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Mese: Maggio 2016

The Italian Dream (or not)

Italy is a democratic Republic founded on labour. Sovereignty belongs to the people and is exercised by the people in the forms and within the limits of the Constitution.”

This is what recognizes the Italian Constitution in its first of twelve fundamental principles. Italy is a democratic Republic, as Italian citizens we should have equal social dignity, the access to work and promote our labour skills, to choose in freedom…

But what is the situation of people that live, work, study in Italy for many years? This week Pequod wants to know the perception and ideas of people living in Italy, not because they were forced to leave their countries, not in an emergency situation, but because they choose “freely” to come to Italy for several reasons. This is the case of Aris, 35, Mexican and living in Northern Italy. Aris moved to Italy in the most romantic way: he met an Italian girl in Mexico, than they decide to go to Italy together and to get married. Although, he chose to come here for familiar affairs, he still admits that the choice to remain was hard: “it was challenging for me to put myself on test, to meet new people, know new places in another culture with the possibility to travel across Europe”.  These are, according to Aris, the reasons why Mexicans like him decide to move and know Europe: “the Italian dream, as we perceive the American dream, for Mexican people doesn’t exist in Europe. Coming here without a job, without a family, without guarantees is too expensive, that is why people prefer the more unsafe way and go to United States.”

“Are Italians white? How Race is made in America” (goodreads.com)

Even though Aris thinks that Italy is a real and effective democracy, he asserts that our democracy is still imperfect, mostly, for foreign people. By marring and Italian girl, Aris got the Italian citizenship. Notwithstanding his formal and legal status, he doesn’t feel 100% an Italian citizen yet. “Maybe in ten years I will feel completely Italian, but nowadays I still feel the difference in my Mexican accent, my skin colour, my way of dressing: it’s really complicate to integrate in an old-fashioned society like Italy. My hope is the future generations: I meet more and more open minded people and I know that we are preparing in a big mental change in Italy, due to social changes.”

In official terms, the Democracy Index elaborated by The Economist Intelligence Unit’s Democracy Index recognizes what Aris told us, in its ranking of democracy worldwide. This index analyses 165 independent countries and two territories and it is based on five categories: “electoral process and pluralism; civil liberties; the functioning of government; political participation; and political culture”. In the report of Democracy Index 2015 (Democracy in an age of anxiety), the Economist Intelligence Unit classifies Italy, in its 21st place, as a flawed democracy, basically due to the decline of popular confidence in political institutions and parties, the poor economic performance, the weak political leadership and the growing gap between traditional political parties and the electorate have spurred the growth of alternative populist movements in Europe (Democracy Index, 2015).

Aris in “Latino Americano”, Milan

Although the Italian dream is faded and amiss, Aris likes to live in Italy. He loves its arts, gastronomy and landscapes. He likes to live in a safe country, with clean streets, natural parks. “I think I really like all the beautiful things that Italians don’t appreciate as they should, but I’m from Mexico City, I grew up in another reality and I can see the real beauty of Italy”. That is why Aris ends our conversation with some suggestions for us, Italians: “You should esteem your social and human hues and be more proud of what you have, without complaining if it’s raining, if it’s sunny, if it’s Monday, Tuesday, Wednesday…”

 

Cover Photo by Jameschecker (CCA-SA 4.0 by Wikimedia Commons)

Ritratti di San Pietroburgo

A pochi passi dall’Ermitage, con la cattedrale di Kazan alle spalle, il cavaliere di bronzo domina la grande Neva, il fiume. A più di trecento anni dalla fondazione della città, Pietro il Grande, lo zar cui si deve la nascita di San Pietroburgo, sovrasta ancora l’antica capitale dell’Impero donandole eleganza, maestosità e un fascino davvero senza tempo.

L’antica Leningrado, o Piter, come la chiamano affettuosamente i russi, è affascinante in tutte le stagioni. Pequod ve la propone in alcune fotografie scattate a fine marzo, quando l’inverno la fa ancora da padrone, sebbene il timido sole che sbuca sempre più volentieri faccia presagire il disgelo imminente e l’inizio della primavera. La Neva è ancora ghiacciata, per strada c’è la neve, le donne pietroburghesi passeggiano con le loro pellicce, mentre gli uomini si riparano il capo con pesanti colbacchi.

Si intrecciano i passanti lungo il Nevskij Prospekt, il viale principale, si alternano luci, vetrine, palazzi e piazze fino ad arrivare all’Ermitage, con la sua facciata bianca e azzurra, così sfavillante da far socchiudere gli occhi per la luminosità che emana. Poi i corridoi e le sale interne del museo, una delle più grandi collezioni d’arte al mondo, così belle da lasciare senza parole. E all’esterno le splendide vedute sulla Neva, la fortezza di Pietro e Paolo che si scorge in lontananza, l’orizzonte piatto ed ampio della città vista dall’isola sul fiume.

Poi ci sono le cupole d’oro, tasselli fondamentali di qualsiasi città russa. La Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato, in cui l’oro si mischia all’azzurro, al verde e al bianco, in una serie infinta di decorazioni e dettagli che non si vorrebbe mai smettere di osservare. E ancora i canali, gli innumerevoli ponti, ognuno diverso dagli altri, che creano scorci indimenticabili. E poi la Russia, quella delle persone, fatta di chioschi che vendono tè caldo, sigarette e quotidiani, di sottopassaggi per attraversare immensi viali, di stazioni della metropolitana e di volti, fieri e segnati dal freddo e dal vento. E allora perché non entrare a riscaldarsi in un caffè, dove un pianoforte chiede di essere suonato?

Fotografie di Martina Ravelli

Il sogno di Cherry tra pattini e longuette, un salto nell’America degli anni ’50

Accade passeggiando nei centri città, che si apra tra la monotonia delle luci patinate delle vetrine una finestra su un immaginario diverso, angoli dove colori e forme spiccano per originalità e creano varchi spaziotemporali nell’omologazione della società attuale. Psycho Cherry Shop è una di queste porte nel tempo, da scovarsi in centro Bergamo, per ritrovarsi catapultati nell’America degli anni ’50.

Cherry, la proprietaria, è una bambolina dalla rossa frangia arricciata in stile rockabilly e la gonna sotto il ginocchio, il sorriso aperto e la voce dolce. A un secondo sguardo, però, ci si accorge dei tatuaggi che decorano le sue braccia e dei piercing al volto, in linea con la personalità forte che emerge dai suoi racconti.

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Quando le chiedo delle origini della sua passione, Cherry sorride ricordando la sua adolescenza: «Frequentavo gli ambienti punk, soprattutto la scena musicale; crescendo i miei gusti si sono affinati: è stata la musica a farmi avvicinare agli anni ’50 e a farmi incontrare questo stile. Le persone pensano che mi vesta da bambola, ma in realtà io trovo molto comoda la longuette a vita alta. Lo stile rockabilly è molto versatile: in negozio arrivano clienti dai 12 ai 70 anni, sia le gonne sia le camicette sono portabili in diverse occasioni e sfruttabili nella vita di tutti i giorni».

Proprio dalla volontà di accontentare tutti, in un certo senso, nasce l’idea di aprire questo negozio: «Non ho mai amato essere vestita come tutti gli altri, mi è sempre piaciuto esprimere la mia personalità. Quand’ero più giovane, con gli amici dovevamo spostarci da Milano fino a Londra per trovare vestiti punk o rockabilly; era difficile indossare qualcosa di veramente unico perché i negozi che vendevano cose originali erano pochi. Così quando, dopo anni di lavoro da commessa, sono stata licenziata, ho chiesto a me stessa: io realmente nella vita cosa voglio fare? Ed eccomi qui!».

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Caratteristica degli anni ’50 in America è la forte presenza femminile: molti uomini sono impegnati nell’esercito e le donne occupano il loro posto nella società, non solo nel mondo del lavoro, ma anche nelle realtà sportive. In particolare, si appropriano di uno sport che oggi è quasi totalmente femminile: il roller derby. «Guardando youtube, la forza di queste donne che si colpiscono correndo sui pattini mi ha subito affascinata! – racconta Cherry – Il primo contatto diretto con una squadra è stato durante un festival: io lavoravo alla bancarella del negozio e alcune ragazze del team di Milano si sono avvicinate per propormi un allenamento. Ho provato e non mi sono più fermata!».

Nel 2013 Cherry fonda le Crimson Vipers di Bergamo, una squadra che oggi conta 19 rookies (giocatrici effettive) e 13 fresh-meat, in attesa di superare l’esame teorico e pratico che darà loro accesso alle competizioni. «Uno degli aspetti affascinanti del roller derby è che non è una disciplina definita: il suo regolamento è in continua formazione e bisogna mantenersi sempre aggiornati. Inoltre, non essendoci una strutturazione manageriale come negli altri sport, ma solo una lega internazionale e alcune leghe in poche nazioni, il contatto tra le giocatrici di squadre diverse è molto diretto: capita che rookies in vacanza vadano ad allenarsi con il team del posto in cui si trovano e spesso ci si confronta tra squadre».

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«Il roller derby, oltre ad essere fortemente basato sulla strategia, richiede una consapevolezza del proprio corpo che non si limita a quella data dalla forza fisica: ci si deve buttare! I miglioramenti sono rapidi e ci acquisisce maggior sicurezza di sé».

Uscendo dal negozio con queste ultime frasi nella testa, mi rendo conto che dell’America di oggi ci siamo dette poco o niente, ci siamo concentrate su passato e futuro, e più che di prodotti di consumo, abbiamo parlato di stili di vita che si esportano, nello spazio e nel tempo. Allontanandomi lungo il marciapiede, riguardo quella vetrina: a Bergamo c’è una finestra che ci dice che l’American Dream non si è spento e può essere più italiano che mai.

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I russi e l’Italia: un amore controverso

Il 27 maggio 1703 viene fondata San Pietroburgo, la città più europea di tutta la Russia. Lo zar Pietro il Grande era rimasto così inebriato dal fascino dell’Europa, durante i suoi viaggi nelle capitali occidentali, da volerne ricreare l’atmosfera nella nuova capitale russa sul Mar Baltico.

Pietro non fu il solo a provare una forte attrazione per l’Europa occidentale; come lui molti letterati, poeti ed artisti russi trovarono ispirazione proprio nel vecchio continente. E fra tutti i Paesi d’Europa, è forse l’Italia, con la sua storia, il suo mare e la sua gente, quello che ha fatto maggiormente breccia nel cuore del popolo russo.

Conseguenza di questa passione ancestrale per il Bel Paese è sicuramente l’elevato numero di turisti russi che lo scelgono come meta delle loro vacanze. Tuttavia, negli ultimi cinque anni i cittadini della Federazione Russa recatisi in Italia sono diminuiti di più del 50%. Che la penisola abbia perso parte del suo charme? Ne abbiamo parlato con Tatiana Salvoni, psicologa e scrittrice russa residente in Italia, e Anastasia Lavrikova, guida turistica russa a Milano.

Tatiana Salvoni in una conferenza sui suoi libri

«I russi amano ancora l’atmosfera dell’Italia» ci rassicura Tatiana, autrice di due libri dedicati ai rapporti fra russi e italiani, tra cui il bestseller Italia. Amore, shopping e dolcevita. «Da noi in Russia si crede che in Italia tutti sorridano! E poi l’Italia è uno dei più antichi Paesi del mondo, con una storia invidiabile e opere d’arte che non si può non apprezzare. Anche Puškin, il nostro più grande poeta, ha scritto dell’Italia come del Paese dei suo sogni» Dell’Italia i russi non amano soltanto l’arte; ad attirarli ci sono anche il vino, il buon cibo, lo shopping: «Tutti i russi si fanno un selfie davanti al Duomo di Milano, capitale della moda!» racconta Tatiana ridendo.

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E allora perché il turismo russo in Italia continua a diminuire? Anastasia ha le idee molto chiare a riguardo. Lavorando nel settore del turismo milanese da circa sette anni, ha vissuto questa inversione di tendenza: «In generale la crisi economica ha inciso tantissimo, inoltre le pesanti sanzioni che hanno colpito la Russia hanno gravato anche sul portafoglio dei turisti». Ma per il popolo russo non si tratta solo di una mera questione economica, continua Anastasia: «I russi sono estremamente patriottici; per loro le sanzioni stabilite e l’allineamento dell’Italia alle direttive europee hanno rappresentato una sorta di tradimento da parte di un Paese che da sempre considerano amico».

Anastasia Lavrikova sulla Transiberiana

«Questo forte senso della patria è davvero determinante in diversi settori, dall’imprenditoria al turismo; – spiega Anastasia – anche coloro che potrebbero permettersi le vacanze in Italia in molti casi scelgono di spendere i loro soldi altrove, dove non si sentono messi in difficoltà dalle sanzioni». E per ovviare alla mancanza di una delle cose maggiormente apprezzate della penisola, il cibo, in Russia da qualche tempo ha preso vita una pratica interessante: la “sostituzione dell’import”. «È cominciata una produzione autoctona di prodotti tipicamente italiani, dagli ortaggi ai formaggi, in terra russa» ci dice Anastasia. «Per i russi infatti le sanzioni sono state un importante motivo di riflessione: anche noi abbiamo delle potenzialità, non c’è bisogno di andare a cercare le bellezze all’estero».

Russians wait at Saint Peter Square prior the arrival of Russian President Vladimir Putin for a private audience with Pope Francis, Vatican City, 10 June 2015. ANSA/ALESSANDRO DI MEO
ANSA/Alessandro Di Meo

Potrà dunque questa spinta all’autoproduzione, insieme con l’incentivazione del turismo interno russo, sopperire alla nostalgia per il Bel Paese? Tatiana ritiene che il legame fra i russi e l’Italia sia troppo forte; nei suoi libri l’autrice parla proprio dell’attrazione imprescindibile fra i due popoli, spiegata in chiave psicologica: «I russi sono gli italiani al contrario: mostrano all’esterno quello che gli italiani sono all’interno. E viceversa. Gli italiani fuori sono solari ed allegri? Anche noi russi lo siamo, all’interno!» ride Tatiana, spiegando che la sua tesi è basata sulla “teoria delle uova” di Carl Gustav Jung, secondo la quale gli uomini tenderebbero a stringere legami più forti con quegli individui che nel loro “albume” dimostrano le caratteristiche che essi conservano all’interno, nel “tuorlo” della loro personalità.


“Italia. Amore, shopping e dolcevita” e “Italia. Mare, amore” di Tatiana Salvoni

Possiamo quindi stare tranquilli, l’Italia continuerà ad essere per i turisti russi “terra magica, gioconda terra d’ispirazione”, come cantava Puškin nei suoi versi. Anastasia conclude l’intervista con ottimismo: «L’Italia con il suo patrimonio ineguagliabile e il suo atteggiamento amichevole è favorita rispetto agli altri Paesi. E noi nell’ambito del turismo lavoriamo con i russi ma lavoriamo insieme per l’Italia».

Lisa Corti, i colori che uniscono Africa, India ed Europa

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Mercato di Asmara

La moda è da sempre un linguaggio di comunicazione, una traccia di passaggio, uno strumento d’influenza interculturale. La commistione di tendenze nella storia è stata tanta che è complicato stabilire l’origine di un determinato stile e ancor di più valutare se sia stata maggiore l’influenza del “costume occidentale” su quello orientale o viceversa. Ecco perché oggi parleremo di chi ha saputo cucire l’Occidente e l’Oriente, miscelandone i colori; parleremo di chi dall’Est ha ricevuto molto e ha saputo ripagarlo adeguatamente. Questa è la storia della stilista Lisa Corti.
La sua vicenda comincia ad Asmara, dove Lisa vive fino all’età di 19 anni immersa tra i colori degli agrumeti, del mercato di Keren e delle variopinte decorazioni delle donne africane. Un tripudio di pigmenti che la ragazza bianca saprà rubare e ritrovare molti anni più tardi in un altro continente.

È il 1976 e la stilista, ormai madre, dopo diverse esperienze lavorative nel campo della moda compiute in Italia, fa il suo primo viaggio in India. Spostandosi a est del mondo, Lisa ritrova una realtà diversa e affine a quella africana fatta di ornamenti, di luci e colori.

È solo il primo dei tanti pellegrinaggi compiuti dalla stilista milanese nel territorio indiano. Ne seguiranno altri, una serie di cuciture che fissano il legame misterioso tra continenti lontani, la saturazione di un’antica ferita aperta, quasi la ricerca di un unicum stilistico, il filo di Arianna capace di collegare territori ed etnie un tempo unite e oggi così  lontane. La ricerca di Lisa Corti si trasforma nello studio approfondito della cultura locale: dall’analisi di tessuti come mussola, malmal, lana, seta, stoffa zari, bandhani, khadi, chintz, calicò, alla riscoperta di tecniche produttive che la stilista applica immutate nei secoli, come la stampa dei tessuti a blocchi scolpiti, la tessitura con telai tradizionali o le arcaiche tecniche di colorazione e finitura.

Da questo simposio nascono prodotti che vanno dai mandala, tappeti di preghiera e riposo, ai divani, dagli arazzi variopinti ai cuscini Maharaja, dai letti a baldacchino all’abbigliamento. Una gamma di creazioni capace di tradursi in un’estasi continua di colori e bellezza che pervade ogni aspetto del quotidiano, nel tentativo di riprodurre nel concreto habitat occidentale la bellezza luminosa dello scenario indiano.
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Lisa Corti riesce così a creare un rapporto di reciprocità col continente indiano: qui i suoi prodotti vengono realizzati da artigiani che seguono i progetti e disegni realizzati precedentemente in Italia. Nel 2005 inizia il progetto dell’Home Textile Emporium: un ex convento del XVII secolo oggi è sia negozio che factory creativa, luogo suggestivo dove nascono e si realizzano le nuove collezioni; l’architettura stessa, con i suoi imponenti muri, gli archi a tutto sesto e i capitelli corinzi nel contempo fa da culla e contrasta con le soffici stoffe e gli arredi di stampo orientale e coloniale. Un mix perfetto tra Occidente e influenze indiane e africane.

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Ancora una volta, il mistero si rinnova e va oltre la semplice contaminazione e unisce elementi talmente diversi da sembrare perfettamente assimilabili. Con le sue creazioni, Lisa Corti ci parla non tanto di influenze di una cultura sull’altra, ma della dilatazione della cultura per trovare degli embrioni figli di un’altra terra. Lisa ci ha insegnato che un colore può incontrarne un altro e amalgamarsi senza sovrastarlo; ci ha insegnato che nella moda non si può parlare di “dominio” ma di “condivisione”.

China and the West: a love-hate relationship

Almost one million people have already visited Shanghai Disneyland – quite an impressive number considering that the park isn’t even technically open yet. Since the Shanghai Disney metro station opened its doors on April 26th, thousands of tourists have rushed to it just to stand outside the gates of the unopened park and buy souvenirs.

This episode is the last of a long series of examples of China’s obsession with Western symbols and products. Since the XIX century, China’s conception of the West has in fact been characterised by a constant tension between attraction and antagonism, admiration and criticism. After the years of China’s isolation under Mao’s rule, when Westerners were depicted as yang guizi (foreign devils) and nearly no visitors were allowed in the country, in 1978 Deng Xiaoping launched the “open door policy”, making China accessible to foreign businesses that wanted to invest in the country. This policy set into motion the unprecedented economic growth of modern China, resulting in immense changes in Chinese society.

1981, a youth brandishes a bottle of Coca-Cola in the Forbidden City (China Daily)
1981, a youth brandishes a bottle of Coca-Cola in the Forbidden City (China Daily)

One of those changes was the increasing fascination with everything “Western”. In the 90s, when the reforms deepened and accelerated, it was not unusual to hear salesmen in city markets across China describe pretty much all of their merchandise as “made in America”.

The tremendous potential of the Chinese market caught the attention of Western restaurants and commercial chains, which started opening branches in the country. One of the first to tap into this potential was McDonald’s, which in April 1992 inaugurated a store in the heart of Beijing, just two blocks away from Tiananmen Square. With 28,000 square feet, 700 seats and 850 total employees, it was the chain’s largest store in the world, clearly testifying to the company’s determination to invest in the Chinese market.

One of McDonald’s stores in Shanghai (Wall Street Journal)
One of McDonald’s stores in Shanghai (Wall Street Journal)

Although at that time a 10 yuan Big Mac was not affordable for most of the population – the average monthly salary of urban residents of Beijing amounting to 120-130 yuan (around 17-18 dollars) – many Chinese still flocked to the store. Thanks to its Western appeal, its cleanliness and quick service –  in sharp contrast to the poor standard of service long endured by customers at local restaurants – McDonald’s soon became a common family hangout spot, as well as a popular place for first dates.

Thanks to the increasing knowledge of Western culture made possible by the widespread of Internet across China, Chinese people nowadays aren’t as blindly in love with the West as they were during the Reform era, but they aren’t immune to its allure either.

Just consider that in 2015 over 520.000 Chinese students moved abroad to study, with Western countries such as the US, the UK and Australia being the most popular destinations, followed by South Korea and Japan.

Chinese poster of popular American tv Shows “House Of Cards” (zxhsd.com)
Chinese poster of popular American tv Shows “House Of Cards” (zxhsd.com)

Even Western TV shows, in particular American ones, have become increasingly popular in China in the last few years. One example is the Netflix drama “House of Cards”, which is so in vogue that it has inspired many fan-made parodies, including this version of the credits sequence featuring Beijing rather than Washington.

But what does the Chinese government think of its people’s long-lasting fascination with the West? The answer is not straightforward. Despite continuing to support the open door policy, after the violent repression of Tiananmen protests in 1989, Deng Xiaoping’s administration launched the Patriotic Education Campaign with the slogan  “Never Forget the National Humiliation”.

Since then, student textbooks as well as radio programs, TV shows and movies  have been nurturing anti-Western nationalism among Chinese people, by depicting the country as a victim of foreign powers that exerted control over China for a hundred years, until the Communist revolution in 1949. This rhetoric champions the Communist Party as the guardian of the country’s safety and aims at justifying its one-party rule.

As a result, China is extremely sensitive about any kind of Western interference in its internal affairs, as demonstrated by people’s angered reactions to Western criticism of China’s human right abuses in Tibet.

Moreover, in the last few years anti-Western sentiments have intensified. In 2012, following the episode of a Chinese woman harassed by a British expat, top Chinese search engine Baidu and the Twitter-like microblogging site Sina Weibo both called on netizens “to expose bad behavior by foreigners in China” leading many users to express xenophobic views, such as “foreign scumbags should go back to their countries”, as microblogger Yuxiaolei stated, or “cut off the foreign snake heads”, as popular television host Yang Rui wrote.

In 2015 Chinese education officials intensified a campaign against so-called Western values and professors at Chinese universities complained that they were being pressured to remove foreign material from their syllabus.

The “Dangerous Love” cartoon poster features state worker “Xiao Li” being courted by foreigner “David” and eventually handing over official secrets (The Guardian/Ng Han Guan/AP)
The “Dangerous Love” cartoon poster features state worker “Xiao Li” being courted by foreigner “David” and eventually handing over official secrets (The Guardian/Ng Han Guan/AP)

Finally, just last month cartoon posters in Beijing entitled “Dangerous Love” warned young female government workers against dating Western men, as they may turn out to be foreign spies.

Given the backlash against foreigners of the last few years, it is difficult to predict how China’s love-hate relationship with the West will unfold in the future. Let’s just hope that burgers and tv shows won’t be the only reasons left to Chinese people to admire the West.

 

Cover Photo: Castel of Shanghai Disneyland by Fayhoo (CCA-SA 3.0/Wikimedia Commons)

Il caffè americano in Italia: welcome Starbucks?

Il caffè è il prodotto più scambiato al mondo, secondo solo al petrolio sui mercati finanziari del pianeta, e con una produzione mondiale di 5,9 milioni di tonnellate. Quanto al consumo di caffè, ogni giorno in tutto il mondo se ne bevono quattro miliardi di tazzine. Apprezzato quasi quanto l’acqua, nel mondo esistono molteplici modi per produrlo. Dal 1885 l’Italia è considerata patria dell’amara bevanda grazie al brevetto internazionale dell’imprenditore torinese Angelo Moriondo, inventore della macchina per il caffè espresso. Sebbene al 7° posto della classifica europea sul consumo giornaliero, i dati presentati dalla Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi, sottolineano come l’Italia si gusti ogni anno 6 miliardi di tazzine espresso e cappuccini, servite in oltre 200.000 bar con un giro di affari intorno ai 6,6 miliardi di euro.

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«La caffetteria al bar è un prodotto di punta e rappresenta oggi il 30% del fatturato complessivo», dichiara Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi Fipe. «Un dato che sancisce il ruolo fondamentale del bar nei consumi fuori casa e fa in modo che alcune grandi catene internazionali del settore non siano ancora entrate nel mercato italiano». Affermazioni datate febbraio 2016 e subito smentite dall’annuncio di Howard D. Schultz, presidente e CEO della famosa catena di caffetterie Starbucks, nei primi giorni di marzo di quest’anno, che aprirà il suo primo bar in Italia agli inizi del 2017 nel centro di Milano, sebbene per ora non si sappia ancora l’indirizzo esatto. Catena internazionale fondata nel centro di Seattle nel 1971, l’idea di creare Starbucks venne in mente a Schultz durante un viaggio fra Milano e Verona, lungo il quale rimase affascinato dall’immagine del bar italiano, dalla passione che il nostro Paese riserva alla preparazione della bevanda e dall’inconfondibile gusto espresso che, una volta ritornato a casa, adattò al mercato statunitense. La catena del famoso caffè americano ha seguaci in tutto il mondo, tanto che Shultz possiede oggi 24 mila negozi in 49 Paesi sparsi per il globo.

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Distribuzione di Starbucks nel mondo.

Cosa significa introdurre il caffè americano in Italia? Secondo i dati di Euromonitor il 90% delle caffetterie sono indipendenti, e fino a oggi i colossi internazionali (per esempio McDonald’s McCafe) non hanno sfondato. Assolutamente ottimista è invece il Gruppo Percassi, business company promotrice non solo di questa catena americana, ma anche di altre importanti partnership internazionali. Il proprietario è l’imprenditore bergamasco Antonio Percassi, scelto come licenziatario unico di Starbucks in Italia e che diventerà a breve proprietario e gestore dei locali.

3La sfida sarà riuscire a vendere un prodotto all’interno della forte “tradizione italiana” guidata dall’espresso: forse sarebbe il caso di comprendere la differenza fra un prodotto e un servizio. Per quanto riguarda il prodotto, il primo Starbucks italiano si adatterà alla nostra cultura, inserendo nel menù piatti tipici italiani e servendo una miscela di caffè creata appositamente per i gusti dei milanesi; altresì la struttura interna del locale, che riprodurrà il classico bancone da bar all’italiana. Scelta fondamentale se si vuole concorrere coi prezzi della nostra tazzina, che sta “sempre” attenta a non superare il costo di un euro. Shultz infine, da bravo imprenditore, ci tiene subito a sottolineare al Magazine del Sole24Ore che «Starbucks non arriva in Italia con la pretesa di insegnarvi a tostare il caffè o a consumare un espresso» ma «ci arriva con grande umiltà per presentarvi la nostra interpretazione del caffè, la cui componente essenziale è quella di creare un senso di comunità, di terzo luogo, tra casa e posto di lavoro».

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Il servizio di Starbucks non si limita solo ad ampliare l’offerta delle nostre caffetterie. La forza della sua prossima apertura giocherà indubbiamente sul servizio offerto alla clientela milanese: la presenza del wi-fi (non sempre presente dei nostri bar), la vendita di dischi e riviste, ampi spazi dedicati non solo al relax o alla condivisione. Il bar italiano medio è invece concepito per una clientela dotata di un numero ignoto di pause caffè, comunque non superiori ai cinque minuti. Strabucks cerca invece di dare risposta a quelle fascia di lavoratori che oramai va per la maggiore: i liberi professionisti. «Il piccolo dettaglio fin troppo trascurato è che la clientela liquida di chi non ha orari da ufficio tradizionale è in aumento, mentre l’altra in diminuzione», scrive il direttore Massimiliano Tonelli su “Gambero Rosso”.

Il fascino dell’occidentale caffè americano potrebbe dunque lusingare la clientela italiana, abituata almeno fra le nuove generazioni a usufruire della catena Starbucks all’estero. La prossima apertura, in una delle città più europee d’Italia, saprà sciogliere o confermare lo scetticismo di molti.

Nessuna obiezione: il viaggio alla ricerca della pillola del giorno dopo

La libertà di scegliere, se si è donna, non è così scontata. Non lo è nemmeno qui in Italia, e neppure quando oggetto di tali decisioni è il proprio corpo.

Esistono leggi, frutto di lotte più o meno rumorose, che nel corso degli ultimi decenni hanno garantito alle donne italiane dignità e indipendenza, caratteristiche che a chi era nata col doppio cromosoma x prima di allora non erano mai appartenute.

Una di queste leggi è la 194, che proprio in questi giorni compie 38 anni, e che garantisce alle donne il diritto di interrompere la gravidanza entro i primi novanta giorni di gestazione. Prima dell’entrata in vigore di questa legge, aborto e contraccezione erano vietati come delitti contro la stirpe e punibili con la reclusione: le donne che decidevano di abortire lo facevano clandestinamente, e moltissimi sono stati i casi di decesso dovuto a complicanze di questi interventi, spesso eseguiti in condizioni poco igieniche.

Ora la legge permette alle donne di interrompere liberamente la gravidanza, ma si pone un nuovo ostacolo, cioè l’obiezione di coscienza: i medici ai quali si richiede l’intervento, infatti, possono rifiutarsi di compierlo, e per questo le donne che chiedono di abortire sono spesso costrette a vagare di ospedale in ospedale.

Ma se l’aborto è sottoponibile a obiezione di coscienza, ciò non vale per la vendita di farmaci contraccettivi. Tuttavia, numerosi sono i casi riportati di farmacie che, alla richiesta di acquistare la pillola del giorno dopo, si sono rifiutate di venderla.

La pillola del giorno dopo (Pgd) è un farmaco utilizzato come metodo di contraccezione post-coitale, ossia per la contraccezione di emergenza: non si tratta di un processo abortivo, e pertanto l’acquisto di questo farmaco non può essere negato.

La redazione di Pequod ha deciso di fare un giro di farmacia in farmacia alla ricerca della pillola del giorno dopo: in quanti e quali di queste non avremo problemi ad acquistarla?

Farmacia Bresciani & C. Snc., Seriate (BG) – Non obiettori

 

Corbelletta, Torre Boldone (BG) – Non obiettori

 

Farmacia De Gasperis Dr. Alfredo, Torre Boldone (BG) – Non obiettori

 

 

In copertina: Farmacia Centrale Dr.Ssa Maria Pinetti & C. S.A.A., Seriate (BG) – Non obiettori

Diverso è bello: S.CO.S.S.E. educative contro gli stereotipi

L’educazione alla diversità passa necessariamente dalle scuole e di conseguenza dai più giovani. Proprio di educazione alla diversità si occupa Giulia, volontaria dell’Associazione di Promozione Sociale S.CO.S.S.E (Soluzioni COmunicative Studi Servizi Editoriali): «l’associazione è nata nel 2011 a Roma grazie ad una start-up dell’Università Tor Vergata ed è composta da un gruppo di giovani donne che provengono dall’ambiente accademico e dagli studi di genere che condividono la volontà di mettere in pratica le loro esperienze ed i loro studi». Nello specifico lo scopo è quello di combattere contro gli stereotipi e di educare alle pari opportunità valorizzando le differenze già dalla primissima età. A tale scopo l’associazione organizza corsi di aggiornamento professionale per le maestre degli asili nido e dell’infanzia e laboratori per gli studenti e le studentesse delle scuole del comune di Roma.

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«Io, in particolare, mi occupo del settore dell’infanzia – spiega Giulia- perché ci siamo rese conto che è importante iniziare ad educare fin dalla primissima età ma soprattutto è importante formare chi, con le bambine e i bambini, è in contatto tutti i giorni». Educando alla diversità, nel senso più generale del termine, (quindi di genere, di orientamento sessuale, di razza, religione ecc…) S.CO.S.S.E. si prefigge di far capire come le differenze di ognuno e di ognuna siano una caratteristica da valorizzare e non da discriminare. Lavorando in quest’ottica però «abbiamo riscontrato che, sebbene il lavoro nelle scuole sia molto positivo, tanto che è già il terzo anno che proponiamo questo progetto, ci sono delle resistenze ideologiche che a volte sono anche molto organizzate e quindi possono creare dei veri e propri problemi».

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Ma la diversità riguarda, talvolta, anche il proprio corpo. Continua Giulia «quella che portiamo avanti è un tipo di educazione all’affettività ed alla relazione che necessariamente coinvolge anche il corpo, il tutto partendo da insegnati consapevoli e formati, per giungere infine ai bambini e alle bambine. Per quanto riguarda i ragazzi più grandi «affrontiamo i cambiamenti dovuti alla crescita e le prime relazioni tra pari». Giochi, canzoni, immagini, video, attività pensate ad hoc possono essere strumenti efficaci affinché venga stimolata la discussione tra i ragazzi e le ragazze, in modo che siano spinti ad interagire con il proprio io interiore e a rapportarsi con il prossimo. Uno strumento molto efficace è l’utilizzo di carte da gioco progettate appositamente da Marta di Cola, Monica Pasquino e Luna Sanchini, socie dell’Associazione S.CO.S.S.E. Queste carte vengono distribuite ai ragazzi e alle ragazze che, prendendo spunto dalle parole-chiave presenti in esse, possono riflettere e confrontarsi su che cosa caratterizzi la femminilità e la mascolinità in relazione ai messaggi che la società gli manda.

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L’educazione alla diversità è uno dei temi più delicati che il nostro presente si trova ad affrontare: è importante non trascurarla perché troppo spesso e troppo opportunisticamente si discrimina ciò che invece andrebbe valorizzato. Per fortuna che esistono associazioni come S.CO.S.S.E. che ci fa riscoprire la bellezza delle differenze, altrimenti sai che noia se fossimo tutti uguali?

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Scegliere di abortire, il difficile iter per il diritto alla propria felicità

Quando è stata votata la legge 194, ciò che la società era impegnata a tutelare era la vita di una persona non in potenza, ma già in atto, nata e viva: si voleva tutelare la donna e la salute del suo corpo. Con il voto del 1978, gli elettori italiani postularono un diritto fondamentale: il diritto di ogni individuo, nello specifico di ogni donna, all’autodeterminazione circa la propria salute e il proprio corpo. Spesso questo diritto è messo in discussione, forse perché ci si dimentica di cosa possa significare per una donna il percorso che la porta ad abortire, ci si dimentica di ascoltare le donne.

Quando incontro Laura, provo a sgombrare la mente di ogni opinione personale; voglio affrontare il suo racconto con la stessa ingenuità con cui lei ha vissuto la sua esperienza: ha abortito all’età di soli 14 anni, in un’epoca in cui si era appena aperta la discussione sull’educazione alla sessualità. Nel 1977 Laura ha fatto l’amore per la prima volta ed è rimasta incinta. Non mi racconta del ragazzo che era con lei né della vita che aveva in corpo; mi racconta della mamma, cui ha chiesto aiuto e che si è prodigata per trovare un medico che illegalmente le praticasse un aborto: «Se ne parlava tra donne, di come fare senza correre rischi».

Provo a immaginare le sensazioni che attraversavano quel corpo di bimba, gravato da uno sbaglio molto più adulto di lei, mentre Laura descrive i pochi minuti del suo aborto: «Sono entrata nello studio medico e mi sono seduta come se avessi dovuto fare una normale visita ginecologica; il dottore mi ha messo dell’etere al naso e sul pube, ma non dormivo: ho sentito che tutto mi veniva strappato dal corpo. Sono uscita dopo 10 minuti, sulle mie gambe, così come ero entrata».

Non riesco a chiederle di più. Mi bastano il gesto di portarsi le mani al ventre e lo sguardo che rivolge alla figlia che ha dato alla vita anni dopo quest’esperienza; una ragazza di vent’anni, fiera dell’onestà della madre e di come l’abbia educata nella consapevolezza del proprio corpo e della propria sessualità.

«È stato il giorno più brutto della mia vita; – dice Laura– il più bello quando ho avuto lei».

ROMA, 10 Giugno 1977 - Manifestazione femministe a favore dell' aborto. ANSA ARCHIVIO / 74927
ROMA, 10 Giugno 1977 – Manifestazione femministe a favore dell’ aborto (ANSA ARCHIVIO / 74927)

Alice invece ha abortito 7 anni fa, appena maggiorenne, legalmente e con la giusta assistenza medica. Mi parla prima di tutto di un corpo che si trasforma a causa di un ospite inaspettato: «Qualcosa che da un po’ di giorni mi faceva rallegrare e scoppiare di rabbia nello stesso istante».

Ha da subito le idee chiare: vuole interrompere la gravidanza. L’iter però è meno semplice di quello che lei si aspetta: dagli sguardi gravi della farmacista che le vende il test di gravidanza, all’impossibilità di scegliere un consultorio adatto alle sue esigenze, vincolata alla propria residenza; Alice si vede costretta a coinvolgere il partner: «Ci volevamo molto bene, ma non lo volevo vicino. Avrei fatto volentieri a meno di stare con me stessa ma, non potendo staccarmi da me, mi staccavo almeno da lui».

Anche dallo psicologo, Alice subisce la violazione di giustificare la propria scelta davanti a medico e compagno, «come se io non avessi il diritto di decidere della mia vita. Dissi che non era il momento, che io volevo crescere e realizzare me stessa. Dissi che non sarei stata in grado di amare un figlio, perché l’avrei incolpato di tutto quello che non avevo potuto fare».

È il suo partner a coinvolgere i genitori, ma in loro Alice trova degli inaspettati alleati: non solo l’accompagnano in questa «lotta stile film d’azione» contro il tempo; dopo l’intervento l’attendono con una tavolata di dolci: «Mi sembrava una festa, e forse lo era. Io ero orgogliosa di me, della mia forza e risolutezza. E, in fondo, ero già fiera di tutte quelle cose che pensavo di non poter più fare e che invece, ora, erano nel mio futuro».

«Oggi, a 25 anni, posso dire che quella è stata la scelta migliore della mia vita. Non avrei fatto tutte quelle cose che mi hanno resa me stessa, le sensazioni e lezioni che hanno costruito e plasmato la mia persona.

Ho deciso fra due vite. E sono fiera, felice e incredibilmente grata per la scelta che ho fatto. Ho esercitato un mio diritto. Non la 194. Ho esercitato il mio diritto a essere felice».

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Aborto, le tragedie e la commedia

Tante le opere filmiche che non solo si sono interrogate sul diritto all’aborto, ma che sono state in grado di denunciare le pessime condizioni igieniche di interventi clandestini, le torture fisiche e le umiliazioni subite da donne decise a interrompere una gravidanza. Il viaggio per fotogrammi di Pequod fa tappa su tre pellicole che indagano gli aspetti più crudi e toccano con leggerezza un tema tanto delicato e attuale.

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Il secondo lungometraggio del rumeno Cristian Mungiu, 4 settimane, 3 mesi, 2 giorni, ritrae la dura strada della giovane Găbița verso l’interruzione di gravidanza, negli ultimi anni del regime di Ceaușescu. Un’opera cruda e spietata, premiata con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2007. Qui, il letto di un sordido hotel è palcoscenico e testimone di abusi che annichiliscono e si accumulano alle torture psicologiche di donne costrette a piegarsi a tutto, pur di veder rispettate le proprie volontà.

Nel 2014, Myroslav Slaboshpytskiy è autore di una straordinaria opera che, pur mantenendosi fedele alla struttura narrativa, stupisce per la capacità di sperimentare con il linguaggio.

Un linguaggio che non c’è. O meglio, che lo spettatore – almeno inizialmente – non è capace di concepire come convenzionale. The tribe, vincitore della penultima edizione di Milano Film Festival, è infatti interamente interpretato da attori sordomuti nel linguaggio dei segni. Tra i tanti atti di (spesso insensata) violenza all’interno di un istituto per sordomuti in Ucraina, non manca la fuga di una giovanissima ragazza nello squallido bagno di un appartamento privato, dove si consuma la durissima pratica degli aborti in clandestinità.

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Un’asse di legno appoggiata a una vasca e un silenzio rotto da una rabbia che parla, una rabbia cinica nei confronti di un universo pervaso di violenza, in cui forse la scelta di una vita negata senza ripensamento alcuno è la miglior risposta al peggiore dei mondi possibili.

Presentata al Sundance Film Festival nello stesso anno, l’opera prima di Gillian Robespierre, Obvious Child, viene proposta al pubblico come una commedia sull’aborto.

La giovane Donna, stand-up comedian costantemente sull’orlo del lastrico e intrappolata in una sorta di eterna adolescenza, scopre di essere rimasta incinta in seguito al rapporto di una notte con uno sconosciuto da cui è sgusciata via, con imbarazzo, il mattino dopo.

«Vorrei abortire, per favore. So che suona molto insensibile, come se stessi ordinando da mangiare in un drive-through. Ma vorrei abortire, per favore».

 

Con Obvious child – tradotto in Italia con Il bambino che è in me e (ancora) non distribuito nelle sale – la Robespierre cala lo spettatore nella quotidianità e nella mente di una donna che, benché in costante fuga dalle proprie responsabilità di adulta-modello, è fermamente determinata a non voler diventare madre.

È una commedia che affronta il tema dell’interruzione di gravidanza con coraggio e un’estrema leggerezza, volgendo le spalle a decenni di cinema che, troppo spesso, riportavano un’immagine distorta della donna costretta a confrontarsi con il disagio e l’umiliazione di questa dura decisione.

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Sviluppato a partire dagli spunti di un precedente cortometraggio, su Obvious child la stessa regista dichiara: «Volevo realizzare un film che fosse in grado di de-stigmatizzare il tema dell’aborto, rappresentando una donna capace di interrompere una gravidanza senza pentirsi della sua scelta».

Un inno alla vera emancipazione, fatta di coraggio e autodeterminazione al femminile; un soffio di libertà capace di allontanarci – fosse anche solo per un’ora e mezza, o per un istante – da una cronaca che ancora riporta una contemporaneità fatta di clandestinità e diritti negati.

 

In copertina: fotogramma da una locandina di The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy.

Another war on women? The Polish attempt to ban abortion

As women’s rights activists know only too well, sexual and reproductive rights are often redefined when major social and political changes take place. Poland‘s case is exemplary in this respect: legal and relatively straightforward under communism, access to abortion came under attack after 1989, and in 1993 a law that allowed it only on therapeutic grounds and on criminal charges was passed. The procedure is in fact currently only permitted in cases of serious health risks for the woman or the foetus or where a pregnancy results from rape or incest, making the country’s legislation on the matter among the strictest in Europe.

Pro-life organisation Ordo Iuris has now drafted a bill that, if approved, would enforce a complete ban on abortion and increase penalties for medical professionals caught performing it. The conservative Law and Justice Party (PiS), elected to government in October 2015, favours the proposal, which, along with the announced plan to ban prescription-free emergency contraception and end state funding to in vitro fertilisation testifies to a clear intention to limit the country’s reproductive rights.

The move has obviously spurred waves of protest across the country, with women taking the streets in protest brandishing coat-hangers – a tool reportedly used to terminate pregnancies and which recalls the reality of underground abortion – and reportedly walking out on masses after priests read a statement in support of the total prohibition. Public opinion on the matter in Poland is divided: while many Poles morally object to the act of abortion, most of them oppose further restrictions to the current law and believe that the procedure should be allowed in cases such as those currently provided for.

While anti-abortionists insist on the intrinsic value of all human life and the need to protect it as the main reason for the proposed ban, many worry that a total prohibition would put women’s lives and health at greater risk, determining an increase in the number of clandestine procedures, both self-induced and performed illegally by health professionals.

 

Photo by Aedrozda / Pixabay
Photo by Aedrozda / Pixabay

 

Women in Poland have already a hard time accessing abortion when they are legally entitled to do so, having to face the social stigma associated with it and the prohibitive prices of the procedure, but also the ostracism of medical personnel: women have reported that many doctors in fact object to abortion on conscientious grounds, are unwilling to provide correct information to the woman in cases of health risk or foetal abnormality or intentionally extend the timescale of the necessary checks until it is too late to perform the procedure.

Many women feel discouraged and intimidated and choose to avoid these obstacles by travelling abroad to have the procedure carried out, but they incur in large expenses and have to face the risks associated with seeking treatment for eventual complications upon their return to the country (Polish law currently doesn’t punish the woman but medical professionals and eventual helpers may risk up to two years in jail). As it’s often the case in such instances, the complete criminalisation of abortion is likely to end up penalising even more those who do not have the resources to seek alternative solutions, and playing in the hands of those who profit from clandestine procedures.

All these risks are known to the organisations that support the ban – although they contest some of the prohibition’s opponents’ figures – but other than paying lip service tho the idea that provisions should be put in place by the state to support women who are pregnant as a result of violence and families with disabled children, they rarely address the issues raised by the prospect of full criminalisation. Those who favour a complete abortion ban depict it as a measure aimed at protecting human life understood as an intrinsic and universal value, but their partiality is striking when considering how little interest they show in preserving the lives of women who carry unwanted pregnancies, being it from physical and mental health risks or poor life conditions.

One would expect that those who oppose abortion would go to great lengths to ensure that valid alternatives to it are available, and that support measures that would help reduce the numbers of women resorting to the procedure are implemented. The lack of a significant effort in this sense makes attempts to prevent women from terminating unwanted pregnancies look like attacks on women’s rights in favour of the affirmation of ever-stronger anti-democratic and misogynistic power alliances.

More than anything else, Poland’s proposed abortion ban is today symptomatic of the wave of political conservatism that has swept across Europe in the years since the economic crisis, a political shift that is being negotiated on the bodies and lives of women and girls. If approved, a complete prohibition of pregnancy termination in Poland would set a sad precedent for us all, sanctioning the principle that we can see our hard-won rights disappear at the whim of illiberal governments that aim to transform their countries into new bastions of political and religious conservatism.

It may seem superfluous to say that abortion is a fundamental right, but if it needs re-stressing then we need to make clear that #westandwithpolishwomen.

 

Cover picture: View of Warsaw, Poland. Image by Cimedia / Pixabay

Una mezza legge: la 194 e l’aborto in Italia

«Ma chi va a tocca’ ‘sta scentonovantaquattro […] ma stavamo a parla’ de tutto e de gnente. Le cose so’ due: o vietiamo gli aborti […] e ricominciano quelli clandestini, oppure teniamo ‘sta legge. […] Noi vorremmo commissaria’ er corpo de le donne – giusto pe’ quei nove mesi – ma nun c’ho fanno fa’, magari! Ma nun c’ho fanno fa’. Sai che famo? Quello che abbiamo sempre fatto, continuiamo a piazza’ obiettori de coscienza – che a quelli je famo fa cariera e quell’artri no – e avemo risolto er problema».

Corrado Guzzanti interpreta Padre Pizzarro (Recital 2010)

 

Come sempre la satira riesce ad aprire uno squarcio lacerante e un’accusa, neanche troppo velata, sulla realtà delle cose.
Questa settimana parliamo di aborto. Un tema molto delicato, diventato terreno di scontro politico e ideologico negli ultimi decenni, talvolta strumentalizzato per fini puramente elettorali.
Ma queste sono altre vicende. Oggi parliamo di aborto e di una legge che dovrebbe tutelare questo diritto: la 194.
Una norma approvata nel 1978 dal parlamento italiano, che prevede la possibilità di abortire entro i primi 90 giorni dal concepimento, e di cui il popolo italiano ha rifiutato l’abrogazione esprimendo il “no” al referendum indetto nel maggio del 1981.
In Italia, quindi, abortire è un diritto riconosciuto dallo Stato. Ci sono delle strutture che dovrebbero aiutare le donne in tutte le fasi del processo: dal sostegno psicologico all’intervento chirurgico o terapeutico.

Lo scorso 11 aprile l’ANSA batte questa agenzia:
«
Le donne in Italia continuano a incontrare “notevoli difficoltà” nell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza, nonostante quanto previsto dalla legge 194 sull’aborto. L’Italia viola quindi il loro diritto alla salute. Lo ha affermato il Consiglio d’Europa, pronunciandosi su un ricorso presentato dalla Cgil. L’Italia, inoltre, discrimina medici e personale medico che non hanno optato per l’obiezione di coscienza in materia di aborto. In merito il Consiglio d’Europa ha accolto un ricorso della Cgil e sostiene che questi sanitari sono vittime di “diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti”».

Non Una Di Meno, Benevento

Essere accusati di violare il diritto alla salute, cioè di non garantire sufficiente assistenza medica a persone che ne hanno bisogno, è qualcosa di poco edificante per uno stato civile. Tanto più se queste dichiarazioni lasciano intendere che ci sarebbero pazienti trattati in maniera diversa e, per giunta, in una situazione emotivamente straziante, come può essere quella di decidere di abortire.

Ed è per questo che vogliamo approfondire il tema e cercare di capire com’è, nei numeri e nei fatti, la situazione nel nostro Paese.
Partiamo dai numeri:

Secondo una recente inchiesta portata avanti dal programma RAI Presa Diretta, in Italia la media dei medici obiettori di coscienza – ovvero dei medici che decidono di non effettuare interventi di questo genere – è del 70%.
In alcune regioni, come il Molise o la Basilicata, si supera il 90%. Nelle altre regioni la situazione è meno drastica, ma di certo i numeri rimangono impietosi (in Puglia, ad esempio, è obiettore l’82% dei medici). Le uniche due regioni che si attestano al di sotto del 50% sono Sardegna e Valle d’Aosta.
Tirando le somme, in Italia è molto difficile abortire. La legge non viene applicata. O meglio, la legge viene applicata, ma con molta difficoltà, almeno stando a questi numeri.
Ci sono luoghi in cui l’interruzione della gravidanza non viene praticata da nessun medico: è il caso di Ascoli Piceno, dove la percentuale di medici che non applicano la legge è del 100%. Il servizio sanitario garantisce il diritto alle donne di abortire mediante l’associazione privata AIED, che si occupa di tutto l’iter previsto per l’aborto.
Ma perché il tasso di obiettori è così alto?
Le cause delle percentuali riportate devono essere ricercate all’interno del sistema sanitario e nelle condizioni in cui si troverebbero a operare molti medici: la maggior parte di loro, di fatto, subirebbe pressioni e alcuni sarebbero ostacolati nel “fare carriera”. Certo, questi sono dati che non possono essere supportati da prove concrete, se non da alcuni casi di medici non obiettori ai quali, senza apparenti motivi accademici, sarebbe stata negata la possibilità di diventare docenti universitari.
Il Ministero della Salute, in un documento ufficiale emanato alla fine del 2015, ritiene che in Italia non ci sia questo problema ma che, al contrario, il nostro sistema sanitario riesca a coprire tutte le richieste: insomma, non ci sarebbero carenze o intralci di sorta.
Lo stesso documento non dice però che ci sono donne che, per esempio, dalla Sicilia arrivano fino a Roma per poter vedere riconosciuto questo diritto. Né spiega come mai, negli ultimi tempi, sia aumentato il numero di aborti praticati clandestinamente, in appartamenti e scantinati.


A proposito di aborti clandestini, nel nostro Paese le ultime cifre – che risalgono al 2005 – parlano di 12-15 mila casi ogni anno per le donne italiane e tra i 3 e 5 mila per le straniere.
Dati che sconfortano ma che rappresentano l’inevitabile conseguenza di un sistema sanitario che, nel caso di specie, non riesce a garantire questo diritto, nonché l’applicazione di una legge dello Stato.
Le donne che oggi in Italia volessero abortire, in molti casi sarebbero costrette a fare centinaia (quando non migliaia) di chilometri per eludere le liste di attesa e far valere questo loro diritto.
E se è vero che esistono casi di cliniche e reparti di ospedali pubblici virtuosi, è altrettanto vero che, come mostrano le statistiche, sono ancora troppo pochi. L’aborto in Italia è ancora un diritto riconosciuto a metà e la 194, che per molti anni è stato motivo di scontro tra diversi schieramenti – politici e non – rischia di diventare una delle tante leggi che il più delle volte giacciono dormienti tra le pagine del nostro ordinamento giuridico.

 

In copertina: locandina della serata di approfondimento promossa dal Circolo Arci di Calolzio (Lecco) all’interno del percorso formativo del progetto mutualistico AscoltArci.

Mongol Rally: Bergamo – Ulan Bator in Panda

“Non fate il Mongol Rally, diventerete dipendenti dall’avventura e dalla libertà” si legge sul sito del Mongol Rally , il rocambolesco rally di beneficenza che ogni anno spinge centinaia di automobili, con una cilindrata rigorosamente non superiore a 1000, ad attraversare l’Asia per giungere a Ulan Bator, capitale della Mongolia. Un viaggio complicato e affascinante fra paesaggi incredibili e in condizioni estreme,come quello affrontato nel 2012 dai ragazzi bergamaschi del team Bergamatti.

Diego Pagnoncelli, classe 1986, mi confessa di aver nutrito il sogno del viaggio per molti anni, prima di organizzare effettivamente la partenza per Ulan Bator. «Quando finisco l’università si parte!» si era detto, e così è stato. Trovare dei compagni di viaggio non è stato difficile, tanto che il team era composto da cinque persone e due automobili, o meglio, due instancabili Fiat Panda messe a punto per l’impresa dai ragazzi con un budget irrisorio e tanta fantasia. «Ci siamo costruiti lo snorkel, il tubo per prendere l’aria da sopra quando si guadano i torrenti, con un tubo da elettricista e un vaso comprato al negozio dei cinesi» mi racconta divertito Diego.

Dopo un anno di preparazione e ottenuti tutti i visti il team è pronto per partire. Il percorso scelto per raggiungere la meta finale è quello che prevedeva di passare per Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan. Tuttavia gli imprevisti non sono mancati e un paio di giorni prima di arrivare in Tagikistan la squadra è costretta a cambiare itinerario, evitando il Paese a causa di scontri a fuoco sul confine con l’Afghanistan. Nonostante il cambio di programma e gli inevitabili problemi che le non-strade dissestate percorse hanno causato alle impavide Panda, sempre risolti grazie anche alle ingegnose e fantasiose soluzioni dei meccanici locali, Diego e i suoi giungono a destinazione.

Le fotografie che i Bergamatti hanno voluto condividere con Pequod raccontano di tutta questa avventura, estrema, emozionante e divertente, e soprattutto ci guidano fra paesaggi che difficilmente si possono descrivere a parole. «Abbiamo attraversato l’Ucraina, il granaio d’Europa, coi suoi campi coltivati sconfinati, di girasoli e frumento, una cosa incredibile» ci racconta Diego con entusiasmo. Dal verde delle coltivazioni il viaggio ha condotto poi i ragazzi in Uzbekistan, terra calda e desertica, attraversando quello che un tempo era il lago d’Aral e che oggi è completamente asciutto. «È il paesaggio più spettrale che io abbia mai visto: ti rendi proprio conto di essere sul fondo di un mare» mi spiega Diego, raccontandoci delle barche arenate nella sabbia, delle conchiglie e del sale, tanto sale, che caratterizza questo paesaggio.

Dal deserto si passa poi al verde delle valli del Kirghizistan, dove ci sono montagne altissime. «Siamo arrivati a guidare anche a 3800 metri» ricorda Diego. Poi la Mongolia, coi suoi altipiani e le sue valli a ben 1800 metri di altitudine e dove a luglio hanno incontrato la neve. Paesaggi infiniti e senza tempo, percorsi quasi sempre offroad. «Le prime strade asfaltate dopo più di duemila kilometri le abbiamo incontrate a poche centinaia di kilometri da Ulan Bator» mi dice Diego con un filo di nostalgia.

Con un pizzico di invidia e ammirazione, rimane poco da aggiungere a questo racconto, se non le immagini, vero tesoro di questa spedizione estrema.

Ringraziamo di cuore Diego e tutti i Bergamatti per il racconto e per averci concesso le loro fotografie.

Partenza dal Comune di Bergamo

 

Ritrovo delle Panda al Festival of Slow, punto di partenza del Mongol Rally

 

Team BergaMatti davanti alla Statua della Madre Patria a Kiev, Ucraina
Ucraina
Ucraina
Ucraina

 

Uzbekistan
Navi arenate nell’ex lago d’Aral, Uzbekistan
Ichon-Qala (città vecchia) di Khiva, Uzbekistan
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Kirghizistan
Kirghizistan
Kirghizistan
Kirghizistan
Kirghizistan
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
Mongolia
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Ulan Bator, Mongolia

 

Finish Line del Mongol Rally

3,2,1…IGNITION! I razzi-sonda di Skyward Experimental Rocketry

Spingersi oltre l’estremo? Quo neque aquilae audent, risponderebbe uno Skywarder.

Dalla branca più operativa e appassionata del Politecnico di Milano nasce nel 2012 Skyward Experimental Rocketry, associazione attiva in seno al Politecnico, nata con l’ambizioso proposito di realizzare razzi-sonda sperimentali di piccola e media taglia. Un progetto in fieri di notevole complessità che si implementa grazie al lavoro di un team i cui membri provengono dai più disparati settori dell’ingegneria. É proprio il contesto composito l’anima su cui si fonda la buona riuscita del grandioso progetto e ciò che lo rende un’incredibile occasione di crescita per ciascuno dei suoi componenti.

Scopo ultimo quello di lanciare nell’atmosfera un razzo-sonda supersonico bi-stadio, raggiungendo una quota minima di 30.000 metri d’altezza, stabilendo così uno storico primato in ambito studentesco. I sogni nel cassetto sarebbero anche più ambiziosi, ma per ora è meglio procedere per gradi.

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Lancio di Rocksanne I-X

Pequod ha fatto un giro nel centro operativo di Skyward con l’attuale Presidente, Christian Di Lazzaro. Una stimolante chiacchierata ci ha permesso di conoscere più da vicino come questi ragazzi vivono con predilezione ed entusiasmo la missione.

Il Rocksanne Program è suddiviso in tre parti principali, ognuna delle quali propedeutica al buon esito della fase successiva. Il continuo perfezionamento delle tecnologie e l’analisi dei dati recuperati dai lanci precedenti rendono possibile un continuo approfondimento delle conoscenze da parte del team. Attraverso esperimenti scientifici, gallerie del vento, workshops, simulazioni computazionali e molto altro ancora, si arriva ad assemblare un missile sperimentale ad alte prestazioni interamente progettato e costruito dagli studenti. Questo fa del Politecnico l’unica realtà italiana con un progetto organico e strutturato di questo genere.

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L’ogiva di Rocksanne I-X con il paracadute

Dopo lo straordinario successo di Rocksanne I-X, il problema che preme maggiormente risolvere è quello di riuscire a trovare un’area test utile a collaudare i sottosistemi di Rocksanne II- X: « Sulla carta puoi anche costruire il missile perfetto ma poi la realtà è diversa» mi spiega Christian.

Una delle novità di Rocksanne II-X sarà il motore ibrido, per il quale il Presidente ha rivestito il ruolo di Project Manager. Nell’Hybrid Rocket Engine, infatti, l’ossidante liquido e il combustibile solido sono tenuti separati. Tramite la regolazione di una valvola i due elementi possono entrare in contatto, questo permette una migliore affidabilità ed un maggior controllo. Le suggestioni non finiscono qua. Il Cyrano Program mira alla costruzione di un drone che permetterà il lancio del razzo ad alta quota, dove l’aria è più rarefatta, garantendo una massimizzazione del risultato. Rimane molto articolato calcolare però i problemi di portanza del velivolo, cosa che rende ancor più necessaria un’area test al fine di acquisire le nozioni necessarie a mettere a punto il progetto.

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Modello per Cyrano Program

Un assiduo lavoro di ricerca e autoapprendimento in cui occorre tenere in considerazione tanti aspetti diversi: dal motore all’aerodinamica, dai materiali al sistema di recupero, dall’elettronica alla meccanica; i Dipartimenti si coadiuvano vicendevolmente e lavorano in sincronia, l’uno risolvendo le sollecitazioni e le occorrenze dei compagni.

Il panorama dei rockets in Europa è vario e molto animato. A questo si può aggiungere che i colleghi stranieri spesso hanno il beneficio di poter contare su ragguardevoli mezzi finanziari che permettono un più largo spettro di opportunità. Un esempio fra tutti: gli olandesi del DARE. Nel 2015 si sono promosse anche le basi per una competizione interazionale tra le diverse università. Le varie squadre, a tal proposito, sono state impegnate fino a poche settimane fa a determinare, tramite Skype, un complesso e particolareggiato regolamento che si tramuterà in sfida nel 2017.

Non resta che sostenere Skyward e magari fare un giro a trovarli, per sentirci anche noi lassù, dove non osano le aquile.

Aconcagua ’98: una spedizione alla conquista della sentinella di pietra

Partiva il 3 gennaio 1998 la spedizione alpinistica guidata da Marcello Cominetti alla conquista dell’Aconcagua, nella cordigliera andina. Mino Alberti è il nostro protagonista e narratore: nel suo diario ha raccolto le sensazioni provate in quella scalata di 7012 m, intrapresa dal versante nord-ovest, al confine tra Cile e Argentina. L’attenzione per gli orari, il cibo, le ore di sonno e lo stato psicofisico sono gli elementi dominanti del diario, che contribuiscono a rendere l’idea dello sforzo fisico in una spedizione a così alta quota, al di là della volontà personale.

Attraversata la frontiera a Mendoza, «per non farci aprire tutti i borsoni, paghiamo 50 dollari alla dogana e arriviamo a Puente del Inca: si vede l’Aconcagua. Alloggiamo a l’Hosteria dove preparo il materiale da portare e decido cosa resta». Una situazione di tensione in cui Mino si dice entusiasta e al contempo preoccupato: al rifugio arrivano due alpinisti sud coreani con la pelle bruciata dal sole, stremati dalla vetta e terrorizzati dal fatto che da tre giorni non vedono il loro compagno di spedizione.

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Hosteria De Mendoza

Il quarto giorno si parte a piedi, zaino in spalla verso la località Confluencia a 3500 m di quota, con un dislivello di 750 m da affrontare in un solo giorno: il gruppo inizia a sgretolarsi. «Mi viene mal di testa, montiamo le tende e peggiora. Arriva l’ora di cena e provo a mangiare riso con carne e finalmente scompare. La compagnia ritorna compatta e incontriamo un altro italiano che ci racconta di due suoi compagni ricoverati a Mendoza: uno con le dita congelate e l’altro con il viso sfregiato dal vento! Buona notte».

L’obbiettivo successivo è Plaza de Mulas a 4230 m, il campo base: una tappa molto lunga, di circa 28 km, in cui più volte si deve attraversare il Rio Honcomes. Dopo un dislivello di circa 700 m, gli alpinisti montano le tende e riprendono fiato. «Adesso, steso, ricomincia il mal di testa, un incubo. La testa mi scoppia, mi muovo a carponi; mi sforzo e bevo un tè, mangio del pane. Arrivo a fatica alla tenda, riesco a dormire giusto un’ora: sono rinato».

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Paza De Mulas – 4230 m

Dopo un paio di giorni di acclimatamento, si parte per Nido de Condores a 5385 m. «Si sale lentamente e dopo due ore comincio a perdere le forze, dopo dieci passi mi devo sempre fermare. Sono l’ultimo. Arrivo a fatica a Plaza de Canada a 4900m, Renzo mi è venuto incontro e mi ha portato lo zaino. Sistemiamo il materiale e scendiamo al campo: sono distrutto e demoralizzato. Dov’è tutto il mio allenamento? Con grande sforzo vado a lavarmi (bidè tra i ghiacci!) e per tornare alla tenda devo fare una sosta». Nel frattempo arriva al campo la squadra dei soccorsi con il corpo del sud coreano disperso; ci sono i suoi compagni e lo lasciano disteso sulla neve per i rituali tradizionali.

La mattina, nonostante tutto, Mino è di buon umore: si preparano per partire verso Cambio de Pendente, dove han lasciato il materiale il giorno prima. Una volta arrivati vengono distribuiti i carichi e si fa un ultimo sforzo per arrivare a Nido de Condores. C’è tanta neve e tanto vento: occorre rinforzare di più le tende costruendo dei muretti di pietra. C’è entusiasmo anche se si inizia a soffrire l’altitudine. Dal diario di Mino: «Ora ho mal di testa sempre, anche di giorno. La nostra tenda fa anche da cucina: ci ho messo due ore per far bollire dell’acqua per il tè».

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Mino Alberti, secondo da sinistra con gli amici esploratori a Cambio De Pendente – 5300 m

La mattina del decimo giorno si parte per il rifugio Berlin a 5930 m, ultima tappa prima di raggiungere la vetta. «C’è sempre più vento. Avanzo a fatica, non sento più le mani e mi chiedo chi me l’ha fatto fare. Ci sono dei colori stupendi ma scattare qualche foto è impossibile. Vediamo il tratto finale della vetta. Marcello torna verso di noi e ci dice che non è il caso di continuare: c’è troppo vento e siamo a rischio di caduta e di congelamento. Si torna indietro». Smontano a fatica le tende; durante la noiosa e penosa discesa, Mino è affranto, triste e arrabbiato. A Plaza de Mulas ritrova gli amici alpinisti, telefona a casa e finalmente riesce a dormire.

Lavati, sbarbati e curati ripartono per Mendoza e da lì verso casa: «Ogni tanto penso all’Acongagua, la sentinella di pietra: sono tra l’arrabbiato e il soddisfatto».

Storie al limite, letteratura e avventura da Jules Verne a William Gibson

«Ascolta: i tuoi libri sono innocui, mentre li leggi tu diventi Tarzan o Robison Crusoe…»
«Ma è per questo che mi piace leggerli!»
«Già, ma quando hai finito ritorni a essere un bambino.»
«E allora? Non capisco…»
«Senti: sei mai stato il capitano Nemo, intrappolato nel tuo sottomarino, mentre la piovra ti sta attaccando?»
«Sì.»
«E non tremavi all’idea di non farcela?»
«Mmm… È solo un racconto…»
«Esattamente quello che dicevo io: i libri che leggi tu sono innocui.»

Con questo dialogo Wolfgang Petersen nel 1984 dava avvio all’avventura del suo film, ispirato al libro di Michael Ende, La Storia Infinita. Il tremolio nella voce di Bastian, il giovane protagonista, mentre si finge troppo impavido per intimorirsi di fronte ad un racconto, è il primo segnale della smentita di quanto nel dialogo si vorrebbe provare, nonché la tesi che scrittore e regista sostengono attraverso la loro opera: i libri sono tutt’altro che innocui.
Nel film si racconta la difficoltà di entrare nell’età adulta, dal punto di vista di un ragazzino che è diviso tra la propria personalità, caratterizzata da una fantasia sconfinata, e il dettame sociale di dare rilevanza solo a quanto si afferma come realisticamente tangibile. Il protagonista dovrà entrare fisicamente nel mondo di Fantàsia per capire lo stretto legame che lega immaginazione e realtà; emblematizzato nel suo grido: «Darò ascolto ai miei sogni!».

"La Storia Infinita"
“La Storia Infinita”

Bastian è un impavido lettore e un collezionista di romanzi d’avventura: vanta una libreria di 186 volumi dei più disparati autori. Tra i primi citati quelli di Daniel Defoe, che apre un genere letterario che avrà sviluppi impensabili: con le peregrinazioni per mare di Crusoe e le descrizioni di isole ignote, da un lato si inserisce nella tradizione che da Omero al Medioevo veicola, mediante il racconto epico, principi morali e culturali; dall’altro dà voce alla voglia d’esplorazione che caratterizza il XVII secolo. Lo stretto legame tra la sua opera e lo spirito dell’epoca in cui vive è evidente: Defoe e con lui gli autori che si inseriranno nel genere, da Stevenson a Salgari, esprimono i sogni di una società in cui l’uomo si riscopre viaggiatore e avventuriero. Missionari ed esploratori partono alla ricerca di terre lontane, e gli scrittori suggeriscono loro sempre nuove mete.
Alla fine dell’ ‘800 il mondo è ormai discoperto all’uomo occidentale, ma la fantasia dei romanzieri non si è esaurita. È in questi anni che nasce Jules Verne, colui che verrà considerato il padre della fantascienza. Non è un caso che tra le sue prime pubblicazioni ci sia la ricostruzione del viaggio di Cristoforo Colombo; più che la verità descrittiva, all’autore stanno a cuore le potenzialità dell’intelletto umano. Scienza e romanzo sembrano, attraverso l’opera di Verne, procedere di pari passo: dalle scoperte in aerostatica e aeronautica applicate in Cinque settimane in pallone e Il giro del mondo in 80 giorni, alle immersioni subacquee di Ventimila leghe sotto i mari; dalle congetture pseudoscientifiche di Viaggio al centro della Terra ai viaggi spaziali Dalla Terra alla Luna e Attorno alla Luna.

Daniel Defoe e Jules Verne, pionieri della letteratura di viaggio e d'avventura
Daniel Defoe e Jules Verne, dalla letteratura d’avventura alla fantascienza

Il cammino che l’evoluzione sociale e la letteratura d’avventura, realistica prima e poi fantascientifica, hanno intrapreso, vedrà sempre i due fronti procedere in parallelo. Nei primi anni del Novecento, gli scrittori si guardano allo spazio, sulla possibilità aperta dalle novità tecnologiche di esplorare nuovi mondi e conoscere intelligenze aliene; altrettanto affascinanti sono le ricerche verso la formazione di un’intelligenza artificiale: in seno al genere fantascientifico si forma Karel Čapek, padre del termine robot, apparso per la prima volta nel suo Rossumovi univerzální roboti (I robot universali di Rossum) e derivato dalla parola ceca robota, schiavitù.
Negli anni ’60 e ’70 gli hippies cercano la strada per abbattere i muri della comunicazione psichica e Timothy Leary analizza gli effetti degli stupefacenti sintetici; gli scrittori si spostano verso una scrittura surrealista, concentrata su psicologia e visioni psichiche, portavoce dello sdoganamento di tematiche come il sesso, la fede religiosa, il pacifismo. Negli anni ’80, tanto la ricerca scientifico-tecnologica quanto la letteratura fantascientifica si concentrano sulle telecomunicazioni; all’entusiasmo per la rapidità di connessione mondiale, si accompagnano timori e denunce: i futuri distopici di William Gibson ad esempio sollevano paure e diffidenze che si riflettono nelle titubanze di ordine morale all’origine del conflitto tra scienza e società. Un onflitto che si protrae fino ad oggi.

Extreme cities

Easy is not always fun. Sometimes warm weather, nice nature and readily available facilities can feel too ordinary to give us the thrill we need to feel alive. That’s probably why extreme and wild places have recently acquired a whole new charm in the eyes of travellers. We’re not talking gap years in South Asia, nor working in Australian farms for a few months; hitchhiking in the Alps would hardly qualify, and we can all agree that weekend camping is far from extreme. What we mean by “extreme places” is truly unwelcoming territories: cities located in hard-to-reach regions or in areas where day to day life is an actual challenge. Enjoy Pequod’s unpleasant journey through the most extreme cities on Earth.

The northernmost

It comes as no surprise that the northernmost cities in the world are located in countries such as Norway, Greenland, Canada, Russia and Alaska. At 817 kilometres from the North Pole, the Canadian locality of Alert is the farthest north permanently inhabited place in the world. The town has no permanent dwellers but it’s a destination frequented by researchers and scientific personnel all-year-round. Like other places located north of the Arctic Circle, Alert offers in fact a unique opportunity to study climatic and meteorological phenomena.

Alert, Canada
Alert, Canada

Ranked the 10th northernmost city in the world, Dikson is the Russian port situated farthest north. Unlike Alert, the locality has a permanent population which was estimated at 676 inhabitants by the 2010 census. Pupils in Dikson attend the northernmost school in the world and the town has even a hotel. Forget about tourism though, as Dikson is one of the Russian forty-four closed cities (named ZATO in Russian) where access requires specific authorization and is generally forbidden.

Speaking of extreme cities, two other Russian cities must be mentioned: besides being situated extremely north, Norilsk and Nikel hold another extreme record as the most polluted places in the country. The reason for this infelicitous record is their massive industrial activity, almost entirely revolving around nickel smelting. The city of Nikel produces almost 10% of nickel globally and even its name testifies to this activity.

Norilsk, North Siberia, Russian Federation
Norilsk, North Siberia, Russian Federation

The southernmost

From one pole to the other: to find the southernmost cities in the world we need to go to Southern America, namely Argentina and Chile. Two cities claim to be the world’s city farthest south: Ushuaia in Argentina and Puerto Williams in Chile.

Puerto Williams is officially recognised as the southernmost city on Earth and is located on Navarino island, facing the Beagle Channel. Due to its strategic position, the city is an important centre for scientific research linked to Antarctica.

Ushuaia is located on the shores of the Beagle Channel too, all the way down in Tierra del Fuego, Patagonia. The unique combination of sea, mountains, glaciers, lakes and forests makes the end of the world a beautiful place. But before you get too comfortable remember that Antarctica, the coldest place on earth, is just a few days away by boat.

Beagle Channel, Ushuaia, Tierra del Fuego
Beagle Channel, Ushuaia, Tierra del Fuego

The most remote

A place can be considered extreme for the difficulties it takes to reach it, regardless of its latitude. Lack of streets and transport connections along with their significant distance from other inhabited areas have made the following places the most remote in the world.

17,000 feet above sea level, lost in the Peruvian Andes, La Rinconada is the highest city in the world. Reaching this mining shantytown takes days and significant effort, considering the risk of altitude sickness and the treacherous roads that can only be travelled by truck.

La Rinconada, Peru
La Rinconada, Peru

Speaking of remoteness, what comes to mind more readily are islands. In fact, what is considered the most remote inhabited place in the world is an archipelago, Tristan de Cunha, located 2,400 kilometres away from South Africa, which is the closest land to the islands. Discovered in 1506 by a Portuguese explorer, today Tristan is part of the British overseas territory of Saint Helena, Ascension and Tristan de Cunha and its capital is Edinburgh of the Seven Seas. Its population amounts to 267 people, but travel connections are made difficult by the absence of an air strip, courtesy of the islands’ rocky geography. As a consequence, the place can only be reached by occasional cargo vessels or deep sea fishing boats from South Africa. It shouldn’t come as a surprise then that one of the islands of the archipelago is named Inaccessible Island

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Cover picture: Village of Kulusuk, Greenland by Ville Miettinen (CCA 2.0 Wikimedia Commons)

Beata solitudo, sola beatitudo

Eremiti, anacoreti, solitari oppure misantropi… persone che se ne vanno, in parole semplici.

L’idea è affascinante, nella sua semplicità elementare: mollo tutto e vado a vivere da solo con me stesso e starò benissimo. Non salirò più su una metropolitana collassata di gente il lunedì mattina, uscirò finalmente dalla routine lavorativa e dai bilanci mensili, mi ribellerò al meccanismo del “nasci consuma produci crepa”, smetterò di incazzarmi per gli atteggiamenti degli altri e sarò in pace, in una sorta di perenne disintossicazione, come fa l’orso che passa l’intera vita con l’unico, sublime proposito di farsi gli affari suoi nei boschi.

Esistono tuttavia molte persone che operano un taglio radicale e, devo dire, il loro aspetto selvatico e irsuto, come da copione, e i loro visi segnati dal sole, identificano già da subito il loro status di fuggiaschi che non concedono più nulla nemmeno alla meticolosa cura del look che ci sembra tanto indispensabile.

 

La parola eremita deriva dal latino ĕrēmīta, latinizzazione del greco ἐρημίτης (erēmitēs), “del deserto”, perciò “abitante del deserto”, la cui sua storia si perde nella notte dei tempi.

Nella tradizione cristiana, per esempio, la figura dell’eremita assume un severissimo valore spirituale in quanto assolutamente votata a Dio, attraverso la penitenza, la preghiera  e uno stile di vita povero ed essenziale.

Nella Storia di monaci siri, scritta da Teodoreto, vescovo di Cirro nel 425 d.C., possiamo leggere una classificazione quasi antropologica di questi personaggi, distinti in “ipetri” o “reclusi”, ovvero coloro che, estremizzando il tema della casa e del riparo, sceglievano di vivere sempre all’aperto (e con sempre si intende in qualsiasi condizione climatica, al punto da venir completamente sepolti dopo tre giorni di nevicate, come il “grande Giacomo” che venne poi salvato da un provvidenziale “uomo comune” armato di pala), oppure tappati in qualche fetido buco, come il “meraviglioso Zenone” che si calò in una tomba per vivere il resto dei suoi giorni sulla nuda terra.

Alla categoria dei “reclusi” appartenevano anche coloro che decidevano di mortificare il movimento, come gli stiliti che sceglievano di vivere sopra alte colonne per essere più vicini a Dio, oppure gli stazionari, che invece si condannavano a vivere sempre in piedi, magari addirittura legandosi ad una catena di ferro, o gli anacoreti d’epoca medioevale, che si muravano letteralmente in microscopiche stanze affiancate ad una Chiesa e dotate di due feritoie, una per seguire le funzioni e l’altra per ricevere le offerte (minime) necessarie al sostentamento.

Teodoreto infatti ci racconta anche la dieta di questi eremiti: «lattughe, cicorie, prezzemolo e altre erbe siffatte», «quindici fichi secchi» per sette settimane, «ceci e fave bagnate con acqua», «una libbra di pane [300 g ca.] divisa in quattro parti e distribuita in quattro giorni».

Fa un po’ ridere, sapete, leggere di questi  embrioni di monachesimo e credo che la maggioranza dei lettori moderni si divida tra il sorriso e l’incredulità verso certi comportamenti quasi caricaturali, dagli evidenti risvolti psicopatologici,  quasi questi eremiti fossero eternamente impegnati in una sorta di olimpiade della mortificazione.

Fa impressione notare come la disciplina ferocissima di questi masochisti ante litteram, sicuramente ingigantita dall’apologetica, gli imponesse di rivolgere contro se stessi l’intero disappunto di un mondo intero, sopprimendo i bisogni fondamentali dell’uomo, come il sonno, il movimento o la fame per avvicinarsi alla dimensione divina.

Una domanda, tuttavia, sorge spontanea: gli eremiti esistono ancora? Come fanno a vivere unicamente di loro stessi in questo mondo “social”, dove le transumanze polirelazionali sono quasi in un diktat e la digitalizzazione ci permette (o ci impone?) di comunicare in ogni momento ed in ogni luogo?

In una sua indagine il sociologo Isacco Turina, docente a Bologna, ne ha contati circa duecento solo in Italia, uomini e donne, età media cinquantasei anni.

Nel 2007 Sean Penn, nel suo film Into The Wild, ha portato sul grande schermo la storia di Chris McCandless, giovane americano disgustato dal mondo e intossicato dalla letteratura radicale di London, Thoreau e Tolstoj, pronto a raggiungere la desolata tundra inuit per liberarsi «dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo».

Trovò la morte dopo 112 giorni trascorsi dentro un autobus abbandonato nei boschi, a causa di alcune piante velenose di cui si era nutrito e di una certa arrogante presupponenza, annotando un preciso diario d’agonia tra le pagine dei suoi autori preferiti.

Il distacco di Chris fu radicale e totale, esattamente come il tragico epilogo della sua storia, ma attualmente, al mondo, esistono storie di romitaggio molto diverse dalla sua.

Parliamo per esempio di Gisbert Lippelt, ex ufficiale di marina che vive in una grotta nell’isola di Filicudi, nelle Eolie. Non credo che nel suo caso ci sia stata una vocazione mistica o un rifiuto verticale, ma soltanto la solida, tranquilla volontà di vivere una “low cost life” davanti ad un panorama mozzafiato. Gisbert si lava con l’acqua piovana e le foglie e ha un viso bellissimo, conosce gli abitanti ed è diventato un esperto dell’archeologia isolana.

C’è Mario Dumini, che vive in una grotta nelle campagne di Tivoli arredata con mobili recuperati dalla discarica. Si lava nel ruscello e trascorre le giornate in profonda meditazione, nutrendosi unicamente di ciò che la terra decide di donargli. Talvolta, quando la questura glielo permette, si reca a Roma per appendere in giro alcuni cartelli “di protesta” da lui personalmente inventati e scritti.

Sue Woodcock, invece, inglese delusa dal mondo moderno e dalla politica, si è ritirata in una casetta di pietra tra le colline dello Yorkshire, vivendo senza acqua né elettricità tra i suoi amici animali, in completa libertà.

 

Leggendo le varie storie, peraltro magistralmente raccontate dalle immagini di Carlo Bevilacqua nel suo progetto Into the silence, sembrerebbe quasi che queste esperienze di romitaggio moderno siano più spesso motivate da un sereno bisogno di solitudine e distacco da questo “nuovo” mondo roboante e velocissimo, piuttosto che dal misticismo o dalla spiritualità più fervente.

Tuttavia, noi “uomini e donne civilizzati”, consideriamo asociali tutti coloro che, pur garbatamente, rifiutano la modernità tanto faticosamente raggiunta per ritornare alla semplicità delle origini, quasi compiendo, secondo noi, una sorta di involuzione biologica.

Ma non è forse vero che una persona che si allontana da tutto e va a vivere sulla cima di una montagna diventa effettivamente più visibile di tutto l’anonimo marasma umano che popola le nostre rumorose metropoli?

 

 

Fotografie da Into the Silence di Carlo Bevilacqua

La censura: il rogo della parola

La censura è la castrazione del pensiero, l’aborto della documentazione e la condanna all’ignoranza. La censura è questo: creare il vuoto, eliminare le fondamenta.

Quando si parla di censura libraria su vasta scala il pensiero va in primis all’azione della Chiesa cattolica, in particolare con la promulgazione dell’Index librorum prohibitorum nel 1558, L’Indice dei libri proibiti, un elenco di opere interdette alla lettura e/o al possesso. Ebbe diverse versioni e fu soppresso solo nel 1966.

Un’edizione dell’Indice dei Libri Proibiti.

La lenta emancipazione dai vincoli della censura si scontrò col periodo tra la fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, che segnò una svolta in negativo.  L’instaurazione di regimi dittatoriali in Italia e Germania richiese il controllo sistematico dei mass media. Numerose le opere vittime della censura Nazi-fascista: “L’amante di Lady Chatterley” di David Herbert Lawrence, “La mascherata” di Alberto Moravia, Mafarka il futurista” di Filippo Tommaso Marinetti, “Come funziona la dittatura fascista” di Gaetano Salvemini. Tuttavia, la censura libraria continuò anche dopo il ventennio fascista in Italia, Germania ed oltre: è il caso del “Dottor Zivago” di Borìs Pasternàk, Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli. Ma l’elenco potrebbe continuare con titoli celebri come Lolita di Vladimir Nabokov, Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez , Madame Bovary di Gustave Flaubert, Arancia meccanica di Anthony Burgess, Anna Karenina di Lev Tolstoj.
Peggior sorte ebbero le opere vittime dei Bücherverbrennungen, i roghi nazisti messi in atto in tutta la Germania nel 1933, nei quali furono bruciate opere di autori come Albert Einstein, Bertolt Brecht, Charles Darwin, Ernest Hemingway e Thomas Mann. E proprio all’opera di quest’ultimo “La montagna incantata”, Der zauberberg, è dedicata la libreria situata a Berlino in Bundesallee 133, nel quartiere di Friedenau, dove furono clandestinamente salvati e diffusi dal proprietario Gospodin Wolff libri di Remarque, Marcel Proust e testi di altri autori stranieri. Ma a che punto è oggi la censura in Italia e nel mondo? Il rapporto annuale di Reporter senza frontiere colloca l’Italia al 77° posto. Peggio di noi in Europa solo Cipro, Grecia e Bulgaria.

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La libreria segreta Der Zauberberg di Berlino.

Negli Stati Uniti, sin dal 1982, si festeggia la Banned Books Week che ogni anno, a Settembre, pone in rilievo i libri censurati, contestati e bannati dell’anno precedente. Nel 2015 nell’elenco sono rientrati anche ben tre fumetti, tre graphic novel che l’istituzione ha ritenuto non idonee alla lettura di un pubblico di ragazzi giovani. L’inumana attitudine alla distruzione di ogni forma scritta che testimoni una cultura o un pensiero ritenuto pericoloso è una pratica che ritroviamo anche in tempi più recenti: tra il 25 e il 27 agosto del 1992 l’edificio della Biblioteca nazionale e universitaria di Bosnia fu raso al suolo dalle bombe lanciate dalle forze nazionaliste serbe e nel febbraio 2015 l’Isis ha scelto di dare fuoco a 8000 volumi dopo una settimana di “rastrellamenti” nelle scuole e nelle chiese di Dawassa.

Eppure come dice Calvino “possiamo impedire di leggere: ma nel decreto che proibisce la lettura si leggerà pur qualcosa della verità che non vorremmo venisse mai letta…” e ciò che state leggendo è la riprova che la censura muore ad ogni parola scorsa.

 

Qui di seguito le copertine di alcuni libri che hanno subito la censura: quanti di questi hai letto anche tu?

Tra i libri a oggi più censurati, il primo posto spetta a I versi satanici di Salman Rushdie (1988), censurato in India, Bangladesh, Sudan, Sud Africa, Sri Lanka, Egitto, Kenya, Liberia, Pakistan, Qatar, Senegal, Somalia, Thailandia, Indonesia, Kuwait, Malesia, Papua Nuova Guinea, Arabia Saudita, Singapore, Tanzania e Venezuela.

Non meno discussa la figura di George Orwell, di cui La fattoria degli animali (1945) è ancora censurato in Cina, Kenya, Cuba e Emirati Arabi.

Tra i paesi in cui fino a oggi è in vigore un tra i sistemi di censura più rigidi al mondo, il Kuwait ha negli ultimi anni proibito più di 4mila libri, tra cui grandi classici quali I fratelli Karamazov di Dostoevskij (1879), Notre Dame de Paris di Victor Hugo (1831) e Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Márquez (1967).

Non meno drastica, la censura cinese, particolarmente attenta al monitoraggio sui testi scolastici, in cui è rigorosamente vietata ogni forma di promozione della cultura occidentale. Anche sui libri autoctoni, si abbatte spesso la censura; emblematico il caso di Cigni selvatici. Tre figlie dalla Cina di Jung Chang, che pur essendo il saggio più venduto di tutti i tempi, in Cina risulta ancora proibito fin dalla sua pubblicazione nel 1991.

Tra vicino e medio oriente, si incontra una distesa di Stati in cui la censura controlla, in modo più o meno rigido, tutte le pubblicazioni. Particolarmente severo è il governo del Libano, in particolare nei riguardi dei testi a tema religioso o affine: per fare due esempi, Il codice Da Vinci di Dan Brown (2003) è vietato perché irrispettoso dei contenuti biblici; il Diario di Anne Frank (1947) è invece accusato di offrire un ritratto positivo degli ebrei.

Lo Zahir di Paulo Coelho (2005) è invece censurato in Iran, ma senza giustificazioni ufficiali.

Meno drastica ma non meno attiva è la censura di quei governi che si trovano dalla parte opposta del mondo. In Queensland (Australia), ad esempio, non è fino a oggi vendibile American Psycho di Bret Easton Ellis (2001), perché considerato un testo troppo violento.

E anche nei democratici Stati Uniti d’America le pressioni del Governo possono farsi fatali per il destino di libri considerati scomodi; è questo il caso di Operation Dark Heart di Anthony Shaffer (2010), memoriale dei cinque mesi trascorsi in Afghanistan da un ufficiale dell’esercito statunitense, diventato famoso a causa delle azioni molto forti messe in campo dal Dipartimento della Difesa americano per impedire che informazioni riservate fossero rivelate: le prime 10 mila copie stampate furono acquistate e distrutte dal Pentagono.

Alle librerie delle scuole statunitensi sono proibiti testi dai contenuti quantopiù vari; un esempio tra tutti Persepolis di Marjane Satrapi (2009), bandito per il linguaggio offensivo e le opinioni politiche contenute al suo interno.

Singolare il caso di Harry Potter di J.K: Rowling, i cui primi quattro libri sono annoverati tra i romanzi più proibiti in America. Accusati di promuovere la stregoneria e l’occultismo, ed etichettati come «un capolavoro di inganni satanici», i libri sono stati proibiti in vari paesi degli Stati Uniti, anche se molte scuole sono state ferme nel rifiutare le richieste avanzate dai genitori di rimuovere i libri dalle loro biblioteche.

Non si sottraggono alla lista i paesi europei. Il successore di Ismail Kadaré (2003), che con un velato riferimento al politico Enver Hoxha racconta la storia della morte misteriosa dell’erede del dittatore comunista, è ad esempio fino a oggi censurato in Albania.

In Inghilterra, invece, le minacce di azioni legali da parte di Scientology sembrano aver fatto desistere gli editori dalla pubblicazione di La prigione della fede. Scientology a Hollywood di Lawrence Wright (2015), sebbene il libro non sia incorso in alcuna censura ufficiale.

Festival Internacional de Cine de Talca: voler essere liberi di fare cultura

Una delle forme di libertà d’espressione maggiormente d’impatto è senza dubbio quella artistica e culturale. Ma quanto questa è realmente garantita, valorizzata e libera di esprimersi? Ne parliamo con Marco Díaz, 40 anni, produttore artistico, cileno di nascita e formazione. Per molto tempo, Marco ha lavorato a Santiago nel mondo artistico e audiovisuale, ma negli anni ha coltivato un sogno parallelo: importare l’arte e la cultura cinematografica nella sua regione, il Maule. Ed è così che da dodici anni, ogni anno, presenta il Festival del Cinema Internazionale di Talca, che nasce dall’esigenza di «rompere con l’egemonia imposta dal governo centrale, attraverso la creazione di processi, circoli ed eventi culturali ed artistici nelle province».

La grande sfida del Festival è quella di decentralizzare la cultura e aprire nelle regioni «uno spazio di condivisione, riflessione e dibattito sulle realtà cinematografiche emergenti dentro e fuori il nostro Paese». In uno stato altamente centralizzato come il Cile, l’accesso al diritto alla cultura non è sempre garantito o protetto: i grandi eventi artistici e culturali restano a Santiago, e le province si trasformano in isole lontane dai riflettori della capitale.

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Prima giornata di presentazione del Festival

«Dal suo inizio, il festival, ha mostrato alla città e alla regione più di 800 cortometraggi, 400 lungometraggi, documentari, film; abbiamo organizzato  workshop e laboratori audiovisuali, dibattiti ed incontri con cineasti nazionali e internazionali», ci racconta Marco. Il Festival ha aperto una finestra di esibizione, riflessione e dialogo sulla nuova estetica e narrativa del cinema cileno, latino americano e internazionale e, soprattutto, è diventato «un polo di sviluppo del linguaggio audiovisuale regionale, in cui gli artisti locali possono esibire le proprie opere».

Ma le difficoltà d’esprimersi in un linguaggio cinematografico e artistico non sono poche: «sebbene in Cile esista la libertà di espressione culturale,  non è ancora prevista una piattaforma in cui questa libertà possa manifestarsi in maniera egualitaria in tutto il Paese». La mancanza di politiche pubbliche orientate alle attività artistiche e culturali e l’inesistenza di fondi stabili per finanziare eventi di questo tipo, precarizzano ancor di più esperienze come quella di Talca. «Oltre alla difficoltà di trovare ogni anno dei finanziatori, si aggiunge quella di trovare spazi sufficientemente aperti per sviluppare nel migliore dei modi un’attività cinematografica di qualità».

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Proiezioni per le scuole di Talca

Nonostante le difficoltà per organizzare questo tipo di eventi, anche quest’anno il Festival Internacional de Cine de Talca si è realizzato con non pochi sforzi, ma con gran successo:  dal 12 al 16 aprile si sono proiettati più di 40 film, cortometraggi e documentari; per la prima volta si è aperto il programma ai più piccoli, con la partecipazione di diverse scuole della città; le sale di proiezione hanno visto la partecipazione di più di mille persone e il generarsi di dibattiti intensi e interessanti.

Tutto ciò dimostra quanto sia necessario creare spazi culturali alternativi, soprattutto in città in cui la presenza del cinema è per lo più commerciale e poco riflessiva. Produrre cultura dal basso è difficile, ma diventa possibile quando si uniscono le energie, i desideri e l’impegno di chi pensa ancora che la cultura sia sinonimo di sviluppo. L’appello di Marco, come quello di molti suoi colleghi è semplice: sognano uno stato in cui «le diverse entità culturali, pubbliche e private, possano lavorare insieme per promuovere e sviluppare circuiti culturali che permettano agli artisti locali e nazionali di avere uno spazio dove esprimersi e far conoscere la propria arte».

 

 

In copertina, organizzatori e partecipanti nella cerimonia di chiusura.

Fotografie di Caca Bernardes

Le maschere del Duce

«Mussolini crea un grande scenario, dove l’entusiasmo si trasmette attraverso la sapiente energia di una mobilitazione continua che culmina poi con l’apparizione del Duce dal balcone e molti quando vedono apparire Mussolini scrivono, anche i ragazzi nei diari o nei compiti di scuola: “E’ come se apparisse Dio”».

[Emilio Gentile, E fu subito regime, 2012]

«Quando prende a parlare, dagli occhi si sprigionano faville e dalla bocca escono frasi concitate e rotte nella piena della passione e della foga oratoria […] È grande, è bello di quella bellezza che la superiorità dello spirito plasma nei visi degli apostoli e degli eroi».

[Luigi Vicentini, Mussolini veduto all’estero, 1924, Barion editore]

Questi gli sguardi di chi osservava il Duce. Eppure Benito Mussolini era alto 1,67 m per un peso di 70 kg circa.
Com’è possibile una tale discrepanza tra le misure del Duce, non certo colossali, e il modo in cui veniva percepita la sua immagine, la sua fisicità?
Qual è il vero volto di Mussolini?

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Parlare dell’immagine del Duce vuol dire riflettere su come una tale personalità abbia voluto mostrarsi, attraverso volti diversi, per ottenere un ampio consenso. Piuttosto che cercare un’unica sembianza e fisionomia del gerarca fascista, sarà quindi opportuno parlare delle maschere e dei costumi che indossava. Mussolini fa della sua estetica e dei suoi tratti i contorni del fascismo stesso: la mascella serrata, metallica e imponente, il passo deciso e determinato, l’occhio folle e visionario, il petto e le spalle larghi, corazzati, fieri. Il Duce è il primo dei fascisti, il modello cui rifarsi, il corpo-corpus studiato nelle scuole.

A ben vedere, lui non è il soggetto osservato, bensì colui che mette in mostra se stesso perché l’importante è esserci, sempre. Esserci per mostrarsi. Mostrarsi per essere osservati. Essere osservati per essere ammirati, emulati, seguiti.

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Mussolini si mostra innanzitutto membro del popolo che guida, anche attraverso la propria immagine. Con l’obiettivo di radicare il potere della sua dittatura su tutta la nazione, intraprende una serie di viaggi assieme a una troupe fotografica da lui stesso preparata, nelle diverse regioni della penisola, fino a raggiungere i suoi conterranei nelle aree di maggior migrazione.

Ecco allora la figura del giovane maestro di scuola romagnolo emigrato in Svizzera, povero e malmesso, che riesce a salire nella società altoborghese e aristocratica per rompere gli equilibri. Il Duce contadino con le sue quarantaquattro ferite della prima guerra mondiale esibite in parte a busto nudo sotto il sole cocente, che grida promettendo il pane al popolo. Il Mussolini sportivo e praticante delle piste da sci, sprezzante delle basse temperature. Vicino ai minatori piemontesi nella visita alle cave di Cogne nel Maggio del 1939, con un’insolita veste, che sembra calzare con disagio e inadeguatezza. Ma anche, una figura bohèmien che passeggia sul lungomare di Osta nel 1928 o un aitante borghese che con sguardo sfrontato esprime tutto l’arrogante spirito del “me ne frego” fascista.

Anche nel rapportarsi ai popoli dell’Africa imperale, Mussolini volle dimostrare di saper parlare il medesimo linguaggio culturale, indossando abiti folkloristici e integrando i costumi fascisti alle culture delle colonie.

 

 

Mussolini non è solo la voce della borghesia e le braccia del popolo; era osservato anche da occhi stranieri. Nel 1932 il giornalista americano Lowell Thomas realizzò il film Mussolini speaks per la Columbia e definì il Duce “il moderno Cesare”, apprezzando l’iconografia che era riuscito a realizzare.

Un uomo che è diventato immagine, tanto attraverso l’espressività facciale quanto attraverso l’abbigliamento, facendo della sua figura strumento di divulgazione e comunicazione verso ognuno, plasmandosi secondo l’appartenenza di ceto, della nazionalità, della cultura dei suoi interlocutori.

Un uomo divenuto emblema, mascherato da personaggio e finito vittima di quest’ultimo.

Quasi per un’amara legge del contrappasso alla fine la maschera è stata distrutta brutalmente da una morte violenta; l’immagine si è capovolta e il volto chiaro, netto che non lasciava spazio al dubbio e all’incertezza ha ceduto il passo alla carneficina e al misterioso senso di una vendetta, di una morte che ha fatto tacere ogni personaggio, ogni costume, ogni volto di Benito Mussolini.

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In copertina: Busto di Mussolini di Adolfo Wildt, copia di quello posto a ornamento della Casa del Fascio di Milano e distrutto a picconate nel 1945; Profilo Continuo di Renato Bertelli, creato la prima volta nel 1933 e poi riprodotto per sedi del Partito Nazionale Fascista, Gruppi Regionali, Case del Fascio e abitazioni private; Dux di Thayaht (Ernesto Michahelles), donato nel 1929 dall’artista a Mussolini.

L’eco del canto dei griots tra letteratura e storia

Quando “l’uomo bianco” si ferma a pensare all’impatto che ha avuto il nostro passato sul continente africano, l’accento è sempre posto sulle astronomiche cifre delle vittime uccise e schiavizzate, sulle conseguenze socio-economiche, sull’impatto ambientale dell’industrializzazione forzata. Ma quanto ha influito sul continente africano l’invasione europea da un punto di vista culturale?

Per avere un’idea quanto più approssimativa di quanto possa aver perso il continente nero da quest’incontro, basta entrare in molte biblioteche europee e osservarne l’organizzazione: la letteratura europea è suddivisa per nazione d’appartenenza; una suddivisione appena accennata si ha per la letteratura americana e latinoamericana, mentre spesso non esiste una sezione africana. La letteratura continua a caratterizzarsi per un fortissimo eurocentrismo: i testi degli scrittori africani sono catalogati in riferimento alla lingua in cui sono scritti, quindi disposti nei settori destinati ai paesi colonizzatori, anche a costo di smembrare collane che vogliono ricostruire una storia della letteratura africana.

La perdita che si ha da una disposizione così disomogenea, che non tiene minimamente conto dell’evidente cesura che caratterizza la storia dell’Africa, è altissima e reitera gli errori commessi dai colonizzatori, quando approdati nel continente hanno considerato gli indigeni come uomini privi di qualsiasi forma culturale.

Griot della costa africana occidentale
Griot della costa africana occidentale

Da un lato, infatti, abbiamo una letteratura postcoloniale che, sebbene spesso sia letteratura di migrazione e dunque a pieno titolo inserita nel paese verso cui muove denuncia (numerosi gli esempi di letteratura franco-nordafricana), più spesso tratta di realtà pienamente africane (un esempio è il realista Ousmane Sembène, che descrive la lotta sindacalista senegalese). Dall’altro lato, numerosi scrittori africani si sono applicati in un’impresa significativa per la storia mondiale: il recupero della tradizione orale, persa a causa dell’invasione europea.

In tutta l’Africa Sub sahariana, fino al XVI secolo ogni forma di conoscenza era tramandata oralmente e, a dispetto di quanto pensarono i colonizzatori, grande rilevanza era data alla memoria storica. Il compito di conservare i preziosi moniti tramandati era affidato a una figura precisa: il griot, in tutto assimilabile all’aedo greco, aveva il compito tanto di memorizzare la costituzione dei regni, quanto di fare da precettore ai giovani aristocratici. I griots, che un tempo conservavano princìpi, tradizioni e costumi, vivono in Africa ancora oggi: molti di loro hanno modernizzato la loro arte, ora sono musicisti o ballerini; altri, nascosti nei villaggi dell’entroterra, continuano a raccontare la storia in melodie.

Djibril Tamsir Niane fornisce un modello perfetto dell’approccio moderno; nato in Guinea nel 1932, docente di storia africana, ha ascoltato i racconti di griots sparsi nel suo paese natale per ricostruire una parte di storia del continente africano. Accanto a manuali di storia, tra le sue pubblicazioni si trova un testo dalla forza espressiva tipica della tradizione orale: Sundiata, l’epopea mandinga.

Gli scrittori Ousmane Sembène (1923-2007) e Tjibril Tamsir Niane (1932)
Gli scrittori Ousmane Sembène (1923-2007) e Tjibril Tamsir Niane (1932)

Il racconto ha un carattere fortemente mitologico, con esagerazioni e imprese leggendarie, ma al contempo costringe alla consapevolezza di un suo ancoramento a una veridicità storica: continui i rimandi alla figura di Carlo Magno, la cui impresa è confrontata a quella di Sundiata, l’eroe che unificherà le terre abitate dal popolo Mandingo.

L’autore stesso, nell’introduzione, ci avverte di quanto nella cultura africana la realtà sia un concetto distante da quello del mondo occidentale, spesso inestricabilmente intrecciata al mito, spesso celata a orecchie profane. Significativo è il giuramento dei griots di tramandare solo ciò che la corporazione richiede, perché «ogni vera scienza deve essere un segreto».

‘Samizdat’, or book smuggling beyond the Iron Curtain

Once upon a time there were book dealers and people risked conviction for their readings.

Imagine the United States during the Twenties – Prohibition, Al Capone and contraband of alcoholic beverages – but what is being passed under the counter here are books, not moonshine. We’ve drafted a list of interesting facts about the practice of book smuggling in the Soviet Union, which used to be particularly common in Czechoslovakia and Russia.

1. Fighting censorship

'Svobodnaya Mysl' (Free Thought), socio-political magazine, 12.20.1971 (yandex.ru)
‘Svobodnaya Mysl’ (Free Thought), socio-political magazine, 12.20.1971 (yandex.ru)

The Russian word samizdat means “self-publishing” and was coined by the Soviet poet Nikolaj Glazkov in the Forties. It refers to a form of dissident activity of underground publications across the Soviet bloc: back in the days Soviet censorship was in fact a real drag and people turned to samizdat to produce, spread and exchange censored literature.

2. Trust your friends

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Soviet dissidents’ dinner (yandex.ru)

Samizdat texts were passed around among trusted friends. Carefulness was a necessity, as the punishment for this underground activity wasn’t exactly soft – if caught, the luckiest would serve some time in jail, but the risk of ending up in a creepy psychiatric hospital in the middle of nowhere was tangible too. Nevertheless, and despite the authorities being aware of it, between the end of World War II and the Eighties the phenomenon kept growing. In 1970 Yuri Andropov, Chairman of KGB from 1967 to 1982 and later General Secretary of CPSU, expressed his concern as he reported the existence of more than 400 clandestine publications.

3. Samizdat Hall of Fame

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“Master i Margarita” – first printed edition (yandex.ru)

If you thought that samizdat publications were only anti-regime texts devoid of literary relevance, you couldn’t be more wrong. Few would guess that part of Mikhail Bulgakov’s masterpiece The Master and Margarita was published as samizdat. Conscious that the novel represented what was probably the strongest satire of the Soviet Union ever to be written, the author himself had to censor more than 10% of it prior to publication. As a result, the “clean” version was published in the magazine Moskva between 1966 and 1967, while the omitted and amended parts were printed secretly and distributed by hand.

But Bulgakov isn’t the only notable writer to have been involved in Soviet book contraband: literary works by Nobel Prize Iosif Brodsky, Aleksandr Solženicyn and Milan Kundera, to name but a few, were also published as samizdat.

4. Samizdat propaganda

384786Literature wasn’t, of course, the only genre transmitted via samizdat. Political essays and any written material that could be seen as propaganda against Soviet power followed the same underground path as dissident literature. Václav Havel’s essay The Power of the Powerless became a manifesto for dissent in Czechoslovakia, Poland and other countries ruled by communist regimes, becoming a notable case of samizdat.

5. Samizdat design

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Underground texts used to be reproduced in a number of different ways and through different techniques. Many smugglers used carbon paper at this end, either writing by hand or on a typewriter. To make the job faster people would use office printers during night-shifts, when supervision over employees was more relaxed, to produce large quantities of their contraband materials. Some groups were so well organized that they owned semiprofessional printing presses and were able to print actual books.

6. From samizdat to tamizdat

(zhivagostorm.org)
(zhivagostorm.org)

Sometimes the publishing and passing around of samizdat materials were too risky even for the bravest smugglers, which explains why some books could only be published abroad. This practice is usually referred to as tamizdat (tam means “there” in Russian) and its most notorious case is Boris Pasternak’s Doctor Zhivago. Labelled “a malicious libel of the USSR” by Foreign Minister Dmitry Shepilov, the book was denied publishing in the USSR and eventually saw the light of day in Italy thanks to the Italian communist publisher Giangiacomo Feltrinelli.

Cover photo: Russian samizdat and photo negatives of unofficial literature in the USSR by Nkrita (CCA-SA 4.0 Wikimedia Commons)

L’Iran non è un paese per liberi pensatori

L’Iran non è paese per liberi pensatori. Secondo il recente rapporto di Reporters Sans Frontières, l’Iran si colloca oggi al 169 posto su 180 paesi per quanto riguarda la libertà di espressione. Giornalisti, reporters, blogger sono costantemente posti sotto il controllo vigile dell’autorità che va a colpire con la massima crudeltà ogni comportamento “criminale”, comprese le critiche pubblicate su un blog oppure il fedele report di una manifestazione. Sono state più di 1000 le condanne a morte eseguite nel 2015 e frustate, arresti arbitrari, violazioni sono ancora all’ordine del giorno.

Il secondo paese per utilizzo della pena capitale e con un numero elevato di giornalisti nelle carceri, l’Iran è terra di contraddizioni interconnesse, di cultura e repressione, di vitalità e censura. Sebbene il paese sia retto dal moderato Rouhani e nelle recenti elezioni di marzo il suo partito abbia visto crescere la sua delegazione all’interno del Majlis, il parlamento della Repubblica, non è migliorata in maniera sensibile la vita della stampa. Quattro giornalisti iraniani – Afarin Chitsaz, Ehsan Mazandarani, Saman Safarzai e Davud Asadi – sono stati ritenuti colpevoli, per esempio, di atti contro la sicurezza nazionale da una corte del paese e condannati a pene comprese tra i cinque e i dieci anni di prigionia. Oggi sono decine i prigionieri di coscienza trattenuti principalmente nel terribile carcere di Evin, a Teheran, per reati definiti in maniera particolarmente vaga e generica afferibili al semplice esprimere ad alta voce o pubblicamente una propria idea. Amnesty International, da sempre sensibile a questi temi, ha svolto un’indagine sullo stato delle carceri: oltre al sovraffollamento, sono molte le denunce riguardo l’insufficienza di cibo, la scarsità igienica e il ricorso a varie forme di violenza fisica e psicologica.

Keywan Karimi
corriere.it

Il più recente report di Ahmed Shaheed, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la situazione dei diritti umani in Iran, sostiene che ci sono 53 persone oggi nelle carceri iraniane per accuse legate alla libertà di espressione. Tra di essi, almeno 17 sono giornalisti tra cui Atena Farghadani e Issa Saharkhiz. La Farghadani è un’artista e attivista, in carcere dall’agosto 2014. In una recente lettera, la donna ha denunciato di aver subito un test della verginità, definito da Amnesty International come tortura e da Human Rights Watch come una forma di violenza sessuale. Keywan Karimi è un regista curdo iraniano ed è stato condannato a trascorrere un anno di carcere, a subire 223 frustate e a pagare una multa di 20 milioni di rial, circa 600 Euro. Il cineasta è stato accusato di “aver offeso le istituzioni sacre dell’Iran” nei suoi film; l’accusa fa riferimento al lavoro Scrivere sulla città, un docufilm inedito che racconta i graffiti sui muri di Teheran dalla rivoluzione del 1979 sino alla rielezione di Ahmadinejad nel 2009. Mohsen Renani, invece, è un docente dell’Università di Isfahan. Qualche anno fa ha aperto un blog nel quale pubblica opinioni ed analisi legate al suo campo di studi: l’economia. Dal 10 febbraio scorso il blog è offline, senza nessun motivo esplicito, ragion per cui è facile immaginare che alcune delle sue critiche alla politica economica iraniana non siano piaciute. Jasmine Mirage è una blogger e poetessa di Isfahan, innamorata dell’Italia, ha imparato da sola la lingua e dai suoi account Facebook – Jasmin Efte e Alba Persiana – racconta le bellezze e le contraddizioni del suo paese. Da mesi sto cercando di intervistarla, peccato che il suo profilo venga ciclicamente bloccato dalle autorità, almeno una volta ogni due settimane circa, soprattutto in concomitanza con appuntamenti elettorali e di mobilitazione sociale. In un dialogo, interrotto a causa dell’oscuramento del profilo, con Giuliana Campisi, Jasmin spiega così il suo attivismo: “Vivendo in un paese come il mio, impari che ciò che conta veramente è la qualità della tua vita e non la quantità. Che senso ha vivere in una gabbia dorata tutta la vita quando puoi camminare – scalzo – ma libero?”

Proprio la necessità di affermare e conquistarsi uno spazio di libertà ha portato il regista Ahmad Jalali Farahani a costruire e realizzare il documentario We are journalists, presentato in Italia nella rassegna itinerante Mondovisioni (Internazionale + CineAgenzia). Il percorso del regista parte nel 2006 quando il giornale filo-governativo Tehran emrooz fu chiuso da Ahmadinejad: Farahani intuì la portata storica di ciò che stava succedendo. Ripresa dopo ripresa, intervista dopo intervista, il giornalista dà voce a colleghi, attivisti, oppositori politici. Filma le manifestazioni, le riunioni, la vita delle redazioni per realizzare un quadro accurato dei rischi che si corre, quotidianamente, per poter realizzare il proprio lavoro. Arrestato più volte, oggi Farahani vive in Danimarca dove è al sicuro dalle minacce di morte ricevute dopo la proiezione di alcuni suoi film. La situazione di Farahani non è unica, il documentario presenta infatti tante altre storie di colleghi fuggiti dal Paese e per i quali la possibilità di un ritorno a casa è vista come la più lontana delle realtà possibili. Attivisti per i diritti umani ed osservatori indipendenti hanno notato come l’apertura dell’Iran verso gli Stati Uniti e l’Europa potrebbe aprire una finestra di opportunità affinché le autorità della Repubblica Islamica riducano le violazioni dei diritti umani sul proprio territorio; lo stesso Rouhani ha ripetutamente dichiarato che ci vorrebbe più libertà su internet per giornalisti e blogger. I numeri, per ora, smentiscono le intenzioni, ci vorrà ancora del tempo per scoprire se non saranno soltanto promesse, nel frattempo nel carcere di Evin decine di prigionieri di coscienza soffrono e i giornalisti lottano tutti i giorni per poter fare il proprio lavoro: raccontare la realtà.

Articolo di Angela Caporale

The Bottom Up – Rivista

 

In copertina, fotografia di Jasmine Mirage