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Mese: Settembre 2016

Muoversi oggi nel mondo del lavoro: tra voucher, stage e contratti atipici

Orientarsi nel mondo del lavoro di oggi, regolato da contratti atipici e di formazione, è una sfida che impegna non pochi sforzi: un vero e proprio viaggio alla ricerca di informazioni circa diritti e spettanze del lavoratore. Contratti di lavoro interinale, di apprendistato, formativi sono stati introdotti allo scopo di combattere le forme di lavoro irregolare che abbondano nel nostro Paese. L’intento era di ridurre la realtà del cosiddetto free riding: l’usufrutto di beni pubblici, senza che si abbia pagato per il loro utilizzo. Il fenomeno è diffuso e complesso e, come tale, lo è anche il disegno di governance della politica di emersione, che implica una particolare visione d’inclusione sociale, non intesa come semplice assistenza a imprese e lavoratori, ma come un’occasione di partecipazione in termini occupazionali.

Purtroppo, anche se le intenzioni sono buone, non sempre i risultati sono positivi: smisurata complessità legislativa e eccessiva precarietà del lavoro. Alla precarietà corrisponde una continua rioccupazione in lavori nuovi, il passaggio tra vari settori lavorativi e, di contro, una certa paura nel lasciare una condizione di occupazione stabile. Il viaggio del lavoratore italiano è perciò colmo di svolte e imprevisti, ma è spesso svuotato di sogni e aspirazioni.

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Negli ultimi mesi anch’io mi sono gettata nel marasma burocratico creato dalle leggi che regolano i rapporti di lavoro: provo a dare una svolta alla mia vita, vagliando la possibilità di conciliare il mio lavoro part-time con un’attività che metta a frutto la mia laurea nel cassetto. Prima tappa del mio tour è l’accessibile e vicina rete informatica, che abbonda sia di fonti ufficiali sia di esperienze informali. Purtroppo la prima reazione alle testimonianze condivise sul web è di totale sconforto: numerosissimi i precari non più giovani che esibiscono curriculum di svariate pagine, ricoperte di elenchi di contratti a tempo determinato. Non di maggiore aiuto sono i siti legislativi ufficiali: le leggi che disciplinano i rapporti di lavoro e di formazione variano con molta frequenza e in alcuni casi sono differenti tra regione e regione. Un caso eclatante è la disciplina che regola il compenso degli stagisti: dal 2013, per i tirocini extra-curriculari, ovvero quelli formativi, di inserimento o reinserimento, per disoccupati, neo-laureati e disabili, esiste l’obbligo di riconoscere allo stagista un rimborso spese. Tuttavia ogni Regione ha recepito la normativa a suo modo ed esistono differenze oscillanti tra i 200 e i 300 euro.

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Un comparto a sé è rappresentato da tutte quelle prestazioni pagate sotto forma di voucher. Il pagamento in voucher, detto anche buono lavoro, rappresenta la remunerazione per una particolare modalità di prestazione lavorativa definita accessoria: non è riconducibile a contratti di lavoro in quanto svolta in modo saltuario. Questa formula è quella che più specificatamente è nata con l’intento di regolamentare e tutelare situazioni non disciplinate: contratti di prestazione occasionale, in molti casi stipulati in seno alle famiglie, tanto come assistenza di minori e anziani quanto nel ramo del turismo. Il valore netto di un voucher da 10 euro nominali, in favore del lavoratore, è di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione. Il voucher garantisce la copertura previdenziale presso l’INPS e quella assicurativa presso l’INAIL.

Durante la mia ricerca mi imbatto di rado in offerte di lavoro che specificano che la modalità di pagamento sarà in buoni lavoro. Tuttavia la situazione italiana rivela come, nella realtà, i buoni lavoro siano notevolmente diffusi e utilizzati come sostitutivo per contratti di lavoro a tempo determinato, soprattutto dopo la riforma del lavoro del 2012, che ha esteso il loro utilizzo a tutti i settori lavorativi. Nella mia condizione di lavoratrice part-time il buono lavoro sarebbe una buona alternativa: potrei conciliare un contratto indeterminato al pagamento in voucher, a patto di non superare una certa soglia di guadagno annuale, che cambia a seconda del settore.

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A stuzzicare la mia curiosità è nel frattempo un link che rimanda a uno stage. Provo a vagliare anche questa possibilità, aprendo pagine su pagine di proposte lavorative per neo-laureati, presentate in toni clamorosi da pubblicità e ricche più di requisiti richiesti che di informazioni sull’impiego. Contatto qualche numero disponibile; in risposta ottengo valanghe di domande: «Età? Famiglia? Esperienze? Hai già intrapreso uno stage? Un apprendistato? Hai superato la soglia di remunerazione in prestazioni occasionali?».

Tra una chiamata e l’altra, scovo un paio di stage che sembrano in linea con quello che cerco, ma in effetti i miei sforzi telefonici per avere un’idea chiara dei contratti che mi sono proposti non producono frutti. Il telefono è ancora nelle mie mani, penso allora di comporre il numero di qualche ufficio preposto a fornire informazioni sull’argomento. Lunga la lista: centri per l’impiego, sindacati, assessorati alle politiche giovanili, sportelli informa-lavoro. A domande specifiche circa la possibilità di portare avanti, in parallelo, un lavoro part-time e uno stage formativo le risposte sono discordanti e insicure: il buonsenso dell’operatore, circa la necessità di avere un altro reddito per compensare la retribuzione dello stage, si scontra con la legge che, di fatto, non permettere di avviare uno stage se si ha già un contratto a tempo indeterminato.

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Chiudo la ricerca e rimetto la mia laurea nel cassetto, in attesa di nuove norme che mi permettano di sfruttarla. Gli ultimi anni hanno visto infatti la comparsa di numerosissime nuove tipologie retributive, volte a regolare prestazioni di lavoro solitamente remunerate tramite pagamenti “a nero”; è un segnale positivo sia dell’impegno di una parte della politica, sia di una rinnovata coscienza comune che condanna i rapporti di lavoro che mancano di regolamentazione fiscale. Purtroppo i buoni propositi e il cambiamento culturale in atto sono messi a dura prova: dalle difficoltà che si incontrano nel districarsi tra la regolamentazione dei contratti atipici e dall’impressione che l’ago della bilancia punti solo in direzione delle aziende, che risparmiano considerevolmente sul costo del lavoro. Non da ultimo, per poter fare uno stage e riuscire a mantenermi, sarei costretta ad accettare lavori non regolamentati da un contratto, vista la poca remunerazione dei primi, e l’abbondanza dei secondi. Non resta che la speranza nelle proprie capacità, a spingere i lavoratori italiani a rimettersi in viaggio.

Stage, ingegneri e “letterati” a confronto: la formazione fa la differenza

Due mondi paralleli?

Giorgio ha 22 anni e una grande passione per auto e motori, perciò studia Ingegneria meccanica. Quello stesso trasporto Laura, 27 anni, lo provava per i libri e «tutto ciò che è complesso e bello», così ha conseguito una laurea magistrale binazionale in Filologia moderna.

Sara ha appena concluso all’estero i suoi studi di Ingegneria tessile, un percorso tanto settoriale quanto affascinante; Alessandra si è laureata da due anni e sfrutta le sue competenze letterarie nel campo del giornalismo.

Raccontate così, le storie di Giorgio, Laura, Sara e Alessandra non sembrano tanto diverse tra loro, se non per la scelta della Facoltà, che fa la differenza nel mondo del lavoro (e che differenza!): il rapporto 2016 del Consorzio Interuniversitario sulla condizione occupazionale dei laureati ci ricorda che tra chi ha seguito Ingegneria gli assunti sono il 65%, mentre i laureati in ambito letterario spiccano per una disoccupazione pari al 30% nonostante i continui corsi di formazione.

Il mercato del lavoro, si sa, segue le leggi del profitto e il nostro è uno dei pochi Paesi in cui è ancora diffusissimo il pensiero secondo cui “la cultura (almeno quella umanistica) non dà da mangiare”. Ma questa dicotomia tra ingegneri e umanisti sembra appianarsi un poco nel limbo che tutti (o quasi) accoglie, quello dello stage.

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Dal rapporto 2016 del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea.

Great expectations

Laura mi parla di amici iscritti ad Ingegneria che hanno svolto stage gratificanti con ottime possibilità di assunzione. L’esperienza di Sara, in effetti, non la smentisce: nei suoi tre stage curricolari presso aziende tessili si è occupata di marketing e analisi di processo, proprio come desiderava. «Sono pienamente soddisfatta dell’esperienza acquisita, è un ottimo modo per applicare le conoscenze in modo concreto e per approcciarsi alla realtà aziendale».

Sara è stata affiancata durante tutto il periodo delle attività, sviluppando progetti molto interessanti. Così è stato anche per Alessandra, che al terzo anno di Lettere ha scoperto il lavoro dell’ufficio stampa in una grande casa editrice: «Mi occupavo autonomamente della rassegna stampa mattutina: se non finivo io, nessuno poteva iniziare a lavorare in ufficio. Mi piaceva molto perché sentivo di contribuire all’ingranaggio editoriale e tutti erano pronti ad aiutarmi».

Per la tesi magistrale, Giorgio sta pensando a un progetto accompagnato da stage in azienda. «Avrei solo un contributo spese, ma essendo un progetto per la tesi non mi lamento. Semmai, non trovo corretto lo stesso contributo spese per stage di 6-7 mesi, in cui alcuni miei colleghi sono partecipi dell’attività dell’azienda 8 ore al giorno per 5 giorni a settimana…». E così, tanti vanno all’estero oppure stanno a casa «cercando un’offerta migliore dei “300 euro al mese più mensa aziendale”».

Insomma, non per tutti finisce bene, e non solo tra i “letterati”. «Io sono stata fortunata», ammette Sara.

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diversamenteoccupati.it

Il ruolo dell’università

Abbiamo già parlato degli scarsi investimenti degli atenei italiani per la formazione dei suoi studenti, che in merito agli stage deludono una volta di più non tanto perché non assicurano la certezza di rimborsi spese adeguati, ma perché spesso non forniscono opportunità adeguate ai loro desideri e alle loro esigenze. Come dire, la formazione è importante, ma “si può dare di più”. E questa è una percezione trasversale, anche tra chi segue studi così differenti.

«Anche per gli ingegneri ci sono stage sfruttati dall’azienda per ottenere le prestazioni desiderate a minor prezzo e senza vincoli. Vecchio e sempre attuale discorso», osserva Sara. Alessandra parla per esperienza diretta: «Nei tre mesi di stage ho ricevuto solo 3 crediti formativi, nessun rimborso spese. Per lo stesso periodo hanno cercato due stagiste con le stesse funzioni: a che scopo? Allora, penso, lo stage era solo una formalità per coprire dei “buchi”».

Per Laura l’iter è stato più macchinoso. Voleva lavorare nell’editoria, ma già al primo stage curricolare ha dovuto adeguarsi. «Dopo molte ricerche e nessuna collaborazione da parte dell’Università (la stessa “casa editrice universitaria” non ha voluto accettare stagisti), ho accettato la proposta della conservatrice di Italianistica che mi conosceva». Una collaborazione con l’archivio dell’università di Grenoble è cosa prestigiosa, ma non era quello che desiderava. «Nessuno dei miei colleghi ha svolto attività adeguate alle proprie aspettative e scelto stage meno formativi ma più accessibili, in librerie o simili. In ogni caso tutti gli stage sono stati individuati dagli studenti, non dall’Università, che si limita a certificare i tre crediti più o meno per qualsiasi cosa».

La stessa storia si ripete quando, neolaureata, sceglie di svolgere uno stage postlaurea come insegnante di italiano e francese a Meru, in Kenya: Laura trova lo stage, convince segretarie e infine riesce a certificare la sua esperienza. «Il progetto prevedeva una relazione finale ma, ovviamente, l’Università non se ne è mai interessata».

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Stage: una formalità o una questione di qualità

Giorgio è il più giovane tra le persone che ho intervistato, ma ha le idee chiare su cosa potrebbe aiutare il nostro Paese a sciogliere il binomio stage-precarietà: «Posso capire che i neolaureati non sappiano fare in pratica ciò che nel mondo del lavoro si richiede. Gli studi accademici offrono poche occasioni di fare lavori pratici, per quanto riguarda Ingegneria. Io aggiungerei dei crediti formativi di laboratorio per iniziare a prendere confidenza con le attrezzature tecniche. Ma è importante dare un incentivo all’impegno e una motivazione ai fini di assunzione».

Le sue osservazioni non si discostano così tanto da quelle di Laura, che oggi è un’insegnante. «Gli stage sono esperienze utilissime perché quando si esce dall’ambiente universitario si è davvero inesperti. Credo sia giusto inserirle già all’interno della formazione scolastica e che debbano accompagnare i giovani fino ai sei mesi dopo la laurea. Dopodiché, l’attività non si chiama più “stage” ma “lavoro”, e dovrebbe essere retribuita dignitosamente».

Una preoccupazione diffusa tra studenti ed ex studenti, siano essi ingegneri o “letterati”, è che la definizione di stage si allarghi fino a comprendere attività di qualsiasi tipo, a patto che siano poco retribuite e si rimbalzino giovani sempre più qualificati ma sempre più precari. «È un dato di fatto – constata Laura – Il punto è: come risolvere? Siamo in ritardo per questo “appuntamento” con i nostri diritti?».

In copertna ph. Cade Martin, Dawn Arlotta, USCDCP (CC0 by Pixnio).

Memorie di stagisti: la generazione del “fa curriculum”

Tirocini di formazione, stage finalizzati all’inserimento in azienda, internship non retribuiti in istituzioni prestigiose… la generazione choosy ha senz’altro l’imbarazzo della scelta per impiegare il proprio tempo dopo la laurea. Certo, di guadagnare qualcosa non se ne parla, ma si sa che ormai l’imperativo categorico che guida le scelte dei neolaureati, così come quelle di chi l’università l’ha finita da un pezzo, è quello del “fa curriculum”. Lavori dodici ore al giorno in un ufficio dove ti trattano come l’ultimo dei falliti, ti riempiono di faccende da sbrigare, per lo più rognose, senza la premura di spiegarti come fare? Non importa, sopporta, perché tutto fa curriculum! Gli sforzi e le vessazioni subite saranno ripagate durante i futuri colloqui, quando l’impiegato delle Risorse Umane, impressionato dalla serie di esperienze formative collezionate, ti proporrà un nuovo tirocinio di sei mesi. Ormai la tua vita funziona a semestri e il tuo conto corrente a rimborsi spesa, se sei fortunato.

Certo, generalizzare è sempre sbagliato, ed è giusto precisare che esistono realtà virtuose in cui fare uno stage rappresenta un’opportunità per imparare una professione e trovare un vero posto di lavoro. Ma si tratta purtroppo di pochi casi, anzi pochissimi. È bene sapere che in Italia solo uno stagista su dieci viene assunto dopo lo stage, mentre negli altri nove casi si tratta dei cosiddetti stage rolling, quelli cioè che non sono volti all’assunzione ma per cui lo stagista si rinnova ogni sei mesi, secondo il noto proverbio “morto uno stagista se ne fa un altro”.

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Sono proprio questi stage a rotazione ad alimentare lo stereotipo, tristemente autentico, dello stagista sfruttato e maltrattato. Le testimonianze di alcuni ex-stagisti e le indiscrezioni di chi tuttora sta svolgendo un tirocinio hanno contribuito a stilare un elenco di caratteristiche fondamentali che lo stagista-a-scadenza farebbe meglio ad avere per resistere ai sei mesi di volontariato che lo aspettano.

Lo stagista non ha un nome

Giulia racconta che durante il suo stage le veniva rivolta poco la parola: funzionavano meglio le e-mail, che a decine intasavano la sua casella di posta con richieste di cose da fare, tutte urgenti. Ricorda che spesso leggeva il suo nome storpiato in “Gulia” o “Giula” e che quando il suo responsabile, con cui aveva a che fare ogni giorno per almeno otto ore, le rivolgeva la parola la chiamava “Valentina”, “Giada”, “Enrica”… Quasi preferiva quando semplicemente i colleghi dell’ufficio evitavano di interpellarla direttamente, col rischio di sbagliare nome, ma si limitavano ad alludere alla sua presenza con un più neutrale “la stagista”: «Ah, viene anche la stagista alla riunione?»

Lo stagista non sa fare nulla, ma deve sapere fare tutto

Dopo meno di un mese in azienda Carlo viene mandato in trasferta alla ricerca di clienti. Un’enorme opportunità, certo, ma forse una decisione un po’ avventata, visto che per tre mesi avrebbe dovuto viaggiare per la Cina vendendo un prodotto di cui sapeva poco o niente. Perché è ovvio, i suoi capi erano d’accordo sul fatto che lui, non avendo mai lavorato in ambito commerciale, non sapesse nulla di vendita, di marketing o di strategie di mercato, ma allo stesso tempo nessuno di loro si era preso la briga di seguirlo e formarlo a dovere. Così Carlo, senza alcuna competenza acquisita grazie al suo fantomatico “stage di formazione”, si è ritrovato da solo a gestire nuovi clienti e a cercare di convincerli della competitività dei prodotti venduti dall’azienda raccontando loro improbabili aneddoti, suggeritigli dai suoi capi italiani. Insomma, anche l’arte di arrangiarsi è una competenza da inserire nel curriculum.

west-info.eu
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Lo stagista non dovrebbe bere il caffè

Nel reparto di Giulia i colleghi-non-stagisti si concedevano lunghe pause caffè nella sala relax dell’ufficio, dove c’era una scintillante macchinetta del caffè funzionante a cialde. Nel frattempo le stagiste erano pronte a rispondere alle loro chiamate. Strano ma vero, Giulia e le altre stagiste non potevano accedere alla stanza del caffè, ma per concedersi una pausa dovevano uscire dall’ufficio e recarsi al distributore di bevande calde nel corridoio del loro piano. Niente di grave, è piacevole sgranchirsi un po’ le gambe quando si sta tutto il giorno seduti alla scrivania. Il problema si presentò un giorno in cui Giulia e altre tre colleghe, tutte in stage, presero la decisione di andare insieme a bere un caffè. Al ritorno, dopo cinque minuti, trovarono la segretaria dell’ufficio imbestialita perché in loro assenza nessuno aveva risposto al telefono! Poco tempo dopo i dipendenti dell’azienda (e gli stagisti) ricevettero un’e-mail dalle Risorse Umane in cui si vietavano le pause caffè di gruppo alle macchinette distributrici nei corridoi.

Lo stagista non deve essere entusiasta e deve parlare a bassa voce

A soli ventidue anni Sara era entusiasta di essere stata selezionata per uno stage in una prestigiosa azienda. Il lavoro le piaceva così tanto che spesso portava a termine le sue mansioni prima del previsto. Ma quando chiedeva se potesse essere utile in qualche modo, le veniva risposto che no, le altre faccende da sbrigare erano fuori dalla sua portata. Quindi Sara rimaneva per ore a fissare lo schermo, rispondendo solamente alle chiamate che la sua responsabile non aveva voglia di gestire. In alcuni casi le veniva chiesto di abbassare il tono di voce mentre parlava al telefono, nonostante la capa, colei che le faceva questa richiesta, passasse molto tempo in ufficio a canticchiare, impedendo alle persone attorno a lei di concentrarsi. Alla fine del periodo di stage (ovviamente non finalizzato all’inserimento, ma ripagato con un utilissimo gadget con il marchio dell’azienda) la responsabile ha detto a Sara che era stata davvero molto brava, ma che se avesse dovuto trovarle un difetto, quello sarebbe stato il suo eccessivo entusiasmo. Giovani che vi affacciate al mondo del lavoro, non siate entusiasti, non ce n’è proprio nessun motivo.

ilfattoquotidiano.it
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Lo stagista puzzerà sempre di stagista

Roberta ama il tirocinio che sta facendo e ha un ottimo rapporto con i suoi superiori, i quali ripongono molta fiducia in lei, tanto che qualche mese fa le hanno affidato la preparazione di un discorso in inglese da tenere durante un evento aziendale rivolto ai dirigenti stranieri. Per questo discorso Roberta aveva studiato alla perfezione il catalogo dei prodotti, aveva tradotto termini tecnici, aveva scelto accuratamente un abito elegante e si era messa i tacchi. Del resto, i suoi capi avevano insistito molto sul dress-code. Arrivata in azienda il giorno dell’evento, si reca subito nella sala dove avrebbe dovuto tenere il suo discorso, ma i superiori, palesemente imbarazzati, le dicono che “per ora non c’è bisogno di te, torna pure in ufficio.” E in ufficio Roberta passa il resto della giornata, da sola, per poi scoprire che sì, avrebbero avuto bisogno di lei, ma che le Risorse Umane avevano vietato la presenza di stagisti all’evento.

Che conclusioni si possono trarre da questa serie di esperienze? Con un po’ di rabbia e amarezza prendiamo atto che in Italia la gerarchia e gli interessi ai piani alti hanno molta più importanza di capacità, istruzione e buona volontà. Ma siamo anche sicuri che la “Generazione Stage”, forte di tutte le difficoltà che si trova a dover fronteggiare e degli ostacoli che deve superare, stia crescendo sempre più forte e disposta a tutto pur di farsi valere e di far riconoscere il proprio valore.

 

Fotografia in copertina Mohamed Hassan (https://pxhere.com/it/photographer/767067)

Dalla ricerca personale alla condivisione: l’intervista a Maschile Plurale

Parliamo al maschile. Cosa s’intende per IDENTITA’ MASCHILE? A dare una risposta concreta e ben strutturata ci pensa l’associazione Maschile Plurale, nata nel 2007 «sulla spinta di singoli e gruppi di uomini che da tempo si interrogavano sull’identità maschile».

Gianluca Ricciato, uno dei membri dell’associazione, mi spiega meglio il contesto che diede i natali a Maschile Plurale: «Fin dagli anni Novanta si sono diffusi sul territorio italiano gruppi di riflessione e condivisione in cui gli uomini partivano da sé e si raccontavano le proprie vicende biografiche legate a vari temi (sessualità, relazioni, rapporto con le donne e con gli altri uomini, genitorialità, ecc). In quegli anni vedevano la luce anche alcuni articoli di uomini che cercavano di dare un proprio punto di vista sessuato rispetto a problemi scottanti ed emergenti, come ad esempio le discriminazioni di genere e la violenza maschile contro le donne».

Maschile Plurale punta quindi sia a dare una forma più stabile a queste esperienze, sia per affrontare le continue richieste di partecipazione ad eventi e progetti. Continua Gianluca: «ma la realtà che da vita a Maschile Plurale è tutt’ora simile ad una rete e la caratteristica principale rimane, come dice il nome, la pluralità. Nell’obiettivo comune di favorire nuove forme di mascolinità che superino il sessimo e il patriarcato».

Uomini che partecipano. I primi gruppi “storici”, ancora attivi e successivamente confluiti nell’associazione, nacquero a Pinerolo, Torino, Milano, Verona, Bologna, Viareggio, Roma e Bari. Una rete che si espande e si amplia con altre città molto attive come Parma, Livorno e Napoli, insieme ad altri centri nei quali Maschile Plurale è presente in modi diversi dai gruppi di condivisione.

Sparsi in tutta Italia, “da Pinerolo a Palermo”, la loro principale attività è quella della continua ricerca sul tema. Dalla ricerca personale e dalla condivisione nascono le collaborazioni. Gianluca mi spiega che i primissimi interventi partirono in collaborazione con i Centri Antiviolenza, cioè a fianco di donne impegnate da anni nell’assistenza e l’aiuto di altre donne vittime di violenza maschile. Concretamente «si tratta di partecipazione a iniziative pubbliche, campagne di sensibilizzazione, percorsi educativi nelle scuole, ma anche pubblicazioni di testi, adesioni a manifestazioni pubbliche su diverse tematiche di genere: ad esempio al Napoli Pride in cui alcuni siamo coinvolti direttamente, oppure la rete Educare alle Differenze che il prossimo weekend si ritroverà a Bologna. Negli ultimi anni, alcuni di noi hanno seguito dall’interno la nascita di Centri per uomini autori di violenza, che si sono affiancati a progetti già esistenti e con cui eravamo già in rete come lo sportello telefonico del Cerchio degli Uomini a Torino». E ancora, la partecipazione al progetto Five Man, insieme alla rete D.i.Re (Donne in Rete contro la Violenza) e a D.P.O. (Dipartimento delle Pari Opportunità), che ha organizzato 40 incontri in alcuni istituti italiani di scuola media superiore.

I problemi da affrontare? Moltissimi e di varia natura: la sopravvivenza economica dell’associazione, la possibilità di agire su questi temi in una società ancora fortemente machista e sessista e, più internamente, la capacità di tenere le fila e organizzare le tante voci e attività. Si aggiunge anche il problema di «una rappresentazione esterna di Maschile Plurale a volte fuorviante, come se fossimo una specie di “partito degli uomini antisessisti” che deve continuamente prendere posizione su questo o quel tema di cui si dibatte, quando abbiamo cercato di spiegare in tutti i modi che non siamo e non vogliamo essere questa cosa, perché questo fa parte della vecchia politica maschile monolitica e verticistica da cui stiamo fuggendo».

 

Infine ho chiesto a Gianluca quale siano gli obbiettivi di Mashile Plurale: «forse il problema degli obiettivi è una cosa che non ci siamo mai posti veramente. Questo almeno è quello che penso io, come la vivo io. Perché porsi l’obbiettivo di superare una società sessista e violenta ha un sapore utopistico e può diventare un facile modo per rimandare l’urgenza delle cose da fare a un futuro idilliaco, un “sol dell’avvenire” che non arriva mai. Anche se certamente l’orizzonte utopistico è questo, ma i sogni e la realtà non vanno confusi. Il nostro obiettivo è cambiare in meglio ogni giorno, ognuno di noi, stare nelle relazioni e nei conflitti in modo positivo, dare un contributo laddove possiamo, restare in ascolto delle richieste senza possibilmente snaturare il percorso fatto finora».

Turismo sessuale, dagli anni ’60 ad oggi un business sempre in crescita

Da sempre e in ogni parte del mondo, dall’antica Grecia alle tribù africane, dalle isole asiatiche ai freddi ghiacci del polo nord, si tramandano tradizioni che impongono l’accoglienza dello straniero in visita, spesso includendo la sua soddisfazione sessuale. Da sempre i viaggiatori, mercanti o esploratori, si sono scambiati pettegolezzi sulle delizie locali e le pratiche indigene dei paesi visitati.

In età moderna, anche i viaggi finalizzati al piacere sessuale diventano fenomeno massificato: gli anni ’60, grazie tanto alla globalizzazione e all’ampliamento dei mercati, quanto alle rivoluzioni socioculturali e ai nuovi orizzonti di viaggio, costituiscono lo scenario che vede esplodere il boom di questo fenomeno, che si dimostrerà fin da subito problematico. Il turismo sessuale, infatti, configurandosi come intersezione di due attività già di per sé caratterizzate da dinamiche complesse (il turismo da un lato e la prostituzione dall’altro), raccoglie un ventaglio di realtà sfaccettate che hanno rappresentato una difficoltà nello sforzo delle normative internazionali di conciliare principi etici e morali, ideali di sviluppo paritario e realtà fattuali.

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Thailandia, anni ’60

Era il 1967 quando vedeva la luce il primo patto tra stati moderni imperniato proprio sulla vendita di prestazioni sessuali: il “rest and recreation” regolamentava i rapporti tra i soldati americani d’istanza in Vietnam e le vicine coste thailandesi, rilanciatesi da un decennio nel mercato del sex business. Nello stesso anno la IUOTO (International Union of Official Travel Organizations), riunita a Tokyo, rifletteva sulla necessità di operare effettivamente a livello mondiale, avviando il processo che la porterà a trasformarsi nell’attuale UNWTO (United Nations World Tourism Organization) e a stendere, nel 1999, il Codice Mondiale di Etica del Turismo: 10 articoli che si preoccupano di tutelare tutti i soggetti coinvolti nell’attività turistica, in un’ottica di sviluppo globale sostenibile.

In occasione del 58th CAF Meet, tenutosi ad Abidjan ad aprile 2016, il WTO ha sottolineato ancora una volta l’importanza del Codice, proponendosi di sollecitare i 163 stati membri a sviluppare leggi in linea con gli articoli in esso contenuti, in risposta anche ai numerosi appelli ONU riguardanti Paesi in via di sviluppo e minori. L’allarme più significativo arriva dall’EPCAT, i cui dati indicano cifre attorno ai 2 miliardi di minori sfruttati nel solo 2016, grazie al fenomeno del turismo sessuale; l’Italia in testa alle classifiche per numero di turisti pedofili; Cina, India, Brasile e Thailandia come mete predilette. Non meno rilevanti sono le denunce ONU sul continuo squilibrio socio-economico tra turisti-fruitori e nativi che si prostituiscono: il turismo sessuale asseconda e favorisce il mantenimento del divario nello sviluppo sociale dei diversi paesi.  Entrambi gli enti evidenziano infine l’importanza di sempre maggiori controlli sulla rete informatica: i dati rilevano, infatti, che il moltiplicarsi di chat e applicazioni che facilitano la comunicazione in forma anonima, ha contribuito ad agevolare gli spostamenti per viaggi a sfondo a sessuale.

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Basta gettare un rapido occhio sulla rete per rilevare come gran parte dei tabù sessuali trovi libertà d’espressione nella realtà virtuale. Ancor più facile ritagliarsi spazi per i turisti sessuali, che grazie alla rete riescono a comunicare superando confini tanto spaziali quanto legislativi, muovendosi in equilibrio tra diverse normative. Eclatante esempio è dato dal successo del sito www.gnoccatravel.it, interamente dedicato alle attività che ruotano attorno al sex business: dalle escort italiane ai consigli per migliorare le prestazioni, dai suggerimenti per cuccare agli spazi dedicati al “ridere della gnocca”, fino ovviamente alle recensioni di viaggio, comprensive di indicazioni sulle bellezze locali e loro disponibilità, suggerimenti sui local più abbordabili e forum per cercare “compagni di gnocca”, ossia di viaggio.

Da non sottovalutare sono le possibilità offerte dalla rete, risorsa importante in virtù dell’opportunità di un monitoraggio tempestivo e della tracciabilità dei dati elaborati. Gli stessi gestori di GnoccaTravel rappresentano un modello di approccio moderno al tema della sessualità: pur svincolandosi da ogni forma di tabù riguardante il sesso occasionale tra adulti consenzienti (a pagamento e non), dal loro sito è assolutamente bandita qualsiasi forma di sfruttamento, con particolare attenzione a contenuti a sfondo pedofilo, che vengono non solo bannati dal sito, ma anche tempestivamente segnalati alle autorità competenti.

Differente è l’approccio della rete al turismo sessuale al femminile, di cui ONU e WTO evidenziano negli ultimi anni un notevole incremento. I media informatici, cogliendo l’occasione dei recenti dati, sembrano assecondare la tendenza con un susseguirsi di classifiche sulle mete più quotate, accompagnate da fotografie di splendidi resort affacciati su rive oceaniche. Immagini patinate e contenuti edulcorati, che creano l’illusione di un’agenzia turistica e allontanano dal mondo della prostituzione. In vetta alle classifiche Senegal e Kenya; paesi caldi, accoglienti e con situazioni di fortissimo divario sociale interno. I governi di questi paesi, offuscati dall’interesse a entrare nel gioco delle potenze mondiali, hanno in passato lasciato ampissimo spazio d’azione agli ex coloni, che non hanno tardato a individuare nel turismo una sicura fonte di guadagno. Le entrate economiche legate alla prostituzione (oggi legale in Senegal, illegale in Kenya) hanno inoltre fatto speso chiudere un occhio sul mancato rispetto delle leggi vigenti.

A poche ore a sud di Dakar, sulla costa, si trova un esempio di queste aree edificate su misura dei turisti europei: la città di Saly, un tempo porto portoghese, è stata riconvertita negli anni ’80 ad area resort e fino a oggi è la principale meta dei turisti del Vecchio Continente. Non di rado, sulle bianche spiagge di Saly, si vedono passeggiare coppie miste con un notevole divario d’età; storielle estive di breve durata ormai accettate nella quotidianità di questo parco giochi urbano. ONU e ECPAT lanciano un campanello d’allarme anche sulla nuova esigenza femminile, apparentemente innocua, di provare il brivido di una storia d’amore per il breve tempo di una vacanza; i dati, infatti, evidenziano una presenza sempre maggiore delle donne nella realtà della pedofilia. Sebbene il problema si rivolga in minima parte agli infanti, non meno importante è il fatto che un numero sempre maggiore di adolescenti maschi sia coinvolto nel turismo sessuale, vittime di un retaggio che vuole l’uomo precoce nel suo sviluppo sessuale.

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Saly, Senegal

Intervista a Le ragazze del porno, a cuore e gambe aperte

Mercoledì 14 settembre c’è stata la proiezione dei primi due cortometraggi VM18 prodotti da Le ragazze del Porno, e Pequod (ovviamente) non poteva che essere presente! Stiamo parlando delle pellicole Queen Kong di Monica Stambrini, precedentemente proiettato alla 52° Mostra Internazionale del nuovo cinema di Pesaro nonché vincitore del premio “Miglior Regia” presso il Queen World Film Festival a New York, e Insight di Lidia Ravviso e Slavina alla sua anteprima nazionale, proiettate all’interno dello spazio BASE Milano in via Bergognone, durante la XXI edizione del Milano Film Festival.

Chi sono le ragazze del porno e perché sono nate?

Le Ragazze del Porno sono un gruppo di registe italiane, dai 25 ai 75 anni, caratterizzate da esperienze nel cinema indipendente e mainstream, nel teatro, nella televisione e videoarte. Il loro obiettivo è realizzare una raccolta di porno d’autore per ampliare il punto di vista italiano sulla sessualità e sulla bellezza, senza distinzione di genere e orientamento sessuale. Progetti simili nati in Svezia, Spagna, Francia, Stati Uniti e Danimarca, hanno trovato il sostegno dei finanziamenti pubblici… in Italia, invece, per potersi esprimere liberamente, Le Ragazze del Porno hanno deciso di utilizzare il finanziamento dal basso, mettendosi in gioco e lanciando una campagna di crowdfunding. «Il progetto originario – spiega Monica Stambrini a Pequod – prevedeva dieci cortometraggi, che sarebbero in seguito confluiti nel lungometraggio My Sex. Ora come ora non sappiamo se riusciremo a farne altri otto, di certo stiamo cercando di produrne altri tre in modo da arrivare a 90 minuti. Trovare una produzione classica è difficile, quindi siamo oggi un progetto aperto e un contenitore: non solo aperte a finanziamenti, ma anche a nuove registe e, perché no, registi maschi!»

 

Quando lui non riesce ad avere un’erezione lei (interpretata dalla porno attrice Valentina Nappi), delusa, lo lascia nel parco e sparisce nel bosco. Svogliatamente lui la insegue ma al suo posto trova Queen Kong che non ha nessuna intenzione di lasciarlo andar via finché non avrà finito con lui. Dopo che il rapporto verrà consumato, è la volta del corto di Lidia e Slavina: una donna e un uomo sono chiusi in una stanza. Un gioco di sguardi è il segnale che dà inizio a una sfida muta, interrotta solo da respiri e gemiti di lei. In entrambi i casi, i personaggi maschili sono personaggi passivi poiché il porno viene narrato da un punto di vista tutto al femminile. Nel secondo corto, ad esempio, non vediamo mai l’atto masturbatorio maschile, ma solo il post.

Dopo lo schermo nero e uno scroscio di applausi, le luci della sala si alzano nuovamente. Un dibattito anima la sala del BASE, dando la possibilità alle registe di confrontarsi con il pubblico, assieme alla pornodiva Valentina Nappi. Fra una domanda e l’altra, le persone presenti hanno la possibilità di scoprire e scoprirsi a loro volta: ho dunque il piacere di riportare un’intervista collettiva, creata dai primi fruitori italiani di queste pellicole e dalla chiacchierata fatta con la registra Monica Stambrini.

Chi o che cosa vi ha ispirato Queen Kong e Insight?

Monica: «Satiri! Volevo filmare una donna prima inibita e che poi si lascia andare alle pulsioni più sfrenate. Volevo dunque raccontare la riscoperta del piacere e il recupero di questa sfera intima e sessuale. Per questo ho scelto l’immagine di una donna che la sbatte in faccia».

Lidia: «Mi preme sottolineare come non sia un discorso di rappresentazione di una sola tipologia di donna per un pubblico ben preciso. Noi volevamo mettere in scena un nostro desiderio. E mettere in scena la figa: per quanto presente nel porno mainstream, la figa non è mai centrale, né protagonista. Allora abbiamo avuto l’intuizione di volerla mettere al centro, sin nei minimi particolari».

Slavina (coregista e attrice protagonista di Insight): «Non mi identifico tanto nel tipo di donna del corto, perché abbiamo deciso di fare un personaggio più mainstreem… difatti ero tutta depilata, però mi piace molto il fatto che si vedano le rughe. Come a dire che alla soglia dei 40 non è per niente finita!»

Slavina
Slavina

Benché vogliate far riferimento a un pubblico variegato, come avete affrontato la problematica dell’eccitazione?

Monica: «All’inizio del progetto abbiamo intavolato grandi discorsi in merito all’eccitazione del pubblico. Quando giravo non mi sono mai posta il problema proprio perché mentre lavoravo mi sono accorta di essere eccitata».

Slavina: «Il porno si definisce inizialmente masturbatorio. All’interno della corrente pornografica più convenzionale, nasce come prodotto per l’eccitazione maschile. Noi proponiamo corti sulle donne, ma aperte a un pubblico vasto: questo complica tutte le cose. Ad esempio, durante la scena della mia masturbazione abbiamo inserito anche il sonoro della penetrazione poiché alcuni si eccitano grazie a tale rumore».

All’interno del BASE iniziano ad alzarsi le mani alla domanda su chi si sia eccitato in sala. Una ragazza prende in mano il microfono e aggiunge: «Io mi sono eccitata quando ho visto il cazzone finale di Queen Kong

Una domanda più generica a Le Ragazze del Porno: Come commentate la vicenda della giovane donna napoletana suicida a 31 per la diffusione di un suo filmato hard?

Valentina Nappi: «Per quanto mi riguarda, sono sempre stata criticata fino a quando non sono diventata una star del porno. Mi davano della troia e basta, annullando completamente la mia personalità. Non so spiegarmi questa cosa, di certo sogno un mondo in cui tutte le donne si mostrino con un cazzo in bocca!»

Slavina: «Beh, non a tutte piace il cazzo in bocca. È molto complicato essere donna in Italia e occuparsi del sesso in senso lato. Stare dentro al collettivo de Le Ragazze del Porno significa prendersi una certa responsabilità. Ma il mio appello è: non aumentiamo il fango! Non prendiamo parte a questa sessofobia».

Monica: «Spesso sono le donne a essere intransigenti sulla libertà sessuale delle altre».

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Come mai la società ha tanta difficoltà ad accettare una sessualità femminile scollegata dalla maternità?

Monica: «E pensate invece che la categoria pornografica più ricercata dagli uomini in Italia è proprio quella dedicata alla “mamma”! Pensate anche solo alle concezione di Milf. Credo che la scissione fra mamma e troia sia oramai una distinzione superata. Forse sono proprio le donne a crearsi problemi e a nascondere la loro sessualità di fronte ai propri figli».

Tornando alla serata di stasera, siete rimaste soddisfatte?

Monica: «La proiezione di stasera è stata un’incredibile conferma di come esistano modalità differenti di fruizione pornografica. In sala c’era un pubblico molto vario, anche di persone che mai sarebbero andate a vedere un film porno… e proprio qui si inserisce il progetto Le Ragazze del Porno, che vuole sottolineare quanto sia assurdo non poter parlare nel 2016 di sessualità».

Lascio Monica e Le Ragazze del Porno alla dovuta celebrità post proiezione. Tutti le accerchiano per condividere complimenti e fugaci sensazioni, mentre io ripenso alle ultime parole della regista di Queen Kong: «Sono fiera di questo cortometraggio, lo considero uno dei miei lavori migliori poiché grazie al linguaggio pornografico sono riuscita a inviare un messaggio potente e alla portata di tutti».

 

The Choice of Being a Sex Worker

When it comes to prostitution, what we usually have in mind is coercion, exploitation and abuse. This is based on evidence that in most cases sex workers don’t choose to sell their body, but are forced to do that. Last year Amnesty International was involved in an intense debate concerning its proposal for the decriminalisation of all aspects of consensual adult sex, including sex work that does not involve abuse or violation of human rights. This controversial stand caused immediate reaction of public opinion, as this open letter signed by CATW (Coalition Against Trafficking in Women) and more than 400 other international women’s rights groups, advocates, medical doctors, faith-based organizations, actors and directors expressing their dismay at Amnesty International policy proposal.

As controversial as it sounds, Amnesty’s choice to advocate for the decriminalisation of prostitution, as far as it is consensual, is based on evidence that is hard to be denied. The thing is that as long as sex work is considered a crime, it promotes trafficking and violence perpetuated by the pimps and the affiliated criminal groups. It is less safe for sex workers themselves not to have their job regulated by law and recognized as a proper job, considering also that many women actually choose to sell their body because of the profit and are not forced whatsoever.

AFP/Getty Images
AFP/Getty Images

This is not an easy stance but the aim of Amnesty International is exactly that of causing a debate in society that will eventually lead to the better protection of sex workers. This position did not come out of the blue but was the result of a two-year-long gathering of evidence and research, not to mention the work of other dozens of groups that have addressed this issue way before Amnesty did and have come to the same conclusions. The lived experience of sex workers under legal contexts constitutes one of the most substantial pieces of evidence in support of this standpoint.

Consensual sex workers themselves are demanding for decriminalisation. In the last months in England this demand is getting stronger, mainly because of the lack of safety for prostitutes. In facts, today in the UK the exchange of sex for money between consenting adults is legal, but associated activities, like brothel-keeping, are not. This means that often women have to work isolated, exposing themselves to a bigger risk. However UK case is not alone in Europe, where many countries don’t criminalise sex selling and buying itself, but don’t allow related activities, such as the opening of brothels.

telegraph.co.uk
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Nevertheless in other European countries prostitution is a legal and regulated trade. In Austria sex workers have to pay taxes and undergo weekly medical checkups, while in Germany liberal laws regarding the sex trade allow the spread of the so-called “super-brothels”. In the Netherlands as well prostitution is legal and regulated, Amsterdam Red Light District being the symbol of the Dutch open policy on the matter. Here in 1994 Mariska Majoor, former sex worker, opened the Prostitution Information Centre (or PIC) to make it easier for people to find practical information about sex work and to create public respect for sex workers. In this interview to Elle last July Mariska says that the major problem of selling sex in Amsterdam is not safety, but the stigma of being a sex worker: “you can’t write it on your CV; it’s difficult to get another job or a bank account.” And she adds: “I never had a problem with the work. I had a problem with the people who walk by and look at me liked I’m a monkey in high heels. I found being an ex-prostitute harder than being a prostitute.

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It seems like the first issue to deal with before even trying to achieve decriminalisation of sex work is the stigma to which it is related and the lack of public awareness on the fact that sex work can be work, too. Projects like this collection of portraits by the Sex Worker Open University aim to normalise and humanise sex workers, fighting against stereotypes that prevent women from being free to use their body as they want without the fear of being abused, both mentally and phisically. The freedom of choice and the lack of judgement would be the first moment of any step toward the resolution of every problem related to both consensual and non-consensual prostitution.

(Cover picture: London SlutWalk 2011 by msmornington (CC-by-2.0 Wikimedia Commons).

Giovani, internet e sessualità: come è cambiato l’approccio delle nuove generazioni al sesso

Sappiamo tutti che le generazioni contemporanee sono molto più esposte ad immagini e messaggi sessuali rispetto a quelle precedenti, mentre i tabù sociali una volta legati alla sessualità vengono meno in maniera sempre crescente, rendendo l’approccio degli adolescenti al sesso molto diverso rispetto a quello dei loro genitori. Le nuove tecnologie permettono ai giovani non solo di accedere a contenuti espliciti con maggiore facilità, ma anche di praticare nuovi tipi di attività sessuale mediata, come ad esempio il sexting. Questo li rende inevitabilmente maggiormente esposti sia a rischi preesistenti – ad esempio l’essere adescati da malintenzionati – che a pericoli completamente nuovi, come la messa in circolo e la condivisione di immagini intime attraverso la rete. I rischi sono reali e tangibili, ma non tutti gli aspetti di questa “digitalizzazione” della sessualità sono necessariamente dannosi o negativi.

Secondo alcuni, l’accresciuta disponibilità di materiale sessuale garantita dalla rete potrebbe infatti non avere effetti deleteri di per se. In un articolo per la testata inglese The Guardian, Madeleine French sostiene che l’influenza che i contenuti pornografici hanno sugli adolescenti tende a venire esagerata, ed include le considerazioni della ricercatrice Clare Bale, secondo la quale gli adolescenti si relazionano al materiale erotico con più autonomia di quello che solitamente pensiamo, condividendo materiale pornografico a vari scopi, ma anche decidendo di ignorare finestre a contenuto sessuale su cui si imbattono accidentalmente. Uno studio indica una differenza di percezione tra giovani e meno giovani significativa: mentre gli adulti intervistati pensano che internet abbia contribuito in maniera marcata alla iper-sessualizzazione degli adolescenti, questi ultimi invece sostengono che il loro comportamento sessuale non ne venga particolarmente influenzato. Sebbene sia ammissibile che gli adolescenti intervistati fossero semplicemente meno consapevoli del cambiamento generazionale che i più anziani sembravano aver osservato, la discrepanza tra i due gruppi sembra indicare un fraintendimento generazionale riguardo al modo in cui gli adolescenti vivono la sessualità al giorno d’oggi.

Fonte: scuolazoo.it
Fonte: Scuolazoo.it

Al di là delle incomprensioni tra generazioni, esiste chi ha colto l’opportunità di sfruttare questo cambiamento epocale in maniera positiva, attivandosi per colmare il vuoto lasciato dalla mancanza di uno spazio di discussione della sessualità in cui i giovani si sentano a loro agio nel mondo “reale”. Il mondo anglosassone è già molto all’avanguardia in questo campo: il sito BishUK, per esempio, contiene video ed altri materiali informativi sul sesso e le relazioni rivolti ad un pubblico superiore ai quattordici anni. Il suo fondatore, l’educatore Justin Hancock, sostiene che sia necessario che i giovani abbiano a disposizione uno spazio sicuro dove ottenere chiarimenti sui loro dubbi riguardo il sesso. Nel mondo delle associazioni che si occupano di prevenire la violenza sulle donne nel Regno Unito, è ormai comune avere figure professionali che si occupano di educare le giovani donne alla sessualità e all’affettività, in maniera tale da renderle capaci di riconoscere i segni di una relazione abusiva il prima possibile. Parte del loro lavoro è informare le ragazze sulle forme di violenza e controllo virtuale. Nel nostro Paese il sito Snaptalks ha inaugurato un’iniziativa simile a quelle britanniche, creando una serie di videoclip in cui giovani e meno giovani raccontano le loro esperienze sessuali e relazionali. I video sono inoltre integrati da una sezione intitolata “Frequently unanswered questions” (domande frequentemente senza risposta), dove si trovano informazioni che vanno dal tempo di vita di uno spermatozoo nel corpo femminile, a suggerimenti su cosa fare nel caso in cui il partner condivida contenuti erotici su internet.

Se la rete è diventata il luogo privilegiato dell’educazione sessuale delle nuove generazioni, è grazie soprattutto al fatto che permette di rintracciare risposte a quesiti che potrebbe essere imbarazzante porre di persona, ma anche perché offre informazioni su un panorama sessuale più ampio. La giornalista Tracey Thorn racconta per esempio come, al momento del coming-out in famiglia, sua figlia potesse già contare su una rete di supporto sociale creata online. Le piattaforme virtuali costituiscono infatti uno spazio importante dove i giovani possono confrontarsi con i coetanei riguardo a questioni riguardanti il tema della sessualità e dell’identità di genere.

Fonte: Guidone.it
Fonte: Guidone.it

Se il cambiamento dell’approccio al sesso è particolarmente evidente per gli adolescenti, in realtà si tratta di un fenomeno sempre più esteso anche alle generazioni adulte. La posta del cuore del sito italiano Lezpop, mirato a donne lesbiche, bisessuali e questioning (che mettono in dubbio gli orientamenti sessuali ufficialmente riconosciuti), riceve quesiti tanto da parte di lettrici molto giovani, quanto da donne appartenenti a fasce di età significativamente più elevate. Le questioni trattate includono dubbi sul proprio orientamento sessuale, difficoltà con il coming-out e problemi relazionali, oltre che tematiche sessuali. Un altro esempio è la rubrica statunitense Savagelove, pubblicata in Italia sul sito di Internazionale, la quale offre consigli su problemi sessuali e di coppia ad adulti spesso coinvolti in relazioni non tradizionali. Includendo suggerimenti da parte di professionisti e specialisti di discipline pertinenti (psicologi, sessuologi ed anche esperti di BDSM), il giornalista americano Dan Savage risponde alle lettere di lettrici e lettori riguardo tematiche che vanno dalla perdita di desiderio verso il partner alla gestione di relazioni aperte o poliamorose.

Il nuovo ruolo del web come dispensatore di informazioni sulle tematiche sessuali, ha comportato la creazione di uno spazio di discussione della sessualità molto più variegato ed accessibile di quello che avevano a disposizione le generazioni precedenti, dando spazio a concezioni della sessualità che non trovavano espressione nei circuiti tradizionali. Se questo implica maggiori possibilità di scambio ed una moltiplicazione dei luoghi di ascolto da una parte, dall’altra significa anche che le nuove generazioni sono sempre più esposte ai rischi insiti nella facilità di accedere a contenuti anche privati attraverso internet e social media.
Nonostante sia ancora presto per valutare appieno gli effetti di questo cambiamento, non possiamo che prendere atto che, al di là delle incomprensioni generazionali, l’educazione sessuale di giovani e meno giovani oggi passa soprattutto attraverso il web.

Dietro le quinte: vivere l’eroismo da FIGLI Maschi

«Cosa fa un eroe quando ha paura?»

La voce di Lucio Guarinoni, drammaturgo della compagnia teatrale FIGLI Maschi, si insinua fra i movimenti e i pensieri degli attori, conducendone le azioni e spronandoli all’improvvisazione. Gli scatti della Reflex cercano di carpirne il significato e gli stimoli, che dalle tensioni muscolari dei FIGLI Maschi si fissano tramite l’obbiettivo della macchina fotografica. Un lavoro di improvvisazione sta dunque prendendo forma sul palcoscenico della residenza “Il Granaio” di Arcene. È un lavoro corale dedito al recupero della fisicità da parte degli attori, partito da un input e sviluppato attraverso la spontaneità dei protagonisti in scena.

 

Spinta dalla curiosità, non mi basta fare qualche scatto per mostrarvi come lavorano i FIGLI. Mi interrogo e interrogo a mia volta, per farvi accedere a un inedito dietro le quinte. 

Che significato ha l’eroismo nel 2016?

Flavio Panteghini: «Questo lavoro non parte da certezze definite. Sapevamo che saremmo partiti da una nostra concezione, un immaginario caratterizzato da singoli valori, ma privi di una direzione comune, neanche a livello di dialogo. Questa è la peculiarità di FIGLI Maschi. Forse però, la caratteristica dell’eroe di oggi è il dubbio. Il mettere in discussione se stesso e i suoi valori, piuttosto che quelli del nemico. Altrimenti rischia di divenire un fanatico».

Pietro Betelli: «Piuttosto che una definizione, mi piace pensare che chiunque di noi possa essere un eroe per qualcuno. Dal nipote per la nonna, al fidanzato».

Enrico Broggini: «Nella mia testa ho due definizioni di eroe. Una è una visione eterna, legata all’epica; mentre l’altra possiede una dimensione fugace direttamente proporzionale alla sua risonanza mediatica». Ma un eroe è tale anche se non viene ricordato? «Achille, rispetto a Patroclo, non sta cercando una fine gloriosa. Il suo scopo è vivere una vita intensa. Quindi sì, un eroe è tale anche se non viene ricordato».

Giacomo Arrigoni: «Per me eroismo significa voglia di spendersi. Che sia per qualcuno, per un ideale o per una follia del momento. È una passione che al giorno d’oggi tendiamo a dimenticare».

Come vi preparate a diventare eroi sul palcoscenico?

Giacomo: «Innanzitutto lo stretching! Ogni eroe necessita di un riscaldamento muscolare, vocale ed energetico».

Pietro: «Prima hai assistito a un momento di totale liberazione. Ci lasciamo completamente andare all’oblio delle nostre menti, che dobbiamo svuotare per entrare nella dimensione eroica».

Flavio: «Quando siamo fuori dalla residenza smitizziamo tutto! Dobbiamo prendere la vita con leggerezza per non cadere nella paranoia. Questo ci aiuta molto sul palcoscenico».

Lucio Guarinoni: «In verità l’atto demistificatore avviene anche all’interno del lavoro e si traduce nel togliere qualsiasi tipo di giudizio. Ad esempio, quando si lavora sulla mitologia greca solitamente bisogna essere seri. Ma no! Puoi anche diventare la parrucchiera di Achille, piuttosto che utilizzare “Barbie Girl” durante la partenza di Patroclo verso la sua morte. Il teatro ha tanto a che vedere con la contaminazione. Se penso a un eroe dentro uno schema fisso mi blocco… invece lavoro, cerco e contamino».

Enrico: «A proposito di contaminazione, durante la residenza vengono a trovarci alcuni ospiti esterni. Martedì scorso ci ha fatto visita un amico drammaturgo con il quale abbiamo portato avanti un lavoro di scrittura. Praticamente non ci siamo alzati dalla sedia! Tutti questi linguaggi ci permettono di avere diverse chiavi di accesso al nostro diventare eroi. Certe volte hai bisogno di fasi di passaggio per farti eroe sul palco; altre volte, invece, devi percorrere strade differenti».

 

Qual è il vostro eroe preferito? E perché?

Flavio: «Dylan Dog. Perché rappresenta il dubbio. Fragile, pieno di fobie e seghe mentali… proprio per questo è un eroe».

Pietro: «Spero di uscire da questa esperienza con un eroe preferito. Ho sempre avuto un conflitto con la figura dell’eroe, diviso fra icona e idolo».

Giacomo: «Il regista Xavier Dolan perché giovane ed è riuscito in una cosa in cui vorrei riuscire».

Lucio: «Il mio eroe preferito è Patroclo poiché in conflitto tra l’affetto e la violenza. E perché collegato all’idea dello spendersi all’interno di un conflitto, in quanto spalla dell’eroe. Dobbiamo ragionare molto, oggi, su chi fa da spalla all’eroe».

Enrico: «Il mio immaginario eroico è limitato. Trovo difatti più eroismo ne “L’ultimo dei Mohicani”. Poi ho un’eroina, Cassandra. Importante per il tema della testimonianza, mi affascina molto per questa sua abilità profetica… ha il dono, ma non viene ascoltata, anzi è considerata pazza».

Che cosa fa dunque un eroe quando ha paura?

Nell’improvvisazione di oggi, l’eroe Pietro chiede aiuto, e lo chiede alla mamma. Flavio, invece, quando ha paura si rivolge agli dei, mentre l’eroe Enrico quando teme, urla. Dalle vostre risposte sembra che l’eroe chieda sempre un aiuto esterno. Ha dunque paura di essere solo? Questa volta la risposta sembra essere univoca: «Contrariamente a quello che si possa pensare, l’eroe non basta a se stesso».

 

*Gli attori non presenti nel fotoreportage, ma essenziali al progetto FIGLI Maschi sono: Giorgio Cassina e Marco Trussardi.

Gli eroi e il maschile: i Figli Maschi crescono a teatro

ACHILLE: Patroclo, perché noi uomini diciamo sempre per farci coraggio: “Ne ho viste di peggio” quando dovremmo dire: “Il peggio verrà. Verrà un giorno che saremo cadaveri”?

PATROCLO: Achille, non ti conosco più.

ACHILLE: Ma io sì ti conosco. Non basta un po’ di vino per uccidere Patroclo. Stasera so che dopotutto non c’è differenza tra noialtri e gli uomini vili. Per tutti c’è un peggio. E questo peggio viene per ultimo, viene dopo ogni cosa, e ti tappa la bocca come un pugno di terra. È sempre bello ricordarsi “Ho visto questo, ho patito quest’altro”  ma non è iniquo che proprio la cosa più dura non la potremo ricordare?

PATROCLO: Almeno uno di noi la potrà ricordare per l’altro. Speriamolo. Così giocheremo il destino.

Questo l’incipit de Dialoghi con Leucò di Pavese, uno spunto molto piccolo da cui parte la nostra storia e quella di Lucio Guarinoni. Una storia di eroi, di figli, di maschi e di maschile.

Enrico Broggini e Pietro Betelli
Enrico Broggini e Pietro Betelli

Dalla scorsa settimana Lucio e la sua compagnia teatrale, Figli Maschi, sono ospiti della residenza teatrale Qui e Ora  presso gli spazi de Il Granaio di Arcene. Chiedo a Lucio di partire dal prologo: «Figli Maschi è un gruppo di persone che da un paio di anni lavorano insieme con il teatro e nel teatro. Nascono dal mio desiderio (e progetto) di lavorare a teatro sul maschile e sui maschili con un gruppo solo maschile. Questo perché sentivo che potesse essere un progetto di cui ci fosse bisogno. Quindi ho contattato alcuni di loro e gli ho chiesto di cominciare questo progetto di ricerca senza sapere dove sarebbe arrivato. Era novembre del 2014. Da qui abbiamo iniziato una ricerca teatrale sul tema: già dal primo incontro ero entusiasta! Successivamente è nato lo spettacolo “Figli Maschi”, che poi in realtà ha dato il nome alla nostra compagnia. Per molto tempo siamo rimasti senza un nome poi, quando un nome ci serviva (anche e soprattutto per i concorsi e i bandi), ci siamo guardati realizzando: “Ma noi siamo figli maschi! Esattamente come lo spettacolo!”. “Figli Maschi” debuttò a fine maggio del 2015, frutto di sette mesi di ricerca e di lavoro, con una serie di nove repliche successive».

I Figli Maschi provano presso la residenza teatrale Il Granaio
I Figli Maschi provano presso la residenza teatrale Il Granaio

Una grande sintonia e voglia di continuare a lavorare in questo senso, han portato i Figli Maschi a vincere il bando Qui e Ora: l’offerta consiste in residenze teatrali per artisti under 35. Emozionati e destabilizzati si sono buttati in questo nuovo progetto, lavorando sul tema degli eroi.

Gli spunti per questo nuovo lavoro sono molteplici, come spiega Lucio: «alcuni sono drammaturgici in senso stretto, quindi brani di letteratura rispetto al tema, altri arrivano dallo studio del movimento fisico, insieme al lavoro sulla voce tenuto da Flavio. Io sono partito da tante letture, ma in particolare dalla scelta di una cosa molto molto piccola, ossia uno dei Dialoghi con Leucò di Pavese: è il dialogo tra Patroclo e Achille. Infatti, in questa prima settimana di residenza abbiamo lavorato tantissimo partendo da questo dialogo».

Lucio Guarinoni e Enrico Broggini
Lucio Guarinoni e Enrico Broggini

Proprio in questo piccolo brano epico viene affrontato il tema dell’eroe con moltissime sfaccettature: l’eroe inteso come supereroe, l’eroe contemporaneo, l’eroe del quotidiano e inoltre «è un testo molto interessante rispetto alla tematica del maschile e ai maschili che rivestono Patroclo e Achille, ma anche rispetto ai mondi di valore, di pensiero, di immaginario sul maschile e sull’eroismo». In questo modo sono riusciti ad aprirsi moltissimi piani di lettura e di lavoro, anche grazie alla trasversalità degli archetipi nei miti: un potere d’immedesimazione che spesso, quando si studia epica a scuola sfugge all’occhio stanco dello studente. «Quel potere e quella potenza che hanno i testi classici di aprire varie finestre tematiche: quello che abbiamo tentato di approfondire in questa settimana. A partire dalla prossima vorrei iniziare a lavorare anche su scritture mie, sempre su questo tema: due maschili che si trovano rispetto al tema degli eroi, ma più incentrato sul contemporaneo e sull’oggi».

Da sinistra: Elia Zanella, Giorgio Cassina, Marco Trussardi e Flavio Panteghini
Da sinistra: Elia Zanella, Giorgio Cassina, Marco Trussardi e Flavio Betelli

Il tema dello spettacolo, molto sentito dal regista, è stato frutto di spunti e del bisogno personale di affrontare l’argomento eroico sul maschile e soprattutto sul maschile contemporaneo, legato ai sentimenti dell’affetto e della violenza. «Si parte sempre da domande che ti vengono quando non riesci a dormire: “Se in questo momento ci fosse una persona, a cui io tengo moltissimo, coinvolta in un possibile attentato, cosa farei?” Ecco, sento che il tema della violenza, anche in questo senso sia presentissimo nell’oggi e va indagato anche rispetto al maschile e all’eroismo. Penso che un eroe, oggi, debba interrogarsi su quale sia il rapporto tra la violenza e l’affetto, perché anche i supereroi sono un condensato di questi due sentimenti contrastanti. Sono questi i due temi su cui vorrei dirigermi».

Da sinistra: Pietro Betelli, Giorgio Cassina, Marco Trussardi, Elia Zanella e Flavio Panteghini
Da sinistra: Pietro Betelli, Giorgio Cassina, Marco Trussardi, Elia Zanella e Flavio Panteghini

Questa residenza teatrale si concluderà il 25 settembre con un momento importante per la compagnia: una prova aperta. Spiega Lucio: «Io la sto vivendo come regista e dramatug del lavoro. Per gli attori è un percorso di ricerca rispetto alle proprie capacità attoriali, di crescita sulle questioni tecniche e di lavoro collettivo: credo che lavorare in un gruppo coeso valga molto di più che affrontare innumerevoli stage teatrali “da solo”».

Consci della prova aperta imminente, la compagnia è consapevole che la crescita e il lavoro svolto in queste settimane verranno condivisi con il pubblico: un momento importante in cui ci sarà anche un primo ritorno del percorso svolto sin ora. «Puoi lavorare in prova quanto vuoi ma è con il confronto con il pubblico in cui ti viene ridato il funzionamento (o il non funzionamento) del tuo lavoro. Il teatro è fatto da migliaia di parti, tutte essenziali. C’è chi guarda e c’è chi propone e agisce sul palcoscenico. Per noi esiste la consapevolezza che arriveremo ad un lavoro finale: non so se ci arriveremo a fine settembre o a maggio dell’anno prossimo: ci lasciamo la possibilità e il tempo di capirlo senza soccombere a tempi di produzione rigidi e statici».

Ai Figli Maschi, teatramente auguriamo: Merda! Merda! Merda!

Fotografie di Giacomo Arrigoni

 

 

 

BeRevolution: raccogliere sogni dall’Italia al Giappone a bordo di una 500

Ho speso lungo pensare nella ricerca di una definizione di ‘Eroe’ che mi soddisfacesse. Per vedersi attribuire questa nomea il filantropo atto di coraggio è condizione prima, ma non risolutiva; reputo che l’appellativo d’eroe debba essere un’etichetta senza scadenza che non si conferisce per un singolo atto lodevole, quanto piuttosto per una costante condotta, uno stile di vita.

Il paladino evolve nell’impresa e, tramutato, riprende il mare per un’idea di luce; lo fa cambiando in positivo le vite degli uomini (di chi lo incontra e di chi ne sente raccontare) avventurandosi altrove, ovunque, smanioso di partecipazione. Così, nel movimento, diviene canale universale di bontà diffusa.

Ecco che nell’impresa itinerante, nel viaggio, si compie l’ideale metamorfosi.

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È circa metà luglio 2015 quando la mia curiosità viene stuzzicata da un logo scorto per caso tra mille finestre aperte su internet: le lettere della parola ‘revolution’ disegnano un’automobilina pronta a partire, sormontata da una valigia griffata “Be”.

BeRevolution, sii la rivoluzione, è il nome del progetto di due cugini di Chieri (TO), Luca e Andrea Bonventre, che in quei giorni montano su una piccola utilitaria Fiat 500 alla volta dell’estremo oriente.

14 stati da attraversare, 27000 km da percorrere, un anno di viaggio.

Tokyo come meta. L’epopea Euro-asiatica.

Vogliono assaggiare culture estranee, scoprire se «la macchinina può arrivare sin dove punta il Cuore di chi la guida» e, soprattutto, che questo loro azzardo risulti utile: l’intento è di raccogliere fondi e dar visibilità alla fondazione Forma Onlus di Torino, al fine di poter acquistare apparecchiatura d’eccellenza e introdurre nuovi progetti terapeutici nel polo pediatrico dell’ospedale infantile Regina Margherita.

In concreto i due avventurieri hanno visitato 13 ospedali, 3 scuole e 3 orfanotrofi, recando ai bambini incontrati l’invito a disegnare i propri sogni su centinaia di fogli che andranno presto a comporre la raccolta “500 sogni in 500”.

E’ un’esperienza di desideri che si intrecciano: quelli di chi ha osato il gesto rivoluzionario con quelli degli uomini di domani.

Nei mesi, l’impresa è stata raccontata tappa per tappa attraverso un diario di viaggio in costante aggiornamento sul sito ufficiale del progetto. L’itinerario si è concluso con il rientro a Chieri i primi di luglio 2016; i propositi invece proseguono nel tempo, grazie alle donazioni attive tramite il sito e l’allestimento della raccolta d’immagini.

Cogliendo l’occasione del rientro dei due, ho contattato Andrea per un’intervista a caldo su alcuni aspetti che hanno solleticato il mio interesse.

Come nasce l’idea del viaggio e quindi del progetto?

L’idea nasce scherzando. Nell’estate del 2014 Luca ha acquistato la 500 da amici in Sardegna. La spedizione dell’auto aveva un costo molto elevato, allora decise di andarla a prendere personalmente. Invita anche me e Riccardo, suo fratello minore. Ci dicevano che eravamo matti, che la macchina è vecchia, insomma tutto il solito bla bla di raccomandazioni cui storicamente siamo stati sempre sordi. Ne nasce un viaggio di una settimana, campeggiando liberamente per le meravigliose spiagge dell’isola. Eravamo felici di aver percorso 1000 km, e ci sembrava già un’impresa. Arrivati a Chieri, dove viviamo, ci siamo detti: «Non ho voglia di andare a casa, andiamo a Bangkok!». Poi Bangkok ci sembrava troppo vicina; il resto è la storia che già conoscete…

Volevamo inoltre che il nostro sogno fosse utile, quindi abbiamo scritto un progetto legato al viaggio: BeRevolution. Essere la propria rivoluzione, lavorare al servizio dei propri sogni. Dimostrare quello che avevamo sperimentato in molti viaggi: il mondo è la casa di tutti. E quali sono i sogni che costruiranno il mondo di domani? L’abbiamo chiesto a chi il futuro brilla negli occhi: i bambini. Ci siamo concentrati soprattutto sugli ospedali pediatrici, dove i sogni devono avere un’eco più forte.

-Come è stata la convivenza continua tra di voi?

Come due fratelli. Si condivideva tutto, si litigava (poco), si era gelosi, felici. Ci completavamo nelle nostre mansioni, insomma una squadra vera.

-Macinare tanti km con quella piccola vettura è già di per sé un’impresa quasi impensabile; come si è comportata?

Stupendamente! Luca quasi non la conosceva una volta partiti ed è arrivato a capirla in ogni minimo dettaglio. E’ sempre stato attento a qualsiasi suono (la 500 si guida a orecchio!) provenisse dalla vettura e ha fatto in modo che non si verificassero mai grossi problemi. Poi, in un’ottica di viaggio overland un’auto meccanica ha parecchi vantaggi dacché costruita da uomini per uomini, non da macchine per macchine. Inoltre, avendo la 500 un motore molto semplice e conosciuto in tutto il mondo, non ci è mai mancato il supporto di meccanici in ogni paese.

-Quali sono stati i momenti salienti del viaggio?

I momenti importanti sono stati tutti. Il tempo vuoto e il tempo pieno si alternavano, ognuno fondamentale. Abbiamo condiviso l’esperienza con numerosi viaggiatori, siamo stati ospitati da contadini, zingari, consoli, ragazzi e signori anziani. Il viaggio vero inizia nell’incontro, si cresce imparando e nello scambio avviene la magia.

-Ci regalate un aneddoto e una sensazione?

Mentre scattavamo una foto (500 + elefante) in India, si avvicina un signore sui sessanta. Ci guarda con occhi sgranati ed esclama: «Ah, ma allora non vi siete estinti!». Era Adriano, viaggia attraverso l’India tutti gli anni dal 79′. L’ha vista senza plastica e ci raccontava di come in quegli anni fosse molto comune arrivare con una 500 o un mezzo simile sino in India. Ci ha portato da un Baba esperto in omeopatia; ci ha illustrato i templi abbandonati dove vivevano gli Hippies (quelli veri). Ci ha aperto le porte di un mondo che fin lì avevamo solo sognato.

-Che evoluzione avete avuto durante l’esperienza?

Enorme! Ogni giorno, ogni tappa era un apprendere qualcosa. Non si può preparare un viaggio del genere, bisogna viverlo e basta. E vivendolo sperimentando siamo stati in grado di sviluppare capacità che non credevamo nemmeno nostre. L’evoluzione è stata tale da vedere ora tutto con occhi diversi, o meglio che vedono più elementi rispetto a prima.

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La carne è triste, ahimè,

e ho letto tutti i libri.

Fuggire! Fuggire laggiù!

Partirò!

[Mallarmè]

Dieci anni di Gilda delle Arti: intervista a Nicola Armanni

Tra due giorni la Gilda delle Arti, compagnia teatrale bergamasca, festeggerà ufficialmente i suoi 10 anni di attività di formazione e spettacolo. Era il 17 Settembre 2006 quando Nicola Armanni, direttore artistico insieme alla regista e compagna Miriam Ghezzi, fondava il primo gruppo, fatto di ragazzi appassionati di musica. Oggi ci sono nuovi progetti – superare i confini della provincia di Bergamo, fondare una scuola – ma lo spirito della Gilda rimane sempre legato a un’idea di teatro popolare, accessibile e praticabile da tutti, soprattutto dai più giovani.

 

La Gilda delle arti, perché avete scelto questo nome? 

“Gilda” è un sinonimo di “corporazione” e, nel medioevo, le corporazioni raggruppavano i professionisti di un settore per creare una rete sinergica che potesse essere rappresentata nella città. Ci piace pensare di essere degli “artigiani” del teatro, che hanno per obiettivo la creazione di una realtà artistica in cui le varie professionalità (musicisti, attori, scenografi) possano riunirsi e creare insieme nuove forme sceniche.

Come nasce un vostro spettacolo? 

Quando lo spettacolo è di prosa, solitamente, a occuparsene è mia moglie (la regista): fa un lavoro di ricerca tra gli autori e cerca un copione che si allinei con i gusti del nostro pubblico e con le qualità dei nostri collaboratori; il copione, poi, è arricchito dal contributo dei nostri attori e interpreti.  Il lavoro con la musica è altrettanto appassionante: io e mia moglie perdiamo ore a comporre o a riarrangiare i pezzi, finché il risultato non soddisfa entrambi.

foto-gilda-1Qual è il punto di forza per cui il pubblico vi apprezza?

Credo che il nostro punto di forza sia affrontare il teatro d’autore come una risorsa: interpretiamo i grandi classici con passione, e cerchiamo di trasmetterla anche ai  nostri allievi e agli spettatori. Ci piace che il pubblico, ormai un po’ disabituato alla letteratura teatrale, scopra che la drammaturgia di 500 anni fa può appassionare, divertire e fare riflettere anche oggi.

Voi portate il teatro ai ragazzi delle scuole e degli oratori, quali sono le difficoltà che si incontrano?

La difficoltà principale è impostare i ritmi del lavoro: il teatro è divertente, ma richiede applicazione e impegno. Le settimane dopo la consegna del copione sono cruciali, perché vengono assegnate le parti da studiare. Ma trascorse le prime prove, comincia il conto alla rovescia per lo spettacolo finale, e il tempo vola. Gli allestimenti con i giovani sono senza dubbio speciali, perché si può toccare con mano il “miracolo” del teatro: spesso e volentieri si vedono ragazzi da cui non ci si sarebbe aspettato niente che rivelano un’incredibile attitudine al palcoscenico! Oltre a questo, è sempre bellissimo osservare come la collaborazione tra di loro cresca a ogni prova, così come è unico il modo con cui interiorizzano naturalmente,  senza tecnicismi, il loro personaggio.

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Siete una compagnia “itinerante” che si adatta a diversi luoghi: pensi ci siano parallelismi con la commedia dell’arte?

A essere sinceri, ci sentiamo la versione 2.0 della commedia dell’arte! In primo luogo, come i primi comici dell’arte, gran parte dei nostri attori non ha frequentato accademie, ma ha imparato le arti di scena soprattutto attraverso l’esperienza del palcoscenico. In secondo luogo, anche noi viviamo grazie al pubblico: non abbiamo finanziamenti pubblici, e la sopravvivenza della compagnia dipende dalla qualità del lavoro effettuato. In terzo luogo, come le antiche compagnie, anche noi dobbiamo ingegnarci a sopperire a tutte le necessità dei nostri spettacoli, imparando a fare un po’ di tutto. Le grandi differenze con la commedia dell’arte è che noi lavoriamo con il copione, e non a canovaccio, e che esploriamo diverse tipologie di spettacolo.

Cosa ti ha fatto appassionare al teatro? E cosa continua ad alimentare questa passione?

All’inizio, creare una compagnia teatrale era una sfida: io sono un musicista e, insieme a un gruppo di amici, suonavo cover di canzoni famose. Col tempo, però, ho pensato che fosse meno scontato usare la musica come elemento di uno spettacolo: ne ho parlato con i miei amici e, attraverso il passaparola, abbiamo cominciato a costruire una compagnia di giovanissimi, con attori e musicisti di età compresa tra i 15 e i 20 anni. All’inizio volevo solo suonare ma poi, proprio prima del debutto, l’attore protagonista si è tirato indietro e ho dovuto sostituirlo. Ho scoperto che recitare mi piaceva, e da lì non ho più smesso. Nel 2008 è entrata nella compagnia quella che oggi è mia moglie. Ci siamo conosciuti col teatro e, ancora adesso, lavoriamo per far crescere la compagnia. Per noi è una passione, oltre che qualcosa che ci consente di realizzare qualcosa insieme e condividere la parte migliore del tempo libero.

Il risultato finale corrisponde sempre all’ idea iniziale o ci sono sempre rilevanti  cambiamenti in corso d’opera?

La scelta di un nuovo spettacolo da inscenare è un processo molto articolato. Una volta avuta l’idea si fa uno studio di fattibilità che metta in luce i punti di forza, il target a cui si rivolge e gli enti che potrebbero inscenarlo. Una volta passata questa prima fase si studia l’aspetto economico: l’investimento per gli oggetti di scena, il vestiario e la scenografia. Solo in un ultima fase si crea il copione e si organizzano le prove: per ottimizzare costi e energie, le prove teatrali vengono schedulate in un timetable dettagliato in modo da minimizzare i tempi e cercare di arrivare allo spettacolo molto più velocemente. Dall’idea al debutto il tempo che passa va dai 6 ai 9 mesi. Nella nostra esperienza il risultato finale corrisponde sempre all’idea iniziale: questo è garantito dalle analisi preparatorie che danno una garanzia di successo.

Ad una persona che conosce poco il teatro cosa consiglieresti?

È una domanda che ci poniamo ogni volta che creiamo uno spettacolo nuovo. Secondo noi non c’è uno spettacolo da vedere, il pubblico dovrebbe vedere un po’ di tutto per creare una sensibilità e un gusto teatrale proprio. Ovviamente noi siamo di parte, e consigliamo tutta la prosa d’autore e le opere moderne, che riescono a creare quella ricetta ideale di musica, danza, scenografia e recitazione in grado di trasportare in un’altra dimensione.

In un mondo con internet, TV, cinema e molto altro, che senso ha fare teatro?

Secondo noi, fare teatro ha senso proprio perché ci sono cinema, internet e TV! Siamo così abituati a vedere gli attori attraverso uno schermo che ci dimentichiamo che recitare è una cosa alla portata di tutti. Il teatro, come il cinema, è una sala in cui la realtà è tagliata fuori per qualche ora; la differenza è che gli spettacoli teatrali sono sempre diversi, e dipendono molto dalla reazione del pubblico: inevitabilmente, il teatro è qualcosa che l’attore costruisce insieme agli spettatori. Il teatro è una forma d’arte viva che va riscoperta e valorizzata.

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Eroi, aspiranti umani

Il tema dell’eroe potrebbe essere analizzato sotto differenti aspetti, filtri tematici che ne farebbero emergere caratteristiche comuni, universalmente valide per gli eroi di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Contestualmente, un’ideale macro categoria eroica risulterebbe talmente ampia che dovrebbe ospitare al suo interno, senza forse volerlo, una serie di formulazioni differenti che, non trovando elementi di intersezione, sarebbero destinate ad allontanarsi l’una dall’altra in una sorta di repulsione magnetica. Il motivo di queste divergenze, forse, è da rintracciare in una concezione di eroe che nasce dal basso, da una necessità più profonda, rabdomanticamente presente nell’essere umano quale individuo all’interno di uno specifico paradigma culturale.

Joseph Campbell (1904-1987), saggista impegnato nello studio della mitologia e autore, tra altre opere, de L’eroe dai mille volti e Il potere del mito.

L’Eroe, infatti, rappresenta l’afflato di un popolo, l’espressione di un gruppo che in questo modo concreta e rende tangibile la sua storia e le sue aspirazioni sociali e morali. Nel tentativo di tracciare un filo rosso che sagomi la silhouette di un modello assoluto, non ci si può esimere dal citare colui che più di tutti si adoperò per trovarne l’archetipo: Joseph Campbell.

Studioso di mitologia, antropologia e religione nonché scrittore, Campbell aveva ben compreso che miti, leggende, favole e fiabe raccontano lo stesso viaggio, quello dell’eroe. Nel 1949, con L’Eroe dai Mille Volti, un’indagine che attraversa tutte le culture e tutte le epoche, accende la curiosità del mondo su questo argomento, marcando la funzione che l’eroe ha svolto nel corso dei tempi e individuando le connessioni tra mitologia comparata e psicologia analitica. Andando ora oltre quello che lui definì Monomito e alle innate caratteristiche mitopoietiche dell’essere umano, preme qui sottolineare come Campbell abbia sempre tenuto a rendere esplicite le similitudini che l’eroe ha con la nostra vita.

Monomito o il Viaggio dell’Eroe, ossia lo schema che sta alla base della struttura narrativa dei miti, elaborato da Campbell.

Sia esso divinità passata per le traversie mortali o umano che per le sue gesta leggendarie si è innalzato a una vita divina, l’immaginario collettivo rende necessario un passaggio attraverso la condizione umana. Non a caso, l’etimologia greca del termine ἥρως ci tramanda l’idea di condottiero, principe, signore ma soprattutto di uomo – vir.

Nella civiltà greco-romana l’eroe è fondamentale nella vita quotidiana e depositario di qualità e valori esemplari per la comunità: sia che debba giustificare le nobili origini del proprio status sia che raffiguri il mito dell’homo novus ciceroniano, esso è portatore di quella concezione etica basata sull’ideale di un’umanità positiva e fiduciosa nelle proprie capacità che verrà suggellata nel concetto di humanitas.

Le imprese titaniche della poesia epica ci hanno trasmesso un ideale eroico che sublima nella sfera del divino ed esercita la sua forza con dispregio della pietà. Già tra i due immortali poemi omerici e tra i suoi due protagonisti, però, c’è uno scarto che delinea due differenti tipologie di eroe.

Odisseo che insegue Circe; vaso con figure rosse (440 a.C. circa).

Se in Achille, il valoroso condottiero greco, con il suo carattere impetuoso, istintivo e irrazionale, rifulge tutto lo status dell’aristocrazia guerriera, alla continua ricerca di gloria e onore, Ulisse ci trasmette l’idea di una personalità riflessiva, astuta, nostalgica, desiderosa di tornare in patria e quindi attaccata alla vita terrena.

Se l’Iliade racconti pochissimi fatti facendo primeggiare sentimenti e passioni dei suoi protagonisti, è nell’Odissea che emergono i tratti dell’eroe più umanizzato, il primo eroe moderno del quale anche Dante riconoscerà la lezione morale: “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”, declamava Ulisse incitando i suoi all’impresa.

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Paolo Uccello, San Giorgio e il drago (1456 circa).

Con Virgilio siamo di fronte a un uomo fra gli uomini. La pietas di Enea è intrisa di umanissima profondità che se da un lato lo sottomette al volere del Fato, dall’altro ci fa avvertire tutto il peso e il tormento del compito deputatogli.

Rispetto a un’antichità dove primeggia la forza sovrumana dell’eroe, spesso crudele come la legge della natura, nel messaggio cristiano l’eroe diventa paladino di coraggio morale, difensore di valori umani, che accoglie una terminologia costruita su virtù quali iustitia, pietas, fides, libertas, che non perpetuano quelle romane ma rivestono altro significato.

Certamente questa umanizzazione procede per gradi. Nel mondo medievale tedesco l’epopea germanica si rappresenta in Sigfrido con caratteri propri di quella greco-romana. È il prodigioso che mantiene viva la narrazione con un eroe protagonista che conserva il pathos di una fatale predestinazione. Si fa quindi avanti la spiritualità attraverso opere in cui si affacciano le gesta eroiche dei crociati. Ma non dimentichiamo che la religiosità non impedisce di tornare a descrivere eroi valorosi animati da profonde passioni,  dove il campo di battaglia ne esalta le doti.

Raffaello Sanzio, Il sogno del cavaliere (1498-1500).

Basta sfogliare una Gerusalemme Liberata e ancor prima l’Orlando Furioso per trovare coraggio e fedeltà tra i contendenti in primo piano; è l’anelito che poi inviterà sempre più a porre lo sguardo sui valori universali, gli unici in grado di compensare ansie e debolezze.

L’eterna ricerca dell’essere umano per la sua vera essenza, la chiamata, il viaggio, la crescita, la trasformazione, l’andare oltre i limiti delle nostre possibilità sono soglie che ci riguardano da vicino.

La dinamica dell’eroe così come ce l’ha voluta insegnare Campbell è un ricettacolo di storie primordiali che, germogliando, conduce verso il nostro personale viaggio: esemplificazione e semplificazione della nostra realtà di uomini.

 

 

In copertina: La battaglia di Roncisvalle, arazzo in lana e seta (1475-1500 circa).

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The drop that carves the stone: is work in the social sector really heroic?

Charities and non governmental organisations are commonly regarded as important change makers for underprivileged social groups: born from eighteenth century philanthropy, they initially aimed at providing relief to those at the margins of the social body, and later took on advocacy roles, campaigning for legal changes such as the abolition of slavery.

The remit of these organisations has since considerably expanded, filling in many cases the vacuum left by the dismantling of state-provided social welfare, and sometimes leading them to become principal providers of crucial services in both developing countries and some of the richest nations on earth. Their effort to support those left behind by capitalist development, or affected by conflict, natural disasters and various forms of social injustice, has earned organisations and individuals operating in the social sector an almost-heroic reputation in the eyes of many, but are they really heroic?

To answer this question I talked to three women who have been involved in different organisations and projects that tackle social issues. Livia is a newly qualified medic who volunteers with refugees and asylum seekers (many of whom live in Selam Palace, a squatted building at the periphery of Rome) in Italy, advising them on their rights in the country and providing medical care as part of her position in the organisation Cittadini del Mondo (Citizens of the World). Last year Livia also spent some time in Kenya volunteering for an unrelated organisation that focuses on preventative work against the most common diseases in the area.

 

Livia at Selam Palace, 2016, Gaetano Di Filippo, All rights reserved

 

While she relays that Citizens of the World has achieved good results through its advocacy work, managing to obtain better provisions and services for refugees, she is less enthusiastic about her time in Kenya. She admits that her host organisation certainly has an important role in the area, as it provides medical services that are difficult to access through the national health system, but relays that the project is run as a private hospital, accessible through social insurance and therefore unable to cater for those at the lowest end of the economic spectrum.

Milena was also involved with Citizens of the World for almost two years while living in Rome, and shares Livia’s enthusiasm for the way the organisation works with very limited resources to provide important services to migrants and advocate for them. However, she eventually grew dissatisfied with the difficulties encountered in carrying out long-lasting and effective interventions, a consequence of the lack of a long-term strategy of resettlement on the part of the Italian government.

Today she is based in Ayacucho, Peru, as part of her internship with CESVI (an Italian organisation that works in international development) where she supports four associations of organic quinoa producers to strengthen their position on international markets. Milena relays that she sees the agricultural sector as capable of achieving practical, lasting benefits for the groups involved, thanks to its long-term strategies and planning, an approach drastically opposed to that she observed in her work with migrants.

 

A picture taken by Milena in Peru, 2015, All rights reserved

 

After years of activism with Amnesty International, a number of volunteering experiences in refugee camps and migrant resettlement centres in Sicily, Palestine and Jordan, Marina now works with the social enterprise Il Cenacolo, in Florence, Italy. Her current role is to provide information on the practicalities of life in Italy to newly arrived refugees and asylum seekers, supporting them in understanding their rights under international law and in accessing medical and legal services.

She relays that all her roles in the social sector have been active and dynamic, and that she has always seen a true impact on service users. On the other hand, she too is dissatisfied with the way the reception of migrants is handled in Italy, and sees some of the shortcomings of third sector organisations as motivated by their dependency on governments, explaining: «You always work with governments or on issues on which governments choose to take action, so organisations are restricted by what governments decide to do».

Another major factor that curtails the ability of charities and NGOs to carry out truly transformative work is their dependency on funding bodies. Not only, as Marina mentions, more money is needed to finance activities and pay staff – who, despite being fully trained and qualified, often carry out their work on a voluntary basis – but those who provide the financial resources to carry out the activities may set their own standards of service and thus end up shaping the organisations’ goals.

 

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Wadi Rum Jordan, 2020, Heidelbergerin (from Pixabay), Free for commercial use, No attribution required

 

Milena for example explains that the way funding works means that «you are forced to liaise with people who do not share the values of the work». The other issue she identifies is the necessity of working on time-limited and strictly monitored projects: «[projects] are … linked to targets … if you don’t carry out the activities [agreed] you have to return that portion of money, which is fair, but it means that you lose credibility for future applications … so you end up employing unqualified people to carry out the activities in the times agreed».

The women I interviewed all take issue with the idea that work in the social sector may be described as heroic: «Portraying solidarity as extraordinary makes me uneasy» explains Milena, «and it doesn’t picture the nuances of the actual challenges [encountered]». Livia adds that «the idea that volunteers are ‘heroes’, can help create an alibi for those who are not involved in the social sector … we like to say ‘they are heroes’ because … [if] they are ‘heroes’, they are something different from us. [the consequence is that] We can stay at home, leaving the dirty job for them to do without feeling uncomfortable». For Livia the essence of work in the social sector is rather that of “taking position” in a world characterised by too much inequality, and Milena similarly describes commitment in this field as a mixture of “solidarity,” “participation” and “activism”.

These women’s insistence on everyday challenges and on the necessity of long-term planning for successful interventions, seems to place engagement with social issues squarely in the realm of the ordinary. Characterised as it is by limits and contradictions, work in the social sector hardly embodies any heroic characteristics, but this doesn’t lessen its value: social change takes time to happen and commitment to it resembles less a rare act of courage than, as Marina puts it, the quotidian tenacity of “the drop that carves the stone”.

 

Cover photo: Hands, 2013, Thewet Nonthachai (from Pixabay), Free for commercial use, No attribution required.

I premi Nobel per la Pace: eroi del nostro tempo?

Era il 10 Dicembre 1986 quando Alfred Nobel, noto chimico e filantropo svedese, morì, lasciando nel suo testamento la maggior parte delle sue ricchezze all’istituzione di cinque riconoscimenti che sarebbero diventati famosi in tutto il mondo – i premi Nobel. Se quattro di essi sono conferiti in base a risultati ottenuti in specifiche discipline (chimica, medicina, fisica, letteratura), il Nobel per la Pace è invece assegnato “alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace”. Il premio ha certamente un fine lodevole, gode di risonanza mondiale e conferisce grande prestigio, ma è corretto definirne i vincitori come gli eroi del nostro tempo?
La risposta è complicata, anche perché dall’assegnazione del primo Nobel nel 1901 il concetto di pace e l’interpretazione del testamento di Alfred Nobel sono cambiati più volte nel corso dei suoi 115 anni di storia. Se prima della seconda guerra mondiale il premio era conferito soprattutto a politici attivi nel promuovere la risoluzione di conflitti con mezzi diplomatici o accordi internazionali, dal 1945 in poi il Comitato per l’Assegnazione ha ampliato il focus, premiando anche attivisti per la democrazia e per i diritti umani. Nell’ultimo decennio, inoltre, con i premi all’ambientalista Wangari Maathai nel 2004 e al Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico e Al Gore nel 2007, il concetto di pace si è allargato ad includere gli sforzi nella lotta al cambiamento climatico e ai danni ambientali causati dall’uomo.

Henry Kissinger e Le Duc Tho, 26 Ottobre 1972
Henry Kissinger e Le Duc Tho, 26 Ottobre 1972

Se i criteri di assegnazione si sono quindi evoluti ed ampliati negli anni, l’elemento che rimane una costante sono invece le polemiche scatenate dal premio, che si fanno particolarmente accese nel caso di vincita da parte di figure politiche controverse. Il caso forse più eclatante è stato quello del premio assegnato nel 1973 a Henry Kissinger, segretario di Stato durante la presidenza Nixon, e al diplomatico vietnamita Le Duc Tho, per l’accordo di cessate il fuoco raggiunto nella guerra del Vietnam. Il premio ha suscitato numerose polemiche, in quanto gli accordi, sebbene abbiano dato inizio al ritiro delle truppe statunitensi, non hanno però portato alla pace nel Paese, motivo per cui Le Duc rifiutò il Nobel. Nello stesso anno, inoltre, il presidente cileno Salvador Allende viene ucciso durante un colpo di Stato sostenuto dagli Stati Uniti, gettando ulteriore ombra sul premio di Kissinger, nonostante la sua diretta responsabilità del golpe non sia mai stata provata.

I vincitori del premio Nobel per la Pace nel 1994 da sinistra verso destra): Yasser Arafat, Simon Peres, Yitzhak Rabin.
I vincitori del premio Nobel per la Pace nel 1994 (da sinistra verso destra): Yasser Arafat, Simon Peres, Yitzhak Rabin.

Un altro vincitore controverso del Nobel è stato Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che nel 1994 ottenne il premio insieme al premier israeliano Yitzhak Rabin e al Ministro degli Esteri israeliano Simon Peres per gli sforzi compiuti per la pace in Medio Oriente. Numerose critiche sono state mosse al Comitato in merito all’assegnazione, sia per il successivo fallimento degli accordi di Pace, sia per la controversa figura di Arafat, che molti consideravano un sostenitore del terrorismo contro Israele.
Più recentemente, tra i politici vincitori del Nobel che hanno suscitato numerose polemiche compare anche Barack Obama, che venne insignito del premio nel 2009, lo stesso anno in cui divenne presidente degli Stati Uniti. Molti considerarono tale assegnazione prematura, immeritata e dettata da fini politici, tanto che lo stesso Obama si definì sorpreso e non meritevole del riconoscimento.

Wangari Maathai
Wangari Maathai

Tuttavia, non sono stati solo i premi assegnati a personaggi politici a scatenare le critiche dell’opinione pubblica mondiale. E’ il caso ad esempio di Madre Teresa di Calcutta, vincitrice del Nobel nel 1979, che durante la cerimonia si scagliò contro la legalizzazione dell’aborto suscitando proteste da parte di numerosi attivisti, che, come dimostrano le varie voci critiche levatesi in occasione della sua canonizzazione lo scorso 4 settembre, non si sono ancora placate. Più recentemente, nel 2004, quando Wangari Maathai, attivista e fondatrice del Green Belt Movement, venne annunciata come vincitrice, un giornale africano dichiarò che l’ambientalista aveva sostenuto in occasione di un convegno sull’AIDS che il virus dell’HIV era stato creato in laboratorio dalle potenze occidentali con il fine di sterminare le popolazioni dell’Africa. Sebbene Maathai abbia più volte negato di avere mai fatto tale affermazione, la premiazione si è svolta comunque tra le polemiche.
I Nobel per la Pace fanno inoltre scalpore anche quando non vengono assegnati. Celebre infatti è il caso di Mahatma Gandhi, nominato per ben cinque volte ma mai dichiarato vincitore. Sono in molti a pensare che nessun altra figura simboleggi la lotta non-violenta quanto Gandhi e che la mancata assegnazione del premio rappresenti una macchia indelebile nella storia dei Nobel per la Pace.

Donald Trump
Donald Trump

Infine, risale allo scorso marzo la notizia che anche Donald Trump sarebbe tra i nominati per il 2016. Secondo il direttore del Peace Research Institute di Oslo, infatti, la commissione avrebbe ricevuto una lettera di nomina – il cui mittente non è noto – per il controverso candidato alla presidenza degli Stati Uniti per la sua “vigorosa ideologia della pace attraverso la forza, utilizzata come un’arma di deterrenza contro l’Islam, l’Isis, la minaccia nucleare in Iran e la Cina Comunista”.
Tali controversie legate al Nobel per la Pace hanno gettato diverse ombre sulla legittimità dei criteri di assegnazione e sulla validità del premio stesso. Ciononostante, tra i più di 300 premi per la pace esistenti al mondo, il Nobel resta il riconoscimento più insigne ed universalmente riconosciuto. Forse i vincitori non saranno tutti degli eroi, ma l’idea che l’impegno per la pace vada premiato e goda di un sostegno mondiale è certamente degna della nostra ammirazione.