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Mese: Aprile 2016

Brennero 2016: una lotta partigiana contro la chiusura dei confini

«Essere partigiano vuol dire fare delle scelte, prendere una parte. Chi ha fatto il partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale poteva decidere se imboscarsi, arruolarsi o fuggire; c’è invece chi ha scelto di combattere. Se ci pensi, i ragazzi partigiani di vent’anni erano nati e vissuti durante il fascismo, per loro c’era sempre stato il fascismo, non c’era nient’altro e non avevano esperienze di un’alternativa. Eppure in quel momento han scelto di combattere per un’alternativa».

Queste le parole di Claudio, un ragazzo del centro sociale autogestito Pacì Paciana di Bergamo. In questa settimana dedicata a coloro che hanno lottato e che lottano per un’idea di stato civile, vi racconterò di Claudio e degli altri ragazzi del centro che hanno preso parte alla manifestazione del 3 aprile scorso al Brennero.

Mobilize aganinst the borders of Fortress Europe è una manifestazione nata all’interno di due campagne parallele: Over the Fortress e No Borders. Il primo è un movimento specifico, partito dalla Germania e che ha inglobato i centri sociali del nord est e successivamente, per la questione di Idomeni, anche quelli delle Marche, poiché uniti da un’area politica comune; la manifestazione del Brennero rappresentava proprio un passaggio di questa campagna.

«Inizialmente fu un movimento che si occupava di accompagnare i profughi siriani in Slovenia o in Austria», mi spiega Claudio, «i quali venivano “caricati” in macchine e furgoni, secondo l’idea e il principio fondamentale che la mobilità è un diritto inviolabile, così come è garantito per le merci». Al Brennero hanno vietato le manifestazioni del 24 aprile e del 7 maggio per motivi di ordine pubblico «La verità è che non si può chiudere il valico di frontiera: chiudere il valico di frontiera significa non far passare le merci. Le persone non hanno il diritto di passare, le merci si?».

Una manifestazione ad alto valore simbolico quella del Brennero. Lo sfondamento di una chiusura di confine già annunciato non era l’obiettivo dei manifestanti: «Al Brennero siamo andati per una questione di “potenza” intrinseca a quella giornata e di validità del percorso politico: come Pacì Paciana siamo sempre stati indipendenti dalle aree politiche dei centri sociali italiani e ci muoviamo semplicemente sulle cose in cui riconosciamo una validità, una valenza politica importante».

Partecipare e prendere parte a quella giornata ha significato portare alla luce il fatto che, ad oggi, nella nostra società esiste un gruppo di persone che si spostano tra un confine e l’altro. Quello che è accaduto al Brennero è stato un gesto simbolico e «la dimostrazione di una volontà di costruire qualcosa che a lungo termine potesse arrivare, se non al superamento dei confini, almeno a una critica dei confini stessi», chiosa Claudio.

Questo movimento pare avrà seguito, tanto che i ragazzi del Pacì Paciana continuano a rimanere in contatto con gli altri centri sociali coinvolti. Sarà un’iniziativa che probabilmente vedrà un’esplosione durante il periodo estivo, soprattutto per capire se sarà possibile fare qualcosa di più efficace e che possa lasciare un seguito forte.

Ho infine chiesto a Claudio cosa significhi per lui essere partigiano oggi: «La grande indifferenza su questi argomenti mi fa spingere in prima persona: quello che sento è di essere in dovere di fare qualcosa, con la parzialità dell’azione simbolica, dell’azione e dello scendere in strada. Il rimanere fermo non la considero come una possibilità Ci tocca decidere se provare ad agire, con elevate probabilità di fallimento, oppure di scegliere di ignorare e rimanere nell’inazione: la passività è intollerabile».

Fotografie di Francesca Gabbiadini

Giovanni Marzona, staffettista partigiano per la conquista della libertà

Venerdì 22 Aprile 2016, mi aggiro per la sala del CSA Baraonda, dove aspetto d’ascoltare Giovanni Marzona (classe 1928 e ufficialmente partigiano dal 1943) riportare la sua esperienza nella conferenza di apertura dell’iniziativa Partigiani In Ogni Quartiere; lo osservo muoversi in quest’ambiente che ci si aspetta dovrebbe cozzare per anacronismo con un uomo della sua età, invece mi sorprendono la sua disinvoltura nel parlare ai ragazzi e la spontaneità della prima frase che gli sento pronunciare e che resterà nei miei pensieri per il resto della serata: «Non sono nato partigiano».

È nato bambino, il signor Marzona, e con i sogni di un bambino: giocare, cantare, esprimersi; ma in un’epoca in cui parlare non era ancora un diritto inalienabile. Figlio di un antifascista, Giovanni Marzona conobbe presto le difficoltà dovute all’essere considerato diverso e quindi escluso in una società in cui il cameratismo era un diktat; ricorda l’invidia per le baionette dei coetanei che sfilavano per la domenica fascista e il desiderio di partecipare alla lezione di educazione fisica, riservata ai figli degli iscritti al partito. Fa sorridere l’auditorio, raccontando della sospensione ricevuta per aver cantato lo Stelutis Alpins alla richiesta del rettore di ripetere l’Inno d’Italia (aspettandosi l’Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista), e intona:

«Se tu vens cassù ta’ cretis
là che lôr mi àn soterât,
al è un splaz plen di stelutis;
dal miò sanc l’è stât bagnât.»

Le ingiustizie subite hanno fatto di lui un partigiano, lo hanno spinto a mettersi in cammino. Incontrati i primi partigiani, nascosti sulle montagne friulane alle pendici delle quali era cresciuto, ha sentito sua fin da subito la lotta di questi uomini e presto ha deciso di seguirli. Con un sorriso ricorda che alla domanda del Comandante di diventare membro della Brigata Osoppo, come poi avverrà, il primo pensiero di Giovanni è stato: “Dovrei chiedere se posso alla mamma”.

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25 Aprile 1945 – Giovanni Marzona Alfa – Brigata Osoppo

Il viaggio del signor Marzona non è di quelli che portano lontano da casa, ma di quelli che fanno crescere.

Dal 1943 fino alla liberazione del Friuli Venezia Giulia nel 1946, sotto le vesti di Alfa (nome in codice ereditato da un combattente recentemente caduto) ha camminato tra i boschi montani e corso lungo i pendii di tutta la regione, per mantenere le comunicazioni tra le brigate dislocate in tutto il territorio.

Ricorda da un lato, le difficoltà della vita quotidiana all’interno delle compagnie: piccoli gruppi, così da esser poco identificabili, sprovvisti di cibo e di mezzi per cucinarlo («mentre mescolavo, il mestolo ha forato il tegame»), muniti solo di neve per lavarsi («il corpo era coperto di croste di sporcizia, che almeno aiutavano a sopportare il freddo»), mangiati dai pidocchi («quando la mamma ha messo a bollire i miei vestiti per lavarli, c’era un dito di pidocchi che galleggiava sull’acqua»).

Dall’altro, il desiderio profondo di pace. Per il signor Marzona è importante sottolineare che i partigiani erano pacifisti: è vero che non hanno risposto al disarmo alla richiesta di Eisenhower, poiché il nord Italia era ancora occupato dai fascisti, ma ricorda quando, nei primi mesi del ’46, si poteva sentire il rumore delle canne dei fucili, che con gioia i partigiani spezzavano nelle griglie dei lavatoi. Non consegnarono le armi: le ruppero, perché non potessero sparare mai più.

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Giovanni Marzona alla Giornata della Memoria 2009 a cura del Comitato Antifascista della Zona 8 Milano

I primi anni dopo la caduta del fascismo, la vita non fu più semplice per i partigiani: Giovanni Marzona ricorda molte porte chiuse, tanti posti di lavoro negati, a causa dei suoi precedenti “da dissidente”.

«Ma avevamo conquistato la libertà –dice con orgoglio- e per la libertà avremmo dato tutto».

Questo il messaggio che continua a condividere con la sua testimonianza, la lotta che non ha mai smesso di portare avanti, partecipando a conferenze, raccontando nelle scuole, condividendo con giornalisti e scrittori: il bene più prezioso che abbiamo è la nostra libertà, libertà di esprimerci e libertà di scegliere.

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Copertina del libro presentato il 22 Aprile 2016 al CSA Baraonda con la testimonianza di G. Marzona

L’Educazione civica non si fa (soltanto) sui libri

Riposto il tricolore dopo i festeggiamenti del 25 aprile, anche quest’anno gli italiani hanno svolto il loro ruolo da cittadini consapevoli, chi esprimendo gratitudine per la conquistata libertà, dandola meno per scontata del solito, chi polemizzando sul fatto che il Giorno della Liberazione debba esistere 365 giorni l’anno, o chi ancora insinuando dubbi più o meno leciti sull’effettiva libertà dei cittadini dello Stivale.

Un tale entusiasmo nell’esprimere la propria opinione e nel sentirsi cittadini d’Italia fa quasi sorridere, o innervosire, se si pensa all’affluenza da record (negativo) al recente referendum sulle trivelle, alla posizione del Capo del Governo in merito alla questione e alle innumerevoli parole che sono state dette e scritte sull’argomento. Come nasce dunque questo duplice animo dei cittadini italiani, talvolta motivati e intrisi di senso civico, altre volte apatici e totalmente indifferenti allo Stato, con tutti i suoi annessi e connessi?

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La risposta a questa problematica dicotomia va ricercata, come spesso accade, nelle nuove generazioni: si sa che i giovani sono come una tabula rasa, pronti per essere formati e modellati dalla società che li circonda. E quando si parla di senso civico, la scuola sembra venire prima della famiglia nel compito di infondere nelle nuove leve i valori del buon cittadino italiano. Ma che cos’è davvero l’Educazione civica nelle scuole italiane?

Lo abbiamo chiesto ad alcuni insegnanti della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo di Cene e Gazzaniga, provincia di Bergamo, la cui Dirigente è la dottoressa Elena Margherita BerraGiuseppe Scarlata, docente di Lettere, la definisce così: «La formazione degli alunni, sia facendo conoscere loro i principi della Costituzione, sia cercando di stimolare il senso civico in ognuno di loro evitando la semplice teoria e mettendo in pratica le parole. Per quanto mi riguarda l’educazione civica viene affrontata quotidianamente, ogni volta che si presenta l’occasione, spiegando storia, leggendo un brano di antologia o scoprendo i problemi dell’ambiente». Sembra dunque che l’Educazione civica rappresenti un sostrato comune a più discipline, qualcosa che trova espressione in ambiti e materie diverse; dello stesso parere è anche Patrizia Ongaro, insegnante di Lettere: «L’educazione civica è diventata un sapere trasversale: io personalmente, ma come penso molti docenti, ho affrontato temi di cittadinanza in tutte e tre le materie che insegno. Temi come il lavoro, i diritti e i doveri, la famiglia, il comune, l’organizzazione dello stato, la parità, le tasse, democrazia e dittature, l’ambiente… Sono argomenti che ho sviluppato svolgendo il mio programma».

Insomma, ai docenti intervistati sembra essere ben chiaro il proprio compito di “educatori del senso civico”, verso il quale mostrano una particolare devozione. Tuttavia, che cosa prevede ufficialmente lo Stato in merito all’insegnamento dell’Educazione civica? Ce lo spiega Scarlata: «Alle scuole medie alcune ore di Storia vengono dedicate alla disciplina, mentre nella scuola superiore l’educazione civica sembra sparire, tranne in quelle scuole in cui si insegna Diritto». Può sembrare lecito domandarsi se questa apparente sottovalutazione della disciplina possa costituire un problema vero a livello educativo. Ci rassicura Elisabetta Corna, docente di Lettere, che concorda coi colleghi: «L’ora di Educazione civica “istituzionalizzata”, a volte invocata come fosse la soluzione di tutti i mali, non è necessaria nel momento di cui, lavorando per competenze il più possibile, si insegna ai ragazzi che la società la si costruisce insieme, cominciando dal costruire all’interno della classe delle buone relazioni. In fondo, in questo lavoro di costruzione di un “sé” in relazione libera con gli altri, sta la chiave della felicità nella vita di una persona».

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L’Educazione civica sembra dunque essere profondamente radicata nella scuola media, seppure non sia fissa nella programmazione dell’orario delle materie o sottoposta a prove di verifica. Del resto, aggiunge Scarlata, «i ragazzi vedrebbero questa disciplina noiosa se istituzionalizzata, è molto più efficace associarla ai vari momenti della quotidianità scolastica, ad aspetti pratici. Ad esempio con le classi terze organizzo uno spettacolo per il 25 aprile. Quest’anno il titolo è La libertà è l’ossigeno dell’anima».

Ed è proprio in queste attività “pratiche”, slegate dalle pure materie di studio, che sta l’essenza delle proposte alternative messe in atto con successo dall’Istituto Comprensivo di Cene e Gazzaniga. Il progetto SCAT (Scuola, Cultura, Arte e Territorio), di cui ci parla Rosaria Bosio, docente di Arte ed Immagine, è una di queste proposte innovative e si pone l’ambizioso obiettivo di avvicinare la cittadinanza alla conoscenza della nostra Costituzione. Come? Tramite la rappresentazione pittorica degli articoli della Costituzione in spazi pubblici della città, che in questo modo vengono abbelliti e restituiti alla cittadinanza. «Educazione civica quindi non è solo una materia di studio, ma è un dovere di tutti», ci dice Bosio.

Ancora, la professoressa Corna ci racconta di come l’impegno dei docenti della scuola secondaria abbia portato alla formazione del Consiglio Comunale dei Ragazzi: «Straordinario strumento di partecipazione attiva alla vita civile, a partire dal proprio Comune, primo luogo di democrazia che ciascuno di noi conosce; esso coinvolge attivamente i ragazzi della secondaria di primo grado e, solo come elettori, quelli delle classi quinte della primaria».

Questi entusiasmanti esempi e le altre numerose iniziative promosse dalla scuola secondaria di primo grado faranno forse ricredere anche i più scettici sull’impegno della scuola dell’obbligo nell’educare le nuove generazioni ad essere cittadini coscienti e responsabili. Di fronte ad un tessuto sociale reso sempre più complesso dalla mancanza di valori, la scuola e gli insegnanti si pongono obiettivi ambiziosi ideando modalità sempre nuove e stimolanti di formazione e trasmissione della cultura e del senso civico.

 

What’s behind a victory parade?

More than seventy years after the end of World War II people and nations are still remembering the day the conflict ended. It is indeed an important moment of reflection for each citizen, who on the anniversary of his country’s liberation can appreciate the liberty he has more than during the rest of the year. On this day, which varies according to the country – it is April 25 in Italy, August 25 in France, May 5 in the Netherlands, for example – public demonstrations and parades are organized in several cities to pay homage to the victims of the war, to celebrate the resolution of the conflict, with the hope that something that terrible wouldn’t happen again.

Speaking of parades, an interesting case is the one of the two communist states which won the war, Russia and China. The meaning of memorial parades in the two states is of particular interest.

Russian May 9th

May 9th, devjatogo maja as they refer to in Russian, is also called “Victory Day” (Russian Den’ Pobedy). The name speaks for itself – Soviets chose to underline the fact that they had won the conflict. The entire eastern block of countries celebrates Victory Day on May 9, but Russia definitely does it bigger. Den’ Pobedy is usually celebrated with a solemn parade in Red Square in Moscow and all the departments of Russian Army join it. Interestingly May 9th parade had become a modest celebration in the 90s, but Putin brought it back to its majesty. The most glorious parade took place last year, in occasion of the 70th anniversary of the victory. It was joined by 16,000 Russian soldiers and 1,300 foreign troopers from 10 different countries, plus 200 tanks and 150 planes and helicopters.

Not only Moscow is interested by Victory Day parade though. Every Russian city celebrates May 9th with parades, fireworks, concerts and events, involving men and women, children and seniors. Nevertheless, the real protagonists of Den’ Pobedy, from Moscow to Vladivostok, are the veterans. They walk fiercely with their golden medals and their old uniforms, with a nostalgic gaze, and they are the real heroes of the day. One of them has recently become a case, when Russian photographer Aleksey Petrosian published on his Instagram profile a picture of a veteran crying during the 9th May parade in St. Petersburg in 2007, hoping to find his identity and reconstruct his story.

Picture by Aleksey Petrosian
Picture by Aleksey Petrosian

Chinese September 3rd

Despite Chinese people’s love for parades and political celebrations, for decades the anniversary of the end of the World War II in China – September 3rd – has been largely ignored by both the public and the government. This may seem apparently incredible, given the enormous death toll of the conflict in China – 20 million victims only among the civilians – and all the suffering inflicted by Japanese occupation (first and foremost the Rape of Nanjing).

Point is that it was Communist Party’s bitter foes – the Nationalists – who did most of the fighting and dying in WWII. For most of the war, the Communist Party had to operate in secrecy and was much less equipped than the Kuomintang, the ruling Chinese Nationalist Party supported by the United States. Beijing had therefore no interest in celebrating the victory of their enemies.

Foot Formation parade-Xinhua

However, on September 3rd 2015, a sumptuous parade was held in Beijing to commemorate the “70th Anniversary of Victories in the Chinese People’s War of Resistance Against Japanese Aggression and the World Against Fascism”. The parade was not only memorable for its grandeur, but also because it was the first time that the anniversary was properly commemorated in 70 years. To mark the occasion, the government even set a National Holiday of three days to allow citizens “to participate in memorial activities”, as the announcement read.

Gun salute-Xinhua

Why to start now? The reason is, of course, political. After Japan in 2012 nationalized the disputed Senkaku Islands (Diaoyu in Chinese), the relationship between the two countries have deteriorated considerably. The parade is therefore the last Chinese political move to underline Japan’s past (and present) aggressions and also to showcase China’s military force.

That’s how the anniversary went from being almost completely ignored to be widely promoted, but only for mere propaganda – probably not the best of reason.

Lucia Ghezzi, Margherita Ravelli

I partigiani di oggi rischiano la vita per la democrazia in Medio Oriente

Nonostante le dimostrazioni di potenza distruttrice degli attentati terroristici di Parigi e Bruxelles e il numero crescente di reclute occidentali, lo Stato Islamico sembra perdere sempre più terreno e supporto popolare in Medio Oriente. Già a gennaio 2016 i territori occupati dall’IS si erano ridotti notevolmente sia in Siria che in Iraq, un effetto dei bombardamenti occidentali e della lotta sul campo delle forze curde, i gruppi YPG (Unità di Difesa Popolare) e YPJ (Unità di Difesa delle Donne) e i Peshmerga del Kurdistan settentrionale. Insieme alla predominanza militare, lo Stato Islamico sta perdendo anche la stretta psicologica sulle popolazioni dei territori occupati, dove azioni di disobbedienza civile crescono in numero e audacia.

Esiste dunque una resistenza mediorientale contro lo Stato Islamico? A giudicare dai resoconti provenienti dalla regione decisamente sì, e come fu per il fenomeno della Resistenza italiana, anche quella contro l’IS varia nei metodi, passando dalla guerriglia in armi alle proteste non-violente.

A rendersi protagoniste dell’opposizione armata più strenua ed efficace contro lo Stato Islamico, appunto, sono stati finora i peshmerga iracheni e, in Siria, le milizie curde dei YPG e YPJ; tra le due fazioni, che politicamente hanno poco in comune, le YPG hanno attirato molta attenzione mediatica grazie alla spregiudicatezza dimostrata nel combattere con mezzi limitati un nemico ben armato e finanziato come l’IS (a differenza dei Peshmerga, che sembrano possedere armi più adeguate) e per l’ideologia che le caratterizza.

La lotta del YPG non è infatti unicamente volta a contrastare l’IS, ma si inscrive in un quadro più ampio di cambiamento sociale che i curdi sperano di attuare sul territorio. Nel 2013 questi hanno dichiarato il Rojava (Kurdistan occidentale) area autonoma all’interno della Siria, suddivisa in tre cantoni governati da assemblee popolari. Il YPG si contraddistingue inoltre per una forte spinta anti-capitalista e per l’aspirazione a creare una società equa e governata dal basso, basata sull’eliminazione delle gerarchie sociali, a partire da quelle di genere.

Sebbene l’organizzazione sottolinei di essere separata dal Partito dei Lavoratori Curdi (PKK), considerato un’organizzazione terrorista da Turchia, Stati Uniti ed Europa, la sua vicinanza a quest’ultimo la rende sospetta per Erdogan, mentre la maggior parte delle forze occidentali ha imparato a vederla come alleata nella lotta contro l’IS. Sospetti e critiche verso il suo operato vengono anche da altri: Amnesty International l’ha accusata di operare rimozioni forzate delle popolazioni arabe dai villaggi nelle aree sottoposte al suo controllo, mentre alcuni suggeriscono che abbia legami poco chiari con il regime di Assad. Le YPG rigettano tali accuse e prendono le distanze dalle aspirazioni nazionaliste del PKK, presentandosi come un’entità multi-etnica e multi-nazionale impegnata nella difesa di tutte le popolazioni etniche del Rojava.

Gli entusiasmi e gli scetticismi riguardo alle YPG abbondano ed è difficile stabilire dove sia la verità nel groviglio di informazioni più o meno di parte che ci raggiungono. Quello che è certo è che le loro aspirazioni di giustizia sociale e la tenacia dimostrata nel combattere il fascismo religioso dell’IS rendono difficile non vederle un po’ come le brigate partigiane del nuovo millennio.

Come accennato sopra, la resistenza contro lo Stato islamico in Medio Oriente è fatta anche di episodi di disobbedienza civile e infazioni quotidiane dei codici islamici imposti. Nel 2013 una manifestazione dei siriani di Raqqa era riuscita ad ottenere la liberazione di un uomo arrestato dall’IS con l’accusa di aver tentato di contrastare un attacco delle milizie islamiche contro la casa di un residente sciita. Nel 2014 la popolazione di Mosul, in Iraq, si organizzò per impedire la demolizione della moschea di Souq-al Sharin, considerata eretica dal califfato, e riuscì a salvarne una parte dormendovi dentro nei giorni scelti per la distruzione. Resoconti più recenti indicano che le diserzioni dai ranghi dell’IS sono in crescita, motivate presumibilmente dalla disillusione incontrata dai combattenti una volta realizzata la distanza tra le promesse del gruppo e le reali condizioni di vita sotto il califfato. Allo stesso tempo un gran numero di civili siriani continua a resistere la coscrizione nelle milizie islamiche, mentre medici e avvocati rifiutano di lavorare per loro.

Ma l’attività di resistenza non-violenta contro l’IS più nota al momento è forse quella degli attivisti del collettivo giornalistico Raqqa is Being Slaughtered Silently (letteralmente, “Raqqa sta venendo massacrata silenziosamente”). Attivo dal 2014, il gruppo si occupa di documentare la vita quotidiana nella città siriana sottoposta al dominio dell’IS, svolgendo anche pericolose attività di propaganda clandestina come l’affissione di poster e l’esecuzione di graffiti contrari all’IS per le strade della città. Il gruppo conta almeno quattro membri uccisi dai miliziani e molti altri ancora soggetti a minacce di morte, ma continua nonostante questo la sua attività di contro-informazione. Il sito Mosul Eye svolge un’attività di contro-informazione simile dalla città irachena di Mosul, contribuendo a demistificare l’immagine idilliaca di vita sotto la legge islamica diffusa dall’IS.

Atti di sfida e resistenza abbondano nei territori controllati dal califfato e sebbene coloro che se ne rendono protagonisti siano soggetti a rappresaglie cruente, le loro azioni aprono la strada a una speranza di democrazia per la regione e non solo. Questo 25 aprile sembra la data perfetta per rivolgere un pensiero all’impegno di quanti rischiano la vita per combattere uno dei fascismi contemporanei più sanguinari e per augurarsi che conoscano presto la loro Liberazione.

 

In copertina: combattenti curdi di YPG e YPJ (autore: Kurdishstruggle CC-BY 2.0/Wikimedia Commons).

Una mano dal passato per bambini del futuro

Alle porte di Bergamo, tra viali alberati e parchi giochi, c’è un negozio che vende alle famiglie quello che altri bambini non usano più: si chiama Secondamanina, e tra giocattoli, vestitini, culle ed altri accessori, conta più di cinquemila pezzi.
La curiosità di scoprire come nasce una realtà di questo tipo, come funziona e come riesce ad integrarsi in una comunità ci ha portato dietro le vetrine del negozio, a sbirciare tra i coloratissimi articoli e fare quattro chiacchiere con Tayla, la proprietaria.
“Quando ho avuto mia figlia, mi sono accorta di quante cose necessiti un bambino e di come le sue esigenze cambino velocemente: ho iniziato a scambiare con altre mamme le cose che non servivano più per altre di cui avevo bisogno, e così è nata l’idea di aprire il negozio”. A Secondamanina, infatti, chiunque può portare quello che ai propri figli non serve più: dopo una valutazione, gli articoli vengono esposti e possono essere acquistati da chi ne ha bisogno.
Da quando è nata, quest’attività è diventata una certezza per molte famiglie: chi compra sa di star scegliendo oggetti di qualità ad un prezzo minore, e chi vende sa di star dando nuova vita a quello che non usa più.
Ma chi sono i clienti di Secondamanina? “Nonne e neo-genitori sono i visitatori più frequenti, ma spesso contano su di noi anche famiglie al secondo o terzo figlio: quando si ha più di un bambino piccolo in casa servono tantissime cose e da noi si può risparmiare”
Abbiamo chiesto infine se ci fosse differenza tra clienti italiani e stranieri: “per la maggior parte, si rivolgono a noi clienti italiani, oppure famiglie di provenienza est-europea, dove negozi di seconda mano sono molto diffusi”.
Nonostante oggi in Italia la bassa natalità sia una questione rilevante, Secondamanina è una realtà che funziona e un punto di riferimento per ogni tipo di famiglia.

La ricerca italiana mette radici in Svizzera

Come se la passa un ricercatore italiano all’estero? Questa settimana Pequod intervista Chiara, ricercatrice di trent’anni che tra i boschi e nelle città della Svizzera ha trovato il cambiamento.

Dopo il liceo classico è stata la volta della Facoltà di Agraria presso l’Università Statale di Milano «perché non di solo latinorum vive l’uomo». Durante il dottorato, sempre a Milano, sul ruolo delle foreste nella prevenzione di fenomeni di dissesto idrogeologico, la giovane dottoranda si recò in una Fachhochschule (Università di scienze “applicate”) a Berna scoprendo che, per gli svizzeri, i boschi e le frane «sono una cosa seria».

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«Tornata a Milano, un’amica mi ha girato quasi per caso un bando per post doc a Davos, ho provato a partecipare e inspiegabilmente mi hanno preso. Ho accettato un po’ perché volevo mettermi alla prova: dopo otto anni a Milano tra università e dottorato, era tempo di cambiamento. In più il progetto era interessante, lo stipendio pure! Anche se la Svizzera è cara, come post doc sei pagato davvero tanto. Inoltre sulle tematiche su cui lavoro io c’è tantissima sensibilità e tantissimi investimenti, si fa una ricerca a stretto contatto con le esigenze della comunità e di chi in bosco ci lavora, e questo è davvero bello. Anche qui si va avanti di contratto precario in contratto precario, ma ci sono molte più opportunità di finanziamento rispetto all’Italia. Adesso sono di nuovo a Berna».

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Le difficoltà più grandi sono state quelle dell’ambientarsi al nuovo paese ospite: l’alimentazione  « I formaggi svizzeri sono una bufala, non sono così buoni!» e l’entrare in contatto con un idioma de tutto nuovo. «E poi tutto il resto, cioè gli amici, il solito bar, la ciclostazione, le Prealpi Orobiche, la nonna… Le cose che ti mancano quando sei via. Più che avere voglia di partire ero terrorizzata perché io di base sono una pantofolaia e non una giovane dinamica  – come sembra “obbligatorio” essere oggi – però ora sono contenta di averlo fatto. Voglia di tornare adesso ne ho, ma non a tutti i costi: vorrei poter continuare a fare il lavoro che mi piace».

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A questo punto mi è sembrato inevitabile chiedere a Chiara quale sia il suo pensiero riguardo i famigerati “cervelli in fuga” dei ricercatori italiani all’estero. «Odio la definizione “cervelli in fuga”. La gente va in cerca di opportunità:  puoi chiamarci anche “piedi in fuga”, come ti pare. Da sempre la gente si sposta, ognuno coi suoi motivi e se sei nato in Europa è facile farlo. Nella ricerca poi fare un’esperienza di qualche anno all’estero, poi c’è chi si trova così bene che si ferma! Detto questo, al di là dei casi e delle motivazioni personali, la situazione della ricerca in Italia è un disastro. La Gelmini ha ucciso l’università pubblica e i suoi successori non stanno migliorando la situazione insabbiando il vero problema: taglio drastico dei finanziamenti, il blocco del turn over e del reclutamento e il precariato. Per chi lavora nella ricerca e si confronta tutti i giorni con i problemi reali è davvero frustrante».

Al momento Chiara e il suo compagno sono in “fase meditativa”. Le piacerebbe rientrare definitivamente nella bergamasca, magari tra un paio di anni. L’obbiettivo rimane quello di incastrare i desideri lavorativi con la vita quotidiana e la novità del diventare mamma «sto provando a proporre qualche progetto di collaborazione tra la Svizzera e il contesto milanese, se son rose fioriranno!»

 

Italiani in viaggio sulle tracce del benessere

La convenzione di Schengen, sottoscritta a partire dal 1990, e la conseguente apertura delle frontiere europee per un libero passaggio di merci e persone hanno dato inizio a ingenti flussi migratori e spostamenti temporanei tra i 26 stati aderenti. Per i giovani appartenenti oggi a uno stato europeo è ovvia la possibilità di recarsi in qualsiasi altro stato membro della Comunità, munito soltanto di un documento di riconoscimento; lo stesso non vale sia per chi è di altre generazioni, sia per chi vive in uno dei numerosi paesi che non hanno questa fortuna.

Contemporaneamente, anche le frontiere intercontinentali sono diventate meno invalicabili e l’uomo occidentale moderno, estremamente facilitato a spostarsi da un capo all’altro del mondo, si è qualificato per la sua esigenza di viaggiare, di mettere alla prova se stesso, di fare della propria vita un’esperienza continua. I giovani italiani oggi hanno l’imbarazzo della scelta circa la selezione di una destinazione diversa da quella natia; programmi di scambio all’estero, possibilità di stage e di esperienze formative in qualsiasi luogo del mondo hanno reso l’uomo migrante, non più solo per necessità e per desiderio di scoperta, come avveniva in passato, ma anche per l’esigenza di affermarsi come individui in altro luogo. Individualismo e realizzazione di sé sono inclinazioni caratterizzanti le società moderne occidentali e lo spostarsi sta diventando parte integrante di questo processo, una sorta di passaggio dovuto.

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Il viaggio, inclinazione insita da sempre nella natura umana, è oggi anche sostenuto da una comune visione: l’incapacità del nostro paese di offrire opportunità ai più o meno giovani di realizzazione personale, di studio, di lavoro, di qualità della vita. Gli ultimi dati forniti dall’Istat circa le migrazioni permanenti prendono in analisi i dati del 2014: rispetto all’anno precedente, le cancellazioni dall’anagrafe di cittadini italiani per l’estero sono aumentate dell’ 8,2 %, raggiungendo le novantamila unità.

Le principali mete di destinazione risultano Germania, Regno Unito, Svizzera e Francia; stati appartenenti all’Unione Europea che presentano stili di vita e abitudini culturali molto simili all’Italia, permettendo un facile adattamento dei giovani migranti, e che allo stesso tempo offrono condizioni economiche più favorevoli, grazie alle quali è più semplice costruirsi una carriera e cavalcare aspirazioni di crescita e guadagno. Le politiche di questi paesi sono volte a favorire l’immigrazione di imprenditori e laureati stranieri, con lo scopo di aumentare posti di lavoro e crescita economica; una politica che è totalmente estranea all’Italia. Nelle classifiche ritroviamo anche destinazioni dove è assai più complicato risiedere in maniera permanente: Stati Uniti e Canada, ad esempio, sono mete molto ambite dagli italiani, nonostante una politica di visti molto serrata.

Se è vero che la migrazione italiana all’estero è in definitiva caratterizzata dalla ricerca di condizioni economiche migliori, come dimostra il fatto che le scelte ricadano principalmente sui Paesi che sono stati meno afflitti dalla crisi economica e che fanno dello sviluppo e della crescita un loro punto di forza, i dati Istat rivelano un panorama migratorio dalle esigenze molto più variegate, che non possono essere limitate al mero fattore finanziario. Le statistiche già nel Maggio 2009 indicavano quasi 4 milioni di italiani residenti all’estero e più di 2 milioni di unità familiari iscritte all’anagrafe estera, proporzione che si è mantenuta pressoché costante negli anni. Il dato porta a riflettere tanto sulle evidenti carenze dello stato italiano nell’assistenza ai nuclei familiari, quanto sull’effettiva qualità della vita nella penisola mediterranea.

Un numero non esiguo e sempre crescente di italiani, infatti, sceglie di migrare al solo scopo di trovare stili di vita alternativi e lontani da quelli del vecchio continente, spostandosi verso mete più “esotiche” con l’intento di cambiare drasticamente e in modo permanente le proprie abitudini e certezze. Eclatante è stato il movimento migratorio verso le campagne australiane, che ha portato lo stato dei marsupiali ad irrigidire le politiche sugli ingressi; ma non meno consistenti sono gli spostamenti verso il Sud Est asiatico, che offre modeste possibilità di guadagno ma stili di vita a basso tasso di stress.

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Da queste analisi, emerge la necessità impellente di una riflessione politica che si interroghi sul significato del concetto di “qualità della vita”. Se da un lato è evidente che la certezza di un lavoro stabile e una sicurezza economica costituiscono la principale esigenza dei giovani italiani, non meno intensa è la ricerca di un ambiente familiare e lavorativo meno nevrotizzato. In un mondo dove il possesso di beni sembra ormai essere interiorizzato come un’esigenza primaria, sempre più giovani viaggiano in cerca di una realtà diversa, dove ricchezza e benessere non necessariamente coincidono.

L’Italia e i giovani, se l’università è solo una spesa (pubblica)

L’Italia è un Paese per vecchi? Secondo recenti dati Istat, il tasso di fecondità nel 2015 continua a diminuire, mentre la popolazione anziana è il 21,4% del totale, una percentuale destinata a salire nel giro di un decennio. Alcune prevedibili conseguenze: la progettazione di un welfare a misura di anziano e giovani che cercano fortuna altrove o lavorano più a lungo per finanziare le pensioni.

Lunga vita ai giovani!

Se queste sono le condizioni attuali e le prospettive di vita future della società italiana, possiamo fantasticare su un Paese che crede nei giovani e che investe risorse significative anzitutto su un sistema d’istruzione inclusivo e lungimirante per la piena affermazione nel mercato del lavoro. Ma qual è l’investimento reale dell’Italia sulla formazione universitaria? Sono proprio i freddi dati statistici, relegati a pubblicazioni sporadiche o a strumentalizzazioni politiche, a fare chiarezza sullo scenario di un’Italia giovane che sceglie di continuare gli studi e, talvolta, di emigrare verso altri lidi.

Numeri caldi

L’ultimo rapporto dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sui sistemi d’istruzione nei 34 Stati membri, Education at a glance, rivela che nel 2012 le istituzioni universitarie hanno investito 10.071 dollari per studente, solo due terzi della spesa media OCSE; una quota pari allo 0,09% del PIL nazionale, più vicina a Brasile e Indonesia e distante anni luce dal 2% o più di Stati Uniti e Canada, ma anche del Cile e della Colombia.

Spesa per le istituzioni del settore dell’istruzione in percentuale del PIL da fonti pubbliche (in blu) e private (in azzurro) di finanziamento. Fonte: OCSE 2015
Spesa per le istituzioni del settore dell’istruzione in percentuale del PIL da fonti pubbliche (in blu) e private (in azzurro) di finanziamento. Fonte: OCSE 2015

Oltre al danno, la beffa: nel 2014 non solo è appena il 62% dei laureati tra i 25 e i 34 anni a trovare lavoro (la media OCSE è all’82%), ma si osserva che tra chi ha conseguito la laurea e chi solo il diploma di istruzione secondaria superiore la differenza di reddito è assai poca, come accade in Brasile, Messico e Turchia.

Redditi da lavoro relativi dei lavoratori (25-64 anni) con livello d’istruzione terziaria e loro quota percentuale rispetto alla popolazione complessiva (2013). Fonte: OCSE 2015
Redditi da lavoro relativi dei lavoratori (25-64 anni) con livello d’istruzione terziaria e loro quota percentuale rispetto alla popolazione complessiva (2013). Fonte: OCSE 2015

In Italia, insomma, i finanziamenti alle università non sembrano una priorità dell’agenda politica e una formazione più elevata non è il passepartout per un futuro più stabile. Il concomitante aumento delle tasse (da 736,91€ a 1.112,35€ circa in 10 anni, scriveva l’estate scorsa Corriereuniv.it) e dei laureati disoccupati (all’inizio del 2016 l’Eurostat avverte che solo il 53% lavora a 3 anni dalla fine degli studi), scoraggia i giovani a diventare matricole. E allora, perché non tentare di farsi una vita altrove, in un altro Paese?

Alla conquista dell’est(ero)

Non c’è bisogno di tante indagini per intuire che per molti giovani l’istruzione e il mondo del lavoro all’estero offrono più opportunità e l’emigrazione è una possibilità per il futuro. Tra questi, alcuni portano avanti studi universitari e ricerche con tenacia e con il sostegno economico dei Paesi che li accolgono. Infatti Roberta D’Alessandro, tra i ricercatori vincitori del bando europeo ERC Consolidator, ha frenato l’entusiasmo della ministra dell’Istruzione Stefania Giannini chiedendole di «non appropriarsi di risultati che italiani non sono».

Chi intraprende la carriera universitaria in Italia non ha vita facile. Ce ne parla Marco Passarello, professore di chimica in una scuola secondaria superiore, ex assegnista di ricerca. «Precario, ovviamente». Contratti al massimo di un anno, e agli ultimi mesi il solito pensiero: «Li rinnoveranno? Ci saranno fondi per finanziare la mia ricerca?». Magari si passa un periodo in atenei stranieri per applicare i metodi appresi in Italia, ma qui spesso le condizioni non sono ottimali. «Sono stato anche assunto per una sperimentazione su nuove strumentazioni di laboratorio, acquistate da tempo dall’università, ma arrivate ormai a metà del mio contratto».

Gente che va, gente che viene. Ma chi rimane?

Con dottorandi e ricercatori, se ne vanno dall’Italia sempre più giovani e tra questi il 30% ha una laurea. Non si tratta della solita polemica intergenerazionale, ma dell’evidenza di un’Italia che vede allontanarsi tanti giovani preparati e meritevoli. Gli stessi che potrebbero contribuire alla futura classe dirigente, all’innovazione tecnologica e al settore della cultura.

A New Chinese Baby Boom? Not any time soon

In the last 37 years, two topics were bound to come up in any discussion about China: its huge population and the consequent one-child policy created to limit it. Not anymore. At the end of October 2015, the official Chinese news agency Xinhua announced that from that moment all Chinese couples would be allowed to have two children, putting an end to the controversial one-child policy that in the past has led to forced abortions and infanticides across the country.

The announcement has been a long time coming. Demographers have long warned that, because of the one child’s policy, China was heading towards a demographic crisis characterised by an ageing population, shrinking labour force and gender imbalance. China’s fertility rate, estimated by the World Bank to be 1.7 births per woman in 2013, is below the replacement rate of 2.1, while one Chinese out of ten is now over the age of sixty-five, a number likely to double by mid-century. Those figures would be extremely worrisome for any country, but they are even more so for China, which, despite its communist badge, does not provide any safety net for the elderly.

Although the two-child policy is considered a major move, many experts think it is however “too little, too late”, as extremely low fertility rates and the excessive ageing of the population are not reversible in the near future.

The new policy has to overcome many obstacles to succeed, one of the main issues being the way it is currently implemented. While the policy itself was passed by a national body – the National People’s Congress’ Standing Committee – its implementation has been left entirely to the provinces. Without clear guidelines from the central government, only twelve provinces took some hesitant steps to boost birthrate, mainly by changing maternal and marital leave regulations. For example, the once encouraged “late marriage” (after the age of 25 for women and after 27 for men) will no longer be rewarded with extra holiday entitlements, while in some provinces marriage and maternity leaves have been increased, in order to encourage people to marry and have children earlier.

However, these measures are scattered and far from being enough. What is missing are targets for birth quotas that each province should be aiming for, as there were with the one-child policy. The problem is that data necessary to provide these quotas are not available, as there is currently no real scientific understanding of the exact degree to which the population is decreasing and thus no precise indications as to how many additional births are needed. The lack of accurate population statistic is partly due to the so-called “black children” phenomenon. Back in the darkest days of the one-child policy implementation, many families that were unable to pay the fines and unwilling to resort to abortion chose to have children in secret. These children remain undocumented and thus are not reflected in current population statistics. To complicate matters even further, China has a “floating population” of nearly 170 million migrant workers from rural to urban areas that have no local household registration status and thus are not included in the available data. As a result, defining quotas without an accurate picture of the demographic conditions will prove tricky.

China Daily / Wang Nina
China Daily / Wang Nina

Implementation is only a small part of the problem though. Even if the government managed to launch an effective and coherent program to increase birth rate, its success would not be guaranteed. In almost every country in the world economic development has led to fewer babies. As incomes increase, so do parents’ expectations for their children. Families often prefer to focus their efforts and resources on one child, in order to ensure he or she gets the best opportunities to succeed. That is all the more true with regards to China. As good education and healthcare are increasingly pricey in the middle kingdom, families worry about the financial toll of having babies. Besides, due to the fierce competition in Chinese society, families want their child not only to get a good education, but also to gain an edge in the global job market. Hence most parents spend nearly 15% of their annual income on additional classes for their child, including weekly English lessons.

In 2013, when the government last relaxed the one-child policy by allowing more categories of people to have a second child, the response of the eligible couples was tepid at best. Two million couples were expected to try for a second child under the new rules within the first year. By the end of 2014 fewer than 1.1m had applied.

Given the absence of defined government guidelines and the little enthusiasm shown by parents so far, the successful outcome of the two child-policy looks far from certain. What seems reasonably sure is that a new Chinese baby boom isn’t bound to happen any time soon.

Beijing, 2011
Beijing, 2011

 

 

Bassa natalità, ecco perché sta scattando l’allarme

In Italia vivono 60,5 milioni di persone. Circa 5 milioni sono stranieri e costituiscono più o meno l’8% della popolazione.
Questa settimana su Pequod ci imbarcheremo verso i mari della demografia, per spiegarvi come e quanto sta cambiando la nostra società, anche attraverso i numeri di nascite e morti. Per capire quanto influiscano, in termini socio-economici, soprattutto in prospettiva futura.

Partiamo dal dato più  importante.

Nel 2015 si è verificato un evento che ha fatto scattare l’allarme tra gli addetti ai lavori: per la prima volta, dal 1861 – cioè da quando esiste l’Italia unita – il numero di bambini nati nell’anno solare è sceso sotto le 500.000 unità, soglia cosiddetta “psicologica”.

In Italia non si fanno più figli, e questa è la risultante di molti fattori. Al primo posto si colloca un caro vecchio refrain: la crisi economica. Fare un bambino è una scelta importante e non solo in termini di ‘responsabilità genitoriale’. Pone – o almeno dovrebbe – un bel punto fermo nella vita di ogni individuo. Un tempo si era soliti usare una bella espressione: essere sistemati.

Essere sistemati voleva dire aver trovato moglie o marito – meglio se un buon partito e con una buona dote – aver messo al mondo dei figli, non prima però di avere un tetto, sorretto da muri solidi, sulla testa.
Ecco, se oggi si provasse anche solo a pensare in maniera decisa che la soluzione risiede in quanto scritto sopra, dovremmo chiederci a quale era geologica abbiamo ancorato le nostre idee.
Certamente è così, ma se stiamo parlando in termini economici, dobbiamo anche fare i conti con un’altra parola astratta, ma dal contenuto molto solido: stabilità.
Essere stabili è un altro modo per dire essere sistemati. Il che prevede, per prima cosa, avere un lavoro che garantisca introiti, che appaghi la persona e non renda frivolo questo passaggio terreno.
La realtà, invece, si chiama “tempo determinato”, “co.co.co”, “contratto a progetto”, “stage” e una marea di prestazioni lavorative a termine.

Altro fattore, raramente citato, è legato alle donne, le mamme. Chi, in un contesto del genere, può permettersi di abbandonare, anche solo temporaneamente, il posto di lavoro per una maternità? Ammettiamo anche che la legge italiana ha fatto qualche passo in avanti nell’ultimo periodo, ma quante mamme possono fare questa scelta in libertà senza pensare alle conseguenze, soprattutto lavorative, che possono verificarsi in seguito?
Si aggiunga, poi, che in Italia gli asili nido sono un miraggio per molte famiglie.

Le conseguenze

L’allarme quindi è già scattato. Se il nostro Paese non provvederà a risolvere questa crisi demografica, ci saranno grosse e ulteriori ripercussioni in ambito economico. Come un cane che si morde la coda, la crisi riduce le nascite, e l’abbassamento della natalità rischia di frenare ancora di più un’economia già  stagnante.

Anche perché l’invecchiamento della popolazione sembra inarrestabile e con esso aumenta la mortalità. Il saldo naturale (cioè il rapporto tra nascite e morti) nel 2015 è stato del -23%.
Servono investimenti soprattutto sui giovani. E non stiamo parlando solo di soldi.

Fotografie noiose: perché scattiamo immagini tutte uguali

“We’re exposed to an overload of images nowadays (…) By printing all the images uploaded in a 24-hour period, I visualise the feeling of drowning in representations of other peoples’ experiences.”

Kessels su “24 hrs in photos”

L’artista Erik Kessels nel 2012 ha scaricato, stampato ed esposto nelle sale del Foam tutte le fotografie che in ventiquattr’ore venivano caricate su Flickr: erano circa un milione, e hanno riempito le stanze con enormi cumuli di piccole stampe.

La quantità di immagini esistenti al giorno d’oggi è incalcolabile e la sua crescita, a causa della facilità con cui oggi ognuno di noi può scattare fotografie, è esponenziale: ma quante di queste immagini sono rilevanti?

Con un archivio di queste dimensioni e in continua espansione, la ripetitività di stili e soggetti è inevitabile, e anche quando si pensa di star scattando una fotografia artistica, giusto perché non si sta inquadrando il gruppo di amici in vacanza e si prova ad aggiungere qualche filtro allo scatto, nella gran parte dei casi si sta costruendo un’immagine simile a mille altre.

Il nostro immaginario è ormai saturo di inquadrature e soggetti che per questo diventano modelli per le nostre fotografie: è l’occhio che si abitua a certi tipi di composizione, e così, inconsapevolmente, produciamo immagini ripetitive, simili tra loro, immagini noiose.

Non è un fenomeno nuovo: i cliché in fotografia cambiano con il gusto del tempo, ed è questo il motivo per cui ci ritroviamo con vecchi album pieni di fiori e tramonti sul mare e lo smartphone intasato da gatti e colazioni al bar.

Il tempo (passato in coda) è denaro

Poco l’uomo teme quanto l’annoiarsi, la morte soltanto contro l’agguato della noia nell’attesa. Miriadi di passatempi furono creati per combattere l’inerzia malinconica, l’invincibile monotona insoddisfazione: sale d’attesa brulicanti di gladiatori di Candy Crush, sprovveduti sfogliatori di riviste di design e l’antiquato chino sul Nokia a cercare asilo in Snake Xenzia.

Parzialmente conosciamo come salvarci dal fastidio ma, fulminea, una spia s’accende: sei all’ufficio postale, biglietto n° 58, 32 lampeggiante sul tabellone, due sportelli aperti su cinque; gli occhi si aprono sulla consapevolezza assopita del tempo risicato che ci spetta sulla terra. Sconforto intollerabile! indecenza!

Siamo nel gennaio 2014 a Milano in coda per pagamento bollettini. Un idea sboccia, la luce irradia dalla figura del salvatore. Giovanni Cafaro da Salerno, 43 anni, laureato, da poco trovatosi senza lavoro ne inventa uno senza precedenti: la tua coda allo sportello da oggi la prende lui! 10 euro l’ora (con ricevuta) e si farà carico d’ogni tua noiosa faccenda burocratica e commissione (va anche al supermercato a farti la spesa).

Si apposta nelle zone centrali di Milano distribuendo volantini informativi della sua nuova vocazione: passano pochi giorni e i primi curiosi lo contattano. I curiosi diventano clienti e ora Giovanni può vantare la nomea di primo codista d’Italia.

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La richiesta del suo servizio aumenta e la voce dell’impiego futuristico spande in tutta la penisola. Inevitabile il proliferare dei seguaci attratti dal modello del Nostro che da così inizio a corsi di formazione per codesti via Skype: «Con i miei corsi ho formato e certificato oltre 100 codisti in tutta Italia. Alcuni sono ora assunti come dipendenti in aziende con il contratto nazionale del codista da me creato mentre altri esercitano come liberi professionisti. Ho un sito internet dove ognuno può trovare informazioni riguardo l’iscrizione ai corsi». Le aziende richiedono questa figura, i privati pure. Giovanni è risorto con le sue mani.

Lo contatto qualche giorno fa e la sua risposta è celere, disponibile:«La mia giornata è piena, un lavoro full time oserei dire. Il mattino lo dedico alle code negli uffici pubblici e nel pomeriggio ritiro e consegno pratiche burocratiche. Le richieste sono in aumento e cerco di soddisfare le esigenze di una vasta varietà di clientela: dalle aziende ai privati, dai commercianti agli anziani e disabili. Succede spesso che mi vengano affidate somme di denaro per versamenti: le persone si fidano della mia professionalità e ne vado fiero».

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Ho chiesto a Giovanni come vive le attese, facendo risparmiare le noie ai clienti, di quale filosofia professionale si avvale questo supereroe che lotta contro la noia degli uffici: «è  raro che la noia mi prenda durante il lavoro; La mia non è una coda “passiva”: solitamente nel mentre lavoro al pc oppure aggiorno i contatti di lavoro e l’agenda settimanale. Se vuoi prendere questa strada è necessario affinare la calma e la pazienza. Le ore che passi aspettando il tuo turno sono da considerare lavoro, non più una perdita di tempo!»

Giovanni, come accennato prima, ha un sito dove potete contattarlo. Se non volete più logorarvi stomaco e nervi in smisurate processioni fategli un colpo. Anche solo per avere il tempo di trovare un altro modo d’annoiarsi. Inconsciamente.

Combattere la noia è l’arte del pendolare

Quest’anno riprendo l’università. Ed inesorabile riprende la mia vita da pendolare.

Abitando in un paesino alle pendici di quella che si definisce alta valle e dovendo raggiungere la grande metropoli capoluogo lombardo, la scelta di spostarsi con i mezzi pubblici rappresenta una sfida che vuole una certa preparazione: si tratta complessivamente di un viaggio quotidiano di 8 ore, divise tra andata e ritorno; impegnarle è praticamente un lavoro per cui è bene organizzarsi.

Negli anni ho ormai fatto mia l’arte del pendolare, attitudine del “fuorisedemanontroppo”, prigioniero di un limbo dove non si è degni d’un appartamento, la patente di guida diventa inutilizzabile e le proprie gambe non bastano più. Quantomeno pensavo di averla fatta mia! Ma c’è sempre un giorno in cui l’automatismo delle nostre azioni fallisce; quel giorno, nella vita del pendolare si apre uno spazio per il più temuto nemico: la noia.

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Arrivando alla fermata dell’autobus quando ancora non ha finito di ritirarsi il buio della notte e solo grazie al passaggio di alcuni magnanimi lavoratori su turni, è difficile trovare la forza per abbattersi di fronte all’evidenza che l’iPod (estratto da una borsa sovraccaricata, dopo infinitesimali istanti di ricerche quasi geologiche, in virtù del ritardo dei mezzi) ha la batteria scarica. Poco male: è troppo presto per agitarsi, ma anche per tenere gli occhi aperti; l’arrivo del bus è accolto da me e dai pochi miei compagni d’attesa come fossimo a fine giornata, all’ora del meritato riposo. Finalmente si dorme!

Il risveglio è un vero e proprio trauma: ancora non è giorno e noi a occhi chiusi, come bestiame al pascolo, ci seguiamo dall’autobus al tram. Inizio a svegliarmi quel tanto per aver la forza di stupirmi ancora una volta del fatto che, fossimo tra fine ‘800 e inizio ‘900, non dovrei darmi la pena né di svegliarmi per attraversare a piedi la strada e cambiar mezzo né tantomeno di calcolare i minuti di ritardo che l’autista dell’autobus non potrà evitare sulla strada provinciale. Prima dell’era del petrolio, due tram attraversavano le valli bergamasche per raggiungere il capoluogo provinciale; così come altre infrastrutture italiane, sono state dismesse negli anni ‘50 per far spazio ad automobili e cemento ed ora le si vorrebbe indietro.

Affronto il troncone di ferrovia ricostruito nel 2009 tentando invano di riprender sonno e fissando invidiosamente gli altri passeggeri: quasi tutti assorti nella musica che passa dagli auricolari, molti a occhi chiusi, qualcuno concentrato sul telefono, probabilmente in qualche social network. Mi preparo per la prossima ora di treno, cercando nella borsa un libro da leggere, ma ancora una volta la fortuna non mi assiste: sul mio comodino sono rimasti sia il romanzo che cercavo sia il libro di testo che sto studiando. Ho con me solo testi da riconsegnare e appunti già ripassati.

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Per il resto del tragitto, la mia unica attrazione sono gli altri viaggiatori.

Quasi tutti dispongono di un mezzo tecnologico, la maggior parte di uno smartphone, alcuni di un portatile; sprovvista di un telefono munito di connessione internet, a quest’ora del mattino mi sento esclusa dal mondo, che sembra essersi spostato nella dimensione virtuale. Tento di spiare gli schermi attorno a me: Candy Crush Saga regna sovrano; mi tornano alla mente i Polly Pocket e i Mini Pony dei viaggi per il mare con mamma nei primi anni ’90: i colori e le forme sono ancora gli stessi, rimasti immutati nel passare del tempo e delle evoluzioni tecnologiche. Al tempo, i genitori compravano i Tamagotchi, i primi diari elettronici, i Gameboy per i figli; oggi genitori e figli stringono alleanze, si regalano frutta, si scambiano vite in forma virtuale.

Ancora stretto il legame tra tecnologia e informazione: le notizie fioccano tra i pixel, s’ingrandiscono sotto i polpastrelli. Qualcuno ancora sfoglia i giornali, per lo più approfittando pigramente dei fogli lasciati agli ingressi delle stazioni, ma la maggior parte dei pendolari si affida alla rete e velocemente scorre da un contenuto all’altro.

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Ultima tappa: metropolitana milanese.

La capitale dell’industria non delude e mi regala immagini di pura attualità: uomini e donne in carriera si tuffano nei treni avvolti da cuffie insonorizzanti, discutendo dentro microfoni invisibili, gesticolando su multitouch screen, sfogliando pagine letterarie su opachi kindle.

Stretto tra loro, un giovane universitario si mantiene perfettamente in equilibrio al centro del corridoio, stringendo tra le mani un libro su cui spicca il sigillo della biblioteca. Questa è la vera arte del pendolare.

Ma quando finisce?

«Ma quando finisce?»: penso che sia capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di averlo pensato durante la visita a una mostra o a un museo.
L’esperienza più o meno positiva può dipendere da diversi fattori: innanzitutto gli oggetti esposti – si può essere di fronte a dei celebrati capolavori ma se questi non sono in grado di entusiasmarci, o addirittura di suscitare il minimo interesse, la visita può risultare solo una perdita di tempo.
In secondo luogo l’allestimento: il saper scegliere le modalità di esposizione, dalla sede (in particolare per le mostre) al posizionamento delle opere, fino ai dettagli minori come il colore delle pareti o l’illuminazione, è una componente essenziale per la buona riuscita di una visita.
Altri elementi riguardano fattori che esulano dalle scelte dello staff artistico o dall’architettura che ospita le opere; pensiamo alle guide non sempre coinvolgenti: prestare attenzione a una persona che ha un timbro di voce monotono e noioso non fa altro che aumentare il desiderio che il tempo trascorra il più rapidamente possibile.

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Dietro ad una mostra, o alla scelta delle disposizione delle sale di un museo c’è, in teoria, un intento scientifico, vale a dire la volontà di approfondire una tematica attraverso uno studio meticoloso da cui nasce un percorso pensato appositamente a tale scopo. In teoria, appunto, perché spesso lo scopo scientifico viene meno quando vengono organizzate le cosiddette mostre “blockbuster”, eventi in cui il protagonista è il grande artista in grado di richiamare folle numerose e far guadagnare l’ente organizzatore, mentre le opere sembrano scivolare in secondo piano.
Tradire il punto di vista più razionale e intellettuale ha però i suoi vantaggi: tutti possono godere delle meraviglie esposte, soprattutto perché le conoscono già e, da improvvisati ciceroni, possono deliziare amici e parenti con notizie, a volte, piuttosto discutibili.
Questo tipo di esposizioni offrono anche divertenti soluzioni, come la criticata/apprezzata camera da letto allestita alla mostra dedicata a Dalì al Palazzo Reale di Milano, dove un ambiente è stato allestito con mobili ispirati agli elementi onirici caratteristici dell’immaginario del pittore in modo da formare un volto.

Percorsi su più piani, locandine originali che colorano le pareti, maxischermi e comode poltrone rosse: benvenuti al Museo Nazionale del Cinema di Torino!

Il principale ostacolo al pieno godimento di una mostra o di un museo, tuttavia, resta la mancata comprensione di ciò che si sta guardando: trovarsi di fronte ad un’opera d’arte e non avere la minima idea di che cosa rappresenti è sicuramente fonte di sconforto; a volte nemmeno le targhette esplicative con nome dell’artista e titolo servono a migliorare il nostro stato d’animo.
In uno dei luoghi di trasmissione di cultura per eccellenza, non apprendere rappresenta un fallimento, anzitutto degli organizzatori: è necessario stimolare l’attenzione di un pubblico non composto dai soli addetti ai lavori, ai quali basterebbe la nuda opera, senza bisogno di tanti fronzoli, per lasciarsi coinvolgere alla scoperta di significati profondi e dal mondo interiore dell’artista, ma di soggetti che vanno catturati da percorsi interattivi in cui non si è solamente spettatori, dall’adolescente annoiato in gita scolastica alla famiglia al completo, dai bambini più curiosi ai visitatori più attempati.

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È il caso del Museo delle Scienze Naturali di Valencia, noto anche per l’avveniristica architettura, da attraversare in lungo e in largo con grande libertà d’azione (qui Toccare è sempre permesso, in controtendenza alla maggior parte delle strutture museali); tornando a casa nostra, non dimentichiamo le scenografie suggestive e divertenti del Museo Nazionale del Cinema di Torino o l’innovativo festival Uovokids che anima il Museo Nazionale della Scienza e Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano, un omaggio alla creatività dei bambini, tra laboratori pratici e percorsi artistici all’insegna dell’interazione.

Il piccolo pubblico stupito di Uovokids.

In copertina:Salvador Dalì, Viso di Mae West come appartamento.

If it’s boring just say it (in your own language)

Every language in the world has plenty of words for expressing feelings or emotions, but one sensation in particular has no shortage of idiomatic expressions to be described with – boredom. Pequod drew a list of colorful and typical expressions from all over the world and noticed some interesting patterns emerged. For example, death seems ubiquitous in Eastern European countries boredom-related expressions, while in the more passionate romance languages references to human genitals abound. Chinese stands right in the middle with both expressions referring to death and to testicles. In addition, the Middle Kingdom draws from his rich cuisine to offer a fascinating figure of speech that involves soy sauce.

The sensual Mediterranean

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“Sexist language #1” “What a big pussy”

The stereotype says that people from the South are usually more open, fun and exuberant. That’s probably why when it comes to boredom they often refer to their genitals. In Italy the idea of the Latin macho seems to be influential, as bored people cry out che palle, meaning “what testicles” when they’re bored. Their French cousins share the same feeling with the similar expression ça me casse le couilles (“this is breaking my balls”). Interestingly Spanish language is more women-focused in this case and involves female genitals in the colorful expression ¡que coñazo! (“what a big pussy”). Well, to be fair and not to reduce Mediterranean people only to sex-obsessed individuals, we’d need to add another saying which is connected to the other great passion of Southern European countries – food. Que rallada is what you say when something is particularly boring and comes from “pan rallado” (grated crumbs) that Spanish use to make delicious fried pescado or croquetas.

In the same context Basque language constitutes an exception. Probably because of their nationalist and independent nature, Basque people don’t agree with Spanish sexism or food addiction, claiming nazkatuta nago (“I’m disgusted”) when they’re bored.

Depressing Eastern Europe

"How is it going there at the dača?" "Deadly boredom, my dear. I'm bored"
“How is it going there at the dača?” “Deadly boredom, my dear. I’m bored”

No sex nor food. Eastern European people want to die when they’re bored. In Romanian they say m-am plictisit de mor’ literally “I’m so bored I’m dying”, while Russians talk about skuka smertnaya (“deadly boredom”). We might suggest them a less irreversible solution to boredom: in Romania they may use a glass (or bottle) of Palinka, while vodka may help Russians finding boring less boring.

Shit, ass and similar

"As boring as ass"
“As boring as ass”

It may be hard to imagine that the ancient and noble Hebrew alphabet, rich in history and evocative meaning, would express vulgar terms such as “ass”. But what do we know? When a person is bored in Hebrew language would say mesha’amem tachat (“as boring as ass”). At least we must recognize the diplomacy of the term “ass”, including both men and women.

An inclusive attitude is shared by Dutch young generations, who instead of using the yet diffused expression dat is kut, where kut indicates the female genitals (but also means “shit”), tend to prefer dat zuigt, a literal translation of the English that sucks.

Drunk Chinese

Sleeping man, Beijing 2011
Sleeping man, Beijing 2011

Here’s Pequod’s number one bored people: the Chinese! No matter how technology is diffused in the country or how much they work to keep their economy the leading one in the world: they still get bored a lot. That’s why we found plenty of expressions to indicate boredom, some of them recalling those used in other languages. For instance Wuliao sile means “bored to death” and xian de danteng can be translated as “to be so bored that one’s eggs (testicles) hurt”. But it’s he jiangyou yao jiufeng – xian de that wins this boring competition. It literally means “getting crazy-drunk by drinking soy sauce” and can be explained by the fact that “drinking soy sauce” in Chinese stands for having nothing to do, so getting drunk with soy sauce means have absolutely nothing to do and be bored.

By Lucia Ghezzi, Margherita Ravelli

Noie mortali

La crudeltà nella quale si è consumata la tragedia di Luca Varani ha lasciato tutti nello sgomento: quello che più colpisce non è tanto l’efferata violenza degli eventi romani, quanto la mancanza di un movente ammessa da Marco Prato e Manuel Foffo, assassini di Luca per gioco: “per vedere che effetto faceva”.

Se l’evidente stato di alterazione provocato da alcool, droghe e psicofarmaci non basta a spiegare, il cupo senso di angoscia è amplificato dall’eco di una parola, un sentimento emerso in relazione al delitto: la noia. Ancora una volta l’essere umano ci stupisce in negativo. Un sentimento di insoddisfazione, fastidio e tristezza derivante dalla mancanza di sentirsi occupati, sfocia in un premeditato desiderio di far male a qualcuno, non importa chi. Come è possibile?

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La noia è stata oggetto di riflessione di illustri personaggi storici: dai latini ad Albert Camus, passando per Heidegger e Schopenhauer; correnti, filosofi, artisti e poeti hanno inevitabilmente dovuto farci i conti; «Amaro e noia la vita, altro mai nulla», scriveva Leopardi in A se stesso. E se c’è chi è riuscito a nobilitarla associandola alla malinconia o al pieno riposo, la maggior parte non ha potuto non collegarla ad un acuto sentimento doloroso, un’inquietudine dello spirito che non trova pace in nessun luogo, rintracciandone le cause nella vacuità dell’esistenza umana.

Ma mentre, forse, in passato, l’infinita vanità del tutto aveva forse la conseguenza di un eccessivo ripiegamento meditativo su se stessi, oggi l’estremizzazione di ogni esperienza, la trasgressione e il proliferare di modelli vuoti hanno prodotto meccanismi perversi e fame di desideri lontani da una percezione normale della realtà.

Tutti abbiamo sperimentato quant’è spiacevole sentirsi annoiati, non provare interesse per quello che si sta facendo, vuoi per routine, vuoi per avversione rispetto alle nostre inclinazioni – non a caso il sostantivo noia è associato spesso a parole come mortale, profonda, ingannare, combattere, tutti indizi di qualcosa da scacciare e rifuggire ad ogni costo.

Accantonando la noia che scaturisce da uno stato depressivo, è interessante osservare come il sentirsi annoiati possa essere la spia che ci avverte della necessità di cambiare una situazione interiore scomoda. La natura umana ci spinge a crescere ed emergere, ma va da sé che quando le cose intorno a noi non ci soddisfano e non troviamo il bandolo della matassa càpiti di perdere la capacità di lasciarsi emozionare e coinvolgere dal quotidiano.

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L’incapacità di porsi degli scopi produce una condizione nella quale la nostra mente precipita in un senso di vuoto e d’impotenza. La tecnologia ci ha poi abituato ad impiegare il tempo libero in maniera passiva, davanti a pc, televisione e cellulare, smarrendo in parte quella sana propensione all’azione. Si arriva così alla disperata ricerca di stimoli più forti per liberarsi dalla monotonia e conferire una carica d’eccezionalità al nostro vissuto.

I rapporti sociali fanno il resto: assecondando le aspettative altrui e situazioni contrarie alla nostra morale si rimane impantanati in scelte non in armonia con i nostri bisogni reali.

Con Marco Prato e Manuel Foffo siamo probabilmente di fronte a due personalità fragili e ancora alla ricerca della loro vera identità. Trentenni rimasti intrappolati in un labirinto emotivo, affettivo e sociale che li ha resi incapaci di distinguere fra i propri desideri e quelli degli altri. Un percorso di crescita mai completato che li ha condotti a non avere limiti e a non porseli.

L’epoca in cui viviamo ci offre opportunità che fino a qualche tempo fa sembravano inimmaginabili: situazioni che saturano le nostre giornate, continui pretesti e occasioni che permetterebbero cambiamenti radicali, idee che sfidano le fantasie più allenate; nonostante questo ci scopriamo demotivati, privi di interessi e quindi annoiati.

Le tante fonti di distrazione, anziché arricchirci, sembrano disperdere le nostre energie fomentando indolenza ed apatia, portandoci alla ricerca di qualcosa che dia sollievo, che renda il tempo più sopportabile. Ma una volta sperimentata l’esperienza limite anche questa prima o poi perde il carattere di novità.

Sogniamo un cambiamento radicale, vogliamo capire chi si è veramente, ma a rendere noioso ciò che ci circonda è la lente deformante sul nostro naso.

Senza droga probabilmente l’omicidio non sarebbe avvenuto, ma ad essere alterata, lo scorso 4 marzo, non era la percezione di Marco e Manuel in balia di coca e crystal meth, ma lo sguardo distorto attraverso cui guardavano alle loro vite.

Frammenti di percezioni

È estate e come ogni sera cinque amici si ritrovano nella piazza del loro paese. Fa caldo, le scuole sono chiuse e le giornate afose passano lente, tra una partita di beach volley e la birretta al pub. Sono giovani tra i 16 e 18 anni, l’età in cui si è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.
Persi fra le chiacchiere incontrano Ale, un vecchio amico più grande di loro, con tanti racconti di rave e feste.
Alle storie di Ale, i cinque rimangono estasiati: senza che se lo aspettino, l’amico offre loro tre quadratini di cartone, totalmente bianchi, avvolti in un sottile strato di cellophane, imbevuti di acido.
I ragazzi rimangono interdetti, la voglia di provare è tanta ma la paura degli effetti li fa tremare: Ale li rassicura, dice che se fossero rimasti in gruppo sarebbe andato tutto bene.
Restano soli, sovraeccitati, e decidono di provare: tagliano a metà i cartoncini, li mettono sotto la lingua e li ingoiano. Continuano a chiacchierare come se nulla fosse, senza accorgersi che l’acido sta entrando in circolo e che il loro comportamento sta cambiando: ridono sguaiatamente senza motivo, si spostano lentamente per il paese e iniziano a vedere cose che non corrispondono alla realtà. Le luci attorno a loro disegnano ovunque strisce di colore fluorescenti, riflettendosi sui muri delle case in texture di linee deformi sempre in movimento. Il loro stesso aspetto, agli occhi dilatati di ognuno, cambia surrealmente.
Sono le due di notte, sono passate circa quattro ore dall’assunzione e  l’acido inizia a scendere: lentamente riassumono il controllo della situazione, ma si è fatto tardi e devono tornare a casa.
Si incontrano l’indomani, stanno tutti bene, forse ancora un po’ stravolti dalla nottata. I ricordi sono astratti, le percezioni deviate, luoghi e tempi appiattiti: questa è la storia di un acido, che si impressiona sulla pellicola fotografica materializzandosi in fotogrammi surreali.

«Se le porte della percezione fossero aperte vedremmo ogni cosa come realmente è: infinita». 

    William Blake

 

Memoria di lavoro visuospaziale: esperimenti d’incrementazione

Sempre più attuale è la discussione attorno al mondo della proibizione delle sostanze stupefacenti. Meno attuale in Italia, dove la morale del proibizionismo porta non solo alla cecità nei confronti di numeri che dovrebbero parlare da soli, ma anche nei confronti di un dibattito che è ignorato, quando non censurato. La stigmatizzazione delle sostanze è ancora solida e dunque la lotta è autonoma: nascono gli esperimenti privati e la raccolta di dati soggettivi.

Siamo a Utopia, un paese lussureggiante in quel bel mezzo della Vecchia Signora, dove un noto “bambino difficile” fu sintetizzato anni or sono dagli alcaloidi della segale cornuta. Qui, dove la tradizione fatica a subire i colpi del proibizionismo, un gruppo lavoratori del mondo dell’arte, come è di tendenza nella Silicon Valley, ha iniziato da giugno una sperimentazione attiva di LSD quotidiana, attraverso il microdosaggio.

Il nostro contatto è un giovane che chiameremo Matt. Giovane ingegnere del suono, ha deviato i suoi studi su Psicologia e Linguistica portando avanti dei progetti di ricerca sulla sintesi digitale elettroacustica all’Università delle Arti, focalizzandosi sull’applicazione della ricerca scientifica a quella artistica. Con persone affini, frequentando workshop su temi come l’esplorazione della coscienza, si è unito all’esperimento di «uno studio soggettivo e collettivo sull’impatto delle microdosi all’interno della vita quotidiana». Una microdose va dai 5 ai 20 microgrammi, mentre le dosi che causano allucinazione audiovisive sono attorno ai 100/150 microgrammi (Hoffmann ne aveva assunti 250, il “Bycicle Day”).

«Restando nel range della microdose, non si percepisce davvero un effetto sul corpo, non si arriva ad avere dei picchi particolarmente alti o dei repentini abbassamenti di pressione e nessun particolare effetto fisico se non un leggero cambio di mood e del livello di energia. Non ci si sente drogati. Ho imparato molto sulla sua influenza positiva all’interno della routine quotidiana. Sembra di avere la testa più pulita, limpida, permette di essere più concentrati. Si ha una maggiore resistenza, soprattutto allo stress».

Nell’ambito della ricerca farmacologica, le sostanze lisergiche sono state comparate soprattutto con i farmaci utilizzati nella cura di patologie psichiche come depressione, disordine da stress post traumatico e ansia. Il “bambino difficile” di Hoffmann non ha finora presentato alcuno degli effetti collaterali indicati nella composizione degli antidepressivi, come la perdita di libido sessuale, dermatite, mal di testa. Esemplare in questo senso, il lavoro che fa la MAPS. Utopia ha una grande tradizione di ricerca, è stato l’unico paese in cui è rimasta attiva fino alla fine degli anni ’80 e, ripartita, nel 2014 è stato pubblicato il primo studio effettuato sui benefici della terapia con LSD in campo psichiatrico.

Per questo motivo, dice Matt, sarebbe bello che anche la ricerca artistica in questo senso fosse inserita all’interno delle Università artistiche. Stanno cercando una “new orientation face”, nuove vie d’espressione e ispirazione e in questo contesto l’LSD arricchisce l’immaginario personale, quella raccolta d’immagini prodotte dal cervello definite in neurologia Visuospatial Sketchpad, «che ha portato anche a scoperte che hanno cambiato la storia: pare che Crick fosse sotto l’effetto di LSD quando ha intuito (e scoperto) la struttura a doppia elica del DNA».

Matt e il suo gruppo dispongono di un prodotto controllato e qualitativamente alto in termini di purezza. Sebbene il processo di sintesi della segale cornuta non sia particolarmente complesso, la parte delicata è la pulizia del prodotto, passaggio che nella produzione non controllata viene ignorato. Al contrario di quanto accade nelle mani di Walter White, la produzione illegale su larga scala non ha alcun interesse nello standard qualitativo dei prodotti chimici di sintesi.

Matt sta terminando il PhD in Auditory Neuroscience, ma sogna di continuare nel territorio della ricerca sull’assunzione controllata di sostanze applicate alla vita quotidiana. Per ora è una raccolta di dati personali, una collezione che non può ancora varcare le soglie della ricerca istituzionale, ci sono troppe barriere: «se la ricerca fosse liberalizzata, si potrebbe procedere con pratiche come il crowdfunding per la raccolta di finanziamenti».

 

 

 

 

Viaggio in una raccolta di trip in LSD

Avete presente quando la mattina vi svegliate e nella testa vi rotolano scenari onirici che vi trattengono nel sonno? Quando ancora vi formicolano sottopelle le sensazioni che le immagini notturne hanno suscitato, eppure quelle immagini sfuggono, emergono da ombre indefinite e si susseguono lungo una parabola (a)temporale; voi vorreste raccontarle ma sembra si divincolino da qualsiasi griglia razionale?

La differenza tra un trip e un sogno è molto sottile, fine quanto la distanza tra l’esser svegli o addormentati. E se vi sembra che sia una distanza netta e marcata, date allora una dimostrazione razionale, un’inconfutabile prova del vostro attuale stato di veglia! Per anni i filosofi scettici ci han perso le notti… Qualche chimico nel frattempo si preoccupava di spezzare definitivamente la sottile linea di demarcazione e qualche ragazzo entrava in un mondo fatto di sogni ad occhi aperti.

Condividerli non è facile: situazioni percepite e sensazioni di reazione si slegano e sconnettono, spazio e tempo si deformano, la realtà si frammenta in attimi episodici. Il mio esperimento oggi pomeriggio sarà di viaggiare attraverso i viaggi: riascolto una registrazione dei migliori trip di un gruppo di amici e tento di farne un racconto “logico”.

Ma dove trovare la logica nella più illogica somma di racconti?  Lo chiedo direttamente all’LSD: lecco il mio piccolo francobollo e mi appresto a viaggiare.

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Cala la sera dentro i miei occhi.

Orario d’aperitivo; mi preparo rapidamente e mi avvio sul lungo lago. Gli amici ordinano un giro di martini, seduti ai tavolini retrò dove arriva il richiamo del fiato della risacca che dondola le barche addormentate sull’acqua.

Forse non tutte dormono: dal molo, movimenti veloci di operai al lavoro che scaricano grandi macchine da presa e installano un binario per il dolly. Mi volto; lo scenario è pronto: tutto ha assunto un antiquato color seppia, attori e comparse indossano gli abiti di scena, le facciate che si specchiano nella baia danno vita a un paesaggio settecentesco.

D’un tratto mi ricordo che oggi è il giorno delle riprese! Mi ritrovo avvolta in un abito di raso e pizzo scadenti, camuffata tra i boccoli sintetici di una parrucca bianca e un cappello dalla tesa assurdamente ampia. Guardo il regista, appostato dietro un enorme cono sulla vetta di una scala che sembra infinita, e scoppio in una risata: «Mi dispiace, non ho studiato le battute!».

Le comparse che passeggiano sul lungo lago scoppiano a ridere con me. Qualcuno mi sussurra all’orecchio che è meglio andarsene.

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Vogliamo toccare l’acqua e ci avviciniamo alla banchina. Tra noi e lo spazio riservato alla balneazione, una distesa d’erba in cui ci immergiamo a piedi nudi: nessun sogno tra le nuvole ha mai reso una sensazione così dolce di sofficità e leggerezza. Gli steli verdi sfiorano gli interstizi tra le dita; le terminazioni nervose raccolgono carezze e candore lungo tutta la pianta del piede.

Poi umidità, sassi scivolosi e alghe spesse. Dentro l’acqua, il corpo inizia ad essere un tutt’uno con la spazio attorno a sé, a farsi lago. Sento qualcosa crescere lungo il dorso dei miei piedi: minuscole cuticole biondo-castano sbucano dall’epidermide; rapidamente i bulbi si rafforzano, la corteccia s’inspessisce e il midollo si estende. I peli ricoprono la pelle lungo tutto il metatarso e ancora si allungano fino a diventare morbidi capelli. Osservo stupefatta la bellezza dei movimenti che l’acqua imprime alle mie due chiome, fiera della sinuosità delle loro pose, della femminilità della loro danza. Il tempo s’interrompe in questa contemplazione estetica, nel sottile godimento di micro sensazioni pilifere.

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Devo andare al bagno. Mi sposto in un locale e tento di usare i servizi al piano primo interrato. Salgo e scendo centinaia di scale, contando il numero dei gradini sulle dita dei clienti del locale, finché finalmente e un po’ per caso m’imbatto nell’anelata scritta toilette. Vorrei usare il water, ma lui non sembra voler collaborare e cambia posizione ogni volta che riapro la porta nella speranza di trovarlo ancorato al pavimento. Un pappagallo impagliato osserva la scena da un trespolo posto vicino ai lavandini; insieme costatiamo che una turca sarebbe stata sicuramente più beneducata.

È probabilmente lo stimolo suscitato dal racconto che mi spinge ad aprire gli occhi. Mentre vado al bagno, guardo l’orologio: 17.00. Ancora un paio d’ore, prima dell’aperitivo.

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Musica&LSD: una generazione d’amore

Psichedelia e musica. Il pensiero subito ci riconduce a quegli osannati anni Sessanta che tanto hanno fatto sognare le menti adolescenti della nostra generazione. Mi riferisco, più precisamente, a tutte quelle esperienze musicali caratterizzate da stati di coscienza e di percezione alterati che coinvolgevano egualmente pubblico e musicisti.
Termini triti e ritriti come rock psichedelico, l’Estate dell’amore, la Woodstock Nation ci riportano ad un momento in cui la musica ha fortemente contribuito alla creazione di uno stile di vita, di un determinato modo di pensare e di vivere. Grande slancio dei gruppi anglosassoni, la ripresa economica post-bellica, costumi sessuali più liberi e le passioni sociopolitiche, questi i tratti che definiscono il profilo di questo periodo storico-musicale.

Una coesistenza tra musica, impegno politico e sentimento di ribellione alimentata anche dalle innovazioni dell’industria musicale in fatto di tecnologie e di marketing: gli apparecchi di riproduzione musicale permettono ai fans di seguire i loro idoli e le rock star vengono individualizzate al massimo.
L’altra protagonista di questa storia, LSD, venne introdotta inizialmente come farmaco ad uso antidepressivo e successivamente utilizzata dalla CIA per non chissà quale tipo di esperimento (teorie complottiste, che apprezzo sempre, dicono che fosse stata messa in mano agli hippies nel tentativo di farli “autoscomparire”). In ogni caso ebbe una diffusione allucinante che non risparmiò nessun ceto sociale né tanto meno espressioni artistiche diverse tra loro (basti guardare la grafica di una qualsiasi copertina di un disco rock pubblicato tra il 1965 e il 1975).
Jim Morrison e i Doors, Beatles e Pink Floyd, Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, Velvet Underground, Syd Barret, Janis Joplin, Grateful Dead, Iron Butterfly, Bob Dylan, The Allman Brothers Band… tutti proponevano degli spettacoli musicali che portavano all’annullamento delle differenze tra chi produceva la musica e chi la riceveva: musicisti e ascoltatori venivano egualmente trascinati sia dall’LSD sia da quella musica ipnotica, in una stessa condizione che permetteva una connessione, una comunicazione artistica più sensibile e profonda.

Lucidamente parliamo di innovazioni tecnologiche: effetti sonori reiterati fino allo stremo (come il delay e il phasing); registrazioni di voci e rumori inserite nei brani, quasi ad accentuare gli effetti della droga; testi visionari che descrivono sogni o immagini assurde. Giocava un ruolo importante anche la struttura musicale dei brani, cosparsa di assolo infiniti e passaggi esclusivamente strumentali al limite del rumore. Dal vivo poi, wow! Luci di scena, illuminazioni pensate ad hoc, coreografie e costumi non facevano che assecondare meravigliosamente gli stati alterati di tutti.

 

Sentimenti, temi forti e cause sociali; il Vietnam, la sessualità, gli afroamericani. Tutto era più sentito e ampliato. Non dimentichiamo che la caratteristica principale della popular music è il rapporto intrinseco con la società; la società che influenza il genere musicale e viceversa. LSD, temi politici e sociali che influenzano la musica, i musicisti che influenzano il modo di pensare, di vestire, di comportarsi, di parlare, di drogarsi.

Lysergicacid Diethylamide, Hoffmann’s problem child

It was during the afternoon of 16 April 1943 when the young chemist better known as Albert Hofmann, who was working in the pharmaceutical-department of Sandoz, discovered by accident the psychedelic effects of lysergic acid derivatives synthesized a couple years before for research purposes.  That day, the Swiss scientist who later became the godfather of LSD experienced all the physical and mental effects which are typical of the lysergic trip. After that  incredible experience Hofmann decided to take deliberately another small dose of LSD, this time he decided to cycle back home and such experience became an emblematic milestone for every person interested in psychedelic experiences by means of LSD.

A complete overview, including detailed information regarding several aspects about LSD ranging from the chemical properties to the level of toxicity till pharmacological properties, is included in his famous book titled LSD, my problem child published in 1979.

The most emblematic symbol of Hofmann’s bike trip
The most emblematic symbol of Hofmann’s bike trip

LSD became quickly one of the most popular recreational drugs in the 60s and 70s, often associated with hippy culture nevertheless appreciated by famous musicians such as Jimi Hendrix, The Beatles and Jim Morrison. Despite the fact that Mr. Hofmann used extensively LSD for the rest of his life and passed away at the age of 102, the effects of LSD on health have always been pointed out as dangerous and highly risky for the cognitive faculties. Seminal studies carried at the beginning of the 70s on the positive effects on anxiety and depression treatments were quickly wiped out by studies which supported the idea that LSD consumption was directly connected on detrimental effects on human brain including persistent psychosis, anxiety, tendency to suicide, and recurrent hallucinations.

Albert Hofmann with the organicmolecular model of LSD
Albert Hofmann with the organicmolecular model of LSD

On the other hand, recent studies and research pointed out that the strict discrimination against LSD due to illegal drug policy might prevent from possible benefits for patients affected by depression, alcoholism, and anxiety. No demonstrated and peer reviewed studies have proved such speculations and for this reason future investigations are needed to shed light on this chemical substance which has fascinated human being curiosity for almost one century.

The crucial point at this stage is not to mix up recreational use and medical treatments, meaning that if positive effects are found and validated by a scientific committee also the medical procedure must follow a specific protocol which guarantees to minimize side effects. Possible promising results in future research will not mean that the recreational use is free of any type of risks with respect to eventual brain damages or behavioural disorders, a clear example might be the approved medical use of Marijuana which is indeed beneficial for patients who need such treatment.

 

Cover photo: “Further” (also known as “Furthur”), Ken Kesey and the Merry Pranksters’ famous bus, Bumbershoot festival, Seattle, Washington, 1994. This is the second of the two buses by this name. (Joe Mabel CCA-SA 3.0 Jmabel by Wikimedia Commons)

Festival Cinema Africano, Asia e America Latina: immaginare il futuro

Al Festival Center si prepara l’inaugurazione del 26esima edizione del FCAAAL. Incontriamo Alessandra Speciale, direttore artistico, con Annamaria Gallone, del festival nato nel 1991 per il desiderio di mostrare cinematografie estremamente ricche quanto immeritatamente relegate ai margini della distribuzione di sala nazionale, «il che vale per la quasi totalità della produzione estera di qualità – dice la Speciale. E non si tratta di chiusura nei confronti di culture “altre” o di un forte gap culturale che impedisce la fruizione al nostro pubblico, è un falso problema». L’importante mission si arricchisce dal 2004, quando alle produzioni di paesi africani si sono aggiunti i focus su Asia e America Latina.

Il secondo obiettivo del Festival è quello di rintracciare il progetto creativo dell’opera filmica. Continua Alessandra: «In 26 anni il volto del continente africano è cambiato, così come la sua immagine comune. Da un punto di vista registico, fino al Duemila era molto difficile avere immagini originali provenienti da quelle latitudini, era molto più diffuso perciò il racconto da uno sguardo occidentale. Ogni regista africano era salutato come una novità. Ora è diverso, il web ha dato voce a tutti ed è perciò diventato necessario selezionare gli sguardi».

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Se prima si dava priorità ad una certa cinematografia di denuncia sociale, ora l’arte ha creato il suo spazio per distaccarsi dall’abuso d’immagine, «interrompendo quel rapporto di esclusività che aveva con l’urgenza». Questa è la sfida che si pone la sezione Extr’A, dedicata a racconti dei continenti del Festival aperta a registi italiani o residenti in Italia su tematiche legate all’integrazione o all’immigrazione – un bell’esempio, Show All This to the World di Andrea Deaglio.

Designing Futures è il claim del 26° Festival, Designing Africa 3.0 è la mostra presentata dal LagosPhoto Festival al Festival Center, curata dal fondatore Azu Nwagbogu e da Martina Olivetti della African Artists’ Foundation: «L’ispirazione ci è arrivata riflettendo attorno a quei processi di tensione verso il futuro tipici dei contesti urbani – spiega la Speciale – che si creano dalla contaminazione di diversi fattori. Questo è vero su larga scala, per città come Pechino o Bombay, ma anche per l’Africa. Lagos è uno di questi centri».

Azu-Nwagbogu
Azu Nwagbogu

E così la sezione Designing Futures ospita quattro film giovani per quattro rivoluzioni culturali, viste attraverso la nuova consapevolezza giovanile: A peine j’ouvre les yeux, opera prima di Leyla Bouzid, racconto intrecciato della Rivoluzione dei Gelsomini e di Farah e del suo gruppo underground contro il regime di Ben Ali; Opening Stellenbosch: From Assimilation to Occupation di Aryan Kaganof, il collettivo nato nel 2015 alla Stellenbosch University in Sud Africa per spazzare via ogni segno di apartheid rimasto nel campus; Une revolution africaine – Les dix jours ont fait chuter Blaise Compaoré sulla caduta della ventennale dittatura di Blaise Compaoré; The Revolution Won’t Be Televised di Rama Tiaw, sulle insurrezioni giovanili in Senegal partite nel 2011 quando il vecchio presidente Wade si ripresentò alle elezioni. Di diverso stile Black President di Mpumelelo Mcata, che si interroga sulla Black Guilty”, il senso di colpa africano ad abbandonare tematiche sociali per dedicarsi ad un’arte personale, in un sistema che sembra sempre giudicare la creazione pura come inseguimento del mondo occidentale.

Dal film "Black President"
Dal film “Black President”

Ciliegine sulla torta, il Festival propone le tre anteprime nazionali Stop di Kim Ki Duk, Monk Comes Down the Mountain di Chen Kaige e il film d’apertura di stasera, l’ultima commedia di Takeshi Kitano Ryuzo and the Seve Henchmen.

Indagine sul consumo di droghe: dal “Problem Child” di Albert Hofmann alle sostanze attuali

Il 29 aprile 2008 moriva d’infarto, alla rispettabilissima età di 102 anni, Albert Hofmann, il papà dell’acido lisergico, conosciuto ai più come LSD, il componente comune centrale degli alcaloidi della segale cornuta.

La ricerca di Hofmann, incentrata sulla sintesi di sostanze psicotrope, dalla psilocibina dei “funghi allucinogeni”  al principio attivo della salvia divinorum, è sempre stata vista come una “chimica ludica”, inconsistente e poco importante sottospecie della scienza e lui, nella memoria collettiva, più che uno scienziato ha assunto il ricordo contorto di un profeta da rave party.

In realtà, al primo posto della classifica dei “100 Geni  Viventi” nel 2007, ha inaugurato un capitolo fondamentale della scienza e della cosiddetta “drogologia”, tra l’altro mediante coraggiose auto sperimentazioni.

La fenomenologia della droga, infatti, ridotta a mero problema socio sanitario dal pensiero occidentale, ha sempre accompagnato l’uomo, dagli effetti dell’oppio descritti da Teofrasto nel suo Historia Plantarum a quelli della cannabis raccontati nei Papiri di Ebers (1545 a.C), dal peyote utilizzato dagli sciamani al “Vin Mariani”, ottenuto da un infuso di foglie di coca nel vino, comunemente utilizzato verso fine Ottocento.

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Le droghe, quindi, fanno parte del nostro mondo da sempre e, diventando riflesso, causa e talvolta conseguenza di alcuni dei capitoli più importanti del mondo, sono una chiave di lettura interessante per interpretare la storia dell’essere umano.

Torniamo alle origini quindi, al famoso “problem child” di Hofmann. L’LSD venne commercializzato dalla Sandoz  con il rassicurante nome di Delisyd, come coadiuvante della psicanalisi per curare stati depressivi, autismo o alcolismo, in quanto “amplificatore” delle sensazioni interiori ed esteriori.

Eravamo negli USA, sapete, verso la fine degli anni Sessanta. In Vietnam si dissanguava, agonizzante nel fango e soffocata da un’assurda propaganda anticomunista, un’intera generazione mentre Martin Luther King e il suo sogno morivano in una squallida camera d’albergo e la battaglia per i diritti della popolazione nera si faceva sempre più intensa.

Venti di primavera arrivavano anche dall’Europa, insieme ad un unico imperativo: “II et interdir d’interdire!” e diedero ai giovani una nuova consapevolezza, forte della tradizione bohemien al dissenso e propensa ad una generale voglia di novità, libertà e abbattimento delle barriere culturali e sociali.

E’ questa la ragione per cui il movimento hippie abbracciò con gioia l’acido lisergico: utilizzata in gruppo a scopo ricreativo, diffusa da intellettuali del calibro di Ken Kesey (l’autore di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) e immortalata come elemento leggendario di un’epoca da Kerouac e Borroughs, questa molecola può aiutare a comprendere i percorsi e i processi associativi della mente umana, la struttura e le origini dell’immaginazione, con un’azione “de-schematizzante” sulla psiche di coloro che si proponevano appunto di rivoluzionare i rigidi dettami di una società statica e opprimente.

Tutta questa voglia di conoscenza, di allargamento delle prospettive artistiche ed esistenziali, mise tuttavia in allarme i servizi segreti del blocco occidentale, già dall’inizio degli anni Settanta ed in piena Guerra Fredda.

Se nella hippy convention di Chicago del 1968, la percentuale di agenti infiltrati ammontava al 17% dei partecipanti, con la messa in atto ufficiale dell’Operazione Blue Moon, che prevedeva la diffusione capillare ed abilmente orchestrata di droghe pesanti all’interno dei movimenti di contestazione, allo scopo di rendere tossicodipendenti i militanti per distoglierli dalla lotta politica, l’azione dell’”eroina di stato” fu così efficace da portare il numero degli eroinomani negli USA da zero nel 1970 agli oltre 300000 nel 1985.

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Negli USA l’eroina, diffusasi nei ghetti, portò alla dissoluzione dei movimenti di rivoluzione afroamericana delle Pantere Nere, mentre in Italia, nel pieno quadro storico-politico della Strategia della Tensione, con l’attentato di Piazza Fontana e il fallito Golpe Borghese, insieme al Partito Comunista che collezionava consensi e all’acuirsi dei conflitti di piazza, si importò la medesima strategia, reprimendo duramente lo spaccio di hashish e marijuana nelle piazze, mettendo al bando le anfetamine dai prontuari con la legge Valsecchi e introducendo enormi quantità di morfina ed eroina sul mercato, vendute a bassissimo costo, arrivando ad avere, partendo sempre da zero, circa 20000 eroinomani nel 1977 sul suolo nazionale.

Nell’ultimo decennio, si sono sviluppate due tendenze differenti, all’interno dell’universo della droga: le cosiddette “dance drugs” e “work drugs”. Le prime, di cui fanno parte i cosiddetti “cartoni”, ovvero dei francobolli bagnati di allucinogeno e l’ecstasy, vengono tendenzialmente consumate in occasioni di divertimento collettivo, in feste o discoteche, per sfruttare il loro effetto “empatogeno”, ovvero spalancare i canali della comunicazione, superare le insicurezze e facilitare i rapporti con gli altri. Hanno nomi e colori invitanti e il loro aspetto “rassicurante” che le rende simile ai farmaci, induce al facile consumo spesso superficiale.

Tra le due categorie si collocano invece le “droghe leggere”, come la marijuana o l’hashish: tendenzialmente sono utilizzate in adolescenza per facilitare lo sviluppo di relazioni sociali intense all’interno del gruppo,  favorendo quel sentimento di appartenenza ricercato da tutti gli individui in formazione umana e poi in età adulta semplicemente per “rilassarsi” o per scopi moderatamente ricreativi.

Le “work drugs”, come la cocaina e le anfetamine, invece, si prestano al miglioramento delle performances, siano essere lavorative, di studio o sessuali. Si pensa che la loro diffusione sia proporzionale a quella delle paure sociali, in un contesto dove la dimensione individuale, spietata e competitiva, sta soffocando la vecchia “società solidale”, mentre cresce un’ansia generalizzata verso un futuro incerto che promette unicamente conflitti.

Qualche dato: lo scorso anno quasi un italiano su quattro (23,4%) ha fumato marijuana almeno una volta, in aumento di due punti percentuali rispetto all’anno precedente (21,5%). Diminuisce invece il consumo di cocaina (dal 2,05% all’1,58%); sostanzialmente stabili eroina (dallo 0,36% allo 0,21%), stimolanti (amfetamine o ecstasy) fermi a 1,36% e allucinogeni (2,03% contro 2,13%). Il 21% degli intervistati ha consumato più sostanze.

Il sociologo Gunter Amendt, nel suo libro “No drugs no future”,  proponendo una cruda analisi del processo di modernizzazione neoliberista, sostiene che le droghe diventeranno una parte sempre più integrante del nostro tessuto sociale, indispensabili per gestire ritmi sempre più frenetici e garantire un contenimento costante dell’ansia sociale grazie a prodotti psicoattivi sempre più nuovi.

Non siamo forse tremendamente spaventati all’idea che drogarsi, quando non si muore, possa essere bello, naturale e farci stare bene, mentre siamo ormai assuefatti all’uso di pillole per ogni scopo possibile, per dimagrire, ingrassare, scopare, fare figli oppure non farli, divertirci o dormire? Non siamo forse ottusamente fermi sulla benpensante negazione, talvolta repressiva ma più spesso ignorante, che ci porta a tralasciare completamente la possibilità di EDUCARE alla droga e ai rischi che comporta? Ai posteri l’ardua sentenza.

« Mezzo grammo per un riposo di mezza giornata, un grammo per una giornata di vacanza, due grammi per un’escursione nel fantasmagorico Oriente, tre per un’oscura eternità nella luna. »(Aldous Huxley, Il mondo nuovo)

Siamo due gocce d’acqua!

Mascherarsi è avere la possibilità di togliere i propri abiti per assumere le sembianze di qualcun altro, così come un attore che interpreta un personaggio e vive momentaneamente una vita parallela non sua.

Noi di Pequod, nel giorno del pesce d’aprile, abbiamo voluto regalarvi un po’ di ilarità vestendo i panni di personaggi attuali e non, credendoci loro e facendo nostre le frasi che li hanno resi grandi. Non siamo credibili ma abbiamo voluto allettarci e allettarvi, e come attori in scena, trasformarci per poco in qualcun altro, mettendoci anche un po’ in ridicolo.

Prendeteci in giro, oggi si ride! E comunque siamo due gocce d’acqua!

“Caro Maestro […] Se desideri rivedere la mia logora carcassa, questa succinta missiva ti edurrà dei miei spostamenti. Se non ti importa di vedermi, basta che mi mandi dieci centesimi in francobolli e un quarto di boccetta di Arpège”
Groucho Marx

 

 

“Non conosco nessuna formula per il successo. Negli anni ho però osservato che alcuni attributi della leadership sono universali e sono spesso legati al modo di trovare la via per incoraggiare le persone a mettere insieme i loro sforzi”
Regina Elisabetta II

 

 

“Io sono la punizione di Dio. Se non aveste commesso peccati degni di nota, Dio non mi avrebbe mandato a castigarvi”
Gengis Khan

 

“De Laurentiis mi consigliò il look. Mi disse di non cambiarlo mai, perché le donne che cambiano continuamente look non hanno personalità. Così da cinquant’anni mi trucco e pettino da sola tutti i giorni e in un’ora sono pronta. Il neo ce l’ho di natura, me lo scurisco e basta”
Moira Orfei      

  

 

“Quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c’è più speranza. È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all’erta”
Tiziano Terzani

 

”Hanno pensato che fossi una surrealista, ma non lo ero. Non ho mai dipinto sogni, ho dipinto la mia realtà”           Frida Kahlo

 

 

“La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, né un disegno o un ricamo”
Libretto Rosso di Mao Zedong

 

 

-“Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore.” E tu, cosa sceglieresti?
-“Il dolore è idiota, io scelgo il nulla. Non è meglio, ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente”
Fino all’ultimo respiro

 

 

“La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo”
Charlie Chaplin