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Mese: Marzo 2016

Il mockumentary: finzione, realtà e ancora finzione

Mock: dall’inglese, “prendere in giro”.
Giocare con il cinema, alternare realtà e finzione, spingere lo spettatore a credere in quello che vede, lasciare che si immerga in quello che si trova di fronte per disvelare (in alcuni casi) l’artificio soltanto alla fine.

Una mistificazione che negli anni si è prestata a vari intenti, che ha interessato registi di fiction e documentaristi, per trovare grande fortuna all’interno del genere horror, teso a conquistarsi la fiducia dello spettatore calandolo in un “come se” che gli permette di accogliere stati di (ir)realtà altrimenti difficilmente accettabili.

Prodotto dalla BBC nel 1965 e vincitore di un Premio Oscar al Miglior Documentario (!), The War Game viene spesso considerato il primo mockumentary della storia. Nell’opera forse più nota tra i tanti lavori politici e sperimentali di Peter Watkins, lo spettatore è convinto di trovarsi immerso nelle cronache di uno scenario post-apocalittico, a seguito di una guerra mondiale.

A cavallo tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30, l’ebreo americano Leonard Zelig fa parlare di sé per la sua capacità di assumere fattezze e comportamenti simili a chiunque gli stia accanto. Un viaggio che si snoda tra le metamorfosi di un uomo che si trasforma in trombettista jazz, campione di baseball o obeso, indiano o cinese. Attraverso le mille storie del suo uomo-camaleonte, nella pellicola Zelig del 1983, una parodia di un documentario dei primi del Novecento, Woody Allen racconta, con il suo immancabile spirito tragicomico, la capacità di omologazione e conformismo del comune cittadino nei confronti del sistema.

Dark Side of The Moon prende invece di mira la teoria del complotto, instaurando quindi un paradossale meccanismo di (falso) documentario per accreditare – e, quindi, a screditare – le tesi secondo cui l’allunaggio dell’Apollo 11 nel 1969 non sia mai avvenuto.
Buzz Aldrin, Kissinger e Rumsfeld, tra gli altri, partecipano all’operazione mettendo i loro volti e le loro testimonianze sostenendo la visione di Stanley Kubrick come orchestratore – e marionetta, al tempo stesso – di una macchinazione propagandistica.

Dark side of the moon

Nel 2008, Joachin Phoenix annuncia di voler abbandonare la carriera di attore per intraprendere quella di rapper. Casey Affleck, al suo primo lavoro da regista, decide di girare un film sul suo cambiamento, mentre Joachin sta al gioco e indossa i panni di un novello artista hip-hop che sceglie di sparire dalle scene, maturando la decisione di non presentarsi nemmeno alla conferenza stampa in programma al Festival di Venezia che anticipa l’anteprima mondiale dell’opera. Sarà vero? Definito dallo stesso Affleck una “performance art”, I’m Still Here è la surreale biografia in fieri di una figura decisamente sopra le righe e, insieme, il grottesco ritratto dello star system e della sua (s)mitizzazione.
Una grande truffa che non si è esaurita al termine della proiezione ma è stata sconfessata dal regista e da Phoenix soltanto poche settimane dopo l’anteprima in laguna.

Il confine tra documentario e finzione, tra illusione e realtà, finisce a volte per non smascherarsi affatto. Exit Through the Gift Shop (in copertina), documentario del 2010 attribuito a Banksy, è un’osservazione sulla figura dell’artista contemporaneo e sulla mercificazione delle sue creazioni. Una riflessione sull’autenticità che non si consuma con i titoli di coda o le conferenze stampa, opera di una figura senza volto nei confronti della quale lo spettatore, ancora oggi, è destinato a continuare a chiedersi se dietro la macchina da presa del “documentario su un uomo che voleva fare un documentario su di me” si nasconda davvero l’artista che fa dell’ubiquità invisibile uno dei suoi punti di forza.

Is Donald Drumpf a joke?

United States presidential elections are not exactly an easy topic, definitely not a joke, considering the prominent role of the American President. This time the American elections battlefield has seen a new “rising star” whose controversial personality and outrageous claims have crossed the US borders giving him an incredible popularity. Donald Trump, with his racist declarations, his rich-and-tough-guy attitude and his shameless lies may be just fun for the Europeans, but in the USA the issue is way more serious, as what started as a joke is now dangerously spreading and Trump being the only candidate running for the republican party is becoming a certain fact.

Despite the seriousness of the issue, we know that politics has always been comedy natural environment and American comedians are famous for not keeping their mouth shut when it comes to presidential candidates. Of course nobody could expect them to ignore the comical potential of Donald Trump, who seems to be committed to giving comedians new material for their jokes every day. And the thing is that they don’t even need to add something to make Trump’s claims fun, as they already sound like jokes.

Bill Maher, an American comedian and political commentator, host of the political talk show Real Time with Bill Maher, is probably one of the most committed to the anti-Trump cause. He was even sued by the republican candidate for challenging him to demonstrate that he wasn’t the lovechild of his mother and an orange-haired orangutan. But Maher has tons of other jokes on Donald Trump and is not afraid to continue his crusade, because apart from the funny jokes, he seems really worried about the possibility of Trump’s victory.

Another comedian who’s not hiding his contempt for Trump is John Oliver, an English comedian and political commentator, host of the show Last Week Tonight with John Oliver. Oliver has recently dedicated the main story of his show to Donald Trump, despite he knows that every time his name is said out loud Trump has “a shuttering orgasm.” As Maher, Oliver is worried about Trump’s success, defining his escalation as «America’s back mole: it may have seemed harmless a year ago, but now that it’s gotten frighteningly bigger it’s no longer wise to ignore it». Oliver insists on Trump’s failures in business and on Trump’s lies about his money. Not only does Trump lie about his money, but also on his name! According to Oliver’s research, Trump is not even his real name, as his family changed it from Drumpf to Trump. On Oliver’s website donaldjdrumpf.com people can support the comedian’s anti-Trump campaign.

The same opinion on the republican candidate is shared by Louie C.K., an American stand-up comedian who became famous thanks to his comedy-drama series Louie and currently producing and acting in the new series Horace and Pete. Despire Louis’ typical subjects don’t include politics, focusing instead on everyday life, human behavior, sex, gender differences and parenting, this month C.K. has felt the need to express his opinion toward Trump. With his characterizing satiric tone he wrote:  “Please stop it with voting for Trump. It was funny for a little while. But the guy is Hitler. And by that I mean that we are being Germany in the ’30s. Do you think they saw the sh-t coming? Hitler was just some hilarious and refreshing dude with a weird comb over who would say anything at all.” Comparing Trump to Hitler is only the beginning of his letter, which Louis concludes with these words: “He’s a sad man. But all this makes him horribly dangerous if he becomes president. Give him another TV show. Let him pay to put his name on buildings. But please stop voting for him.”

Louis C.K. (mashable.com)
Louis C.K. (mashable.com)

All these three comedians are extremely popular, and they all exposed against Donald Trump. But they’re not alone. The female comedians Amy Schumer, star of the series Inside Amy Schumer, and Chelsea Handler, famous for her Chelsea Does, both gave their opinion about the republican candidate. When asked, Schumer said Trump should not run for president, and Chelsea, even though she didn’t say anything, made her point clear by sharing this picture on her Instagram profile:

Chelsea Handler on her Instagram (@chelseahandler)
Chelsea Handler on her Instagram (@chelseahandler)

Can comedy and satire help American citizens make the right choice? Sure we hope that apart from making them laugh their jokes will make Americans think about who Donald Trump really is.

 

Cover photo: https://www.flickr.com/photos/claudiouribe/32467614655/

Bufale e paradossi, è questa l’informazione che ci meritiamo?

Il fenomeno degli “acchiappalike’’ si è sempre più diffuso in rete negli ultimi tempi. Si tratta di quei quotidiani online o sedicenti tali che sfruttano i social network come trampolini di lancio, pubblicando articoli che riportano notizie banali, spesso errate o prive di senso per stuzzicare l’attenzione dell’utente che, spinto dalla curiosità, apre il contenuto. Lo scopo? I “Mi piace’’ facili e le visualizzazioni automatiche utili ad aumentare i propri seguaci/follower.

 

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Chi ha deciso di opporsi a queste “scelte editoriali”, paradossalmente, proviene proprio da Facebook, il social network per eccellenza: la pagina Ah ma non è Lercio, che attualmente conta più di 200.000 like, nasce tra le pagine del quotidiano free press Leggo, poi è nato il sito satirico Lercio.it e infine la pagina Facebook che ne ricalca i tratti grafici. «Questa pagina non nasce come umoristica: l’obbiettivo è segnalare un certo tipo di giornalismo di cui faremmo volentieri a meno su testate nazionali». L’utente viene quindi messo in guardia da quei contenuti che con il giornalismo hanno poco a che vedere e che il più delle volte rispondono solo all’assioma “più clic uguale più valore”.

È un monito quello di Ah ma non è Lercio, che attraverso il suo lavoro segnala, denuncia e quindi spiega al grande pubblico le criticità dell’informazione italiana e le sue bassezze. Il lettore ha diritto a leggere notizie redatte secondo criteri di chiarezza, completezza e serietà, e sicuramente un articolo come quello apparso su La Repubblica nel 2013, che mostra l’immagine di un cane che assomigliava a Putin, non rientra in questa categoria. «Quando informare è sinonimo di divertire… non ci resta che piangere».

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Ma nella grande famiglia degli acchiappalike gli articoli privi di contenuto giornalistico sono solo la punta dell’iceberg: anche le classiche bufale da web hanno grande importanza in termini di visualizzazioni. Di solito si presentano con incipit del tipo “Notizia flash”, “Incredibile” e continuano con notizie false, se non addirittura tendenti ad incitare l’omofobia, il razzismo e l’odio religioso. Non è difficile, infatti, imbattersi in articoli che accusano il governo «di aver dato soldi ai migranti e vitto e alloggio gratuiti» o di quanto una «coppia omossessuale sia pericolosa per la società». È così che alcuni siti web, sfruttando la loro popolarità, sono riusciti a creare un vero e proprio giro d’affari e anche a raggiungere cifre esorbitanti. Oltre al danno, anche la beffa.

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L’utente ha diritto ad un’informazione trasparente, non di parte; insomma, ad un’informazione seria, che di certo non trova le sue basi fondanti nella comicità e nel non-senso. Ecco perché servono pagine come Ah ma non è Lercio, ecco perché sarebbe buona cosa recuperare parte del nostro spirito critico.

Storie di Non-Mafia

Parlare di mafia non è facile ma nel 20° anno di celebrazione della Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, c’è bisogno di raccontare; raccontare storie, di vittoria e di rinascita perché la mafia può essere vinta.

Il punto di vista è diverso, è quello dei beni confiscati, di quei possedimenti che non sono paragonabili a nessun’altra tipologia di bene e che rappresentano, simbolicamente, il potere dei boss cui apparteneva e della loro invasività nel controllo del territorio.

Girando per Milano si possono incontrare delle realtà differenti come Opera in fiore una cooperativa agricola sociale, assegnataria di un terreno confiscato, che promuove il lavoro nelle carceri con laboratori e programmi di formazione, anche Unkode Lab lavora per l’inserimento nella società di persone con difficoltà ed ex detenuti strizzando però l’occhio al mondo della moda, oppure il Bar Balzo (in copertina) ex edicola ‘ndranghetista che oggi offre un’esperienza fuori dall’ordinario con un diversamente aperitivo e camerieri speciali dai sorrisi inebrianti, o ancora, l’Associazione Terza Settimana e il suo Social Market, che del negozio d’alta moda dietro cui si nascondeva il traffico di cocaina non ne è rimasto nulla e lo stesso vale per il magazzino di Aromi a tutto campo, gastronomia take away di cucina vegetariana e vegana.

Cooperativa agricola sociale Opera in fiore, via Ettore Ponti 13, Milano

Queste sono solo alcune, tante altre sarebbero le storie da ascoltare, oltre che per la bellezza anche per comprendere le difficoltà che operatori e responsabili devono affrontare. Troppo lunghi i tempi che intercorrono fra sequestro, confisca, destinazione e assegnazione del bene, troppo complesse le normative e nessun aiuto economico, ma su tutto, a vincere, sono la gentilezza e il sorriso di chi ha fatto della propria vita e lavoro un punto di riferimento per aiutare gli altri.

Cooperativa agricola sociale Opera in fiore
Cooperativa agricola sociale Opera in fiore

 

Unkode Lab, via Vallazze 26, zona Lambrate, Milano
Unkode Lab

 

Bar Balzo, via Ceriani 14, Milano
Bar Balzo

 

Associazione Terza Settimana – Social market, via Leoncavallo 12, Milano
Associazione Terza Settimana – Social market Milano

 

Aromi a tutto campo, via Passerini 18, Milano
Aromi a tutto campo

 

NOma: quando la mafia si combatte con un’app

Le vittime di mafia sono tante e un solo museo non basterebbe per raccontare le loro storie  ma forse, una semplice applicazione per smartphone sì. Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Piersanti Mattarella, Mauro de Mauro sono solo alcuni dei nomi che vengono in mente quando si parla di stragi mafiose. NOma- museo urbano NOmafia (link) è quel tipo di applicazione: il suo scopo principale è quello di raccontare le storie di tutti coloro che hanno combattuto contro le cosche.

Pensata e creata dall’associazione Sulle nostre gambe,  fondata da Pierfrancesco Diliberto – in arte Pif – Roberta Iannì, Emanuela Giuliano e Tiziano Di Cara, l’idea di questa app è stata sviluppata insieme a Tim, col patrocinio del comune di Palermo, in collaborazione con le Rai Teche e presentata venerdì 5 febbraio 2016 nella sala Koch del Senato.

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NOma si rivolge ai cittadini, ai turisti e a chiunque abbia voglia di conoscere un pezzo drammatico della storia d’Italia. Sia in versione italiana che anglofona, l’utente è guidato nelle strade e nei luoghi degli attentati mafiosi con l’aiuto di documenti storici, video, interviste inedite ai famigliari delle vittime, note bibliografiche. Famose voci narranti, come quelle di Pippo Baudo, Fiorello e Ficarra&Picone per citarne alcune, permettono di immergersi in un vero e proprio tour interattivo. Se ci si trova a Palermo, in prossimità di una tappa presente nell’applicazione viene addirittura inviata una notifica al dispositivo su cui è installata la stessa. Il tutto è scaricabile gratuitamente dagli store android IOS e Windows.

Altra importante funzione è Pizzofree che propone itinerari riguardanti le realtà che hanno aderito al progetto Addiopizzo . Si tratta di un movimento nato grazie alla volontà di alcuni giovani che si propongono di combattere le mafie “dal basso”, proponendo una vera e propria economia virtuosa, libera dal pizzo, servendosi dello strumento ‘’consumo critico ’’. Il loro motto è: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità».

Sono attualmente raccolte le storie di 15 coraggiosi con i relativi itinerari da seguire e scoprire: sono le storie di Antonino Agostino, Paolo Borsellino, Rocco Chinnici, Mauro De Mauro, Giovanni Falcone, Mario Francese, Giorgio Boris Giuliano, Libero Grassi, Carmelo Iannì, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Beppe Montana, Giuseppe Puglisi, Pietro Scaglione, Cesare Terranova. Successivamente saranno disponibili anche le storie di Filadelfo Aparo, Ninni Cassarà, Gaetano Costa, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Peppino Impastato, Paolo Giaccone e Calogero Zucchetto,  compongono un primo elenco che in futuro verrà ampliato.

Grazie all’opzione Vista 360°, inoltre, l’utente ha la possibilità di visitare virtualmente il luogo dell’accaduto sfruttando foto panoramiche a 360°. Ascoltando la narrazione e guardandosi attorno l’utente avrà modo di capire meglio come sono andati i fatti.

Uno strumento efficace per combattere la mafia è la conoscenza. Ed in questo caso la conoscenza di chi si è battuto, di quello che ha fatto, di chi ha affrontato. Noma è uno strumento, nulla più che un semplice strumento ma con una funzionalità enorme: ricordare alcuni grandi eroi e le loro gesta in modo che le generazioni future abbiano qualcuno a cui ispirarsi.

Viaggi etici “pizzo-free”

Il turismo e le associazioni di tipo mafioso sono connessi da una stretta relazione. I rapporti circa l’incidenza delle attività illecite di stampo mafioso nei settori tradizionali evidenziano come, dopo il compartimento commerciale e quello edilizio, siano alberghi e ristoranti a guadagnarsi la terza posizione.

Le mafie investono nell’economia legale per svariati motivi che spaziano dal riciclaggio di denaro, alla ricerca di credito e rispettabilità. La motivazione più scontata di questo reinvestimento di proventi illeciti, quale la necessità di nascondere rendite illegali e di reintrodurre liquidità nel mercato legale, è affiancata da altre motivazioni meno scontate: grazie alla creazione di nuovi posti di lavoro, ad esempio, le organizzazioni mafiose ottengono consenso sociale nel territorio. L’investimento immobiliare in hotel e ristoranti è infatti legato all’idea, tipica della cultura italiana, che si tratti di un buon affare, di un impiego sicuro di fondi e soprattutto di un simbolo di prestigio sociale. Oltre all’investimento diretto, il fenomeno si manifesta nei confronti delle attività commerciali di tipo turistico, che devono fare i conti con le intimidazioni mafiose e con la richiesta di pagamenti (il cosiddetto pizzo).

La difficoltà nelle stime è un elemento implicito di queste analisi; lo stesso vale per le scelte del consumatore: è difficile rintracciare informazioni circa infiltrazioni e speculazioni mafiose, quindi per il turista non è facilmente possibile fare scelte eticamente responsabili e viaggiare senza allargare i guadagni delle mafie.

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Ci sono però buone notizie dal mondo dei viaggi! Il tour operator Addiopizzo travel è stato creato dal comitato Addiopizzo, nato in Sicilia nel 2004 attorno allo slogan “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Il tour operator dà la possibilità di andare alla scoperta di una regione splendida quale la Sicilia, affiancando alle tradizionali attrazioni turistiche, l’opportunità di conoscere le persone e i luoghi più importanti del movimento antimafia. I tour proposti spaziano da quelli della durata di sette giorni alla scoperta dei siti siciliani patrimonio dell’Unesco, ad altri più brevi, fra Palermo e Capaci, sui luoghi della memoria delle vittime di mafia. I fornitori cui l’associazione si rivolge sono tutti garantiti “pizzo-free”: albergatori e ristoratori che hanno scelto di dire no alla mafia. Il sito offre inoltre una lista delle attività aderenti all’iniziativa, consultabile al fine  di pianificare un viaggio in autonomia, con la consapevolezza di soggiornare e mangiare solo in strutture non legate alla mafia o che hanno deciso di reagirvi.

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Esistono numerose associazioni che organizzano viaggi d’istruzione e tour d’impegno civile, rivolti soprattutto ai giovani e alle scuole. Oltre a queste importantissime proposte, è giusto informare e indirizzare anche il turista meno sensibile alla tematica, sottolineare la portata dell’estensione dell’attività mafiosa nelle attività lecite e non lasciare che si faccia nostra l’idea che la mafia sia una realtà lontana, che non ci riguarda. Addiopizzo travel fa parte dell’associazione no profit AITR “Associazione Italiana Turismo Responsabile”, che si propone di promuovere e divulgare pratiche turistiche connesse al cosiddetto “turismo responsabile”, ossia sostenibile ed etico, e che ha come obiettivo primario quello di ricordarci che ognuna delle nostre scelte può avere ripercussioni di cui noi stessi dobbiamo essere consapevoli.

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Mafia, i racconti “civili” e i miti da sfatare

Erano gli anni Settanta quando la saga di Vito Corleone sbarcava sul grande schermo, diventando l’illustre precedente di molte storie di mafia. Oggi sono innumerevoli le serie tv che raccontano di giudici retti e poliziotti eroici, persino di mafiosi dall’animo fragile e dilaniato (forse troppo: come non pensare a Rosy Abate di Squadra Antimafia, donna della malavita e madre di un figlio avuto da un poliziotto e poi travolta da un nuovo amore per un altro uomo in divisa?).
E allora, perché andare a teatro per sentirsi raccontare storie di mafia e storie contro la mafia? Nell’epoca dei giornalisti prestati al teatro e degli attori prestati al giornalismo, tutto sembra confondersi. Ma i motivi sono tanti e si raccontano da sé.

La (Quinta) mafia esiste: non solo il Sud
«Qualcuno confonde il giornalismo con la scrittura letteraria e pensa che un attore debba salire in scena con un’inchiesta invece che con uno spettacolo. Questo sarebbe il lavoro dell’attore?». Partiamo dalla domanda provocatoria di Ascanio Celestini per parlare di uno spettacolo che nasce dal romanzo-inchiesta di Giuseppe Catozzella, Alveare, e alterna come protagonisti minacciosi uomini in completo scuro, ragazzi di periferia e simpatici vecchietti-mafiosi che si lamentano degli acciacchi e rimpiangono i metodi violenti delle cosche di una volta. Quinta mafia di compagnia b a b y g a n g racconta la ‘ndrangheta al Nord, invisibile o solo taciuta, attraverso quadri comici o tragici, anche sfruttando un’improbabile storia d’amore tra un giovane mafioso e una giornalista de La Repubblica che indaga sulla mafia.

I protagonisti: non solo “giornate della memoria”
A teatro, quindi, per sfatare i luoghi comuni, come quello della “memoria rinfrescata” dalle giornate commemorative di stragi e vittime che sembriamo dimenticare per il resto dell’anno. Una sorte che tocca spesso a personaggi che si sono distinti per una resistenza pacifica ma tenace al malaffare, come quella di don Pino Puglisi. È l’uomo che il mainstream ricorda, serioso, nel giorno della sua morte (15 settembre 1993); è l’«amante amatore innamorato dell’amore» che Ficarra e Picone raccontano in uno sketch famoso che non esclude le risate; è U parrinu nel monologo che intreccia storia e ricordi personali di Christian Di Domenico: il parroco che sorrideva, nel quartiere Brancaccio di Palermo, per accogliere bambini abbandonati a se stessi e vincere l’ostilità con l’ironia.

Padroni delle nostre vite: non solo storie di morte
Nell’Italia del degrado accettato o subìto c’è un’Italia che resiste, anche contro uno Stato incapace di difendere chi non vuole soccombere ai ricatti della malavita. Così inizia la lotta dell’imprenditore calabrese Pino Masciari, costretto a lasciare la sua terra per aver denunciato gli ‘ndranghetisti. La sua lotta continua, oggi, anche grazie al sostegno di Comuni di tutta la penisola e di uno spettacolo come Padroni delle nostre vite di SciaraProgetti, in cui l’interpretazione misurata e coinvolgente di Ture Magro si confronta con 10 attori “virtuali”, registrati e proiettati su 3 maxischermi, che appaiono e scompaiono incalzandolo, in uno spazio che lascia aperta solo la quarta parete, quella verso il pubblico.

Sono diverse le forme assunte dagli spettacoli che rappresentano l’impegno politico, la denuncia, la memoria di fatti passati o recenti. C’è chi parla di “teatro civile”, pensando sia necessario incasellare in una nicchia produzioni tanto differenti per strumenti e resa finale. Forse ha ragione il buon Ascanio Celestini: forse non esiste un “teatro civile”, «se no dovrebbe esistere anche un teatro incivile, maleducato, selvaggio, screanzato. E in una ipotetica divisione in squadre, mi piacerebbe far parte dei selvaggi più che dei civili».

Initiation rituals and organized crime: Mafia, Triads and Yakuza

Organized crime is a scourge as old as time, that plagues both developed and developing countries. The definition of organized crime has been the subject of considerable debate among scholars for years, probably because it can be found in various forms that result from different histories, customs and traditions. Italian Mafia, Chinese Triads, Japanese Yakuza – each of these organizations have their own characteristics and peculiarities.

However, most of the organized crime groups in the world do share a common trait: they all have a set of rituals and symbols that determines the group membership, the so called “bonding ritual”. Most of these rituals appear to combine elements of mysticism, fraternity initiation rites and references to each group’s legendary origins.

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The most notorious and well documented examples of these rituals belong to the famous Italian organized crime groups: Sicily’s Cosa Nostra, Calabria’s ‘Ndrangheta and Campania’s Camorra. The ritual starts with the ceremony of the punciuta: the initiate pricks his finger, rubs the blood on a small picture of a saint and recites an oath of silence as the saint’s picture is set on fire. The rite symbolizes that, should the member betray the organization, he would burn like the saint, so as to say the only possible punishment for betrayal is death. The oath of silence is also a reference to the myth of “Osso, Mastrosso e Carcagnosso”, the three Spanish knights that in the XV century are said to have founded the three groups after spending 29 years of imprisonment in the small island of Favignana. The legend says the three knights came out of prison in the guise of new men, repositories of knowledge, rituals, customs and symbols that were different between them but were all linked by a common thread: the honour and the code of silence. The myth aims at ennobling the organizations by giving them origins that date back centuries.

Hong Seal used by Masters of the triad lodge to validate membership. Fonte: National Museum of Singapore, National Heritage Board
Hong Seal used by Masters of the triad lodge to validate membership (National Museum of Singapore, National Heritage Board)

A legend with similar intents characterizes Hong Kong Triads origins too. According to one of their legends, in XVIII century 128 monks of the Shao Lin convent, famous for its martial arts training, tried to overthrow Qing Empire in order to restore the Ming dynasty. The insurrection led the emperor to burn down their convent and only five men, later known as the Five Ancestors, managed to escape the flames and get to a safe haven. Here they founded the secret “Heaven and Earth society” – later known as Triads – and swore not to find peace until Qing’s defeat. The symbol of Triads itself, the character Hong 洪 encased in a triangle, is a reference to this quest, as it alludes to Hong Wu 洪武, the founder of the Ming dynasty that they hoped to restore to power. According to Triads’ mythology, the fall of Qing dynasty in 1911 was directly set off by the organization, who recruited thousands of people to its cause. The myth is central to Triad initiation ceremony, a highly ritualized process that first involves the passage through the three “Hong” gates and the “Heaven and Earth Circle” bamboo hoop, which represents a sort of rebirth into Triad society. Once in the main hall, the senior officials recite the ritual poems, full of references and allusions to the Triads origin myth, and give the initiate white robes and straw sandals to wear. Ready for officializing his rebirth as a triad member, he swears thirty-six oaths, pledging his loyalty to the Triads and to his new brothers, and binds the oaths by drinking a mixture of wine, blood and ashes. Then the bowl containing the mix is broken to illustrate what becomes of traitors of the organization.

(The Daily Beast)
(The Daily Beast)

Similar elements can be found in Japanese Yakuza’s sakazuki rite as well. During the ceremony both the initiate and the boss drink a sake mix from cups filled according to their different ranks. Then they exchange the cups and drink from the cup of the other. It is believed that the sake mixture represents the blood of each man and by exchanging cups the initiate becomes bonded to his boss as a son is bonded to his father. The absolute loyalty required from Yakuza can be seen in another ritual as well, the yubizume, which is the amputation of fingers. More specifically, when a boss is displeased with the service of a subordinate, he may require the subordinate to amputate the last joint of his pinkie finger, traditionally the most important finger for holding a sword. While mainly symbolical today, in the past the amputation ritual had practical connotation, as it made the subordinate more and more dependent on the boss by making him less and less able to grip a sword.

But why do most of the criminal organizations in the world have some sort of bonding ritual? What role does the rite play? First, it may lend an air of romance and nobility to the group’s criminal activity, by attempting to transform their vicious acts into a “noble” revolt against society. Second, on one hand it gives a goal to the new recruits hopeful of joining the group, keeping them in line while they work their way up to full membership, on the other hand it instills respect and fear of the institution into the new members once they are accepted into the organization. Finally, the ceremony reinforces the idea of brotherhood among the members – an “all for one, one for all” feeling – making them feel that they “belong”, whatever their rank in the organization is.

Studying these rituals and the reasons behind them shouldn’t be considered as an end in itself, but as a means to better understand organized crime groups’ internal networks and relationships, so as to be able to find more specific and adequate countermeasures to their operations.

Cover photo: Yakuza Shrine in Asakusa Tokyo during Sanja Matsuri (festival) (Source: https://www.flickr.com/photos/apes_abroad/514272781/)

Il 21 marzo si ricorda ( e si agisce )

Questa rubrica ha un nome: si chiama intercity 791. L’intercity, con quel codice numerico accanto, era il treno che presi la prima volta che sbarcai a Milano. Avevo 19 anni e la stazione Centrale era un po’ diversa.
Un nome che ha in sé un romanticismo al limite del mieloso, del patetico, forse.

Tuttavia, nel momento in cui ho pensato a questo appuntamento sulla nostra rivista, in cui si parla di criminalità organizzata, non ho potuto fare a meno di unire le due cose: il viaggio in treno – il cui fascino batte ancora le vantaggiosissime offerte Ryanair – e la drammaticità di una migrazione che, seppur con i connotati della nostra epoca, ha ancora, in molti casi, quel retrogusto amaro della fuga, il sapore della costrizione.

Nel momento in cui scrivo, mi rendo conto di quanto la mia metafora itinerante renda perfettamente l’idea di ciò che succede sotto i nostri occhi, quotidianamente.
Oggi parliamo di due vicende, fatti di cronaca che non possono non farci riflettere.
Parliamo di mazzette o “pizzo”, chiamatelo come volete e che mette in ginocchio interi settori economici e le attività di chi prova a ribellarsi alla “tassa” dovuta alla mafia.
In un momento storico particolare, soprattutto per quanto riguarda la situazione economica, che ci portiamo dietro da quell’anno in cui scesi per la prima volta da quel treno, le condizioni in cui sono costretti a operare molti commercianti oltrepassa il limite di quanto uno stato civile possa permettersi per definirsi tale.


Tiberio Bentivoglio è un imprenditore, titolare di una sanitaria nel centro di Reggio Calabria. Nel 1992, già durante i lavori di ampliamento dei locali del suo esercizio, arrivano le prime intimidazioni. Dopo anni di lotte per pagare fornitori e debiti accumulati per riavviare l’azienda  dopo i vari attentati e furti, nel 2011 gli ‘ndranghetisti alzano il tiro: un giorno Bentivoglio viene seguito, i sicari esplodono sei colpi di pistola alle spalle. Viene salvato dal suo marsupio: uno dei due proiettili che centrano la sua figura rimane incastrato tra le tessere del portafogli che si trovava all’interno del borsello e che l’imprenditore aveva allacciato all’altezza delle scapole, un altro lo colpisce al polpaccio, mentre i restanti quattro finiscono nel vuoto.
L’ultimo drammatico episodio risale allo scorso 29 febbraio. L’imprenditore reggino, in attesa di spostarsi in un immobile confiscato alla criminalità, subisce un altro attentato. L’incendio è devastante, distrugge i locali dell’attività e tutta la merce al suo interno.

Da Reggio Calabria risaliamo lo stivale e arriviamo a Milano. Lunedì 9 marzo è stato presentato il rapporto sulla sicurezza degli esercenti: la percentuale di attività costrette a pagare sono altissime; la pervasività della malavita – della ‘ndrangheta in particolare – è oltre il livello “di guardia”.

Oggi è il 21 marzo. E come ogni primo giorno di primavera l’associazione Libera ricorda le vittime innocenti della mafia. Ma l’impegno di questa e altre associazioni non si esaurisce nei momenti di ricordo.

L’associazione Reggio Libera Reggio di Reggio Calabria è stata molto vicina all’imprenditore vessato dalla ‘ndrangheta, tanto che in pochi giorni si sono tenuti i festeggiamenti per la riapertura, in un locale confiscato alla mafia, della sanitaria di Bentivoglio.

E’ stato un bel segnale, utile, forse, a risvegliare le coscienze e a ricordare a tutti i cittadini, ancora una volta, che tutti noi abbiamo un ruolo fondamentale in questa partita. Anche solo parlarne è un modo per iniziare l’offensiva.

Stavropoleos, una chiesa nella vita notturna di Bucarest

Nell’anniversario dell’attentato al Museo del Bardo, Pequod vuole farsi promotore di tutte quelle realtà culturali che per un motivo o per l’altro diventano bersaglio di un pensiero a loro avverso.  Personalmente, la prima volta che incontrai una realtà appartenente a questa tipologia, o la prima volta in cui concretizzai tale consapevolezza, fu durante la mia prima passeggiata nel centro storico di Bucarest. Appena arrivata, mi diressi verso il luogo che ho sempre pensato essere cuore vivo e pulsante della cultura cittadina: questa volta però ad attendermi al varco del centro storico non vi erano cattedrali, musei o gallerie d’arte… solo pub, discoteche e kebab, affiancati talvolta da negozi di souvenir.

Tra un morso a un panino e un sorso di birra (poiché bisogna pur sempre restare ottimisti), cominciai a vagare tra le vie che vantano la vita notturna più sfrenata del Paese, sino a quando per pura coincidenza mi ritrovai di fronte al cancellino della minuziosa e incantevole Chiesa di Stavropoleos. Risalente al 1721, la chiesa vi conquisterà per l’accoglienza; una volta nel cortile, i rumori cittadini sembrano sparire per lasciare spazio alla quiete e alla curiosità, alimentata dalle numerosi lapidi e ricche decorazioni di legno. Seppure l’interno della chiesa meriti una visita, chi scrive suggerisce altamente di godervi il cortile, progettato dall’architetto rumeno Ion Mincu. Non esiste difatti un solo parco della capitale capace di tener testa alla pacatezza della Biserica Stavropoleos, che cerca imperterrita di resistere all’avanzare del consumismo in un angolino dimenticato del centro storico (in via Stavropoleos, per l’appunto).

Intervista a El Joulani Ghiath: i Giovani Musulmani d’Italia e la vita a cavallo tra due culture

El Joulani Ghiath è un venticinquenne membro di Giovani Musulmani d’Italia (GMI), associazione no profit con 15 anni di vita che si prodiga per l’inserimento e l’impegno civile dei giovani musulmani all’interno del tessuto sociale italiano.

Studente di ingegneria edile, Ghiath è un ragazzo di origini siro-palestinesi entusiasta dell’Italia e di tutto ciò che rappresenta. Ricorda bene quei giorni del 2001, quando GMI nacque: una manciata di ragazzi che discutevano di come realizzare un’associazione che riunisse tutti i giovani di seconda generazione, ognuno con le sue origini e le sue peculiarità ma uniti dalla stessa fede.

L’associazione è cresciuta molto da allora e Ghiath con lei: «al primo convegno nazionale che venne organizzato eravamo in una cinquantina di partecipanti; abbiamo iniziato ad aumentare di anno in anno fino ad arrivare ai più recenti convegni dove addirittura abbiamo difficoltà a trovare luoghi adatti ad ospitare più di 1500 persone. Nella mia storia sono passato dall’essere partecipante ai convegni, al diventare membro dell’associazione di Milano per poi aprire la sezione di Bergamo e divenirne responsabile. Addirittura l’anno scorso sono stato membro del direttivo nazionale dell’associazione».

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GMI è una realtà dinamica formata da ragazzi che studiano e lavorano in una grande varietà di campi possibili, dove ognuno porta il suo contributo. Ghiath mi spiega che gli scopi dell’associazione sono essenzialmente due: uno “interno”, volto a formare i giovani e a fornire loro gli strumenti per conciliare al meglio la realtà italiana alla fede islamica, il secondo “esterno”  e rivolto a una fascia più ampia di fedeli che mira a fare chiarezza sulla cultura islamica e sui suoi valori.

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Vivere a cavallo tra due culture non dev’essere cosa semplice: abitudini, pensieri, caratteri si foggiano sotto spinte differenti, non sempre facili da conciliare. Ghiath ammette di non aver trovato grandi difficoltà nell’adattarsi e spiega: «C’è sempre qualcuno che ti discrimina, che ti vuole vedere diverso da lui, che si ritiene superiore. Questo non vale solo per la diversa fede ma anche quando semplicemente la si pensa in modo diverso. Io ho sempre detto che con l’incontro ci si accultura e si diventa più intelligenti.
La mattina, quando mi sveglio, saluto i miei in arabo e facciamo colazione con cappuccio e brioches; poi vado in università, seguo le lezioni in inglese, parlo con i miei amici in italiano, vado a mangiare in mensa e ormai la cuoca, conoscendomi, mi indica subito quali piatti non posso mangiare. Dopo ci si riunisce per bere un caffè, mi ritrovo con altri amici musulmani dell’università, facciamo la nostra preghiera in qualche aula e ognuno torna alle sue lezioni».

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E’ fiducioso per il futuro e alla domanda su come ci possa formare un’idea reale e non distorta dell’Islam, risponde sagace «La cattiva “pubblicità” rende a volte difficile distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Abbiamo tanti mezzi di informazione e quasi tutti abbiamo un conoscente che si chiama Mohamed o Mustafa ma è compito nostro cercare di conoscere chi abbiamo vicino e chiedere di più su quello in cui la persona accanto a noi crede, per migliorarci».

Il folklore condiviso: la compagnia bergamasca de Gli Zanni in Siria

Cinquanta anni fa nasceva nella provincia bergamasca la compagnia folkloristica de Gli Zanni (nome derivato dai personaggi più antichi della Commedia dell’Arte). Nell’impegno per l’indagine storico-sociale e culturale, il gruppo sperimenta il ricostruire in atti teatrali momenti comunitari e aspetti tradizionali di varie popolazioni, nonché la pratica di musiche, danze e canti etnici. L’intento è quello di ritrovare la “storia dal basso” che è punto iniziale d’una comprensione della realtà attuale.
Annualmente l’associazione organizza momenti d’incontro con rappresentative estere di folklore e tournée di lavoro fuori porta per un diretto contatto col patrimonio straniero.

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Tra le numerose mete, nel 2005 la Siria: l’Unione Folklorica Italiana propose alla compagnia di rappresentare il paese al Festival Internazionale del Folklore di Bosra.
I componenti della “spedizione” rievocano estatici i ricordi delle tappe intermedie tra uno spettacolo e l’altro: la visita alla fortezza di Krak dei cavalieri, residuo architettonico delle crociate; gli immensi mulini di legno (Norie) della città di Hama, che da secoli recuperano dal fiume Oronte l’acqua destinata all’irrigazione di frutteti e giardini; i monasteri e le abitazioni arroccate sulle rocce del villaggio cristiano di Ma’lula (devastato tra il 2013 e il 2014)   i cui abitanti parlano ancora un dialetto aramaico; la capata alle moschee nella periferia di Damasco e nei suoi Suq (mercati organizzati in corporazioni); i pasti consumati all’arrangiamento delle fidule sotto tende beduine.
Le ragazze del gruppo menzionano il pomeriggio passato nell’hammam (complesso termale) condividendo il lavacro con le donne del luogo che, accompagnandosi col suono dei darbuka, hanno tentato d’insegnare i rudimenti della danza del ventre alle forestiere.
Infine la messa in scena del proprio spettacolo nell’anfiteatro romano di Palmira, al centro del deserto Siriano circondati dalle stupende rovine in un sorprendente stato di conservazione, a Bosra in presenza di migliaia di spettatori e nel palazzo Azm di Damasco.

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«Raccontare a diversi anni di distanza quest’esperienza – appuntano Gli Zanni – ci rende consapevoli di quanto siamo stati privilegiati nel posare direttamente gli occhi sull’architettura e l’arte in generale di quei luoghi, materia che oggi è parzialmente andata distrutta.
Difficile scordare l’intera giornata passata a visitare il sito archeologico di Palmira avendo come guida d’eccezione il direttore del museo.
Difficile credere che tanta di quella bellezza oggi non esista più.»
Spiegano come a Palmira abbiano potuto costatare l’effettiva importanza culturale sviluppatasi attorno a quest’oasi nei millenni, come il passaggio di numerosi popoli ne abbia impreziosito l’aspetto, come la città potesse essere esempio rappresentativo dei diversi modi in cui nel corso dei secoli le popolazioni si siano spostate, incontrate e mescolate, dando vita a un paesaggio unico, capace di raccontare una parte della storia dell’uomo.

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Negli anni, più volte la cultura della città, in ogni sua forma d’espressione, è stata oggetto di censura da parte del potere che vi si voleva affermare. Nell’ottobre dello scorso anno, gran parte del sito è andata distrutta a seguito della conquista da parte dell’ISIS, che ha organizzato una demolizione sistematica di tutti i luoghi di culto dell’antica città, cancellando, almeno materialmente, un’importante traccia storica e artistica.
Per chi però ha avuto la fortuna di posare lo sguardo su quell’amalgamarsi di culture, i monumenti di Palmira resteranno nel ricordo un baluardo d’integrazione e bellezza, resistenti a qualsiasi assedio. Così per gli attori bergamaschi la Siria ora è un ricordo fotografato: la loro danza nel tramonto, nel deserto.

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Demolire la cultura

Immaginate una gomma da cancellare che si accanisce sul disegno al quale ha lavorato un artista del passato: così potremmo descrivere lo scempio che i militanti dell’Isis stanno portando avanti negli ultimi anni.
Poche volte nella storia si è visto un tale disprezzo nei confronti del patrimonio culturale. Non si tratta di conquistatori che rimuovono i simboli di un popolo sottomesso, né di un regime dittatoriale che vuole sbarazzarsi di una corrente anticonformista: ci troviamo di fronte alla distruzione sistematica di beni comuni ad opera di fanatici che non annoverano la memoria storica tra i propri valori.
L’Isis non conserva, distrugge, e lo fa trovando motivazione nell’avversione per le immagini, predicata dall’Islam e più in generale dalla cultura araba più radicale. Il fanatismo, d’altronde, è la peggiore minaccia alla cultura: chi vede il mondo con i paraocchi non fa che perseguire il suo obbiettivo, a qualsiasi costo, e nulla può fargli cambiare idea.
Ma qual è la “cultura” che l’Isis sta distruggendo? Si tratta dell’insieme delle tradizioni e delle testimonianze che si sono sedimentate nel corso del tempo nei territori da loro occupati; è parte della stessa cultura che ci impegniamo a tramandare in quanto patrimonio della collettività; non solo patrimonio materiale ma un concetto universale, che ogni civiltà ha diritto a veder riconosciuto e valorizzato.

Le mura di Ninive a Mosul, Iraq.

Innegabile che il primo pensiero vada alle popolazioni assediate dalla violenza quotidiana e costrette a fuggire: la vita umana vale più di ogni cosa, ma è anche vero che combattere etnie o minoranze religiose è un altro modo per cancellare il passato e quindi la cultura di un luogo. Assieme alle persone, allora, a rischiare la vita sono le vestigia del passato.
Palmira è uno dei simboli di questo dramma. Da splendido fiore all’occhiello della cultura siriana a mera pedina strategica e propagandistica nella trattativa tra esercito nazionale e terroristi: ai barbari dell’autoproclamato Stato Islamico poco importa che qui si siano succeduti Greci, Parti o Romani, lasciando ammirevoli esempi architettonici come traccia del loro passaggio; ciò che conta è rimuovere dalla memoria del mondo tutto ciò che non sia frutto e manifesto della loro idea di Islam.
Se non possiamo recuperare quello che è stato distrutto (certo non mancano illustri ricostruzioni post-belliche, come il monastero di Montecassino o il nordico centro storico di Dresda), possiamo rimediare in parte a quanto accaduto attraverso il ricordo: le mura di Ninive, le monumentali sculture leonine di Raqqa e anche le stesse moschee demolite dallo Stato Islamico sono “martiri” che non possono sparire dalla memoria collettiva.

Un’immagine della distruzione dele mura di Ninive a Mosul, Iraq.

Come ci siamo indignati di fronte ai talebani che col tritolo demolivano le grandiose statue di Buddha, così siamo rimasti inorriditi di fronte alla brutale esecuzione di Khaled al-Asaad, ex direttore dei servizi archeologici di Palmira, e al conseguente saccheggio dei reperti museali, venduti al mercato nero per far cassa – perché ovviamente va bene essere estremisti, ma quando si tratta del dio Denaro non c’è fede che tenga.
Anche l’Occidente ha fatto errori in passato in nome della religione: abbiamo cancellato culture considerate “primitive” per imporre quella del dominatore, popolazioni intere sono state sterminate in nome della superiorità dell’uomo bianco, ma ora, consci di quanto sia assurdo negare il diverso, si fa sempre più forte il dovere morale di non dimenticare le antiche bellezze distrutte né di voltare le spalle a quella parte di umanità e di storia che fuggono per non morire e svanire.

Khaled al-Asaad, ex direttore del sito archeologico di Palmira, decapitato da un gruppo jihadista il 18 agosto 2015.
Khaled al-Asaad, ex direttore del sito archeologico di Palmira, decapitato da un gruppo jihadista il 18 agosto 2015.

For the sake of knowledge

Exactly today one year ago, a terroristic attack took place at the Bardo National Museum in Tunis . That day nineteen people were killed, the ISIS claimed the attack. In the last decade the situation between western countries and eastern countries has changed dramatically. This revolutionary wave of protests, revolutions, repressions started spreading since the beginning of 2012 in those countries such as Egypt, Tunisia, Yemen, and Libya. These events represented a very important topic for academic research purposes ranging from international relations to economics. Unluckily, in the course of a PhD research project in Egypt the PhD researcher Giulio Regeni was killed under unclear circumstances which are still under investigation.

We wanna know the truth” – that’s the implied meaning of the message appeared on the flag of Amnesty International with respect to the terrible event happened to Giulio Regeni between the 2nd and the 3rd February 2016 in Egypt . The tragic and cruel death of such a talented Italian PhD student leaves a whole nation astonished but above all his family and friends deeply devastated.  The murderers – more than one, as experts after analysing his ravaged body concluded that Giulio was continuously tortured and mutilated before dying – have not been found yet and the investigative process seems to appear difficult due to lack of complete cooperation from the Egyptian authorities.  Preliminary investigation about the case has not shed light on the possible pieces of evidence which are necessary to solve this merciless murder, conversely signs of throwing off track have been noticed by the Italian authorities in charge of finding the convicts.

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The reaction from Cambridge academics Dr Maha Abdelrahman and Dr Anne Alexander was an immediate open letter to protest over the terrible death of Giulio. The letter (read here) was directed to the Egyptian president Abdel Fattah el-Sisi. More than 4,600 people ranging from full professor to undergraduate student signed this deliberate and clear request of truth showing the grief shared by the academic community . A crucial aspect present in the letter was also a straight condemn against the practices of torture used by Egyptian Ministry of Defence according to the Amnesty International bodies report. The aforementioned kinds of torture that also Giulio Regeni underwent before his death.

At the same time the reaction from the Middle East Studies Association of North America was really prompt, in this case the letter was directed to the president Abdel Fattah el-Sisi, the minister of Foreign Affairs Sameh Shokry, and the minister of the Interior Magdy Abdul Ghaffar. In line with the letter written by the Cambridge academics , Dr Beth Baron and Dr Laurie A. Brand stressed the presence of signs of torture found on the body of Giulio and also listed four important aspects concerning safety issue for scholars and researchers.

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On the other hand, PhD candidates, researchers and professors from the department of Sociology and Social Research from the Italian University of Milan Bicocca  created an online petition addressed to the Italian Government, the Egyptian president Abdel Fattah el-Sisi, the European Union, the UN, and the board of Italian University Rectors to ask for a strong cooperation to identify the responsible and condemn this barbarian act of violence.

The tragic death of Giulio Regeni has immediately brought to light the risks connected to research projects in specific geographical areas. Especially those areas, where due to the lack of stable and democratic forms of government, phenomena of repression, civil war, and violence represent a considerable threat for those who are investing time, efforts and dedication for the sake of the knowledge. Mainly as a consequence of partial cooperation provided by the Egyptian authorities, so far there are no consistent proofs to pinpoint the guilty party and bring them to justice. Although all the hindrances involved in this case, the whole truth must be unveiled, especially because of the moral duty towards Giulio, his family, and everyone who was victim of similar types of unjustified violence.

La cultura sotto attacco: dalle legioni romane di ieri alla Cina di Mao, fino all’Isis di oggi

È passato un anno dall’attentato al Museo del Bardo di Tunisi e i mandanti, nonostante campagne belliche internazionali, guidate ora dalla Russia ora dalla Nato, sono ancora lì. Armati, organizzati e spietati, governano un’intera zona geografica che da bambini abbiamo imparato a conoscere con il nome di Mesopotamia. La loro entità, come un gioco di specchi, talvolta presenta una fisionomia simile ad uno Stato moderno, diviso e organizzato in “wilayas”, ossia regioni amministrative, talvolta invece ricorda un sistema feudale, dove il leader dell’organizzazione autoproclamatosi “califfo” governa senza nessuna visione democratica, sottoponendo la popolazione di quelle terre a violenze e soprusi dal fetore medievale. La forza bruta resta l’unico strumento utile alla gestione della vita quotidiana.

Tunis, Tunisia --- Tunisia, Tunis, Bardo National Museum, statues --- Image by © Patrick Escudero/Hemis/Corbis
Tunis, Tunisia — Tunisia, Tunis, Bardo National Museum, statues — Image by © Patrick Escudero/Hemis/Corbis

Isis o Califfato Islamico sono gli appellativi con cui identifichiamo questo fenomeno del tutto nuovo, affacciatosi sulle scenario internazionale con azioni efferate e attacchi terroristi cruenti, che molte volte hanno avuto quali obiettivi musei, monumenti e tutto ciò che potrebbe rientrare nel campo semantico della “cultura”. Perché? Quali sono gli effetti perseguiti dagli stessi sanguinari autori? La risposta non potrà essere univoca, ma come una tavolozza di colori, potrà dipingere sfumature differenti.

www.ilgiornale.it
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Nei secoli, l’uomo ha  più volte violato le magnificenze che altri uomini prima di lui hanno eretto. A volte, la furiosa guerra alla cultura fu perpetrata dal cieco credo politico. È questo il caso della Cina e del suo millenario patrimonio artistico, spazzato via dalla rivoluzione culturale di Mao. Ad immortalare questa pagina di storia restano le straordinarie parole di Tiziano Terzani: «Andai a cercare quella nuova cultura che doveva esser nata dalla rivoluzione e non trovai che i mozziconi di quella vecchia, splendida cultura che nel frattempo era stata sistematicamente distrutta».

Mirko Pizzocri
Mirko Pizzocri

Altre volte, invece, la distruzione voleva rappresentare l’assoluta superiorità sul vinto, l’annichilimento dell’avversario. I Romani usarono spesso questo tipo di strategia con lo stesso fine; celebre rimane l’espressione “Cartago delenda est” pronunciata dal senatore Catone, che alla fine della terza guerra punica accompagnò l’annientamento di Cartagine, città alla quale non fu risparmiato nemmeno il Tempio di Eshum.

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Purtroppo la storia non finisce qui. Di cultura distrutta, persa e saccheggiata potremmo catalogare interi libri. Libri, già, come quelli di Proust e Einstein messi al rogo nel’ 33 dalla follia nazista. Ma forse dopo questi, non certo esaustivi ma sicuramente significativi esempi, il  nuovo e moderno attacco alla cultura va osservato in un altro modo. Attraverso un’altra visione prospettica e con una diversa finalità.

In una società sempre più globalizzata e teletrasmessa, attaccare un teatro, come avvenne nel 2002 al Dubrovka di Mosca, o le millenarie statue di Buddha di Bamiyan in Afghanistan, garantisce agli autori un’importante cassa di risonanza mediatica. E obbliga i principali interpreti dello scacchiere internazionale a “fare i conti” con gli stessi forgiatori di distruzione: il Metropolitan di New York, ad esempio, chiese il permesso di portare negli Stati Uniti i due Buddha minacciati. Questo fu solo il primo di una serie di accorati appelli: anche il governo indiano si fece avanti proponendo di prendere in consegna le due statue; persino  il musulmano Pakistan chiese invano al regime talebano di annullare la decisione. Insomma. in un brevissimo periodo di tempo il mondo si accorse di loro, dei Talebani e di quella remota terra afgana. Dunque oggi, attaccare obiettivi culturali di interesse internazionale, tutelati dall’UNESCO, è un gesto antitetico all’ordine mondiale, in grado di garantire a chi lo compie un posto a sedere al grande tavolo delle trattative internazionali.

E così, dacché la storia è ciclica, ecco l’Isis, soggetto sovvertitore, lontano dagli ordinari canoni di entità statale, che cerca di affacciarsi sul mondo perpetrando violenza: distruggendo Palmira, splendida regina del deserto; decapitando archeologi come Khaled al-Asaad; assaltando musei e monumenti millenari. Ma è proprio in questo momento, quando il terrore dilaga, che bisogna provare a rimanere retti, come retta rimase la parete che a Milano ospita L’ultima cena di Leonardo da Vinci mentre gli eventi bellici della seconda guerra mondiale distruggevano tutto ciò che le stava intorno: vite, muri e tesori.

 

In copertina: vista della roccia dove sono scolpiti monasteri e statue di Buddha, Bamiyan, Afghanistan (ph. Roland Lin CC BY-SA 3.0.igo).

Stampare le atlete: un esperimento sui nostri giornali sportivi

Qualche mese fa ha fatto scalpore l’esperimento di un gruppo di persone sul The Sun, un giornale sportivo inglese conosciuto per la sua “pagina tre”, che immancabilmente mostrava immagini di donne svestite. Proprio per questo motivo è nata l’idea dell’esperimento in questione: raccolte per sei mesi le pubblicazioni del giornale, hanno realizzato un collage con tutte le immagini di persone, dividendo quelle in cui comparivano uomini da quelle con figure femminili. Il risultato è un quadro con un evidente squilibrio nella rappresentazione dei due sessi: se gli uomini sono sempre raffigurati in atti sportivi, vestiti e mai in posa, le donne sono invece palesemente fotografate per essere messe in mostra, e non importa che dimostrino qualche qualità sportiva o intellettuale, ma solo un bell’aspetto.

L’esperimento ci ha incuriosito: ci siamo chiesti se per la realtà della stampa sportiva italiana ci fosse qualche differenza, e così abbiamo deciso di riproporre l’esperimento.
Già dai primi ritagli alcune caratteristiche generali ci sono apparse chiare, ma è solo a lavoro terminato, con tutte le immagini appese al muro, che abbiamo iniziato a trarre le nostre conclusioni: a differenza dei compagni inglesi, il corpo della donna non viene particolarmente strumentalizzato, non appaiono immagini di figure femminili, vestite o svestite, ai fini di pubblicizzare qualcosa. Certo è che lo squilibrio nella presenza di immagini maschili e femminili è evidente: nel collage realizzato, la parte con figure di donne occupa quasi un terzo dell’intero quadro.

Nel mondo della stampa sportiva, almeno per quanto riguarda la realtà italiana, viene dato poco spazio alle eccellenze femminili: la situazione non è critica, ma anche su questo piano siamo notevolmente lontani da una parità.

Masturbazione (s.f.), ovvero: Laboratorio sull’eiaculazione femminile

Spesso ci dimentichiamo quanto le strutture sociali e culturali possano influenzare il nostro agire quotidiano, ed entrare senza grandi impedimenti nella nostra sfera intima e privata. Così come nel sesso, così come nella masturbazione, pratiche peculiari comunemente attribuite a un pubblico maschile. Perché? Proviamo a capirlo assieme a Valentine aka Fluida Wolf, militante femminista, nata in Inghilterra ma cresciuta a Torino, che ogni giorno non manca mai di interpretare la realtà circostante attraverso la lettura di genere, decodificata per noi grazie al suo attivismo e al workshop sull’eiaculazione femminile.

Durante un periodo a Barcellona, Valentine entra in contatto con l’eclettica Diana J. Torres, la meglio conosciuta “porno-terrorista”, prima ideatrice del laboratorio, creato all’incirca cinque anni fa e nel tempo riproposto in Europa e Sud America. Valentine, è dunque promotrice del workshop in Italia: «Il laboratorio è attivo da quasi tre anni, con numeroso seguito sia di pubblico femminile che di quello maschile, ed è composto da due sezioni; una parte teorica, momento in cui spieghiamo dati e ricerche, e una pratica, dedicata in questo caso alle sole donne per creare un’atmosfera più confortevole». Si parte dunque con alcune accezioni storiche: «Fino al XV secolo, l’eiaculazione femminile è una pratica riconosciuta; poi, con l’invenzione del microscopio, la medicina constata come il liquido eiaculato dalle donne non sia finalizzato alla riproduzione». Il disinteresse medico continua fino al 1888, quando Grafenberg descrive le ghiandole parauretrali nella donna, che per l’appunto permettono le secrezioni. Ancora oggi sembra difficile trovare informazioni sull’eiaculazione e sulla prostata femminile in rete: «E’ stato frustrante cercare le immagini per il workshop sulla nostra anatomia poiché spesso e volentieri si trovano solo le distinzioni fra organi definiti “essenziali” e “accessori”, dimenticando o distorcendo tutta una serie di dati fondamentali».

Altro obiettivo del laboratorio è sfatare il mito del famoso Punto G, semplicemente area adiacente alla prostata femminile. Quest’ultima si trova tra la vescica e la vagina, attorno all’uretra, ed è principalmente di tessuto spugnoso con dimensione variabile; il liquido che secerne, invece, è molto simile a quello maschile, privo tuttavia dello sperma. Tale ghiandola ha la capacità di riempirsi e svuotarsi, arrivando a generare grandi quantità di liquido. «Tutte noi possiamo eiaculare, a meno che la prostata non sia stata asportata chirurgicamente. Certe volte però, capita che l’eiaculazione sia interna e confluisca nella vescica, risultando conseguentemente invisibile».

«Eiaculare è politico» poiché anche la sessualità è vittima dei condizionamenti culturali. Con l’aiuto del manuale “Fica Potens”, di Diana Torres, edito da Golena Edizioni, Valentine si incarica di spiegare la storia dell’eiaculazione femminile e del perché sia tanto importante conoscerla: «E’ riappropriazione di una parte di noi, negata “solamente” in quanto legata al piacere senza finalità riproduttive, e dunque non funzionale nella società etero-patriarcale». Sforzo ulteriore, pensiamo all’anatomia: perché le ghiandole di Bartolino sono studiate e poco si sa della prostata femminile? Perché le prime, lubrificando, permettono al pene di entrare con più facilità. Solo negli anni ’70 spunterà in Italia la prima voce a favore del piacere femminile, personificata da Carla Lonzi e il suo “Sputiamo su Hegel”, manifesto dove si discute di masturbazione e clitoride.

Invitata dal Ambrosia nel mese di gennaio, Valentine sarà impegnata dal 24 al 28 marzo alla XV edizione dello storico campeggio lesbico presso Agape. E ricordatevi, l’eiaculazione può avvenire attraverso stimolazione diretta e indiretta della prostata: si può eiaculare anche in seguito a una stimolazione clitoridea!

Nella terra del macho latino: viaggio di una giovane ragazza tra Perù, Bolivia ed Ecuador

Intraprendere un viaggio in un continente lontano è un sogno di molte donne, ma non tutte riescono a realizzarlo. Al di là delle problematiche relative alla disponibilità di tempo e denaro, spesso l’ostacolo maggiore è la paura di mettersi in viaggio da sole, soprattutto in quelle regioni del mondo che non trasmettono un senso di sicurezza.

L’America Latina comprende al suo interno innumerevoli stati caratterizzati da realtà differenti e da un immaginario occidentale dissimile. Son passati tre anni da quando Paola ha deciso di intraprendere un viaggio in Sudamerica. Tempo e soldi non erano un problema: l’aver risparmiato negli anni in previsione di un viaggio, divenne finalmente utile quando a inizio estate l’azienda dove lavorava chiuse. A settembre Paola si trovava quindi su un volo diretto in Perù; sarebbe tornata a casa nel Gennaio dell’anno successivo, dopo aver attraversato Bolivia ed Ecuador.

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Ciao Paola, vuoi raccontarci di cosa ti ha spinta a intraprendere questo viaggio?

Il mio desiderio era quello di scoprire un continente che mi affascina da sempre per storia e tradizioni. Incuriosita dai racconti di viaggio di mio padre, che 35 anni prima aveva passato svariati mesi in Sudamerica, ho deciso di imbarcarmi in quest’avventura viaggiando tra Perù, Ecuador e Bolivia, qualche volta da sola, talvolta insieme a un gruppo e per qualche settimana stabile presso una famiglia.

Ero anche interessata a imparare lo spagnolo e infatti nel periodo trascorso a Quito, capitale dell’Ecuador, ho seguito dei corsi di lingua in un’accademia. E’ stata una bella prova per me stessa: non ero mai uscita dall’Europa.

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Quali erano le tue paure relative al viaggiare da sola? Come ti sei preparata ad affrontarle?

Le mie paure più grandi erano legate all’asperità del viaggio e al fatto di non conoscere la lingua parlata in zone dove è raro incontrare qualcuno che si esprima in inglese. A differenza di quel che si pensa, parlare italiano non è garanzia di riuscire a comunicare con uno spagnolo.

Prima di partire ho preso contatto con alcune organizzazioni: a Quito, oltre a studiare, ho trascorso alcuni mesi a fare volontariato in una scuola dell’infanzia e ho preso contatti con una famiglia locale tramite un’organizzazione d’ospitalità, che permette di conoscere persone dispose ad accogliere i turisti nelle loro abitazioni.

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Quali sono le difficoltà che hai incontrato sul tuo percorso? E relativamente all’essere donna?

Le difficoltà, oltre alla lingua, riguardavano il soggiornare in ambienti senza servizi, dovendosi lavare alla bell’e meglio. Svariate volte mi sono accontentata di una canna dell’acqua all’aperto, anche quando la temperatura non era delle più miti. L’immaginario collettivo vede il Sudamerica come un continente caldo, ma va sottolineato come il problema principale della toeletta in giardino siano le altitudini. La Paz, ad esempio, si trova a un’altitudine media di 3600 metri sopra il livello del mare e le temperature non sono delle più favorevoli.

Al di là di qualche rinuncia a livello di comfort, le difficoltà non sono state assolutamente insormontabili. Sicuramente è bene avere del buon senso e testa sulle spalle, ricordarsi del luogo in cui ci si trova, soprattutto nelle grandi metropoli, e comportarsi di conseguenza; anche da donne è possibile non rinunciare a nessuna esperienza e non incappare in situazioni difficili.

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Hai percepito l’America Latina come una destinazione difficile da affrontare per una donna?

Tutte le guide consultabili parlano del problema del machismo: un atteggiamento degli uomini nei confronti delle donne un po’ sbruffone e sfrontato.

È innegabile che la cultura latina si caratterizzi anche per questa attitudine. Ho incontrato ragazze più giovani e di nazionalità diverse dalla mia, spesso del nord Europa, che effettivamente erano rimaste scottate da questo atteggiamento. Io non ne sono rimasta particolarmente colpita: non era così distante dal comportamento maschile di molti miei conterranei.

«I’d rather be a rebel than a slave»: per un nuovo cinema femminista

Suffragette è uno dei tanti film del 2015 ad aver superato il test di Bechdel: ci sono almeno due donne identificate con il proprio nome, le quali parlano tra loro, ma l’argomento della discussione non sono gli uomini. Il rispetto di questi parametri non lo rende in sé un film femminista, e nemmeno un film qualitativamente migliore di altri; ciò che conta è il fatto che in esso vi siano donne presentate come soggetti non dipendenti dalla figura maschile. Suffragette è un film pensato da una donna (Sarah Gavron), basato su una storia femminista e interpretato da personaggi femminili, con i quali lo sguardo della spettatrice si incontra e sulle quali si posa. Fidatevi, non è cosa da poco. Volendo render merito a qualcuno, bisognerà rintracciare un testo del 1975 di Laura Mulvey, fondandmentale per gli studi della Feminist Film Theory: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Sono passati quarant’anni, eppure su quelle ricerche si fonda quell’evoluzione del paradigma filmico alla quale abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, cambiamento che inaugura l’apertura alla figura femminile nella visione come soggetto attivo.

La striscia “The Rule” di Alison Bechdel (1985)

La presa di coscienza politica e sociale delle donne protagoniste di Suffragette si verificò nello stesso periodo storico in cui il cinema vedeva la luce. Di questa arte non si parla esplicitamente, sebbene le loro proteste avessero molto a che fare con i media visuali. Basti pensare alla scelta di Emily Davison di sacrificare la propria vita sotto l’occhio di cinque macchine da presa, durante il Derby di Empson del 1913. Far entrare il soggetto femminile all’interno del discorso filmico implica una rivoluzione vera e propria: il cinema è l’arte voyeristica per eccellenza, essa «soddisfa un desiderio primordiale di piacere nel guardare», ma non solo. Il cinema è l’arte in cui la scopofilia (rendere un individuo oggetto e sottoporlo a uno sguardo di controllo) si manifesta nella sua forma più narcisistica, nella quale — come spiegato dalla Mulvey — la donna ha una sola possibilità: quella di porsi come oggetto sessuale, contemplazione erotica per lo sguardo del maschio. Elaborando questa teoria, la Mulvey faceva riferimento al cinema classico hoolywoodiano, che vedeva l’uomo come attivo promotore della storia e la donna come oggetto passivo. Le spettatrici, osservando i personaggi femminili, non facevano altro che adattare il proprio sguardo a quello maschile. Davanti alla cinepresa, la bellezza del soggetto femminile infatti non può far altro che rompere l’unità del racconto, finendo talvolta per diventare un pericolo mortale per l’uomo — si pensi alla femme fatale. Anche nei film “per donne”, le inconsapevoli fruitrici della visione dovevano in realtà confrontarsi con le immagini di dive costruite sul discorso del desiderio dell’uomo (una per tutte: Marilyn Monroe, sulla quale ha scritto Richard Dyer in Heavenly Bodies: Film Stars and Society). E il desiderio femminile in tutto ciò?

Marilyn Monroe in The Seven Year Itch (1955)

Attenzione: questo campo di analisi non aveva nulla a che vedere con il ruolo delle donne all’interno del sistema cinematografico. Nell’epoca d’oro dello Studio System si contava un alto numero di registe donne, come ha infatti ricordato Lee Marshall: «La metà di tutti i film registrati negli elenchi dei diritti d’autore a Hollywood tra il 1911 e il 1925 erano scritti da donne». Egli dimentica però di ricordare come in quel periodo della storia del cinema ogni soggetto partecipante alla realizzazione di un film non fosse nulla più che un semplice ingranaggio del meccanismo di produzione volto al profitto: in fondo, un film è pur sempre una merce. Oggi, il ruolo di una regista è diametralmente opposto, eppure quello che continua a contare è il sistema sociale e politico all’interno del quale si colloca. Da un lato, ancora oggi la figura femminile è determinante per la costruzione dell’immagine filmica, rendendo di fatto il suo corpo un feticcio sul quale posare lo sguardo. Dall’altro è anche vero che i gender studies hanno imposto un nuovo paradigma, che ha scavalcato il concetto stesso di femminismo, arrivando a riconoscere alcuni film come “postgenere” (ad esempio i film di Pedro Almodóvar).


Questo non può essere chiaramente il caso di Suffragette, per evidenti motivi tematici. Esso si situa piuttosto in un ristretto filone di film che, a partire dagli anni Novanta, si sono posti l’obiettivo di scomporre le narrazioni tradizionali, abbattendo gli stereotipi. L’epoca della la signora Laszlo è giunta al termine, dunque ben venga Maud Watts! Un certo cinema si è svegliato e ha capito che la rappresentazione degli stereotipi non rispecchia più la realtà liquida nella quale viviamo e sceglie di proporre una diversità delle immagini, dietro alle quali si cela il pensiero della differenza. È un cinema femminista, che ridefinisce finalmente le relazioni di genere e indica alle donne un’alternativa possibile alle dinamiche del patriarcato.

Protesta delle attiviste Sisters Uncut durante la presentazione di Suffragette al London Film Festival

Roberta Cristofori

Articolo pubblicato originariamente su The Bottom Up.

Il cinema al femminile, tra fermento creativo e rivendicazioni politiche

Mentre il Bergamo Film Meeting, da sempre attento a celebrare (anche) il cinema al femminile, omaggia in questi giorni Anna Karina, in tanti festival le artiste trovano la loro massima celebrazione nel ruolo di attrici, mentre meno riconosciute sono le donne che si muovono dietro la macchina da presa o ad orchestrare, in qualità di produttrici, opere messe in scena dai colleghi uomini.

Nell’ambito dell’ultima edizione della Berlinale, la conferenza Where are the women directors in European films? Gender equality report on female directors (2006-2013) with best practice and policy recommendations, promossa dall’EWA (European Women’s Audiovisual) è stata l’occasione per fare luce sulla situazione del cinema al femminile, sui suoi numeri e sulla sua visibilità a livello internazionale, oltre a rappresentare un primo, fondamentale passo per avviare una serie di buone pratiche tese a supportare le donne impegnate nelle professioni audiovisuali.

Il collettivo Film Fatales
Il collettivo indipendente Film Fatales

Proprio uno studio dell’EWA, condotto per due anni coinvolgendo oltre mille voci differenti, rivela dati sconfortanti sulla parità di genere in ambito cinematografico: solo il 21% dei film prodotti a livello europeo è diretto da donne, forse anche in ragion del fatto che l’84% dei fondi pubblici finiscono per essere ripartiti tra opere dirette da uomini.

Se una forte spinta alla promozione del cinema al femminile è data dai festival di genere – tra gli altri, il milanese Sguardi Altrove, la cui prossima edizione si terrà dal 17 al 25 Marzo – il rischio per lo spettatore, soprattutto se non strettamente cinefilo, è quello di rimanere ai margini di un capitolo fondamentale del cinema contemporaneo non equamente supportato dalle distribuzioni e dai media.

Se i talenti di certo non mancano, così come i tanti riconoscimenti internazionali – l’Orso d’Argento per la Miglior Regia all’ultima Berlinale è stato infatti assegnato a Mia Hansen-Løve per il suo L’avenir – spesso l’unica occasione per vedere opere al femminile è affidata a passaggi festivalieri o proiezioni nelle sale sin troppo rarefatte: dai ritratti umani di Claire Denis e Andrea Arnold al cinema denso di memorie di Naomi Kawase, dalle sperimentazioni di Claire Simon al riscatto di genere delle protagoniste dei film di Céline Sciamma.

Il cast di “Bande de Filles” e, al centro, la regista Céline Sciamma

 

Laura Poitras e gli attori di "Citizenfour", premiato come miglior documentario agli Oscar 2015
Laura Poitras e gli attori di “Citizenfour”, premiato come miglior documentario agli Oscar 2015

Parliamo di cineaste che rivendicano maggiore attenzione e tutela per il proprio fermento creativo e che troppo spesso non riescono a raggiungere il pubblico italiano, complice una distribuzione lacunosa, al di là di qualsiasi distinzione di genere: dal cinema politico di Laura Poitras (il cui Citizenfour ha vinto il Premio Oscar al Miglior Documentario nel 2015), ai cortometraggi che intrecciano riflessioni sulla memoria, la condizione di esule e la fuga di Mati Diop; da una delle nuove portavoci del cinema indipendente americano Josephine Decker a Valérie Donzelli, che con il suo La guerre est declarée ha messo in scena, recitandola in prima persona, una drammatica storia autobiografica di madre e compagna.

Ma anche l’Italia vanta eccellenze al femminile: da Emma Dante a Eleonora Danco, da Alina Marazzi (in copertina, una scena del suo Tutto parla di te) a Martina Parenti, costantemente al lavoro con il compagno Massimo D’Anolfi.

Se siete alla ricerca di nuovi punti di vista, date un’occhiata alla lista di opere dirette da donne stilata dal collettivo Film Fatales, che riunisce nuove autrici del panorama indipendente: se hanno ispirato loro, potrebbero essere un ottimo spunto per le vostre prossime visioni…

Film Fatales

Tampons, Liners and Pads: on Period Inequality

If you visited the women’s centre where I work you would notice that our bathroom is always stacked with supplies of tampons, pads and panty liners in different shapes and sizes.

 Many of our service users face in fact situations of economic uncertainty as a result of violence, so it is important to us that their basic needs are met when they are on site. Creating a welcoming environment for the women and girls who access our services goes a long way to make them feel supported: sometimes it can be as simple as providing free tampons.

 Access to sanitary products is an important issue for disadvantaged women and girls worldwide, although a common misconception would have it that this is the case only for developing countries. Reports of schoolgirls in the global South using cloths, leaves and rugs (link) in place of sanitary tampons or pads abound in Western news outlets, but for marginalised women in Europe and the United States period-reality is not all that different .

For instance, in American prisons female inmates are often provided with a very limited supply of sanitary towels, whilst other facilities leave prisoners to supply these for themselves (buying them with whatever money they own or using makeshift pads if they have none) (link). Detention centres for refugees in Australia have also been accused of rationing sanitary pads in a way that feels humiliating for the detainees (link). In the UK, where female sanitary products are subject to a 5% “luxury” tax, a petition (link) asking the government to subsidise pads and tampons for homeless shelters – as is already the case with condoms – has reached 38.700 signatures (link).

The Homeless Period (thehomelessperiod.com)
The Homeless Period (thehomelessperiod.com)

The by now infamous “tampon tax” has become a matter of national debate in the United Kingdom, so much so that the political party UKIP (link) is endorsing the cause in order to advance its anti-European stance (EU regulations in fact do not currently allow sanitary products not to be taxed).

As British MPs consider taking the issue to Brussels (link), more and more human rights organisations are coming forwards asking for menstruations – and adequate access to sanitation – to be treated in all respects as a matter of human rights (link).

The lack of access to adequate facilities, such as clean bathrooms and affordable sanitary products has in fact important consequences on all aspects of women’s lives: it affects their health, access to education and job opportunities and undermines their right to live with dignity (link). In Uganda young girls have been found to lose up to 11% of their school days as a result of poorly cleaned bathrooms, lack of affordable sanitary products and stigma surrounding menstruations (link). The lack of suitable sanitary facilities has also been linked to higher rates of school abandonment among girls, leading to reduced employment opportunities and lower wages for women.

Young girls in impoverished areas of Kenya have reported having sex with older men in order to be able to acquire sanitary products (link), raising concerns around the impact that lack of affordable sanitation has on young women’s vulnerability to sexual exploitation.

But the most striking case of period inequality nowadays is perhaps that currently faced by female refugees, with sanitary products being rare and expensive and camps often lacking separate facilities such as female-only toilets or sleeping areas (link).

Sanitary kit distributed to women in emergencies by Action Aid (actionaid.org.uk)
Sanitary kit distributed to women in emergencies by Action Aid (actionaid.org.uk)

Refugee women have reported to Amnesty International feeling unsafe when using mixed facilities and avoiding eating and drinking in order to minimise the need to utilize them. Lack of privacy and cleanliness is also mentioned as reason for steering clear of unisex toilets, with many women preferring to carry out sanitary care in the fields.

A number of other examples can be made to sustain the case for necessity of improvement in sanitary provisions for women worldwide: for example, women from disadvantaged backgrounds in the United States find themselves unable to use food vouchers to purchase tampons (link), whilst calls for free distribution of sanitary products are met at best with indifference and at worst with conservative backlash.

Homeless women in the UK often find themselves forced to use whatever will do the job in place of sanitary towels and in some cases resorting to shop-lifting in order to obtain these. When these are provided in homeless shelters, women sometimes do not know or are ashamed to ask (link).

Stigma surrounding menstruations is still strong in the Western world and the persistence of policies that penalise women for having periods – such as unfair taxation – is of no help in dismantling it. Thanks to the efforts of a number of women’s charities, slow changes are now on the way to tackle the lack of affordable menstrual care worldwide.

Lunapads (link) is one of the organisations providing women in developing nations with reusable cloth pads and underwear, whilst the business Sheva (link), started in 2012, provides a monthly supply of sanitary products to girls in developing countries for every online purchase.

In collaboration with the charity CRISIS, Femmecup (link) applies the buy-one-give-one principle to provide sanitary products to homeless and refugee women and many more organisations are working to empower women and girls gain access to sustainable and adequate menstrual care.

As valuable as these efforts are, the solution to the problem cannot however be shifted to charities and businesses alone: as Jessica Valenti has written for The Guardian (link), it is time that menstruations be finally recognised as a healthcare issue and treated as such. Most women – which means nearly half of the world’s population – regularly experience periods and the practical needs related to it.

Arguably, periods are not only a woman’s matter: linked as they are to issues of health, reproduction, education and employability, they should be regarded as a concern for society at large. The achievement of women’s equal participation to society and politics depends upon the creation of facilities that meet their specific needs: sometimes it may be as simple as providing affordable menstrual care.

Donne native e violenza: l’ombra coloniale del Canada

Il Red River, detto anche Red River del Nord, è un fiume che scorre per quasi 900 km tra aree rurali ed urbane del Nord America, concludendo il suo corso nel lago di Winnipeg, a nord dell’’omonima cittadina canadese del Manitoba. Un corso d’acqua famoso anche per un’altra, più inquietante ragione: il numero di donne e ragazze aborigene ritrovatevi morte o in fin di vita negli ultimi trent’anni.

Nel 2014 la scoperta del corpo della quindicenne Tina Fontaine nelle sue acque ha sollevato una tale ondata di indignazione pubblica da spingere il governo provinciale di Manitoba a richiedere un’indagine nazionale per identificare le dinamiche di questa e di morti simili. Per le organizzazioni indigene canadesi si tratta di un passo essenziale per fermare quella che è ormai diventata una vera e propria tragedia nazionale.

Red River del Nord, Fargo, Moorhead / Foto di Fargo-Moorhead CVB / Pequod non ha diritti sull’immagine / Alcuni diritti sono riservati / Licenza CC BY-SA 2.0 / via Flickr

La violenza di genere verso donne e ragazze aborigene in Canada ha raggiunto proporzioni allarmanti: nonostante si tratti solo del 4,3% della popolazione femminile totale, le donne native costituiscono ben il 16% delle vittime femminili di omicidio e l’11% dei casi di sparizione. In totale, dal 1980 ad oggi si stimano tra i 1.200 e i 4.000 i casi di donne indigene sparite o vittime di  morte violenta; rispetto alle donne non native, le aborigene canadesi sono 1,4 volte in più a rischio di violenza da parte di sconosciuti. Un dato particolarmente anomalo, se si considera che la maggior parte delle violenze di genere nel mondo si consuma nei nuclei familiari o relazionali (si pensi al caso dell’Italia, con il 62,7% degli stupri ad opera di partner precedenti o attuali). Secondo i dati della polizia canadese, le aggressioni ad opera di persone vicine alle vittime figurano in numeri alti, ma la testata canadese «The Star» sostiene che queste stime includono anche conoscenti superficiali, come il vicino di casa o negozianti della zona: si tratta di una precisazione molto importante per sfatare il mito per cui il problema degli abusi su donne e ragazze indigene sia un problema tutto interno alle comunità native.

Donne e bambini nativi aspettano la visita reale, Vancouver, BC, 1901 / Foto di William McFarlane Nortman / Musée McCord Museum / Nessuna Restrizione / via Wikimedia Commons

Ma perché le donne e ragazze aborigene sono così sovra-rappresentate nelle stime delle uccisioni e sparizioni femminili in Canada? Le ragioni vanno ricercate nel passato coloniale del Paese.

Nel tentativo di estinguere le comunità indigene, e con la speranza di persuaderne i membri a rinunciare allo status nativo, i governi coloniali imposero una serie di misure finalizzate a penalizzarle e spingerle ai margini della società canadese. Espropriazioni di terre, proibizione di usi e costumi tradizionali, limitazioni nella partecipazione alla vita politica ed economica, la rimozione dei minori dai nuclei familiari hanno lasciato la loro impronta nelle profonde diseguaglianze economiche e sociali che separano ancora oggi aborigeni e non, e che ancora oggi contribuiscono ad accrescere il rischio di violenza e sfruttamento sessuale sulle donne native (link).

La violenza di genere si alimenta infatti non solo di stereotipi di stampo misogino e patriarcale, ma anche di discriminazione, svantaggio economico e marginalizzazione sociale; non è un caso, infatti, che le violenze verso donne che fanno parte di minoranze sono spesso più frequenti e più gravi (sempre in Italia, secondo l’Istat, le donne straniere sono soggette a più stupri o tentati stupri, mentre per quelle con problemi di salute o disabilità il rischio è doppio).

In un contesto di razzismo ancora endemico e di diffuso disinteresse verso le popolazioni aborigene, le donne native canadesi diventano le “vittime perfette” (link): i potenziali aggressori, infatti sanno benissimo che le donne indigene non godono di protezioni istituzionali, economiche o sociali, e le scelgono di conseguenza, consci del fatto che difficilmente saranno perseguibili.

La particolare combinazione di diseguaglianza di genere, etnica e sociale ha prodotto per le native canadesi una situazione di vulnerabilità con la quale le istituzioni hanno iniziato a fare davvero i conti solo di recente. Dopo le resistenze del precedente governo conservatore, l’indagine nazionale è stata finalmente annunciata dal nuovo governo nel dicembre 2015 e si svolgerà in collaborazione con le comunità native e le famiglie delle vittime. Il governo canadese e i governi provinciali si sono inoltre impegnati a sostenere le comunità aborigene, stanziando fondi per progetti rivolti alla gioventù nativa, campagne di sensibilizzazione e servizi di supporto alle vittime.

Ciò che promette di rendere queste misure efficaci è il riconoscimento della dimensione sistemica del fenomeno e l’impegno del Paese ad affrontare le ingiustizie coloniali (link). La strada è ancora lunga, ma il percorso scelto dal Canada per fronteggiare l’epidemia di violenza verso donne e ragazze native sembra avere buone premesse, in quanto fa propria la necessità di confrontarsi con le cause economiche, culturali e sociali della violenza di genere.

Immagine di copertina: manifestazione dei diritti dei nativi (CP Léore Pujol via Le Journal International)

Una pausa dalla città in città

Camminare per la città e rintracciare un luogo in cui il verde nasca e si sviluppi in libertà, senza costrizioni, senza vasi né cartellini a catalogarlo, può essere un esercizio difficile.

Tuttavia, anche se ormai, negli spazi in cui viviamo, non esiste un luogo in cui la natura cresca liberamente, la presenza di parchi è comunque una cosa positiva: trovare un posto, nel contesto urbano a cui siamo abituati, che ci estranei, significa prendersi una pausa fisica dalla quotidianità e trovare una quiete che solo la natura, anche quando artefatta, è capace di dare.

[at]Bergamo[dot]EU: al via il Bergamo Film Meeting 2016

Bergamo Film Meeting, 34esima edizione. Viaggio all’interno del programma che parte da chi ci lavora, tutti i giorni, da 12 anni: Chiara Boffelli, coordinamento e selezione assieme a Fiammetta Girola, ci ha raccontato di una manifestazione che svolge una ricerca cinematografica seria e consolidata, sempre attenta a nutrire bene un pubblico super cinéphile, con un occhio di riguardo per la critica e la formazione.
Ieri sera l’inaugurazione d’eccezione con la band islandese Mùm e la rimusicazione dal vivo di Menschen am Sonntag (Uomini di domenica, 1929) di Robert Siodmak, Edgar G. Ulmer, Fred Zinnemann, Curt Siodmak, Rochus Gliese, sceneggiato da Billy Wilder. Quest’anno il key role spetta al cinema di provenienza europea, ad onorare il ventennale supporto Media. Il titolo della rassegna è un messaggio, un grido: Europe, Now!, focus su tre autori di diversa provenienza i cui unici confini sono quelli del linguaggio, la persistenza di memoria e la specificità dell’identità visiva.

Il lavoro di Jasmila Žbanić riguarda la realtà – la sua, quella di chi è lucido e in salute quando scoppia il conflitto balcanico. Esordisce nel lungometraggio con Grbavica (Il segreto di Esma), che alla Berlinale 2006 riceve l’Orso d’Oro dalla giuria presieduta da Charlotte Rampling. Il tema della guerra è sempre forte e presente in lei e ha un suo culmine in For Those Who Can Tell No Tales, progetto nato dal contatto con l’attrice australiana Kim Vercoe e il suo spettacolo dedicato alla guerra in Bosnia. Chiude One Day in Sarajevo, un invito ai concittadini a prendere la camera durante le celebrazioni per il centenario dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando.

Da "One day in Sarajevo" di Jasmila Žbanić
Da “One day in Sarajevo” di Jasmila Žbanić

Si prosegue con il maestro ceco Petr Zelenka, la cui produzione spazia dal teatro alla televisione; vedremo in anteprima Lost in Munich, che replicherà assieme a I fratelli Karamazov anche a Milano, dove l’autore sarà ospite di un incontro aperto presso la Scuola Civica di Cinema.
Dalla Repubblica Ceca al proletariato delle Midlands Occidentali: la super star cult Shane Meadows presenta un programma che comprende, oltre al più famoso This Is England e alla serie completa tratta dal film (’86 / ’88 / ’90), alcuni cortometraggi inediti e il doc musicale The Stone Roses: Made of Stone. La sezione si chiude con il best of dei cortometraggi prodotti dalle scuole del circuito CILECT.

Il cast di "This is England"
Il cast di “This is England”

Ci stupiranno anche le sezioni classiche, la Mostra Concorso con i 7 lungometraggi da Europa e Paesi confinanti, e Visti da vicino, che grazie al contributo di CGIL Bergamo diventa competitiva: da segnalare il nuovo film Lepanto di Enrico Masi e il focus sui Paesi Scandinavi, con un immancabile omaggio al cinema d’animazione del lettone Vladimir Leschiov. La retrospettiva è dedicata a Miklós Jancsó, curata dal direttore Angelo Signorelli con la collaborazione di MaNDA, in occasione del termine del restauro di molte opere del regista. Ospite d’onore sarà l’icona Anna Karina, con un incontro, un saggio di Emanuela Martini e i film (sì, compreso Godard).

Anna Karina, ospite d'onore di BFM 2016, e il regista Jean-Luc Godard
Anna Karina, ospite d’onore di BFM 2016, e il regista Jean-Luc Godard

A completare il ricco programma due anteprime italiane, Une Histoire de fou di Robert Guédiguian (protagonista di una monografica di qualche anno fa) e, in chiusura, l’unico film extra-europeo, il colombiano El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra.

Trionfale l’ingresso nel festival delle arti visive, grazie alla consolidata collaborazione con The Blank: fino al 31 marzo la Sala di Porta Sant’Agostino ospiterà l’installazione del lituano Deimantas Narkevičius, Book on Shelves and Without Letters, accompagnato, come nelle commissioni della Tate Modern di Londra, dalle opere di Keren Cytter.

Deimantas Narkevičius - ®GB_Agency

Non mancheranno le attività collaterali con il Birrificio Elav, gli incontri nel bookshop e le occasioni di formazione per tutta la città.
Buone visioni, and enjoy Bergamo’s atmosphere!

KUMA è un accordo naturale tra musica e rumore

KUMA è un viaggio. KUMA sono tre menti e tre strumenti. KUMA è una chimera: un po’ leone, un po’ capra e un po’ serpente. KUMA è suono, musica e rumore.

«Bergamo, sala prove adibita a studio, tre elementi in una stanza iniziano a suonare. Partendo dall’improvvisazione di groove, affiancando psichedelia e noise la band trova un sound concreto, di impronta sperimentale, caratterizzato dall’esigenza di uscire dai canoni tradizionali del Rock», queste le prime parole di Nicola Gualandris durante la nostra intervista. Oltre a lui, la sua chitarra e il suo orecchio sensibile, altri due musicisti, attivi ormai da anni nel panorama underground della musica italiana, contribuiscono alla nascita di questo nuovo progetto musicale. Mauro Galbiati alla chitarra baritona e Jacopo Moriggi alla batteria si sono rinchiusi nella suddetta saletta insieme a Nicola per «una sessione di registrazione di tre giorni e diversi mesi di missaggio con elementi di sound design; così è nato il primo disco: CHAPTER ONE». Questo è il primo lavoro autoprodotto della band, in uscita a marzo 2016, a cui seguirà un tour di promozione. (link)

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La “voglia di rimettersi in carreggiata” nella realtà musicale circostante, l’esigenza (dopo tanta musica fatta e sentita) di creare un progetto sperimentale, porta all’idea di costruire le canzoni su dei suoni particolari, ed è a questo punto che entra in gioco l’orecchio di Nicola. Da sound designer con una grande sensibilità, in questi anni ha portato avanti un grosso lavoro di registrazione e campionatura di suoni incontrati nei suoi viaggi intorno al mondo.

«Un giorno stavo riascoltando dei suoni che avevo registrato nella savana africana e mi sono detto: Cavolo! Perché non ricostruire l’ambiente sonoro che ho sentito e visto per abbinarlo a degli strumenti acustici, esaltandone le emozioni e le maestosità di quei esseri giganteschi, feroci e pacati?! Allora ho iniziato a stendere varie tracce ricostruendo pian piano l’ambiente sonoro dell’Africa. Poi ho messo in play facendole scorrere nel tempo, ho preso la chitarra e ho iniziato a suonare. Tutto quello che avevo dentro, ciò che mi aveva regalato quell’esperienza di suoni,  lo stavo esprimendo attraverso uno strumento musicale e le registrazioni catturate durante il viaggio».

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Chiaro che il lavoro e l’esperienza hanno influito molto sul prodotto finale di KUMA infatti, la maggior parte dei brani sono stati ricostruiti, a livello sonoro, seguendo le procedure del lavoro di sonorizzazione che si usano, per esempio nella creazione di video e di cortometraggi. Sono stati usati gli stessi strumenti e lo stesso approccio.

Al momento il disco master è stato mandato in stampa. Pensato come una sorta di viaggio continuo, le varie tracce sono unite dal suono di un ruscello: un effetto di riposo e di continuità che accompagna il moto musicale e sonoro. CHAPTER ONE è un’esperienza d’ascolto che unisce musica e rumore, è la savana, un treno, una città, un signore che russa, una bicicletta che passa sopra un arpeggio blues. Un processo di interazione tra suoni reali e schemi musicali che portano la natura stessa ad essere musica, ad essere suono umanamente organizzato.