTube has been one of the first websites to allow worldwide users to upload and share videos. These videos are mostly amateur moving images, videoclips, but also short films by independent filmmakers.
A revolution on a global level, with a mass of contents uploaded minute after minute from all over the world. A world where everyone can handle a camera and has the means to spread his own voice and imagination.

However there remains a noteworthy risk, a risk often associated with an escalation of extreme exhibitionism, with no limits, rules or crafts. But, in the melting pot of video democratisation, there are also those who were able to find inspiration in order to create a real narrative. These are narratives with logic and coherence: basing themselves on – or actively searching for – the support of the individual, the strength arisen from the grassroots, they manage to investigate reality, exploring cultural differences or bringing out unexpected similarities. A result – an analysis, a state of play – that returns to the users themselves, as they provided rough material, and to the web itself.

Images from the mass that, once studied, selected, and reprocessed according to precise storylines, are eventually accessible, often under a Creative Commons License or on the website itself.
Video snapshots, the briefest flashes stolen from the mundane and contemporary living become an indelible testimony, fixed into the cinematic art after freeing themselves from the liquid temporality of YouTube.

LIFE IN A DAY 

In 2010 Ridley Scott, as executive producer, entrusted to Kevin Macdonald a project which will be considered as the first social, crowd-sourced feature film in history. From thousands of videos expressly uploaded on Youtube on July 24th Macdonald and his editor Joe Walker reassembled the pieces of everyday lives that eventually become history, not just a portrait of individual experiences but a testimony of an era.
In comparison, it is interesting to recall that the first Lumière films, with the exception of L’arroseur arrosé, were made to immortalize – for the first time with moving images – simple actions of everyday lives.

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EVERYDAY REBELLION

Althought not directly connected with the Youtube website, the production of Everyday Rebellion by brothers Arman and Arash Riahi was inspired by the many online videos that documented the Iranian green movement protests in 2009.
The strength of those images, images that were born in the streets and spread worldwide via the web, has been the driving force for the creation of a borderless documentary – a documentary that wants to explore the reasons and methods of peaceful protests and civil disobedience all around the world.
Even though most of the material has been directed by the two filmmakers, Everyday Rebellion also utilizes the visual contributions of anonymous activists or amateurs to become a semi-collaborative film, an analysis of contemporary history as it unfolds, narrated by those who are motivated to be part of it and change the course of historical events.

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Everyday Rebellion

THE UPRISING

The use of images from the web is even more radical in The Uprising by Peter Snowdon, a documentary depicted as “a multi-camera, first-person account of that fragile, irreplaceable moment when life ceases to be a prison, and everything becomes possible again”.
After spending days as a distant spectator of the Egytpian revolution via social networks, and after two years of studies of that material, the English documentary filmmaker decided to use those fragments to create a film entirely composed of videos filmed by citizens living in Tunisia, Egypt, Bahrain, Libya, Syria and Yemen. These were mostly anonymous contributors that risked their own lives to reveal what is usually prohibited to be filmed, seen or shared.
Far from being a simple collector of snapshots, Snowdon recreates a pan-arabic revolution, a liberatory cry that transports the audience between opposite ends of the arabic world: an audience uncapable of holding on to well-defined space-time coordinates but still carried away with faith in the protest, in a freed grassroots movement.

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Unlike Life in a Day, the above-noted documentaries use videos coming from the web which were not filmed for a specific project. All these films immortalize contemporary traditions, but here history becomes a protagonist, the moment itself becomes history and the individual disappears to become the voice of a movement, the voice of a change and the echo of his own time.

Images and videos have always documented and served as a proof for the contemporary. Fragments of reality, often almost accidentally shot, eventually became the lasting icon of an era.
How much of what is currently on YouTube will be able to last? Maybe, Snowdon and the Riahi brothers – among others – helped to crystallize those images, by giving them a tangible form.
Or maybe, these stories and images will be overtaken by new icons of a contemporary era which is still yet to come.

Cover picture: Fighting Pakistan’s YouTube ban, one hug at a time (Source: everydayrebellion.net)

Anniversari: dai fratelli Lumière a Youtube

Un giorno di febbraio di tanti anni fa, nel 1895 per l’esattezza, i fratelli Lumière brevettavano il cinematografo. “Qualche” anno dopo, nel 2005, nel mare magnum del web levava le ancore Youtube. Due invenzioni che hanno rivoluzionato, nel tempo, il modo di comunicare. Oggi questi due mezzi di comunicazione vivono rapporti contrastanti: una sorta di patto di non belligeranza, che a volte giunge al compromesso. Una sintesi molto ben riuscita di convergenze parallele in ambito artistico e tecnologico. Da queste, poi, nascono gli ibridi, i prestiti e le commistioni di genere. The Pills, il gruppo di youtuber romani, è da poco uscito nelle sale con un film.

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I milanesi, e altrettanto divertenti, de Il Terzo Segreto di Satira, invece, hanno optato per il teatro e, in generale, sulle esibizioni dal vivo. Per quanto riguarda la commistione con la tv, è bene tornare qualche riga sopra, ai già menzionati The Pills, e ricordarsi quanta fortuna portò loro “l’ingaggio” di Giancarlo Magalli l’anno scorso. In questo pastone introduttivo si intravede la struttura di un concetto che confluisce in una banale conclusione: viviamo nell’epoca della commistione dei linguaggi comunicativi. Su questo, credo, nessuno obietterà e infatti il mio obiettivo, almeno fin qui, è stato quello di non dire nulla di nuovo, quanto piuttosto, di evidenziare un dato di fatto che è sotto ai nostri occhi e che è bene tenere a mente ogni qual volta si parli delle nuove forme di comunicazione.

Cos’è cambiato dal 2005, anno di fondazione di Youtube, ad oggi? Anzitutto, come qualsiasi elemento che prende vita nel pianeta web, i fanatici del 2.0 ne sottolineano il principio democratico, secondo cui ognuno può esprimere il proprio pensiero senza particolari censure e poter essere visto da tutti, in tutto il mondo. Insomma, abbattere le  frontiere della comunicazione. Da qui, poi, le derive. Da Andrea Diprè, il sedicente critico d’arte che con le sue inchieste strampalate andava a scovare i personaggi più bizzarri che popolano questo nostro Paese, facendoli diventare delle vere e proprie celebrità tra il pubblico dei cibernauti; passando poi per la ragazza siciliana Francesca Ferrera, in arte Gemma del Sud, che si riprendeva in atteggiamenti ridicoli che l’hanno portata ad essere subissata di insulti (su di lei c’è anche una storia che gira sul web fatta di drammi familiari, maltrattamenti e violenze: anche questo è internet). La potenza del mezzo è evidente. L’hanno capito molto bene anche i terroristi dell’Isis che hanno fatto della preparazione e propagazione dei video online, la loro prima fonte di “sponsorizzazione”. I video dei terroristi, negli anni, hanno investito molto nella comunicazione, soprattutto nel perfezionamento del lavoro di post produzione dei video: montaggio e riprese sono drammaticamente ben orchestrate. Questa è la nuova frontiera della comunicazione per suoni e immagini. Nel frattempo, Andrea Diprè, sempre più travolto dal suo stesso personaggio, si è dato al porno, la più grande industria del web.

Arlecchino part-time

≪Arlecchino era un mezzo diavolo, ha a che fare coi sogni, quelli che ritrovi in certe persone≫

   Intervista a Paolo Rossi – Andrea Pocosgnich

 

Nella settimana del carnevale non si può non pensare alla figura di Arlecchino, prima espressione del mascheramento, con la sua tunica di pezze colorate e la maschera demoniaca.

Egli nella Commedia dell’Arte è uno Zanni (antica maschera bergamasca) un servo, buffo ma soprattutto furbo, in grado di mandare avanti l’azione improvvisando e rinnovandosi di volta in volta, nella Commedia dell’Arte come nella vita.

Oggi l’Arlecchino, furbo e benevolo, è tornato all’attualità, non solo per l’impresa dei grandi registi contemporanei di rimettere in scena il teatro delle maschere, quanto più come riflesso di un atteggiamento sociale.

Gli Arlecchini nel 2016, sono quelli che tentano di capire come difendersi da una situazione economica, sociale e civile; tanto difficile da non permette di intravedere soluzioni o vie d’uscita. Con prontezza e scaltrezza, giovani e meno giovani, si reinventano per adattarsi e sopravvivere in un mondo in cui il problema principale oltre alla crisi economica è il cibo e la mancanza di materie prime, una società tanto malata che nonostante ciò non sa vedere oltre i concetti di guadagno, successo e visibilità; ma fortunatamente ci sono gli Arlecchini che tentano il confronto e cercano di fare discorsi intelligenti, per smuovere una coscienza critica reincarnandola nella satira.

È questa la situazione dei tanti migranti sociali, intesi non solo come quelli che lasciano la terra natia alla ricerca di nuove vie, ma anche di quelli che per andare avanti cambiano lavoro ogni mese, si mettono nelle mani delle agenzie interinali, sfruttano ogni occasione e non si lasciano abbattere; è la società dei freelance, collaboratori esterni, di quelli con la partita iva, compenti e capaci; che saranno la svolta per una civiltà che guarda al cambiamento.

 

Cercami con le tue passioni, SparkMe

In un mondo sempre più social le novità non mancano di certo e SparkMe (link) ne è la prova. App che consente di conoscere nuove persone condividendo interessi comuni, è disponibile sull’ app store dal 15 giugno scorso. In questa settimana dedicata al Carnevale e al migrante sociale, Pequod ha scovato questa chicca che al meglio rappresenta il cambiamento nell’approcciarsi all’altro. Trovare e contattare ad ogni costo qualcuno che condivida le stesse passioni in un grande contesto cittadino (che forse, ancora spaventa un poco).

L’ideatore, insieme ad un gruppo di suoi coetanei, è Marsel Nikaj, giovane universitario di 23 anni nato in Albania e cresciuto a Varese. «Questa applicazione si focalizza sul social dating abbattendone il puro aspetto superficiale e mettendo in contatto le persone per affinità di interessi», spiega Marsel.

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La prima realise è stata rilasciata su piattaforme IOS ed è scaricabile gratuitamente dall’ app store del proprio Iphone. Il suo funzionamento è molto semplice: una volta creato il nostro account andremo ad impostare la nostra immagine del profilo e sei immagini opzionali che diano un’idea dei nostri interessi. Il passo finale consiste nello scegliere tre passioni selezionabili tra 104 disponibili divise in sei macro-categorie e tre luoghi preferiti, ciascuno accompagnato da un’immagine e da una breve descrizione. Dopo di che SparkMe suggerirà all’utente persone affini e che sono geograficamente vicine, mentre con il tasto “Esplora” permetterà di poter visualizzare i profili di tutte le persone con cui poter entrare in contatto ed aumentare il numero dei propri “Sparkers” utilizzando il tasto “Spark”. Infine si potrà inviare una richiesta di amicizia che, una volta confermata, permetterà di chattare. Ma le novità non finiscono qui e secondo il giovane ideatore: «in futuro sarà possibile creare dei gruppi personalizzati che si basano esclusivamente sui propri interessi in modo da poter connettere ancora meglio le persone che utilizzano l’app».

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Ma come mai un ragazzo così giovane ha pensato a dar vita ad un’idea così innovativa? «Tutto è nato circa un anno fa: stavo bevendo un caffè con un mio caro amico ed entrambi riflettevamo sul mondo del social dating, su come molto spesso questo mondo si basi quasi esclusivamente sui flirt. Così mi sono detto: perché non creare un qualcosa che permetta di incontrare nuove persone grazie a ciò che l’accomuna e condivide? Da qui è partito il progetto SparkMe!». Progetto che vede alla base un’idea di fondo: «il mio desiderio sarebbe quello di poter lasciare un segno, un qualcosa che attesti che il nostro passaggio non sia inutile» e sicuramente SparkMe è un buon punto di partenza per realizzare questo desiderio.

SparkMe (link facebook) può rappresentare una svolta nel mondo dei social dating. Anzi, forse è proprio la svolta di quel mondo. Non più una chat fine a se stessa ma una chat che può portare ad un qualcosa di piacevole e anche di costruttivo, perché coltivare le proprie passioni è, probabilmente, ciò che ci permette di realizzarci meglio e quindi perché non farlo insieme ad altre persone che condividono i nostri stessi interessi?

Darsi alla macchia e fiorire: una migrazione in Maremma

Capita il momento in cui l’inadeguatezza preme e schizzare via è l’incerto palliativo.
Meta fantasticata, rinnovare la mente, andare a caccia: questo serve e questa è l’idea-propulsore per raggiungere la velocità di fuga.
Andare come unica possibilità di sanità spirituale, farsi proiettile e concedersi a gravità altre.
Così nel Marzo 2013, in muta euforia, lascio la scolorita valle natale bergamasca e prendo il treno che si rivelerà essere il più fecondo della mia giovinezza.
Sarei dovuto partire per un’esperienza di 2 mesi. Sono passati 3 anni.

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La Toscana è armonica come si crede, non delude attese, ti fa microbo e partecipe al ciclo.
Qui ho trovato il respiro, il fissare i bei momenti, l’indizio di vita nella terra.
Le colline ospitano gli scenari variopinti delle macchie boschive che spartiscono ondulati spazi con i pascoli, le vigne con gli uliveti e, là, l’Argentario apre l’occhio alla Panthalassa.
Il cielo, la notte, è il più generoso che abbia mai visto: pulita volta tempestata dal palpito delle costellazioni.

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Arrivai a Ripacci (frazione rurale di Scansano, paesino nel mezzo della Maremma), presso l’azienda agricola Podere Novo, da wwoofer ovvero apprendista volontario in cambio di vitto e alloggio.
In breve tempo ho potuto munirmi dei rudimenti per condurre una vita agricola in buona parte autosufficiente. Oggi qui ci lavoro.
Isolata, a 7 km dal paese, questa contrada contadina crea una piccola comunità sinergica, un insolito e azzardato tentativo di condurre una vita sociale d’altri (nuovi) tempi.
La fattoria nacque 30 anni fa come progetto di comune rurale dall’entusiasmo di una dozzina di persone provenienti da svariate regioni italiane; ristrutturarono un rudere riconvertendolo ad abitazione e attorno costruirono stalla, caseificio e un’incantevole sala da meditazione. Eressero persino un rustico teatro a cielo aperto dalla tribuna in roccia che sorge tra l’uliveto e il versante dei campi, custode di un’arcana e magnetica atmosfera.
Romanticamente, pare qui latitino i ricordi di chi viene a cercare un abbraccio nel panorama.

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I giorni corrono tra le innumerevoli attività stagionali d’orticoltura e raccolta e la puntuale cura del bestiame. Nei mesi più caldi si aggiunge l’impegno in agriturismo.
Fossi solo, non sopporterei il ritmo a lungo, ma fortunatamente la costante presenza d’altri wwoofer concede tempi di lavoro ottimali e condivisione del quotidiano.
L’azienda, oltre ad essere prossima alla costa, situa a poco più dimezz’ora di auto dalle sorgenti termali d’acqua sulfurea di Saturnia, il bacino del fiume Albegna e le pendici del monte Amiata.
In un’area così contenuta ogni genere di scenario è contemplabile, perciò domeniche e giorni festivi si risolvono in sempre differenti escursioni.
Una profusione di giovani che vanno e vengono sperimentando qualche settimana o mese di vita agreste (i wwoofers sopracitati) tiene vivo il rapporto umano, la gioia dell’aver intrapreso questa via, lo studio dei caratteri e del linguaggio (2 volontari su 3 sono stranieri: ciò sprona a perfezionare il proprio inglese).

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Da 2 mesi a 3 anni dicevo.
Fuggire da una gravità non significa essere immuni ad altre, maggiori.
Va tutto bene. E’ perfetto. Le mani nella terra, i piedi sui prati finché ciò mi nutre.
Poi nessun problema.
Lo abbiamo ormai imparato: sappiamo evadere.

Arlecchino, il migrante sociale

Bergamo al tempo del Rinascimento non è che brillasse per fermento culturale o grandi corti di intellettuali. C’era cultura a Bergamo, ma non c’era una cultura bergamasca e salvo i colti festini della cricca del Colleoni, il resto della popolazione guardava alla Serenissima con la voglia di prendere e partire. Sia gli intellettuali che i popolani sentivano il bisogno di una nuova linfa vitale: molti decisero di andarsene dalle impervie valli per dirigersi verso città portuali come Pisa, Livorno, Genova e Venezia, dove i bergamaschi di montagna, laboriosi e forzuti, erano molto ricercati.

Facchino, manovale, servo erano i lavori più abbordabili nonché i più degradanti e, come accade ancora oggi: “Maledetti questi bergamaschi che ci rubano il lavoro!”. Dalla loro però avevano da giocarsi la carta della simpatia: un aspetto ridicolo, il gozzo – causato da acque cattive e pessima alimentazione – che gonfiava il collo e un dialetto molto stretto, ma che fornì a queste persone l’occasione di diventare degli attori professionisti.

Claudia Contin "Arlecchino", attrice italiana che porta in scena la più nota delle maschere maschili
Claudia Contin “Arlecchino”, attrice italiana che porta in scena la più nota delle maschere maschili

L’ “Arte” della Commedia, infatti, altro non è che “mestiere”, e i nuovi protagonisti della scena avevano mestiere da vendere: abilità diverse (canto e ballo, recitazione e acrobazie) si adattavano all’esile drammaturgia dei ‘canovacci’, in un continuo alternarsi di comico e drammatico, di battibecchi tra borghesi saccenti e Zanni sempliciotti ma efficienti e delle romanticherie degli innamorati; trame semplici e ‘tipi fissi’ che attirano il favore di ogni tipo di pubblico.
Il segreto del fascino della Commedia dell’Arte stava nell’improvvisazione, una ricerca lunga una vita che non ha nulla a che fare con l’incompetenza. Pensate a qualcosa come una jam session: in scena gli attori improvvisavano sul testo affiancando alle battute collaudate i detti popolari e riferimenti ammiccanti all’attualità del posto; attori che assimilavano qualsiasi forma spettacolare incontrata in viaggio, rinnovando continuamente la propria presenza scenica.

Accademici ed ecclesiastici aberravano tutto questo ciarlare nelle piazze: «i loro costumi sono questi: il saper vivere sempre per le osterie, l’essere vagabondi, spergiuri, ciarloni, puttanieri, giocatori e per corona di tutto bugiardi sopraffini». Le loro donne? Catalogate come «puttane erranti».
Già l’essere attori faceva di loro persone al limite della società; aggiungeteci il fatto di non vivere stabilmente a corte, sotto le dipendenze di un nobile signore, ma per strada: la piazza era il palcoscenico. Perché piacevano questi Zanni? Perché parlavano di tutto il popolo, del contadino bergamasco e dello schiavo veneto, dello spocchioso capitano di ventura e del dottore intellettualoide. La società che li accoglieva, nel bene e nel male, era l’ispirazione per lo sviluppo di trame rocambolesche dove gli unici obbiettivi dei servi Zanni e Arlecchino erano mangiare, bere e concludere qualcosa con la servetta di turno.

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Ma dietro la maschera c’è molto di più: tra coriandoli e stelle filanti, nel Carnevale riaffiora un rito antichissimo, il gioco magico e religioso del travestimento che è alle origini della storia dell’uomo.
Dietro la maschera c’è un attore che sfida i propri limiti, che smaschera bugie e lusinghe della parola e della mimica facciale rivelando la verità del linguaggio del corpo.
Dietro la maschera c’è un uomo che si trasfigura per adattarsi o opporsi a una nuova società, ieri come oggi.

Con buona pace degli aristocratici, i comici dell’arte hanno avviato una grande rivoluzione teatrale e sociale. La Commedia dell’Arte è alle origini del teatro moderno, fatto di attori professionisti e pagati, ma anche dell’emancipazione della donna, per la prima volta accolta su un palcoscenico senza dubbi sulla sua moralità, e dell’emancipazione sociale di chi, vagabondo per necessità, ha fatto dell’itineranza una scelta di vita o, almeno, un viaggio alla scoperta dell’altro e di se stesso.

Articolo di Sara Alberti e Alice Laspina

Job market for young students? Whatever the question INTERNSHIP is the answer

Studying and working can be seen as two different worlds sometimes, being the former really focused on theoretical frameworks while the latter is more focused on being productive, efficient, and independent.

More and more companies are hiring new employees with one pre-requisite that nine times out of ten makes them standing out from the crowd: working experience. The question rises naturally, how can you expect a new student who has just finished her/his studies to have already such experience?

There should be a starting point, there should be a chance to fill this gap between the academic world and the working one. What is the trade-off of such system?

Most of the time the answer is simply one: INTERNSHIP, which generally can last from 6 months to one year and the main aim of the company is to introduce the new student in the working environment starting with basic tasks to make her/him accustomed. Subsequently, the student is involved in more complex tasks which are pertaining to her/his domain of expertise. Benefits in terms of employability and success can be noticed at first glance in figure 1.

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Figure 1. Job offers and internship

The type of internship can vary according to the type of institution/organization, which can be for profit, nonprofit, private, federal or local. What emerges in all the different organizations is that all the paid internships are more likely to provide a full time offer when compared to unpaid ones. When it comes to receive a full time job offer, the difference shown in figure 2 underlines a considerable advantage for those who did a paid internship.

Figure 2. Full time job offers by paid or unpaid internship
Figure 2. Full time job offers by paid or unpaid internship

Three essential constituents involved in the job market system are students, universities, and companies. Given the importance of the internship in order to get access to the job market easily, universities represent the bridge between students and companies. Several universities provide online platforms which put in contact students and companies, job vacancies or internship positions are constantly uploaded, others organize career days where students have the chance to meet the company delegates who are looking for new potential employees.

Dutch universities make this connection possible by providing detailed online sections regarding the labor market and all the important steps to take to find the best working path for each candidate. For example on the UvT  website, these sections include training courses, workshops, CV consultations, application advices, career events and also insights on the labor market trends. In addition to these, active student associations give their contribute to the pursuit of job experience both at national and international level. One of the most known and active organization is AIESEC, which counts more than 70.000 members worldwide spread in 2400 universities in 126 countries.

Several leading companies cooperate with AIESEC to allow young students to develop their potential, gain experience, and widen their horizons through global internships.

AIESEC

If companies and private institutions appear to be a bit hesitant before hiring a new young employee with no experience at all, on the other hand a new young employee with such experience reached during an internship represents a more desirable candidate. The reason for such type of choice can be found in the considerable cost that a company has to invest if the candidate has no prior knowledge of practical tasks required or even if the theoretical knowledge goes beyond the practical one.  For the state of the job market which nowadays is getting more and more dynamic, hectic, and specialized such asset can represent a crucial element in the job offer and hiring process. All the necessary ingredients to boost a young student’s leap into this competitive and challenging arena are available around them, the rest depends on personal motivation, capability of adaptation and fast learning, positive aptitude, and of course a bit of luck.