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Mese: Ottobre 2016

Sovrappopolazione, il caso “informale” dell’India

«Overpopulation is really not overpopulation. It’s a question about poverty», questa l’opinione di Nicholas Eberstadt, demografo dell’American Enterprise Institute di Washington, ripresa dall’autorevole rivista Nature nella lista dei falsi miti della scienza vivi e vegeti tra i comuni mortali, in cui compare anche quello della crescita esponenziale della popolazione. Se per sovrappopolazione s’intende l’eccedenza della popolazione sui mezzi di sussistenza, secondo i dati non ci sarebbe da preoccuparsi: la popolazione umana non è cresciuta e non sta crescendo in modo smisurato e il tasso di produzione alimentare globale supera la crescita della popolazione. L’invito, ovviamente, è quello di spostare lo sguardo da scenari apocalittici futuribili a quei sistemi economici in cui sussistono disparità gravissime all’interno della popolazione, in cui i poveri sono sempre di più e più poveri.

Caso emblematico e contraddittorio è l’India: con una popolazione di circa 1,3 miliardi di abitanti, seconda solo a quella cinese (e ancora per poco: il numero è destinato a crescere fino a 1,7 miliardi nel 2050) e un Pil in aumento del 7,6 % nell’anno in corso, l’India è l’economia mondiale a più rapida crescita, stavolta superando la Cina (+ 6,8%).

All’India millenaria, affascinante e maestosa come i templi del Karnataka e del Kajuraho, si affianca l’immagine di un’India moderna, l’India degli splendori di Bollywood e di Bangalore, l’India come potenza economica emergente e rampante del Sud-est asiatico.

Nei suoi ritratti, però, rimane invariato lo scenario di una povertà estrema e diffusissima che ancora oggi affligge ampi strati della sua popolazione.

L’aumento demografico: la lotteria dei corpi

Dagli anni Settanta ad oggi, il governo centrale e quelli locali del Subcontinente hanno cercato di attuare delle strategie di contenimento delle nascite, soprattutto nelle zone rurali del Paese, dalle campagne di vasectomia forzata volute da Sanjay Gandhi alle più recenti sterilizzazioni di massa delle donne, operazioni più semplici e di gran lunga meno osteggiate rispetto a quelle maschili.

Probabilmente è per questi motivi che l’India ha continuato a preferire questi metodi a una campagna di informazione e sensibilizzazione sull’uso di contraccettivi, nonostante la crescita economica costante, nonostante il sistema sanitario carente.

In cambio? Pochi dollari, ma anche elettrodomestici, auto e perfino il porto d’armi.

Il prezzo? Dolori e complicazioni post-operatorie e, spesso, la morte.

L’aumento del Pil: il boom e il grande (settore) assente

Negli anni Novanta però i tassi di fertilità sono scesi significativamente, mentre l’aumento della popolazione in età lavorativa associato all’aumento del tasso di risparmio ha incoraggiato gli investitori esteri che, ricordando le esperienze delle economie emergenti del Sud-est asiatico e del dividendo demografico di cui hanno goduto quando i tassi di fertilità cominciarono a scendere, hanno contribuito alla grande espansione del settore manifatturiero.

A distanza di un ventennio, di fronte a una forza lavoro potenzialmente immensa (l’età media della popolazione è di 27 anni), il governo non è in grado di convertire la crescita del Pil in nuove opportunità di lavoro: dai 60 milioni di posti di lavoro creati nel quinquennio 2000-2005, quando la crescita era stabile sull’8-9%, si è passati ai poco più di 300 mila del 2015, rallentando drasticamente il passo.

L’anello debole dell’economia indiana è il settore manifatturiero, che contribuisce solo per il 17% del Pil, e più in generale l’industria, rappresentata in larga misura da piccole imprese con meno di 50 dipendenti, in cui manca il lavoro su macchinari moderni e, spesso, persino l’elettricità. Le ultime stime definiscono l’immagine paradossale di un Paese emergente che non è passato per la fase dell’industrializzazione, che incide solo con uno scarso 32% sul Pil.

Da dove deriva, allora, la ricchezza dell’India? Un buon 50% dal settore terziario, in cui coesistono attività di alto livello come servizi informatici, back office e consulenze per l’estero con i servizi più umili. Ma da solo non basta.

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Il lavoro “informale”, l’altra metà dell’economia

Scendendo nella scala produttiva, superando le figure specializzate della scuola e delle università, delle amministrazioni locali e dei colossi dell’hi-tech, troviamo un esercito di lavoratori senza diritti né tutele, che vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Costituirebbero il 20% della popolazione urbana e la quasi totalità di quella rurale.

Sono i lavoratori dell’ “economia informale”, che unisce attività lavorative “non registrate”, più che clandestine. Non registrate fino al momento di tirare le somme della ricchezza prodotta dal Paese, perché «senza questo tipo di lavoro, l’India non potrebbe mai vantare i tassi di crescita ai quali ci ha abituati», dichiara Elisabetta Basile, docente di economia alla Sapienza di Roma.

Aggirare gli standard internazionali di produzione è semplice, soprattutto in un settore cruciale come quello manifatturiero: le multinazionali possono falsificare i documenti o affidarsi a una serie di intermediari che fanno arrivare l’ordine a chi materialmente realizza il prodotto, senza sapere se si tratta di anziani o bambini, se lavorano in condizioni di sicurezza o addirittura dalla propria abitazione.

E così, nell’ombra, questo popolo invisibile contribuisce almeno al 50% del Pil indiano.

Indian dream: un’occasione mancata?

Oggi i mercati finanziari guardano con nuovo interesse allo sviluppo dell’India. Alle ultime azioni del governo di Narendra Modi, che ha lanciato il programma Make in India per attrarre delocalizzazioni e investimenti, o al recente taglio del costo del denaro per incentivare l’imprenditoria interna.
Tuttavia, non si perdono di vista le grandi contraddizioni di un Paese grande e popoloso come un continente, in cui ogni anno si laureano 2 milioni di ingegneri ma solo il 18% dei lavoratori dichiara di avere una posizione stabile e ben retribuita, contro un 50% della popolazione impiegata nell’agricoltura, che produce solo il 16% della ricchezza.
Una situazione, questa, che genera insoddisfazione soprattutto tra i più giovani, che insieme ai lavoratori sottopagati dell’industria e alle donne, costituiscono le categorie sociali più frustrate e incandescenti. E se è vero che l’instabilità socio-politica non è una valida alleata della crescita economica di un Paese sul mercato mondiale, anche questo è un dato importante, al di là del Pil.

Vecchi e nuovi continenti, vecchi e nuovi schiavi

La rivolta dello schiavo nero Nut Turner nella Contea di Southampton, in Virginia, che ha ispirato la settimana di Pequod, in occasione dell’anniversario del suo arresto, avvenuto il 30 Novembre 1831, è stato quest’anno al centro delle conversazioni della critica cinematografica. Premiato dal pubblico e dalla giuria nella sezione U.S. Dramatic al Sudance Film Festival e accolto con una standing ovation al Toronto International Film Festival, The Birth of a Nation, il film scritto, diretto e interpretato da Nate Parker, sarà nei cinema italiani a partire da gennaio 2017.

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Nate Parker, regista di “The Birth of a Nation” (gettyimages)

La trama ripercorre la vita del protagonista dalla nascita come schiavo, alla fanciullezza in cui riceve un’educazione eccezionale in virtù della singolare intelligenza, dalla lettura della Bibbia e l’opera di predicatore, alla fuga e poi all’insurrezione del 1831. Nut Turner si pose alla guida di una cinquantina di schiavi neri, in marcia per conquistare la libertà; una strada difficile e più che sanguinosa, di cui Parker non risparmia i particolari più cruenti tanto quando mette in scena la folle marcia verso le Paludi della Morte, dove rifugiarsi distanti dalla città, trasformatasi in un bagno di sangue per l’uccisione di 55 bianchi, onde evitare il divagare di notizie sulla fuga; quanto al momento della cattura e poi dell’impiccagione di Turner, insieme a sedici compagni, mentre si dichiara fiero degli atti compiuti per liberare la propria gente.

«Potevo andare avanti leggendo sceneggiature in cui la gente di colore viene rappresentata in base ai soliti stereotipi, oppure potevo scegliere di lanciarmi in un progetto che avesse la forza di cambiare il tono del dibattito, creando opportunità per lasciare un segno sulla realtà» dichiara Parker, che provocatoriamente riprende il titolo del film muto di Griffith del 1916, accusato di istigazione all’odio razziale per la promozione di un’idea del Klu Klux Klan come principale agente d’ordine nel Sud scosso dalla guerra civile. Che abbia effettivamente superato questi stereotipi è messo in dubbio dalla critica: musiche pompose, alternarsi di scene pregne d’azioni a stacchi dal pathos pesante, ritratti stereotipati dell’America dell’Ottocento non convincono gli spettatori; certo è che ha lasciato un segno sulla realtà, mettendo in luce la straordinaria figura storica di Nut Turner.

Altro lungometraggio interessante, distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a giugno 2016, è il lavoro scritto e diretto da Gary Gross, Free State of Jones, che apre nuove prospettive rompendo il classico bipolarismo delle guerre e soprattutto della visione politica statunitense, divisa prima tra nordisti e sudisti, oggi tra democratici e repubblicani. Si tratta ancora una volta di una biografia storica: protagonista è Newton Knight, contadino bianco del Mississippi che organizzò una ribellione nella contea di Jones insieme ad alcuni schiavi neri, tra cui la moglie Rachel, e compagni d’armi sudisti, fondando la prima comunità multietnica del dopoguerra.

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Gary Ross, regista di “Free State of Jones” (craveonline)

Nonostante nel film non manchino apologia e lodi della bandiera a stelle e strisce cui il cinema statunitense ci ha abituati, evidente è la sincerità con cui è delineato il ritratto del protagonista, di fronte ai cui ideali pacifisti le posizioni di patriottismo americano si sgretolano, lasciando posto ai diritti e alle necessità di un popolo, fatto ormai per lo più di vedove private dalla guerra anche degli ultimi averi. Un pensiero del tutto nuovo quello di Knight, che sogna un’America fatta solo di uomini liberi, indipendentemente dal colore della pelle; un pensiero precorritore dei tempi, in un’America degli anni ’50 immersa nel razzismo e nelle sue espressioni violente, largamente concesse e istituzionalmente riconosciute.

«Nessun uomo deve essere un negro (nigger, inteso come schiavo, sfruttato) per qualche altro uomo» proclama Knight all’atto di fondazione della Contea Libera di Jones, stabilendo il principio cardine della comunità. Esprime così un’utopia, un sogno mai completamente realizzatosi in America, in quell’isola idealmente felice che sono gli USA, abitata di uomini divisi fra sogno e realtà, fra speranza e disperazione, fra l’essere nigger o avere diritto alla libertà. Le idee di Knight erano straordinariamente moderne a fine ‘800, quando fondò la Contea Libera di Jones, e sono straordinariamente moderne oggi, di fronte a politici che ancora istigano all’odio razziale; a Gary Gross il merito di avergli dato voce.

Anche il cinema italiano quest’anno si è rivolto al tema della schiavitù, riletto in chiave doverosamente nostrana: è uscito nelle sale a maggio 2016 l’ultimo lavoro del documentarista Andrea D’Ambrosio, dal titolo Due euro l’ora, che racconta una delle numerose tragedie che periodicamente sconvolgono la penisola, da imputarsi all’omertà che ruota attorno al caporalato.

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Andrea D’Ambrosio, regista di “Due euro l’ora” (Italia2Tv)

L’opera è liberamente ispirata a una vicenda di cronaca risalente al 5 luglio 2006, quando in un incendio scoppiato in un materassificio abusivo nel comune di Montesano della Macellana, in Campania, videro la morte le operaie Annamaria Marcadante, 49 anni, e Giovanna Curcio, 16 anni. D’Ambrosio dedica alle due donne il suo lavoro, che rilegge in chiave romanzata la vita di queste due vittime di un fenomeno che da sempre ferisce il Mezzogiorno: la diciassettenne Rosa, innamorata di un uomo più grande migrato in Svizzera, orfana di madre e in conflitto con il padre spesso distante per lavoro, trascura gli studi di cui non riesce a cogliere l’utilità e cerca di trovare la via per la propria emancipazione in una fabbrica clandestina di tessuti. Qui in contra Gladys, di rientro dal Venezuela, costretta dal mero fatto di essere una migrante, poco consapevole dei diritti che dovrebbero esserle riconosciuti e inserita in un ambiente che non emancipa e non educa a un pensiero civile, ad accettare il lavoro di cucitura per due euro l’ora.

Scena madre del film di D’Ambrosio è quella che vede l’ingresso dei carabinieri all’interno della fabbrica, non dichiarata al fisco e estranea a qualsiasi norma di sicurezza; le forze dell’ordine finiscono col fermarsi a bere un caffè, chiacchierando con il proprietario dell’azienda. È una scena di forte denuncia, ma che dista poco dalla realtà: «Il lavoro gliel’aveva trovato non un caporale, bensì l’allora sindaco di Casalbuono, Santino Barone» ha dichiarato a Internazionale Pasquale Curzio, padre di Giovanna.

In copertina: scena tratta dal film “The Birth of a Nation”.

Articolo di Sara Ferrari e Andrea Turchi

Voci di periferia ci parlano di Nuovi schiavi, Studio del limite di X

Una settimana dedicata al tema della schiavitù e un tema pensante e al contempo delicato da affrontare. Voci di periferia, una nuovissima compagnia teatrale ha dato la propria idea di schiavitù contestualizzata ai nostri tempi con lo spettacolo Nuovi Schiavi, Studio del limite di X. Le voci di periferia di Serena Gotti, Alice Laspina e Alberto Pedruzzi mi hanno raccontato il percorso della compagnia e dello spettacolo. La compagnia nacque insieme allo spettacolo. Conosciutisi al progetto Young del teatro Donizetti, consci del desiderio di lavorare con l’altro, si sono buttati nel progetto dello spettacolo.

L’occasione

La spinta decisiva per l’inizio di questa promettente collaborazione è stata dell’evento Wake Up di fine estate, organizzato dal Civico G10 del paese di Torre Boldone, in provincia di Bergamo. L’idea di questi giovani organizzatori, nella seconda edizione del loro evento, era quella di ospitare artisti di vario genere. I ragazzi del progetto, essendo compaesani di Alberto e a conoscenza del suo percorso di studi teatrali, lo coinvolsero direttamente per la partecipazione all’evento; continua Alberto: «Questo succedeva a marzo. Poi, nel corso dei mesi successivi, riflettendo sul da farsi e su quello che volevo portare come contributo artistico all’evento, ho deciso di coinvolgere Serena e Alice per creare insieme a loro un nuovo spettacolo: Nuovi schiavi. Studio del limite di X. La collaborazione lavorativa tra noi era già nell’aria».

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Alberto Pedruzzi

L’idea

Si parte dall’analisi del concetto di vuoto: ragionando sull’evento Wake up, all’interno del quale lo spettacolo e la compagnia avrebbero debuttato, l’effetto desiderato era quello di risvegliare la comunità e in particolare quella giovanile del paese. Coincidenza vuole che i tre attori avessero da poco lavorato sull’improvvisazione intorno al tema del vuoto all’interno del loro percorso donizettiano. Unite queste due antitesi, hanno iniziato individualmente una raccolta di materiali inerenti ai temi: da testi filosofici, testi di canzoni, quadri, libri. Confrontatisi, hanno scelto come testo di partenza il Mito della caverna di Platone, rielaborandolo in maniera personale e in chiave moderna. «L’interesse sul tema era comune: a tutti era chiaro questo paradosso, questo ossimoro per cui quello che ti connette in realtà tende ad allontanarti sempre di più dagli altri. In realtà è un pensiero abbastanza comune, però abbiamo voluto svilupparlo agganciandoci a una storia e ricostruendo delle immagini: se gli uomini si trovassero, oggi, in un luogo non luogo, come poteva essere la caverna di Platone, e solo uno di loro decidesse di uscire, cosa troverebbe al di fuori? Quale potrebbe essere il suo percorso? Con questo spettacolo, l’obbiettivo è quello di tirare un pugno nello stomaco (in senso lato), lasciare che il pubblico rimanga basito e che rifletta su quel che ha visto mentre se ne torna a casa. Donare uno spunto di riflessione: è questo quel che ci interessa. Ragiona e svegliati, wake up!» approfondisce Alice.

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Alice Laspina e Serena Gotti nella scena della “Bottega del Nulla”

Schiavitù mascherate e nuovi schiavi

Il pensiero dei tre attori verte sull’autoschiavizzarsi in una quotidianità che spesso preclude di essere liberi. Un tipo di schiavitù del pensiero che colpisce un po’ tutti, anche perché legata sia in generale ai nuovi media, ma anche all’apparire. Mi spiegano: «Lavorare sull’apparenza è anche lavorare sugli opposti, sulla realtà e la concretezza. Può sembrare una cosa molto banale e basilare da dire: perché ci schiavizziamo da soli all’interno della società consumistica, quindi è qualcosa di incentrato non solo sulle nuove tecnologie. Distinguere i bisogni e uscire dal circolo vizioso degli acquisti inutili ragionando sul rapporto tutto-nulla che spesso, come nella fisica, sono la stessa cosa. Quello che accomuna le schiavitù a livello professionale, emotivo-relazionale e sociale è l’ANNICHILIRSI. Dove finisce la tua libertà inizia quella di un altro, ma quando ti ritrovi costretto e senza possibilità di scelta, sei schiavo. La schiavitù oggi esiste, solo che è molto più subdola, sottile e camuffata».

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Alice Laspina nella scena di “Miss Vanità”

Nuovi schiavi. Studio del limite di X

Si vede il mondo in modo diverso: quello della “schiavitù tecnologica”. Il modo in cui viene portato alla luce dai tre attori prende in giro il mondo. Un lavoro molto personale sul tema per cui è l’artista a creare qualcosa che possa essere al meglio comunicato con il mezzo Teatro. «Abbiamo preso questo tema e ci abbiamo messo del nostro dall’inizio alla fine perché, oltre al testo, oltre al lavoro sullo spettacolo in sé, ci siamo occupati di disegnare la scenografia, siamo andati a recuperare gli oggetti di scena dai cassonetti della discarica, abbiamo pensato e costruito le quinte e l’intero palco, il disegno luci e affrontato anche i problemi logistici e burocratici con il comune di Torre Boldone». Attori – tuttofare.

Voci di periferia dopo il debutto

I commenti sullo spettacolo: chiesti, cercati e accettati. I tre attori mi sembrano persone molto aperte, molto intelligenti e con una grande volontà di crescita personale attoriale e di gruppo. Se in un lasso di tempo di circa due mesi hanno messo in piedi uno spettacolo (di un’ora piena), si applaude ma non ci si accontenta: per loro questo spettacolo non è il prodotto finito.

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Alberto Pedruzzi e Serena Gotti in una scena dello spettacolo

Il futuro e il lavoro

Ora l’obbiettivo sarà quello di lavorare sulla drammaturgia e sulla scrittura del testo per rendere tutti in qualche modo più evocativo, far si che non tutto passi per forza attraverso le parole. «Esistono dei punti critici che abbiamo osservato anche noi; l’obbiettivo sta nell’esigenza di andare a lavorare proprio su quei punti per far sì che ci sia una giusta dose di ambiguità che allo stesso tempo aiuta a lasciare un libero pensiero – chiaramente accompagnato e indirizzato da chi lo propone, ma con un certo grado di libertà. Se tutto viene spiegato, soprattutto a teatro, è un po’ come se venisse già svelato il finale».

Il passo successivo è portare Nuovi schiavi nei teatri, con la speranza e l’obbiettivo di iniziare a fare di questo progetto una professione. Adattare lo spettacolo ad un pubblico più esigente e dall’occhio abituato a questa forma d’arte, sarà uno dei punti chiave del lavoro, direttamente collegato alle modalità di espressione: come parlare, come esprimere i concetti, avere una migliore consapevolezza sulle propre forze a livello di gruppo. Questo, per trovare un’identità e per rendere il prodotto veramente teatrale, con una certa padronanza di quelle che sono le tecniche più funzionali.

 

L’isola degli schiavi e delle bouganville, Gorée

Ripescando tra i ricordi le immagini di Dakar impresse nella memoria, tra la frenesia di motori e clacson, la confusione dei venditori in strada, l’incanalarsi stretto delle vie dei quartieri di quest’enorme capitale, si aprono fotografie di oasi pacifiche colorate in modo acceso e vivace, profumate di fiori e brezza marina, rallegrate dai suoni della natura e di musicisti muniti di strumenti tradizionali: sono le isole di Ngor e Gorée, piccole perle ornate di bellezze floreali, custodite nel ventre dell’oceano e disvelate all’uomo come un dono.

Passare a Gorée a ogni rientro in Senegal è ormai come un rituale, che garantisce all’animo una scorta di serenità da riportare con sé in Europa. A ogni rientro in Senegal, prendo la strada per il porto e qui, a pochi metri dal mare e dal traghetto dove alle mie origini verrà dato un valore monetario (5000 cfa per gli occidentali, qualcosa meno i cittadini africani, solo qualche moneta per i residenti locali), mi sento ancora una volta sotto accusa e poi assolta. Mi fermo di fronte alla statua dei soldati che si abbracciano, francese uno e senegalese l’altro, uniti nel trionfo della fine della Seconda Guerra Mondiale. Mi fermo pensando a quanti “grazie” abbiamo scordato di dire a questa terra, troppo poco citata nei libri di storia, ma finisco sempre con il sentirmi irrisa dalla stazione che sovrasta il piccolo memoriale, che a fine ‘800 mi avrebbe portata a Saint-Louis, dall’altra parte del paese, e invece ora crolla pigramente, mentre decine e decine di tassisti riempiono di pessimi gas di scarico il cielo sopra il Senegal. Qui come nel resto del mondo, la tecnologia avanza e la modernità soppianta le scoperte del passato, lasciandosi il vecchio alle spalle e valutando in ritardo le conseguenze.

Il porto è stipato di vecchi cimeli che a ogni onda piangono in cigolii gli anni trascorsi in acqua, mangiati da ruggine e salsedine, assemblati in continue nuove forme, inesorabilmente galleggianti. Tra loro si fa strada il traghetto carico di varietà umane e di merci nostrane: la mattina forme femminili avvolte in pagne colorati affollano di chiacchiere e pettegolezzi il ponte; negli orari di punta, le voci allegre e giovani degli studenti dell’istituto Mariama Bâ, titolato a una delle più importanti scrittrici e femministe senegalesi, riempiono la brezza che arriva dal mare di scherzi e lezioni; nei periodi turistici, aumenta il numero di africani non senegalesi sull’isola, discendenti degli schiavi deportati tra il XVI e il XIX secolo, che come in pellegrinaggio vanno a visitare l’Isola di Gorée, l’Isola degli Schiavi.

I residenti locali cercano in ogni modo di distrarre le menti dei turisti, attraverso i cas-cas agitati a produrre un piacevole ritmo e le perline intrecciate in collane uniche, tentando di eludere i sorveglianti che vorrebbero garantire un viaggio senza il petulante chiedere che è una delle caratteristiche del folklore di questo paese. Non meno accogliente è l’approdo, quando Gorée si avvicina in un progressivo definirsi dei contorni di quell’esplosione di colori vivaci che la pitturano: dalle facciate pastello decorate di balconate delle ville coloniali, alle piroghe spennellate artigianalmente di scritte augurali e forme geometriche; dai giardini verso cui incanalano viali straripanti buganvillee rigogliose, ai tessuti e i quadri esposti dagli artisti del mercato artigianale Le Castel; ogni forma colorata e l’accostarsi dei diversi toni formano un insieme genuinamente gioioso.

Quest’isola così piccola e oggi così vivacemente accogliente, è stata per secoli teatro di incredibili orrori, uno tra i più importanti luoghi della più grave diaspora della storia umana, che ha qui lasciato tracce attraverso cui gli africani preservano oggi memoria storica di ciò che hanno subito. Scoperta dai portoghesi nel ‘400, passata ai Paesi Bassi che nel XVI secolo le attribuirono il nome Good Reede (“buon viaggio”; poi traslitterato in Gorée), divenne sotto il dominio francese un importante porto da cui partivano le navi dirette in America. A pochi metri dalla spiaggia che è oggi il punto di attracco dell’isola, nascosta tra fiori e abitazioni affacciate su ampi sterrati interni, la porta della Casa degli Schiavi apre su un cortile non troppo largo in cui impera una scalinata doppia di forma ogivale, che monopolizza lo sguardo, distraendo dalle piccole porte grezze che intervallano i massicci muri rosso intenso dell’edificio. La pelle ebano delle guide che gestiscono il museo oggi nella casa, si illumina dei sorrisi che aprono chiedendo quale lingua sia la prediletta per ascoltare i racconti delle atroci realtà di quella casa. Al piano superiore, dove un tempo gli schiavisti si affacciavano per godere della vista tanto della distesa oceanica, quanto degli schiavi in partenza, illustrazioni di dame imbellettate, che passeggiano con africani al guinzaglio o al seguito agitando ventagli e reggendo ombrelli, fanno da sfondo alle catene, le armi, gli strumenti di tortura conservatisi nel tempo.

Non si conta il numero di africani costretti nel corso di ben quattro secoli di schiavismo a respirare entro le possibilità di collari minuti, a camminare nello spazio concesso da pesanti cavigliere ferrose, a mangiare all’ingrasso rinchiusi dentro casse di legno, pur di non perdere il guadagno di una merce, persa per digiuno volontario. Non si conta nemmeno il numero di africani passati per il piano inferiore della Casa degli Schiavi, costruita negli anni 80 del ‘700 e rimasta in uso fino al 1848, i cui spazi erano organizzati per una comoda suddivisione dei beni da trasportare: dietro le porte affacciate al cortile, in stanze dalle dimensioni inspiegabilmente ridotte venivano stipate quantità inverosimili di esseri umani, distinti tra donne, uomini e bambini. Un’unica porta si affaccia su una vista che toglie il respiro: è la porta per l’inferno, che non può essere attraversata perché si affaccia su un fossato a strapiombo; unico modo per valicarlo è il pontile della nave negriera che attracca direttamente alla porta, senza lasciare il tempo nemmeno per un ultimo pensiero, un ultimo sguardo, un ultimo destino.

«Dem amoul dik. Andata senza ritorno.» mi sussurrano all’orecchio la prima volta che mi affaccio, l’orizzonte aperto al mio sguardo a suggerire che proprio lì finisca il mondo. Invece il mondo non finisce, l’orizzonte non si conclude e dall’Africa c’è ancora chi parte senza che lo sguardo raggiunga la meta, senza che sia concesso un ultimo respiro, talvolta senza ritorno.

Kunta Kinte l’eroe della multiculturalità

Fin dai suoi esordi, nel 1976, Roots, Radici, l’opera in cui l’afroamericano Alex Haley ha trasposto la storia di un ramo del proprio albero genealogico, ha riscosso un indiscutibile successo di pubblico.

Cadeva il bicentenario degli Stati Uniti d’America e il presidente Gerald Ford riconosceva l’estensione della negro history week a black history month, dedicando così il mese di Febbraio alla memoria della diaspora africana, ma soprattutto inserendo nelle scuole con studenti a maggioranza afroamericana lo studio della storia africana. Qualche mese dopo, successore di Ford era eletto Jimmy Carter, primo governatore originario del sud dopo la Guerra Civile, poi Nobel per la Pace (2002).

Edito da Doubleday nell’Agosto 1976 con il titolo Roots, A Saga of an American Family, l’opera di Haley è diventata best seller in America nel giro di pochi mesi, rimasta in testa alle classifiche per anni e tradotta in più di quaranta lingue, procurando al suo autore un premio Pulitzer nel 1977. Nello stesso anno della premiazione, la ABC acquista i diritti dell’opera per realizzare una miniserie in otto puntate, che ha anch’essa successo straordinario in tutto il mondo, cui farà seguito due soli anni dopo, nel 1979, il sequel Radici, le nuove generazioni, ideato da Marlon Brando. Quest’anno, in occasione del quarantesimo anniversario dall’uscita del libro, la History Channel ha trasmesso un remake in chiave realistica della miniserie del 1977. La risposta del pubblico è stata ancora una volta straordinariamente positiva; ma cosa rende così coinvolgente la storia di questa famiglia?

Significativo è il sottotitolo dell’opera: Haley narra infatti la saga di una famiglia americana, appartenente quindi in primis agli Stati Uniti d’America, un paese di formazione nuova e multietnica. Scorrendo l’albero genealogico dell’autore, partendo dal basso si pronunciano del resto suoni in tutto e per tutto propri della cultura americana: dai genitori Bertha e Simon Haley, ai nonni Cynthia e Will Palmer, ai bisnonni Irene e Tom Murray, fino ai trisavoli George e Matilda Lea.

La vita di George Lea può esser presa a simbolo della democraticità dell’american dream: nato dallo stupro del padrone bianco di cui porta il cognome sulla bella serva Kizzy, George sviluppa incredibili abilità nell’addestramento dei polli da combattimento, osserva gli spostamenti di denaro alle scommesse e sfrutta la possibilità di entrare in questa realtà, diventando famoso con il nome di Chicken George. La stessa educazione è data al figlio Tom che, dimostratosi inadatto alla vita tra i polli, svela un’innata attitudine all’attività di fabbro, che George ha l’acume di assecondare. Padre e figlio attraversano la Guerra Civile Americana, passando dalla condizione di schiavi a quella di uomini liberi.

Una ricostruzione storica dettagliata, quella di Haley sul ramo materno della propria famiglia, che impiega dodici anni di ricerche. Se infatti i documenti di compravendita e nascita degli schiavi già in America sono relativamente facili da reperire, più difficile è risalire alla discendenza africana. Celeberrimo è il nome del quintisavo di Haley: nel racconto Kizzy è la figlia di Kunta Kinte, nato libero e rapito in Gambia nel 1750. Attestata nel libro stesso come vera dall’autore, questa parentela si è rivelata da subito essere una finzione letteraria, peraltro plagiata da Courlander The African di Harold. Nondimeno il nome dell’avo conserva il suo valore storico: con altissima probabilità, tra le centinaia di schiavi partiti dall’isola di Juffure, al largo delle coste gambiane, nel 1750, avremmo potuto trovare un giovane mandinka dal nome Kunta Kinte, rapito dai bianchi nella foresta e venduto in America come schiavo.

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Kunta Kinte Island o James Island (Gambia). Situata a 30km dalla foce del fiume Gambia, nei pressi del villaggio Juffure, fu insediata nel 1600 dal Ducato baltico di Curlandia, divenne inglese prima e francese poi. Sfruttata fin dalla sua scoperta per fine commerciali, vennero da qui imbarcate centinaia di schiavi neri.

Quello di Kunta Kinte è un nome dal valore, più che storico, simbolico e questo si deve anzitutto al successo riscosso dal libro. L’opera di Haley non si apre infatti in America, le prime righe dell’opera ci introducono nel villaggio africano di Juffure, presentando la famiglia di Omoro e Binta Kinte, raccolta attorno un nuovo nato. Ci accolgono i profumi e i suoni dei pestelli battuti nelle cucine e il richiamo alla preghiera del muezzin che intona: «Allahu Akbar! Dio è grande!»; mentre il padre del neonato si ritira a pensare il nome, che pronuncerà a otto giorni dalla nascita, sussurrandolo prima tre volte all’orecchio del bimbo, poi della madre, poi dell’arafang preposto a comunicarlo al villaggio, quando il padre lo solleverà per mostrarlo: Kunta Kinte, come il nonno sacerdote che aveva salvato il villaggio dalla carestia.

Rituali e parentela, radici appunto, che anche dopo esser stato rapito, Kunta ripeterà oralmente alla figlia, insieme a poche parole in lingua mandinga, e che si tramanderanno di generazione in generazione. Kunta infatti non si rassegna mai alla propria condizione di schiavo: non accetta il nome Toby impostogli dal padrone e dà alla figlia un nome africano; tenta più volte la fuga, subendo anche un’amputazione; rifiuta la religione cristiana dei bianchi, ancorato alla propria cultura. La forza di questo romanzo è stata soprattutto il riaffermare l’identità etnica di un popolo che si trovava sradicato dalla propria terra, la necessità di conoscere le proprie origini per conoscere la propria identità.

Behold di Patrick Morelli,1990, King Center Atlanta, Ga. Nell’opera lo sculture ha voluto rappresentare Kunta Kinte che solleva la figlia Kizzy nel rituale africano di attribuzione del nome durante il quale il padre pronuncia le parole: «Behold the only thing greater than yourself!» [«Guarda l’unica cosa più grande di te!»]
Behold di Patrick Morelli,1990, King Center Atlanta, Ga.
Nell’opera lo sculture ha voluto rappresentare Kunta Kinte che solleva la figlia Kizzy nel rituale africano di attribuzione del nome durante il quale il padre pronuncia le parole: «Behold the only thing greater than yourself!» [«Guarda l’unica cosa più grande di te!»]

Questo richiamo ancestrale ha ricevuto risposta, in primo luogo, in terra americana, dove il pubblico tanto afroamericano quanto appartenente ad altre etnie si è lasciato coinvolgere da questa ridefinizione del concetto di “libertà”, non solo in termini fisici, ma anche e soprattutto mentali, culturali e identitari. Un significato di questo valore che è universale e sempiterno, sempre da difendersi e sempre pericolosamente fragile: il diritto d’espressione delle culture, di valori e principi differenti, nell’ottica di una comunicazione transculturale.

In secondo luogo, soprattutto grazie alla produzione cinematografica, il suo eco è risuonato oltreoceano, nell’Africa in cui l’albero di Haley aveva le sue radici, in quella terra che mai ha dimenticato la ferita inferta alle tribù e alle famiglie che dal ‘500 ai primi del ‘900 si sono visti strappare i figli dai toubab, gli uomini bianchi. Un amico senegalese ricorda così la prima riproduzione in sala di Roots a Dakar: «Hanno dovuto fermare la proiezione a metà perché le persone erano troppo agitate, urlavano e lanciavano cose. Non potevamo sopportare di vedere cosa era stato fatto ai nostri padri e fratelli. Lo sapevamo, ma vederlo era insopportabile».

The Kunta Kinte – Alex Haley Memorial, Ed Dwight, Annapolis 1999. La scultura rappresenta Haley nell’atto di leggere un libro a tre bambini di differente estrazione etnica; è stata poi aggiunta una placca in bronzo che riporta gli atti originali dell’arrivo di Kunta Kinte in America.
The Kunta Kinte – Alex Haley Memorial, Ed Dwight, Annapolis 1999.
La scultura rappresenta Haley nell’atto di leggere un libro a tre bambini di differente estrazione etnica; è stata poi aggiunta una placca in bronzo che riporta gli atti originali dell’arrivo di Kunta Kinte in America.

In copertina: LeVar Burton interpreta Kunta Kinte in un fotogramma di “Roots” del 1977 (ABC)

Nuova legge sul caporalato: un buon primo passo, ma non basta

Martedì 18 ottobre è stata approvata in via definitiva la nuova legge contro il caporalato, che modifica in maniera sostanziale l’articolo 603 bis introdotto nel codice penale nel 2011. Il disegno di legge, approvato dalla Camera con 336 voti a favore, nessun contrario e 25 astenuti (Forza Italia e Lega), ha ottenuto il plauso di molti esponenti politici e dei sindacati, che l’hanno definita “una legge buona e giusta” (Susanna Camusso) e la realizzazione di “un obiettivo che da sempre caratterizza le battaglie della sinistra” (ministro della giustizia Orlando).
Sicuramente un provvedimento per arginare il fenomeno era urgente e necessario e il nuovo ddl rappresenta un primo passo nella giusta direzione. Il caporalato è infatti un fenomeno profondamente radicato nella province agricole italiane tanto che viene considerato un normale modus operandi nel settore. Consiste nel reclutamento di manodopera a basso costo da parte di un mediatore illegale – il caporale appunto – per conto di proprietari terrieri e società agricole. Le cifre sono da capogiro: i lavoratori irregolari in agricoltura e dunque potenziali vittime di caporalato ammontano a più di 400.000. Le vittime del fenomeno sono per lo più persone in grande difficoltà economica o immigrati irregolari senza permesso di soggiorno, che per una paga che va dai 22 e i 30 euro al giorno devono lavorare tra le 8 e le 12 ore, spesso in pessime condizioni igieniche e di sicurezza. Il 60% dei braccianti non ha infatti accesso ad acqua e servizi igienici. I lavoratori, inoltre, devono versare un compenso al caporale anche per il trasporto al luogo di lavoro (mediamente 5 euro) e spesso viene loro imposto un alloggio – di solito fatiscente e a prezzi molto alti – il cui affitto viene nuovamente intascato dal caporale e dai suoi collaboratori.
In questo modo i braccianti sono completamente dipendenti dai loro sfruttatori, che hanno il controllo su molteplici aspetti della loro vita, dal lavoro alla famiglia e alla casa. In alcuni casi tale controllo si estende anche al corpo, come esposto in un’inchiesta dell’Espresso del 2015 sui casi di violenza sessuale da parte di caporali e datori di lavoro nei confronti di braccianti rumene nella provincia di Ragusa.

Raccoglitori di pomodori in provincia di Foggia (Altreconomia).
Raccoglitori di pomodori in provincia di Foggia (Altreconomia).

Il reato di caporalato era già regolato dal 2011 dall’articolo 603-bis del codice penale, che prevedeva sanzioni severe per i caporali, inclusa la reclusione da 5 a 8 anni. Tuttavia, la legge conteneva specifiche che ne complicavano l’attuazione. Per dimostrare il reato, infatti, occorreva identificare una vera e propria società di intermediazione e individuare delle specifiche condotte di sfruttamento basate su comportamenti violenti.
La nuova legge semplifica invece l’individuazione del caporalato ampliando la sua definizione a una modalità di sfruttamento che “prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori”, caratteristiche che erano invece essenziali nella precedente formulazione del reato.
In secondo luogo, il ddl prevede l’introduzione di sanzioni più severe anche per i datori di lavoro e non più solo per i caporali, in modo da disincentivare le aziende a servirsi di intermediari illegali. Parificare le responsabilità di datori di lavoro e caporali è un enorme passo avanti. Finora le grandi aziende sostenevano di non sapere cosa succede ai livelli più bassi della filiera, mentre quelle piccole si difendevano con la cosiddetta “necessità dello sfruttamento”.
Per ridurre la dipendenza di immigrati e soggetti deboli dai caporali, inoltre, il ddl delinea un piano interventi per l’accoglienza dei lavoratori agricoli e prevede degli indennizzi per le vittime.
Si tratta quindi di una legge certamente essenziale per ridurre il fenomeno del caporalato in maniera significativa, ma non sufficiente a eliminarlo definitivamente.
Innanzitutto perché, come sostiene il direttore dell’associazione “Terra!” Fabio Ciconte, non fornisce valide alternative né ai lavoratori né ai datori di lavoro. Nelle province agricole italiane gli uffici di collocamento sono del tutto inefficaci, inadatti a rispondere al bisogno reale del settore di manodopera bracciantile. I lavoratori si rivolgono quindi a persone della comunità per ottenere il lavoro – i caporali. Il caporalato è certamente una forma di sfruttamento da cui gli operatori traggono guadagni illeciti, ma nella visione di chi lo pratica e ne fa uso è un normale meccanismo di intermediazione lavorativa, in cui l’organizzatore è l’interfaccia tra le squadre di lavoratori e l’imprenditore agricolo.
Non offrendo la legge risposte valide e legali a questo bisogno, la pratica dell’intermediazione illecita continuerà ad essere portata avanti dai caporali e il fenomeno non scomparirà mai definitivamente.
La nuova legge quindi prevede in larga parte misure repressive che, per quanto giuste e importanti, sono finalizzate a punire i responsabili a fatto avvenuto, ma non agiscono in via preventiva.

Il logo della campagna #FilieraSporca.
Il logo della campagna #FilieraSporca.

Una soluzione, proposta dalla campagna #FilieraSporca lanciata da Terra! in collaborazione con altre associazioni, sarebbe quella di promuovere un’etichetta narrante che spieghi la vita del prodotto, rendendo pubblici i nomi dei fornitori, e permettendo così ai consumatori di essere informati e scegliere un prodotto frutto di una filiera sostenibile. In questo modo gli operatori agricoli che finora vivono nell’ombra al riparo da ogni responsabilità, sarebbero costretti a cambiare i propri metodi e renderli trasparenti per avere accesso al mercato.
È essenziale tenere a mente che il caporalato e lo sfruttamento sono la conseguenza di una filiera poco trasparente, non la causa. Solo facendo pressione sugli anelli successivi della grande distribuzione organizzata affinché promuovano prodotti forniti da aziende sostenibili sarà possibile limitare davvero lo sfruttamento agricolo.

In copertina: Un’azienda agricola in provincia di Foggia, 2016. (Internazionale/Mario Poeta)

Arte da mangiare

Parlando di estetica e cibo, impossibile non citare il cake design!

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’incredibile ascesa di questa pratica culinaria, attraverso cui realizzare torte dalle forme più incredibili e disparate, ricoprendo il pandispagna con pasta zucchero colorata e modellata. Dai programmi televisivi, ai corsi privati, fino agli innumerevoli tutorial di youtube, la moda del cake design è entrata nelle nostre case e nei nostri palati.

Pequod è andato a casa di un’appassionata di cucina che per qualche tempo si è cimentata in quest’arte, scoperta nella Francia del ‘500 e diventata negli anni 2000 il punto di forza di moltissimi pasticceri, soprattutto d’oltreoceano, ma anche europei.

Paola, la nostra ospite, ci ha regalato qualche scatto delle sue creazioni!

Ma cosa si nasconde sotto quei veli di pasta zucchero?

Abbiamo chiesto a Paola di mostrarci i passaggi necessari per la realizzazione di alcuni suoi dolci.

Tutta questa fatica per la realizzazione di splendidi dettagli, ma quanto poi si gusta di queste torte?

«La torta vera e propria – risponde Paola – rimane sotto la pasta zucchero, che per quanto buona possa essere, risulta sempre troppo dolce per essere mangiata in grandi quantità. Ci si può comunque sbizzarrire sul gusto da dare al pandispagna e alle creme che vi si possono spalmare; oltre alla possibilità di inserire frutta, canditi, cioccolato, croccante… e tutto ciò che la fantasia vi suggerisce!

Uno dei modi in cui io preferisco usare la pasta zucchero è per piccole decorazioni su torte semplici e tradizionali, come la mimosa».

Quando le chiediamo di mostrarci la sua torta preferita, Paola però non indica le decoratissime torte che ci ha mostrato, bensì esibisce la fotografia di una splendida crostata di frutta di stagione!

 

L’Alveare Tamarindo, un Sì per i prodotti locali

Se vi sembra di partire per terre lontane ogni volta che leggete le etichette dei prodotti nei vari supermercati, e ne siete stanchi, sappiate che un nuovo modo di far la spesa è arrivato in Italia. Mai sentito parlare de L’Alveare che dice sì? È un progetto nato dalla grande ambizione di congiungere la tecnologia con l’agricoltura sostenibile: utilizzando la piattaforma online de L’Alveare si può difatti accedere a una gamma di prodotti locali, freschi e genuini. Fondato in Francia nel 2011, oggi questa nuova tipologia di impresa sociale si è diffusa nei principali Paesi europei. Il 2014 è l’anno di debutto degli Alveari italiani: 90 sono stati aperti fino ad ora, fra cui L’Alveare Tamarindo, punto di riferimento per Bergamo e provincia.

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Proprio assieme a L’Alveare Tamarindo scopriamo come procedere per la vendita e l’acquisto dei prodotti locali. La sua amministratrice si chiama Laura Rubini, una giovane mamma di 33 anni: «Dopo aver chiuso un negozio di abbigliamento e aver viaggiato per un po’ di mesi in Australia, una volta ritornata a Bergamo ho sentito alla radio, per caso, la notizia di un progetto francese chiamato La Ruche qui dit Oui!». Grazie a questo annuncio, Laura entra a far parte della Rete, contribuendo allo sviluppo di questo modello unico di start up sociale.

«La grande novità è l’acquisto online: possiamo difatti considerare L’Alveare che dice sì! come la nuova generazione dei gruppi di acquisto GAS», spiega Laura a Pequod. Come funziona il progetto? È molto semplice e tale semplicità è notevolmente agevolata dal fruibile sito online. Tutti i produttori locali presenti nell’arco dei 250 km possono iscriversi al portale: una volta inseriti nella cerchia di uno specifico alveare, mettono in vendita sulla piattaforma i propri prodotti, tra frutta, verdura, latticini e formaggi.

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L’Alveare Tamarindo è stato inaugurato lo scorso 18 settembre presso lo spazio Edoné di Bergamo. Da allora, il nuovo modo di far spesa è notevolmente cresciuto. Il numero degli ordini si aggira attorno alla cinquantina, ma i produttori interessati a far parte del Tamarindo continuando ad aumentare: «Solitamente un Alveare possiede una cerchia di produttori limitata, sia per non creare concorrenza sia per garantire la qualità dei prodotti offerti».

Per le medesime ragioni, i prodotti che un consumatore può trovare presso L’Alveare Tamarindo sono altamente selezionati. Fare la spesa su L’Alveare che dice sì significa innanzitutto iscriversi al sito, inserendo nome cognome indirizzo e numero di telefono, per poi diventare membro dell’Alveare più vicino a casa. Una volta compiuta questa veloce operazione, si procede alla selezione di ciò che si vuole gustare direttamente dalla piattaforma online. «Quello che secondo me interessa tanto, oltre al genuinità e al km0», prosegue Laura, «è che si può fare la spesa all’orario che si preferisce. I membri del mio Alveare spesso accedono al sito di sera, molto probabilmente quando la giornata lavorativa si è conclusa». Presso l’Alveare Tamarindo la spesa si apre ogni mercoledì mattina, fino a domenica sera. Dalle 18.00 alle 19.30 di ogni martedì, invece, si può ritirare l’ordine presso l’Edoné di Bergamo direttamente dalle mani dei produttori!

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Ma come si fa ad aprire un nuovo Alveare ed entrare a far parte della Rete? Laura assicura la trasparenza del progetto, mosso dall’obiettivo di proporre un modello giusto e solidale. Nell’Alveare, il produttore vende direttamente il suo prodotto ai membri e paga delle spese di servizio che corrispondono al 16,7% del suo fatturato esentasse. Ciò significa che l’8,35% del guadagno va al gestore dello specifico Alveare e l’altro 8,35% all’Alveare Madre. Sappiate che ogni produttore può fissare i prezzi della vendita liberamente. L’Alveare Madre, invece, è composto da un gruppo di circa 40 persone in tutta Europa che collaborano allo sviluppo della piattaforma Internet; in Italia un team di supporto tecnico e commerciale lavora affinché la Rete italiana di Alveari si espandi.

Tuttavia L’Alveare che dice sì non è nato solo ed esclusivamente per supportare la vendita di prodotti locali e la sharing economy: lo scopo è altresì quello di creare una cerchia sempre più ampia di cittadini consapevoli. «Personalmente cerco sempre di abbinare alla distribuzione dei prodotti qualche attività», spiega l’amministratrice de L’Alveare Tamarindo. «Ad esempio, durante una serata ho invitato un agronomo a spiegare come conservare i peperoncini e come cucinare un’ottima pasta al peperoncino». Lo spirito è dunque quello di formare una vera e propria comunità, attenta all’agricoltura sostenibile e al rispetto del ritmo delle stagioni.

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Per i prossimi mesi una sostanziale novità per Laura e il suo Alveare: «Mi piacerebbe poter offrire la consegna a domicilio per non escludere nessuno! Spesso alcuni membri arrivano in ritardo a causa del traffico; altri invece non riescono a passare nonostante sia sera… altri ancora semplicemente non hanno voglia di uscire».

Un’ultima domanda non mi permette di lasciare andare Laura e fa riferimento al simpatico nome del suo Alveare: «Il nome è un omaggio a mia nonna. Quando le chiedevo di bere la Coca-Cola, lei cercava sempre di rifilarmi lo sciroppo tamarindo. Con il nome riprendo dunque il concetto che voleva inculcarmi: allontanarsi dai prodotti “industriali” per avvicinarsi a quelli genuini e locali».

Cibo in viaggio

Il viaggiatore goloso, che si muove alla scoperta dei piaceri culinari e delle specialità locali, può ora stare comodo e risparmiare chilometri: oggi è il cibo stesso che si sposta sulle quattro ruote; è il cibo dei food truck!
Di che cosa si tratta? Il food truck è attualmente il modo più creativo e dinamico per lavorare nel mondo della ristorazione, altresì un nuovo modo di mangiare e di stare insieme. L’aggettivo “nuovo” non è del tutto corretto: i furgoncini dei gelati non sono novità nel nostro Paese, così come i carretti di caldarroste degli autunni del nord Italia o i prodotti delle friggitorie del nostro Mezzogiorno. La novità dei food truck italiani risiede nell’abbinare ricette, sia della tradizione italiana sia importate, ad un’attenta cura dello stile e a un’elevata qualità delle materie prime. Gli chef del “cibo quattro ruote” scelgono di non esagerare con la disponibilità di pietanze in menù: la tendenza è quella di specializzarsi e di proporre poche e ricercate specialità.
I numeri parlano chiaro: sempre più imprenditori decidono di intraprendere questa via. Le motivazioni stanno sia nella proporzione dell’investimento monetario, decisamente inferiore rispetto a quello necessario per l’apertura di un locale, sia nella voglia di cavalcare l’onda di questo ritorno di fiamma degli italiani per il cibo consumato in strada. Da una parte cresce il numero dei food truck che investono in più unità mobili; dall’altra aumentano le aziende del mondo della ristorazione che richiedono piccoli mezzi itineranti con cui promuovere il proprio marchio per acquisire un numero maggiore di clienti.
Come riconoscere un food truck? Vi guiderà l’olfatto, ma non meno importante il colpo d’occhio: ape-car dalla texture “mortadella”, westfalia dai colori sgargianti ed eleganti furgoncini laccati di fresco; in questi e mille altri modi i proprietari dei food truck decidono di dare spazio alla loro fantasia e rendere unica l’esperienza che offrono.

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Abbiamo chiesto ad alcuni food truckers visti al The Big Food Festival un commento circa la nascita della loro attività e su quale pensano sia il punto di forza del cibo su strada. Ciò che accomuna le loro esperienze è una storia molto recente della loro impresa, tutte nate meno di un anno fa, dalle menti di giovani che avevano più o meno esperienza nel settore della ristorazione. Gli ideatori di Family Food propongono una rivisitazione delle famose ricette della cucina povera romana e laziale, attraverso la creazione di panini gourmet e primi da passeggio dal gusto unico. La loro ricetta è semplice: pensare ad uno street food con prodotti di alta qualità e con preparazioni curate come quelle che farebbe la nostra nonna. Quale il punto di forza del loro inconfondibile truck giallo? Ecco come ci hanno risposto: «Sicuramente la forza del nostro mestiere è il contatto diretto con i nostri clienti, ai quali offriamo cibo sì di strada, ma di qualità. Siamo convinti che non si parli più di “paninari” perché gli ingredienti vengono scelti accuratamente per creare ricette sempre nuove e che soddisfino appieno la ricercatezza degli streetfooders. La nostra forza è portare una cucina semplice ma varia con prodotti d’eccellenza italiana, ad esempio porchetta, mozzarella di bufala, trippa e cacio e pepe. Abbiamo pensato al cibo di strada come quello che ognuno preferisce mangiare a casa propria, in famiglia; infatti anche noi siamo una vera famiglia!»

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Anche i ragazzi di Frish hanno deciso di puntare sulla qualità: «La nostra esperienza nel mondo dei food truck inizia circa sei mesi fa e si sviluppa con l’intento di portare su strada un’altissima qualità di prodotto, abbinata a un’immagine bella e raffinata. Questo perché crediamo che ormai il livello del consumer si sia alzato molto e di conseguenza bisogna essere professionali e pronti nel dare un prodotto che sia all’altezza delle aspettative. Il punto di forza di un food truck è di poter far vivere un’esperienza diversa a portata di mano!» Propongono burger e fritture a base di pesce, uniche e distinguibili da una speciale pastella da loro artigianalmente lavorata.

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Anche l’esperienza della coppia che ha dato vita a Monster Cook Street Food è assai recente: «Il nostro progetto è cominciato sei mesi fa, dopo che insieme al mio compagno abbiamo deciso di mollare i nostri lavori: lui chef ed io pasticcera. Abbiamo intrapreso la nuova strada dello Street Food così da dare inizio ad un nostro sogno: lavorare per noi stessi, per un progetto tutto nostro e fare conoscere la cultura del cibo caraibico, rivisitato e offerto al cliente alla maniera street food. Penso che il punto di forza dello street food stia proprio nella possibilità di poter fare conoscere le proprie tradizioni culinarie, grazie alla possibilità di spostarsi.» Il menù propone frittelle di platano con persico al cocco e salsa di avocado; oltre all’ormai celebre sandwich cubano.

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Nonostante i costi siano inferiori rispetto a quelli richiesti dalla gestione di un ristorante, non sono tuttavia indifferenti: raggiungere festival lontani dalla città di provenienza non è semplice soprattutto se, come i gestori di SorryMama, hai deciso di specializzarti in un prodotto inusuale per il cibo da strada. SorryMama propone infatti un menù di lasagne artigianali, reinterpretando la lasagna classica in chiave moderna. Perché SorryMama? Perché la lasagna di solito la si mangia sempre e solo a casa ed è buona soprattutto quella cucinata dalla mamma! Ci hanno raccontato che specializzarsi nella preparazione di primi è raro: «La nostra esperienza ci insegna che i primi non sono il vero cavallo di battaglia dello street food e dei festival: vanno molto di più hamburger, carne e fritti. Nonostante ciò oggi il truck ci vuole per fare branding e per arrivare dove non arrivi con altri mezzi. Noi abbiamo un ape-car e per ora abbiamo deciso di fare eventi privati e di partecipare a festival non troppo lontani e costosi. Siamo ben inseriti negli eventi milanesi: curiamo quindi eventi, pranzi aziendali, senza dimenticare il nostro ape-car presente in strada a Milano! Punto di forza? Arrivare dove non arrivi con un ristorante.

sorrymama

Che sia cibo tradizionale, casalingo o fusion la parola d’ordine è qualità a prezzi competitivi. Non da meno lo è il poter offrire un’esperienza culinaria differente, che sta ormai entusiasmando non solo i più giovani. Il successo è confermato dalle recensioni entusiaste degli utenti e dal grande seguito riscosso delle manifestazioni che propongono cibo da strada. Non ci resta che augurarvi buon viaggio e buon appetito!

Ecocentro di Gruppo Esposito: dalla strada per la strada

Cartacce, mozziconi e tutta l’immondizia che troviamo nelle strade possono trasformarsi, dopo attenti passaggi di recupero e trattamento, in nuovo materiale per riasfaltare le strade stesse. Questa la finalità dell’impiantistica Ecocentro, un progetto sperimentato la prima volta nella città di Bergamo, dove ha sede l’azienda Gruppo Esposito, che ha brevettato questo impianto di recupero e trattamento dei rifiuti da spazzamento delle strade per ottenere nuovi materiali utili nel settore dell’edilizia e in altri processi produttivi.

Si tratta quindi di recupero, e non smaltimento dei rifiuti, secondo un’ottica green che anima il lavoro dell’impresa bergamasca.

A poche settimane dall’inaugurazione di Ecocentro a Guidonia, alle porte di Roma, contattiamo il titolare dell’azienda di Gorle (BG), Ezio Esposito, in partenza per un viaggio di lavoro in Sardegna.

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Ci parli della storia della sua azienda.

«La nostra azienda nasce nel 1998 e dagli anni Duemila lo scopo di Gruppo Esposito è individuare rifiuti mai recuperati e su di essi creare un’impiantistica atta al recupero e al riuso. Abbiamo brevettato una tecnologia che rendesse i rifiuti adatti a tale scopo e così abbiamo inaugurato il primo impianto Ecocentro a Bergamo, nel 2004; da lì ne sono seguiti altri 11 in Italia, per importanti enti privati e statali».

Da dove nasce l’idea che ha portato alla creazione di Ecocentro?

«L’idea è nata da una semplice constatazione: si smaltiscono parecchi rifiuti ma pochi di questi vengono recuperati, mentre possono essere utilizzati nei diversi cicli produttivi, come indica la normativa».

Personalmente, ha sempre avuto una passione, un’attitudine particolare per la cura dell’ambiente?

«Io vengo dal settore dell’igiene urbana; mi sono formato alla Waste Management, una multinazionale americana che occupa una posizione di leadership nella gestione integrata dei rifiuti. Insomma, il rifiuto l’ho toccato con mano, tanto per capirci! [ride]. Ho avuto sempre un’attenzione al recupero per creare qualcosa di nuovo, è nel mio DNA. Come dire, ho una vena aziendale in cui si intrecciano la passione per l’ambiente e la passione per l’impiantistica. E così ho creato un’azienda di ingegneria».

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A livello mondiale, come vede il panorama delle aziende che si occupano di economia green?

«Il settore della green economy va avanti, di pari passo con una normativa piuttosto chiara, che impone determinate percentuali di recupero dei rifiuti e delineando obiettivi importanti a livello nazionale ed europeo: ora, sta alle aziende raggiungerli, adeguando la propria impiantistica».

In questo scenario, l’Italia che ruolo svolge? Come immagina, quando si parla di innovazioni tecnologiche la tendenza generale è quella di guardare sempre oltreconfine, non senza un certo scetticismo nei confronti delle aziende italiane…

«In realtà gli italiani si sono sempre distinti in questo settore. Il nostro brevetto, ad esempio, è arrivato negli Stati Uniti, in Australia, in Cina. Poi, che in Italia ci si lamenti sempre, è un fatto tutto italiano, appunto, ma in quanto a impiantistica per l’ambiente, a livello nazionale siamo avanti. Molti guardano alla Germania, ma quanti sanno che la maggior parte delle attrezzature sono italiane, in Europa e in altri continenti? Probabilmente, allora, gli italiani non sono così arretrati; semmai, forse, ci adeguiamo più lentamente e in modo disomogeneo alle normative comuni».

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Restringiamo il campo alla città in cui ha sede Gruppo Esposito, ossia Bergamo: cosa ne pensa della vivibilità degli spazi verdi e dell’estetica dei suoi paesaggi?

«Per motivi di lavoro giro molto in Italia e all’estero, dato che i miei impianti sono diffusi a macchia di leopardo, perciò posso dire che Bergamo è sicuramente un’isola felice. Abbiamo una città e una provincia molto attente all’ecologia e all’ambiente, secondo me anche grazie ad ottimi e competenti funzionari provinciali nel settore ambiente. Il nostro primo impianto realizzato a Bergamo è stato un’innovazione a livello mondiale, ma anche grazie alla preziosa collaborazione di queste persone competenti che ci hanno permesso di avere le informazioni necessarie per avviare i lavori».

In un settore innovativo come quello dell’ingegneria ambientale, la ricerca assume un ruolo determinante: quanto e come investe la sua impresa in attività di ricerca?

«Gruppo Esposito investe ogni anno il 10% del fatturato in ricerca e sviluppo, per sperimentare e ideare impianti innovativi; in particolare collaboriamo con CINIGeo, il Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Ingegneria delle Georisorse, che coinvolge le quattro università di Bologna, Trieste, Cagliari e la Sapienza di Roma e abbiamo un capannone da 1800 mq dedicato alla sperimentazione, con macchine e attrezzature. Puntiamo molto sulla ricerca perché è l’unica strada che ci permette di crescere e andare avanti in questo settore, per raggiungere gli obiettivi indicati nelle normative».

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Quanti giovani ci sono nel suo team di ricerca?

«Praticamente sono tutti giovani sotto 35 anni e hanno grandi potenzialità, ma gli anziani non devono mancare perché impegno, esperienza e passione devono essere di riferimento e di esempio proprio nei giovani in cui, probabilmente, dal mio punto di vista, mancano un po’. Credo che ci siano meno persone che si dedicano con passione a quello che fanno, questo anche perché c’è poca soddisfazione lavorativa, in termini di guadagni e di stabilità».

I progetti futuri di Gruppo Esposito?

«Stiamo progettando un nuovo impianto in Sardegna, a Cagliari, e guardiamo all’estero, in particolare verso l’Austria e l’Inghilterra. Intanto abbiamo parecchi lavori in corso d’opera: il progetto di recupero e trattamento dei limi delle aree portuali, che si depositano e attaccano al fondo marino; il recupero di scarti della lavorazione del vetro, per ottenere sabbie silicee utili nel settore minerario, e altro ancora. Insomma, le applicazioni possono essere diverse; si cerca sempre di trovare soluzioni di recupero, quindi di riutilizzare i rifiuti per mantenere un po’ più verdi i nostri ambienti».

C’erano una volta i ricettari dei colori

Fino all’avvento dell’epoca industriale procurarsi i colori necessari a dipingere richiedeva tempo e conoscenze degne di un chimico. Nonostante l’uso e la ricerca di pigmenti si perda nella notte dei tempi (pensiamo ai graffiti rupestri delle caverne realizzati con colori ottenuti da terre colorate), è soltanto nel Medioevo che questi procedimenti divennero oggetto di studi attenti e metodici, tanto da sentire l’esigenza di consegnare ai posteri queste nozioni fissandole nelle pagine dei libri.

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Le prime note scritte iniziarono a circolare nei manuali degli alchimisti; l’interesse per l’argomento è in realtà marginale e il linguaggio utilizzato è a tratti oscuro per i non adepti, ma si tratta comunque di una base di partenza da cui furono tratti i cosiddetti Libri di segreti, manoscritti depositari di svariate conoscenze: dall’arte di conquistare le donne, ai sistemi per far passare le verruche, fino, appunto, alla preparazione dei colori. Molti di questi Libri di segreti finirono nei monasteri, dove i monaci ne conservarono le preziose nozioni copiandoli nel silenzio delle loro biblioteche nel corso dei secoli. Alla teoria si aggiunse la pratica e qualche monaco decise di applicarsi di persona nel campo delle arti studiando i testi e specializzandosi: chi era artista, chi miniatore e chi tintore.

I laboriosi monaci non si limitarono però a restare entro le mura delle loro celle. La loro abilità era richiesta anche nelle città; fu in questa fase che il patrimonio di conoscenze sulla fabbricazione dei pigmenti passò dai religiosi ai laici, diffondendosi tra gli artigiani.

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Di questa fase è il celebre testo latino del monaco Teofilo, vissuto nel XII secolo, intitolato De diversis artibus; gran parte del trattato è dedicato alla metallurgia, tuttavia esiste anche una consistente parte dedicata ai colori e, a renderla importante, è il suo carattere enciclopedico: secondo molti studiosi essa sarebbe infatti una raccolta delle “ricette per pigmenti” circolanti per l’Europa fino a quel periodo.

Il più importante contributo in questo campo arriva però da un artista, o meglio da un artigiano (visto che quella era la considerazione comune di chi realizzava opere d’arte), vale a dire il Libro dell’arte di Cennino Cennini, scritto in italiano volgare (e anche in questo sta la sua importanza); esso restituisce una panoramica dettagliata su tutte le tecniche artistiche dell’epoca, tanto da essere usato ancora oggi dai restauratori nel loro lavoro.

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Voglio chiudere con uno dei passi più belli del Libro dell’arte, in cui traspare lo spirito di ricerca e di sperimentazioni di tutti quegli artisti-artigiani che dovettero letteralmente creare dal nulla i loro grandi capolavori.

Giallo è un color naturale, il quale si chiama ocria. Questo colore si trova in terra di montagna, là ove si trovano certe vene come di zolfore; e là ov’è queste vene, vi si trova della sinopia, del verdeterra, e di altre maniere di colori. Vi trovai questo, essendo guidato un dì per Andrea Cennini mio padre, menandomi per lo terreno di Colle di Valdelsa, presso a’ confini di Casole, nel principio della selva del comune di Colle, di sopra a una villa che si chiama Dometaría. E pervegnendo in uno vallicello, in una grotta molta salvatica, e raschiando la grotta con una zappa, io vidi vene di più ragioni colori: cioè ocria, sinopia scura e chiara, azzurro e bianco, che ’l tenni il maggior miracolo del mondo, che bianco possa essere di vena terrigna; ricordandoti che io ne feci la prova di questo bianco, e trova’lo grasso, che non è da incarnazione. Ancora in nel detto luogo era vena di color negro. E dimostravansi i predetti colori per questo terreno, sì come si dimostra una margine nel viso di uno uomo, o di donna. Ritornando al colore dell’ocria, andai col coltellino di dietro cercando alla margine di questo colore; e sì t’imprometto che mai non gustai il più bello e perfetto colore di ocria. Rispondeva non tanto chiaro quanto è giallorino; poco più scuretto; ma in capellatura, in vestimenti, come per lo innanzi ti farò sperto, mai miglior colore trovai di questo color d’ocria. È di due nature, chiaro e scuro. Ciascuno colore vuole un medesimo modo di triarlo con acqua chiara, e triarlo assai; chè sempre vien più perfetto. E sappi che quest’ocria è un comunal colore, spezialmente a lavorare in fresco, che con altre mescolanze; che, come ti dichiarerò, si adopera in incarnazioni, in vestiri, in montagne colorite, e casamenti, e cavelliere, e generalmente in molte cose. E questo colore di sua natura è grasso”.

Avocado or overcado?

The eat clean trend and Instagram have been helping food to become a matter of fashion. The proliferation of inspired pictures of colourful and healthy-looking breakfasts and all-veggie lunches teaches us what’s cool to eat nowadays. Here’s a selection of the most overrated food that you should have on your Pinterest board – and on your table, of course!

Avocado toast

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It’s not a mistery that avocado got excessively popular in the last years. It started to be appreciated as the green component of Mexican guacamole and went to be used as a perfect match with salmon in sandwiches or salads. But what nobody actually expected was its success in the breakfast menu: together with a slice of bread – better if multigrain with loads of fancy seeds – it makes the legendary avocado toast, craved by fashion bloggers and Instagram gurus all around the Internet.

All Granola Everything

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Muesli is not a cool word anymore. Welcome to granola then, which is nothing but a bunch of cereals, seeds, dried fruit and nuts served together with yogurt or compressed in super nutrient bars. Apart from being actually healthy, granola helps you mantaining your eat clean stance by adding a lot of trendy ingredients, from chia seeds to almond milk and Greek yogurt. Also, it perfectly matches with raw wooden tables and plain white bowls for perfect Instagram shots.

Agave

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Who said that eating clean can’t be a bit sweet? Derived from the same plant used to make tequila, which is already a plus itself, agave syrup (or nectar) has a surprisingly rich flavor that is slightly sweeter than honey. What healthy eaters mostly appreciate about it is that is has low glycemic index (GI) value. What about its look? Tiny glass bottles and jars are a granted success for any inspirational board on Pinterest.

Brussels sprouts

Kohl Green Brussels Sprouts Vegetables

Super healthy, tasty and vegan. No wonder why the hipster world is crazy about them. In addition, the deep green colour is great in pictures, and the fact that the cabbage smell can’t be smelled through the smartphone screen is definitely a plus.

Luxury water

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Drinking clean is fundamental. Considering that going directly to the water spring to get the purest water is not convenient, clean eaters are quite choosy when it comes to pick the bottle of water they are going to drink – and show around – during their busy creative days. One of the most appreciated brands is Fiji, which indeed has a wonderful packaging. Not to mention Volvic, Evian or San Pellegrino, which are cool water classics. But one of the most extravagant (and expensive) is BLK, a bottle of black water. Would you drink it?

 

Cover Photo by stevepb (CC0 Pixnio)

Tracciabilità dei prodotti, bio e km 0: non solo marketing

“Tutto naturale”, “senza sostanze chimiche”, “qualità e freschezza” sono forse le scritte più accattivanti per il consumatore che, tra gli affollati reparti di un supermercato, vuole essere rassicurato sulla bontà e la genuinità dei prodotti da portare a tavola. Ci sono però indicazioni più precise che ci permettono di fare la spesa in modo più consapevole, slogan pubblicitari a parte, sia per la propria salute che per il rispetto dell’ambiente.
Ne abbiamo parlato con Eva Oliveri, tecnico della prevenzione negli ambienti e nei luoghi di lavoro presso l’ufficio di Sanità Pubblica del Dipartimento di Igiene e Prevenzione sanitaria dell’ATS di Bergamo. «Il mio lavoro consiste nell’attività di vigilanza presso esercizi di ristorazione pubblica e collettiva, esercizi di vendita al dettaglio e grande distribuzione, aziende di produzione di prodotti alimentari e laboratori artigianali e nella vigilanza presso strutture acquedottistiche, compresa l’attività di campionamento di acqua potabile di rete e prodotti alimentari vari».

Partiamo dai fondamentali: qual è la differenza tra prodotti “biologici” e prodotti “naturali”?

«I prodotti biologici sono prodotti coltivati nel rispetto di norme stabilite dal Parlamento europeo, quindi a livello comunitario, e dagli enti certificatori del settore, quelli che ogni consumatore può identificare leggendo l’etichetta dei prodotti. I prodotti naturali sono prodotti coltivati secondo le regole dell’agricoltura tradizionale o naturale, come la chiamano in tanti.
La differenza tra produzione biologica e la coltivazione tradizionale, è che nella prima vengono utilizzati gli antiparassitari e concimi non dannosi per l’uomo e per l’ambiente, quindi vengono usati composti di origine naturale e non vengono utilizzati OGM (Organismi Geneticamente Modificati); nella seconda questi prodotti possono derivare da sostanze chimiche, talvolta nocive per l’uomo.
La cosa positiva del biologico non è tanto la differenza di sostanza, nutrizionale o di gusto, rispetto al prodotto che non lo è, ma nel metodo di produzione, che ha meno impatto sull’ambiente e quindi sulla salute dell’uomo».

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E i prodotti a km 0?

«Sono i prodotti che vengono reperiti nella zona di produzione o a pochi chilometri e acquistati direttamente dal produttore, senza intermediari tra questi e il consumatore. Sono prodotti locali, quindi, venduti nella stessa zona in cui vengono coltivati. La garanzia di freschezza è massima quando si parla di filiera corta, perché non ci sono lunghi trasporti né passaggi intermedi, non ci sono camion che fanno i chilometri per portare i prodotti al confezionamento e alla distribuzione, perdendo di qualità e aumentando i loro prezzi finali».

Ora che abbiamo capito il significato di denominazioni tanto comuni ma spesso usate in modo improprio, facciamoci qualche conto in tasca. In tutta onestà, possiamo dire che i prezzi di questi prodotti sono spesso un po’ alti: motivazioni ragionevoli o questione di marketing?

«Il problema del prezzo è che il raccolto della coltivazione biologica ha una resa inferiore rispetto a quella tradizionale, dovuto proprio a metodi e mezzi di coltivazione, perché utilizza strumenti che magari hanno meno efficacia e richiede più tempo per annientare i parassiti nella pianta coltivata, di conseguenza i prodotti costano un po’ di più.
Ne vale la pena, ma relativamente: a mio parere, bisogna stare attenti a certe strategie di marketing aggressive, che spingono sull’influenza psicologica sul consumatore. Non sempre “biologico” significa “più buono” e quindi “più caro”. Personalmente preferisco comprare a km 0 in un’azienda della mia zona, dove magari conosco la ditta e so come lavora, per avere più garanzie su genuinità e freschezza di quello che compro».

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Le etichette ci aiutano a capire qualcosa in più del prodotto che stiamo per comprare?

«Alla luce del nuovo Reg. CIE 1169/2011, recentemente entrato in vigore, sull’etichettatura dei prodotti alimentari, l’etichetta diventa più chiara, trasparente e completa fornendo anche una serie di indicazioni nutrizionali disciplinate a loro volta dal Reg. CIE 1924/2006, relativo alle indicazioni nutrizionali e alla salute fornite sui prodotti alimentari. Quindi sì, le etichette sono trasparenti, perché per esempio se indicano “oli e grassi vegetali” tra gli ingredienti, deve essere indicata la natura specifica degli oli e dei grassi impiegati (olio di palma, olio di colza, olio di cocco…). Con il nuovo regolamento è diventata obbligatoria anche l’indicazione di origine per le carni suine, ovine, caprine e pollame, che prima non c’era, il che è importante, in quanto nei vari Stati ci sono metodi di allevamento differenti.
Si tratta di un sistema normativo in evoluzione, quello delle etichettature; ad esempio si è diffusa da poco la notizia a proposito dell’indicazione obbligatoria per l’origine del latte. In generale, è tutto più chiaro da anni».

Ci sono dei punti critici, dei nodi irrisolti in questi ultimi testi normativi?

«La criticità dell’ultima normativa è che non è estesa a una più ampia gamma di prodotti per l’indicazione dell’origine degli stessi. Tutti gli ingredienti dei prodotti dovrebbero essere “tracciabili”: se compro un pacco di pasta e leggo “farina di grano duro”, preferirei sapere da dove arriva il grano utilizzato, perché magari preferisco portare a tavola prodotti del mio territorio d’origine, per questione etica o altro».

Cosa può fare l’ATS per incentivare il consumo di prodotti bio e a km 0?

«Veramente l’ASL da parecchi anni è attiva nelle campagne di informazione sulla nutrizione e, come posso verificare durante le mie ispezioni, la maggior parte delle aziende di ristorazione scolastica ha accettato l’invito ad utilizzare prodotti biologici e di provenienza locale, il che è già un buon risultato».

Un consiglio personale a tutti i consumatori per riempire il carrello in modo più consapevole?

«Leggere bene le etichette e scegliere possibilmente prodotti locali, sempre; l’ideale, poi, sarebbe raccogliere informazioni in merito alla localizzazione dell’azienda, per capire se occupa e coltiva in terreni situati in zone poco salubri (ad esempio, vicino ad autostrade o in zone industriali)».

Un giorno a Detroit

Quando non riesco a viaggiare per fortuna ci pensano gli amici a portare un po’ di mondo nella mia routine quotidiana! Può capitare che alcuni sorvolino oceani per approdare a terre lontane, sino a Detroit. Questa è la storia di Lorenzo Vergani, dottorando 27enne presso la Facoltà di Agraria di Milano, che per un corso universitario si è spinto fino nel Michigan. Peccato che l’albergo, alloggio e sede dei workshop, fosse a venti minuti di Uber da Detroit. Il lavoro era tanto e il tempo libero poco, ma un giorno bisognava pur dedicarlo alla città. Lorenzo la visita durante una soleggiata domenica dello scorso settembre, si guarda attorno cercando di carpire più dettagli possibili. Pequod lo ha seguito con lo sguardo.

Conosciuta ai giorni nostri per la famosissima 8 mile e per Il Banco dei pugni, Detroit è la diciottesima città degli Stati Uniti con una popolazione di 701.475 abitanti, meno della metà dei cittadini che possedeva all’apice della sua fortuna industriale durante gli anni Cinquanta.

«Era la prima volta che mi trovavo in una ghost town», racconta Lorenzo, «Quando siamo stati noi non c’era in giro praticamente nessuno; se non qualcuno sul lungo fiume». A seguito della crisi economica la città si è svuotata completamente dei lavoratori e impressionante è «salire sulla monorotaia sopraelevata che gira su un panorama deserto». Durante la passeggiata, Lorenzo e i suoi colleghi hanno visitato la downtown: «È come se fosse il nostro centro, ma assai diverso: non ci sono musei, ma molti centri commerciali e grattacieli. In particolare quello enorme della General Motors». Dal 72esimo piano di questo edificio, il mio amico poteva abbracciare con lo sguardo l’intera town, e contemplare ciò che Detroit era in passato. I più alti e sfarzosi grattacieli di oggi cozzano difatti con i vecchi palazzi, vuoti e in rovina, testimoni del primo nome della città Motown, ovvero Motor Town, a indicare la principale sede statunitense delle più rinomate case automobilistiche americane.

Una classifica su ciò che più impressiona a Detroit? La quantità di persone obese è di certo al primo posto per il mio amico snello, seguita dall’ostentazione di «un certo stile di vita. In particolare da parte degli afroamericani: li puoi osservare sui loro motoscafi costeggiare la riva del fiume, tra festini e altissima musica rap. Oppure, per la città con macchine d’epoca truccate, dai cerchioni lucidati e abbellite da lucine».

Fotografie di Lorenzo Vergani.

Crimson Vipers vs Breaking Bears: la schiacciante vittoria delle pattinatrici bergamasche

Sabato 1 ottobre si è disputato il primo incontro della stagione per le Crimson Vipers. Nella palestra Italcementi di Bergamo hanno sfidato le pattinatrici del Breaking Bears di Berlino in un incontro frizzante e mozzafiato. In occasione della settimana contro la violenza di genere, in ricordo di Yara Gambirasio, Uisp Bergamo ha dato spazio al Roller Derby: strategia, velocità e potenza, tutte al femminile!

La redazione di Pequod ha fatto il tifo per le ragazze bergamasche delle Crimson Vipers e non ha potuto non farsi coinvolgere dalla grinta e dalla forte energia delle giocatrici. Due squadre, due blocchi e la figura della jammer che sgusciava, scavalcava o di forza si creava un varco tra il blocco della squadra avversaria per poi scivolare lungo tutto il circuito: Punto! Acclamazioni, applausi e cori gioiosi per quel caschetto nero con cucita sopra una stellina rossa.

Tanta carica e tanta grinta anche in Cherry, l’allenatrice delle Crimson Vipers, che da bordo campo (con uno stile veramente raffinato e tosto) incitava e direzionava le sue ragazze verso la vittoria SCHIACCIANTE!

Lungi da me aver chiaramente compreso le intricate regole del gioco, non ho potuto far altro che intuire e palesemente notare la presenza di moltissime figure di “arbitri” dalle casacche a strisce bianche e nere e dai collaboratori e segnapunti (team per la maggior parte composto dalle Fresh Meat delle Crimson Vipers, ossia le novelline che hanno iniziato ad allenarsi e che devono farsi un po’ di gavetta prima di entrare a far parte della squadra ufficiale).

A metà tempo si è poi esibito il gruppo delle cheerleader, le giovanissime e appassionate Black Diamond Cheers, che hanno animato la pausa tra i due tempi portandoci per un piccolo momento a un’ atmosfera dal sapore statunitense. Cheerleading e Roller Derby, due sport che arrivano da oltre oceano e che hanno conquistato il cuore di queste stupende ragazze capaci di regalarci emozioni nuove e di farci appassionare.

Fotografie di Crimson Vipers Roller Derby – Bergamo

New York, un viaggio nella gentrification

Times Square, Central Park, Empire State Building… questa è la New York dei film, della Trilogia di Paul Auster e dei turisti abbagliati dalle luci della città che non dorme mai. Certo, il fascino dei grattacieli storici di Manhattan, della folla che scorre lungo la Fifth Avenue e dello skyline metropolitano ammirato dalla Statua della Libertà è innegabile! Tuttavia sarebbe sciocco, e un po’ anacronistico, ridurre alla sola isola di Manhattan tutto ciò che è worth-a-visit nella Grande Mela. Sì, perché quando si parla delle grandi città si deve per forza considerare la gentrifrication, ovvero quel processo di cambiamenti volti al miglioramento che interessano solitamente aree marginali e periferiche.

A New York l’interesse verso le cosiddette periferie non è una novità. Negli anni Brooklyn è riuscito a superare lo stigma dell’essere un quartiere malfamato, dove i taxi di Manhattan non osano arrivare, e anche il Queens e il Bronx sono diventati aree di interesse culturale, oltre che location di ristoranti e locali alla moda. Pequod vuole portarvi alla scoperta delle aree gentrificate, ossia le zone di NY lontane dal cuore di Manhattan ma con un’identità forte ed affascinante.

Superato il ponte di Brooklyn ci si ritrova a DUMBO, acronimo di Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Questa è la Brooklyn dei loft, degli ex zuccherifici e delle antiche fonderie trasformate in appartamenti estremamente costosi, delle gallerie d’arte che sbucano ad ogni angolo di strada, delle vecchie cartiere divenute laboratori artigianali e delle strade acciottolate che risalgono dal lungofiume per Vinegar Hill, con i suoi edifici storici dove un tempo vivevano gli immigrati europei.

Scorcio del Manhattan Bridge visto da una via di DUMBO, Brooklyn
Uno dei palazzi di DUMBO, Brooklyn

Non sono solo il Manhattan Bridge e il Brooklyn Bridge a collegare Manhattan a Brooklyn: dall’East Village, la mitica Broadway continua sul Williamsburg Bridge, che conduce dritti nel quartiere di New York più in voga del momento, Williamsburg. Qui la gentrification è ancora un fenomeno recente, tanto è vero che quest’area di Brooklyn è spesso nominata quando si parla di aree periferiche che diventano di moda. Infatti Billyburg, come viene soprannominata la zona, ha visto la sua popolarità crescere a dismisura negli ultimi anni, insieme al costo degli affitti e al numero di negozi vintage e bistrot di tendenza, che si affiancano lungo la principale Bedford Avenue. Spesso Williamsburg è definito il quartiere più hipster di New York ed è anche l’ambientazione di film e serie tv che giocano proprio su questo aspetto; nella popolare comedy Two Broke Girls della CBS le protagoniste Max e Caroline vivono e lavorano proprio a Williamsburg e molte delle loro battute più divertenti hanno a che fare con la popolarità del quartiere e con la massiccia presenza di hipster.

Ma se in molti ritengono che Williamsburg sia ormai troppo popolare per essere davvero il quartiere più di tendenza di Brooklyn, per scoprire le nuove aree in cambiamento del borough più popoloso della città bisogna inoltrarsi sempre più a sud ovest, con la mitica J, la linea sopraelevata della metropolitana, fino ad arrivare a Bushwick.

Bushwick, ancora poco inflazionato rispetto a Williamsburg, conserva il suo spirito autentico, con negozi portoricani e cinesi, edicole yemenite, breakfast spot latinoamericani e chiese della comunità afroamericana. Tuttavia, negli ultimi tempi nella zona hanno aperto diversi caffè, negozi di second hand, supermercati biologici o a kilometro zero; segno che la gentrification sta rendendo Bushwick il nuovo place to be. Per ora comunque, l’area si gode la sua fase di transizione ed è forse il posto migliore per godere dei vantaggi di una zona ormai riqualificata ma non troppo mainstream. Imperdibili sono i mercatini che invadono le strade di Bushwick nei weekend estivi e i ristoranti ricavati nei bassi edifici in mattoni rossi con le loro suggestive verande illuminate da piccole lucine.

Il J train sospeso sopra la Broadway
Mercatino di Bushwick [ph: Bushwick Flea]

Quando si parla di gentrification tuttavia non occorre per forza andare troppo lontano dal centro. Nella zona nord di Manhattan si trova infatti Harlem, il leggendario quartiere della Renaissance culturale afroamericana dei primi del Novecento, del gospel e del soul food. La nomea di quartiere malfamato che per molto tempo l’ha accompagnato non rende giustizia alle sue qualità, che ora la gentrification sta portando alla luce, aiutando la zona a nord di Central Park a superare i pregiudizi che spesso la precedono. Il consiglio quindi è quello di esplorare Harlem cominciando dal leggendario Apollo Theater e dal Lenox Lounge, il tempio del jazz dove si esibirono, fra gli altri, John Coltrane e Billie Holiday. Se si parla di locali poi, impossibile non fare una capatina per cena da Sylvia’s per gustare pollo fritto, waffle e mac’n’cheese, piatti tipici della cucina soul food, ovvero quella degli Stati Uniti meridionali. E una volta sazi, Harlem offre stimoli anche per gli appassionati di architettura e di storia afroamericana: la Striver’s Row, lungo la 138esima e la 139esima, è una lunga fila di brownstone (case di mattoni) di fine Ottocento considerate patrimonio architettonico nazionale, mentre la Masjid Malcolm Shabazz, all’incrocio col Malcolm X Boulevard, è la moschea dal cui pulpito predicava lo stesso Malcolm X.

Striver’s Row [Ph:Kmf164 CCA 3.0]
Masjid Malcolm Shabbazz [ph: Paul Lowry CCA 2.0]

Brooklyn e Harlem, ma anche il Bronx, il Queens e Staten Island… New York è una città che non smette mai di muoversi, di cambiare e di stupire. La gentrification a New York testimonia proprio quanto la metropoli sia il centro vibrante degli Stati Uniti, col suo crocevia di culture, persone, nazionalità e tendenze. Ogni angolo della città, anche il più remoto, nasconde del bello e la magia forse sta proprio nello scovare queste bellezze prima che apra l’ennesimo Starbucks.

 

In copertina: Crown Heights, Brooklyn, NY, USA [ph:Андрей Бобровский CCA 3.0]

Route 415, quello che non ti aspetti a 20 km da Milano

L’acqua, elemento essenziale della storia che andiamo a raccontare, scorre inesorabile e, come il tempo, passa e trasforma. Anni e secoli che lentamente modificano, rivoluzionano un territorio. Spesso l’urbanizzazione caotica ha portato con sé la cancellazione della memoria di luoghi e storie.

Da qui nasce il progetto Paullese Route 415, dalla necessità di conservare le ricchezze, talvolta poco conosciute, di un territorio così vicino ad una grande città europea, Milano, ma ancora così lontano da essa per panorami, colori e ambienti.

http://www.paullese415.it/
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«A noi» mi racconta il Sindaco Federico Lorenzini  «il compito di promuovere e sviluppare il nostro territorio. Registrando il marchio, il Comune di Paullo ha dato concretezza all’idea; ora con l’aiuto della società Weblizt stiamo provando a sviluppare il brand, utile a raccontare le bellezze di luoghi spesso poco conosciuti».

L’idea piace alle amministrazioni locali: per il momento sono otto i Comuni coinvolti nel progetto, si spazia da Peschiera Borromeo in provincia di Milano fino a  Castelleone in provincia di Cremona. Insomma, la bassa Lombardia sembra unita trasversalmente da un’unica visione.

Intervistando Marco, socio della Weblizt, ci si rende subito conto di quali sono i valori comuni che stanno unendo le forze pubbliche e private all’interno di questo scenario. La sostenibilità ambientale è una di queste, unita alla volontà di restituire ai cittadini la condizione di fruibilità di splendidi luoghi culturali incastonati in paesaggi rurali, dove la natura regna e non arretra.

Per dirla con le parole del Sindaco di Paullo, Comune titolare del progetto: «La strada paullese è un’importantissima arteria della Lombardia centrale, resta a noi il compito di far capire che fuori da quella linea di cemento c’è un mondo».

http://www.paullese415.it/
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Già, un mondo dove si uniscono boschi tutelati, castelli e santuari medioevali, antichi corsi d’acqua. Ma non solo: elemento aggiunto delle visite a questi territori è l’enogastronomia, ricca di storie e sapori delle pietanze senza tempo di questi luoghi in cui da sempre vengono cucinati.

E così, da queste premesse tutte “green” ha preso forma quella che era solo una visione. I percorsi, esclusivamente ciclabili, sono stati mappati, possiedono una partenza definita e  destinazioni condivise, narrate e illustrate. Ora, per chi fosse alla ricerca di svago e relax dalla monotonia urbana e dal grigiore del proprio ufficio, potrà tranquillamente studiare l’itinerario più incline ai propri interessi e alle proprie necessità.

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Accedendo direttamente dal portale, infatti, chi parte da Crema potrà scegliere di far visita al Castello di Pandino, percorrendo – pardon, rigorosamente pedalando – per una trentina di chilometri in compagnia delle guide locali. Oppure, con partenza da Paullo, si potrà far visita all’Oratorio Bramantesco di Rosate, costruito nel Quattrocento, dopo per aver visitato il santuario di San Giovanni del Caladrone, le cui tracce si perdono nella storia. Le prime notizie del luogo risalgono addirittura al 1261, secondo le antiche testimonianze trascritte su di una pergamena conservata nell’Archivio Vescovile di Lodi.

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Ma questo, come dicevo, è solo una delle tante storie di questo pezzo di pianura, dove storia, arte e sacralità si mescolano danzando con la natura, rivendicando la loro presenza. A noi allora il compito di dar voce, ammirandole; scoprendo che basta così poco per innamorarci ed emozionarci così tanto.

“Purity” di Jonathan Franzen

Jonathan Franzen, autore dei celebri romanzi Le correzioni (2002), Libertà (2010) e del più recente Purity (2015), è sicuramente uno degli scrittori contemporanei più rappresentativi della letteratura americana degli ultimi anni, tanto da guadagnarsi la copertina della rivista Time col titolo di “grande romanziere americano”. Franzen è infatti un eccellente osservatore delle minuzie che compongono la vita dell’americano medio e in particolare delle complessità che caratterizzano le sue relazioni familiari. Uno degli elementi centrali dei suoi romanzi è il senso di colpa dovuto all’incapacità di essere all’altezza delle aspettative della propria famiglia. Questo è evidente tanto nei figli di Enid e Alfred Lambert ne Le correzioni, quanto nella relazione tra il personaggio principale di Purity, Pip, e sua madre.

La copertina di "Purity" di Jonathan Frazen, Einaudi, 2016.
La copertina di “Purity” di Jonathan Frazen, Einaudi, 2016.

Malgrado le analogie con i precedenti romanzi, con Purity Franzen sembra tuttavia voler andare oltre e delinea una storia dai complicati intrecci. Pip, che convive con un’alternativa famiglia di emarginati e inquilini abusivi, è alla ricerca di suo padre, di cui la madre rifiuta da sempre di rivelare l’identità, limitandosi a definirlo la causa della sua disperata infelicità. La ricerca di Pip, che è il motore che avvia la trama del romanzo, la conduce prima a lavorare per il Sunlight Project, una specie di Wikileaks estremista con sede in Bolivia guidato dal carismatico Andreas Wolf, e poi a Denver per prendere parte a un progetto giornalistico volto a denunciare il furto di una testata nucleare. Tale ricerca potrebbe a prima vista far pensare a un romanzo sull’educazione sentimentale e sessuale di una giovane donna inesperta alle prese con la dura realtà del XXI secolo – una sorta di Grandi Speranze moderno, di cui peraltro il nome di Pip e altri dettagli sono evidenti citazioni. All’interno di questa tradizione, però, Franzen riesce come al solito a rappresentare la contemporaneità americana, soffermandosi sull’ossessione per la trasparenza e la connettività assolute nell’era di Internet. Se il senso di colpa era al centro dei personaggi fragili del Le Correzioni, e l’ideologia della libertà sconfinata aveva creato un disastro educativo per un’intera generazione di ex ragazzi in Libertà, in Purity è l’idolo della trasparenza ad ogni costo a mietere vittime.

Attraverso il personaggio di Andreas Wolf, Franzen paragona la cultura di sorveglianza della Stasi, il Ministero della Sicurezza Sovietica della Germania dell’Est, con quella del web. Man mano che procede nei suoi sforzi di denunciare i mali della corruzione mondiale, Andreas trova sempre più analogie tra i due sistemi: «Come i vecchi politburo, anche quello nuovo [del web] si vantava di essere nemico delle élite e amico delle masse, impegnato a dare ai consumatori ciò che volevano, ma ad Andreas […] sembrava che Internet fosse governato più che altro dalla paura: la paura di essere impopolari e sfigati, la paura di rimanere esclusi, la paura di venire insultati e dimenticati». Da entrambi i sistemi inoltre «non era possibile uscire»; «l’assioma, per entrambi, era che stava emergendo una nuova specie di umanità […]. Non sembravano infastiditi dal fatto che le élite di potere erano costituite dalla vecchia specie di umanità, avida e brutale». L’opinione di Andreas è espressione della critica di Franzen stesso nei confronti degli effetti incontrollati di Internet e della tecnologia. Come ha spiegato in un’intervista al Guardian, «la tecnologia stessa è la Stasi […]. E la Stasi non aveva bisogno in realtà di fare granché […] contava sul fatto che le persone si autocensurassero. E controllassero il loro comportamento per paura della Stasi, senza il bisogno che questa alzasse un dito».

Franzen sulla spiaggia nei pressi della sua abitazione a Santa Cruz, California (Morgan Rachel Levy/Guardian)
Franzen sulla spiaggia nei pressi della sua abitazione a Santa Cruz, California (Morgan Rachel Levy/Guardian)

 Nonostante la ricerca della trasparenza e della “purezza” sia essenziale per tutti i personaggi, questo è un romanzo di segreti, manipolazioni e bugie. Ai personaggi di Purity non piace come va il mondo, lo vorrebbero cambiare radicalmente, purificarlo appunto, ma poi sono loro stessi i primi a sbagliare in continuazione, ad ingannare e produrre dolore senza nemmeno rendersene conto. Sebbene i protagonisti aspirino quindi all’ideale americano di essere artefici del proprio destino, essi sono in realtà soggiogati dai propri sensi di colpa e prigionieri delle conseguenze involontarie del loro passato e della vita in cui sono capitati di nascere.

Purity è dunque un romanzo di formazione distorto, che tratta delle inquietudini e dei paradossi non solo americani, ma dell’intera contemporaneità.

Cosa pensano le femministe di Hillary Clinton?

La candidatura presidenziale di Hillary Clinton ha suscitato reazioni contrastanti all’interno del movimento femminista. Da una parte, il fatto che una donna sia arrivata così vicina ad essere eletta presidente degli Stati Uniti è stato esaltato da molte come il simbolo di un cambiamento epocale, di portata psicologica immensa per le nuove generazioni di donne. Dall’altra, è stato sottolineato che Clinton non rappresenta un esempio poi così virtuoso di femminismo, visto l’impatto che le sue scelte in campo di politica estera ed economica hanno avuto sulle vite di molte donne, in particolare quelle dei paesi colpiti dagli interventi militari da lei appoggiati, e sulle fasce meno privilegiate della popolazione americana. Clinton come rappresentante di una conquista storica per le donne da un lato, Clinton come esponente in vesti femminili di un sistema di potere caratterizzato da privilegio economico e razziale dall’altro. Sono queste, a grandi linee, le due posizioni principali del dibattito femminista sulla sua candidatura presidenziale, due orientamenti che rispecchiano un diverso modo di concepire la natura e gli obiettivi del femminismo.

Molte donne e femministe appartenenti alle generazioni più giovani, tra le quali trova molto seguito il socialista Bernie Sanders, hanno accusato Clinton di rappresentare un femminismo elitario, liquidando l’idea che il genere della candidata rappresentasse un motivo sufficiente per sostenerla: “non voto sulla base del mio genere, voto sulla base delle questioni che mi interessano” è stato il sentimento espresso ripetutamente da queste elettrici, molte delle quali sostengono Sanders per il suo programma radicale di riforma economica. Molto è stato detto sul fatto che l’appartenenza al genere femminile non basti a rendere Clinton ambasciatrice indiscussa dei problemi delle donne ed ancor più si è parlato del fatto che essere donna non basti per presentarsi come il candidato migliore per le elezioni presidenziali. Questo tipo di discorso dimostra una certa confusione tra la questione di Clinton come candidata femminista e quella di Clinton come candidata donna, con la conseguenza di creare un dibattito spesso ossessivamente centrato sulla banale questione del “Le donne ai vertici politici sono meglio purchessia?” come titola un articolo di Monica Lanfranco per Il Fatto Quotidiano.

Photo by Sambeet - Pixabay
Photo by Sambeet / Pixabay

Secondo Maria Serena Sapegno, professoressa di Letteratura Italiana e Studi di Genere all’Università La Sapienza di Roma, co-fondatrice del Laboratorio di Studi Femministi Annarita Simeone della stessa, e da sempre attiva nel movimento femminista italiano, ad essere importante non è tanto che Clinton sia una donna: “ma il fatto che lei sappia di esserlo, sappia appunto quale enorme tabù stia sfidando e insomma sia sempre stata una femminista. (…) per tutta la vita Clinton (…) ha saputo non perdere mai di vista la vita delle donne e la necessità di lottare per i diritti delle donne.” Il valore della candidatura di Clinton risiederebbe dunque nel portare avanti con tenacia le questioni femminili all’interno dell’ambito marcatamente maschile e maschilista della politica: “la società è costruita dagli uomini per loro e le donne sono necessarie nella sfera privata, punto. Ogni sforzo per entrare nella sfera pubblica, portandosi dietro il proprio corpo e la propria storia, confligge con quelle regole non scritte, e per questo tanto più difficili da contestare, di cui appunto si parla. O si cambiano le regole o non c’è spazio di libertà reale per le donne.”

Al centro delle critiche rivolte a Clinton all’interno del campo femminista risiede invece un desiderio di vedere il femminismo rompere non solo col monopolio maschile del potere, ma anche con un certo tipo di potere e politica. Come spiega Serena Natile, giurista e ricercatrice presso l’Università del Kent nel Regno Unito e il Centro di Law, Gender and Sexuality della stessa, ed ex collaboratrice di varie organizzazioni per i diritti sociali e i diritti di genere, ad essere importante non è solo “se e come una donna possa emergere in un sistema politico creato sulla base di una ‘norma’ maschile, ma quanto una donna al potere possa favorire (…) una politica che metta in discussione le dinamiche di potere anziché dimostrare al mondo come usarle a proprio favore.” Con il suo approccio interventista in merito di politica estera, l’appoggio passato a politiche economiche che hanno penalizzato le fasce più svantaggiate, e la vicinanza al potere economico di Walmart e quello finanziario di Wall Street, Clinton è dunque vista come rappresentante di un femminismo che, nelle parole della femminista americana Nancy Fraser: “vuole pari opportunità di scalare le gerarchie esistenti, senza mai metterle in discussione.”

Foto di Changyu Hu / Unsplash
Foto di Changyu Hu / Unsplash

Se molte donne e femministe si esprimono scettiche rispetto alla candidatura di Clinton, è dunque perché la candidata viene percepita come l’esponente di un femminismo incapace di offrire risposte valide ai loro problemi. Secondo Natile “Il fatto che questo tipo di critica venga mossa dalle femministe più giovani (…) risiede nel fatto che molte di loro stanno vivendo un periodo di precarietà che (…) garantisce poche sicurezze soprattutto sociali come lavoro, casa, sanità e servizi sociali pubblici.” L’esperienza della precarietà economica rende necessariamente poco attrattiva la scelta di Clinton di presentarsi come colei che è capace di sfondare ‘il tetto di cristallo’ del potere politico, senza però metterne in discussione il funzionamento, accentuando così la distanza tra lei e coloro che soffrono le conseguenze delle scelte (soprattutto economiche) prese da questo tipo di potere senza avere possibilità di intervenirvi, per motivi non esclusivamente legati al loro genere.

Chi vede con favore la candidatura di Clinton è spesso consapevole dei suoi limiti: Sapegno per esempio sostiene che, nonostante sia la candidata alla presidenza “più esperta e preparata che si sia mai presentata (…) si possono, e si devono, discutere alcune delle decisioni che ha preso”, mentre Natile ammette che “l’elezione di una donna presidente degli Stati Uniti è una svolta assolutamente positiva in termini di messaggio politico e uguaglianza formale”, anche se precisa che “Clinton dovrebbe riconciliare il movimento femminista che la supporta con quei movimenti sociali che espongono i limiti delle sue idee e azioni politiche”. Se il femminismo è diviso riguardo Hillary Clinton, è perché le varie correnti del movimento sembrano pretendere molto in termini di integrità e responsabilità da parte di quella che sembra essere destinata a diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, e questo non può che essere un bene.

 

Foto di copertina di Marc Nozell (CCA 2.0/Wikimedia Commons)

La musica fresca passa per Babylon. Intervista a Marta Tripodi

L’informazione viaggia veloce a portata di click e le sonorità nascenti sgomitano per arrivare ai più o semplicemente alle orecchie giuste. Dirigerne il traffico è controproducente, meglio lasciare che la musica sia libera di combinarsi assecondando la sua natura caleidoscopica dai toni, colori e forme mutevoli. Nuove Premesse salta lo steccato per parlare di giovani e radio con chi la bellamusica è abituato ad ascoltarla e a selezionarla per noi: Marta ‘Blumi’ Tripodi. Oltre a dirigere Hotmc.com, il più longevo portale della cultura urban in Italia, in questi anni l’abbiamo vista autrice o regista di diverse trasmissioni in onda su Radio2 (dISPENSER, Traffic, RadioBattle, Stay Soul, Nessuno Mi Può Giudicare) tra cui Babylon, uno dei prodotti più autentici e vibranti delle nostre frequenze.

Parliamo con lei del programma e della caccia ad artisti emergenti:
La Radio italiana come può aiutare e aiuta i musicisti underground a farsi conoscere?
Rispondo a questa domanda con un appello: cari musicisti underground, aiutateci ad aiutarvi. Per ragioni di mercato, l’80% delle trasmissioni radiofoniche non può scegliere le canzoni da mandare in onda e deve attenersi alla cosiddetta playlist, che è una lista di brani più o meno mainstream in rotazione per tutto il giorno. Esistono ancora poche isole felici in cui si possono sperimentare sonorità diverse, e molte di esse sono ovviamente legate al servizio pubblico (su Radio2, oltre a Babylon, ci sono parecchi programmi musicali che godono di grande libertà, di cui siamo tutti molto orgogliosi: Stay Soul, Mu, Radio2 In The Mix, RadioBattle, Musical Box, Back 2 Back, Rock’n’Roll Circus…). Più queste trasmissioni hanno peso, importanza e diffusione, e più gli editori privati e pubblici crederanno nel loro valore e apriranno nuovi spazi per la musica underground. Ascoltateci, seguiteci, supportateci, fate sapere in giro che vi fa piacere ascoltare anche cose diverse dalla solita decina di dischi in testa a tutte le classifiche: in questo modo ci saranno sempre più opportunità per i musicisti emergenti e di nicchia.

Babylon è una delle creazioni più riuscite in questo panorama. Come è cambiata la trasmissione nel corso delle sue 7 stagioni?
Innanzitutto grazie per le belle parole! Sicuramente la trasmissione è cresciuta e noi siamo cresciuti con lei: siamo un team molto giovane, eravamo quasi tutti nei nostri vent’anni quando è andata in onda la prima puntata. Credo che però lo spirito sia rimasto sempre lo stesso: Carlo Pastore, che ha creato Babylon e le dà voce ogni weekend, ha voluto battezzarla così pensando alla torre di Babele e alla sua confusione di lingue e personalità. Ci piace mescolare stili e generi diversi, portare alla luce artisti ancora sconosciuti e paragonarli a chi invece ha già sfondato, creare contrasti, utilizzare formati opposti (dal mix al live passando per l’approfondimento e l’intervista), ma sempre con un ritmo serrato e un tono di voce amichevole e informale: non vogliamo fare una lezioncina ai nostri ascoltatori, vogliamo esaltarci con loro per la musica che ogni settimana scopriamo insieme.

Carlo Pastore intervista Mark Ronson

Quali sono le sfide più ardue di una regia come quella di Babylon?
Precisazione: il regista, per come è inteso in Rai, è una figura diversa rispetto ai suoi analoghi nelle radio private. Diciamo che non si tratta di un fonico che gestisce la parte tecnica, ma di una via di mezzo tra una figura di produzione e un autore (tant’è che io sono approdata alla regia dopo aver fatto l’autrice per anni, cosa che faccio ancora), e le sue mansioni variano molto da programma a programma. Babylon è una trasmissione complessa, quindi le sfide sono molte. È importante dare un certo stile, ritmo e sound anche alle interviste che montiamo o ai tagli che ogni tanto dobbiamo fare, perciò avere dimestichezza con la musica diventa fondamentale. Bisogna conoscere molto bene l’inglese, perché molti dei nostri ospiti sono stranieri e seguire un soundcheck o trattare per un’intervista in una lingua che non è la tua è ostico. Bisogna essere flessibili, perché capita spesso di fare cose che non c’entrano nulla con il proprio ruolo (vedi alla voce “aiutare le band che passano a trovarci a scaricare i furgoni degli strumenti”). E bisogna essere concentrati e pronti a reagire, perché lavoriamo sul prodotto per molte ore di seguito e, per essere sempre sul pezzo, capita che all’ultimo minuto si decida di cambiare in corsa e di ricominciare da capo. È impegnativo, ma è bellissimo essere parte di un processo creativo così stratificato.

Quali sono le realtà radiofoniche che interpretano meglio la missione di promuovere musica nuova?
In Europa sono soprattutto le radio del servizio pubblico a farlo: in Italia RadioRai, soprattutto Radio2, e all’estero BBC, Radio France, Rtè, Radio Wave, SRG SSR e via dicendo. Possono farlo perché la loro missione è l’innovazione e non devono per forza inseguire gli ascolti e gli investimenti pubblicitari, quindi possono permettersi di rischiare di più. C’è da dire, però, che al di fuori dell’FM stanno nascendo anche molte realtà online particolarmente interessanti, come Casa Bertallot o AkaSoulSista. In America, invece, il panorama è più vario, ma a livello di sound le radio più sperimentali sono quelle satellitari/digitali, le trasmissioni in podcast e le radio universitarie.

Beth Hart live a Babylon

Quali sono le dinamiche con le quali i programmi come Babylon operano?
Sono dinamiche molto democratiche! Ad avere l’ultima parola è ovviamente Carlo Pastore, che è conduttore e capoprogetto, poi ci siamo io, Gianluca Quagliano (autore) ed Elisa Bee (dj e producer) a dare input e a collaborare ciascuno nel suo ambito; completano il quadro il nostro curatore Renzo Ceresa e il tecnico del suono che ci segue nella maggior parte dei nostri impegni, Toni Faranda. Diciamo che nelle nostre scelte al 50% pesano i nostri gusti personali (musica che ascoltiamo volentieri, che ci piace, che ci conquista, che cantiamo e balliamo mentre registriamo le puntate e per fortuna nessuno ci vede!) e al 50% pesa l’attualità o, ancora meglio, la futura attualità (artisti o dischi che stanno emergendo e di cui tutti parleranno di lì a poco). Come dicevo abbiamo grande libertà, e cerchiamo di sfruttarla al massimo.

Ascoltando Babylon si ha davvero l’impressione di allargare il proprio panorama sulla musica contemporanea. È importante allentare la divisione dei generi oggi? Ritieni che il pubblico italiano sia allenato/pronto a cogliere stimoli nuovi o sia un po’ restio nell’apprezzare le novità?
Secondo me quello dei generi è un falso problema: l’importante non è smetterla di classificare la musica che ascoltiamo, ma ascoltare tutto senza pregiudizi. Un sacco di gente si nasconde dietro la divisione in generi per evitare di mettersi in gioco: “Mi piace solo il rock, per cui questo disco hip hop non provo neanche a sentirlo”. Il pubblico di casa nostra è molto abitudinario: una larga fetta di ascoltatori italiani preferisce andare sul sicuro quando ascolta musica, ma è anche colpa dei media e del music business, che non li stimolano ad allargare i loro orizzonti e continuano a riproporre prodotti sempre simili per non rischiare.

Come si fa a snidare qualcosa di davvero originale? Ti è mai capitato di arrivare prima degli altri a cogliere le potenzialità di un artista emergente o di un genere?
Innanzitutto ascoltando tonnellate di dischi, vecchi e nuovi, perché se non hai una buona cultura musicale di base è impossibile capire cosa è originale e cosa non lo è. Sugli artisti emergenti a Babylon ci è capitato spesso di arrivare prima di altri, e forse il caso più eclatante è stato quello di Lana Del Rey, che abbiamo iniziato a suonare ben prima che ottenesse un contratto discografico, quando ancora si limitava a pubblicare da sola le sue canzoni sui vari social. La nostra costanza ha dato i suoi frutti, perché quando finalmente nel 2012 ha firmato con Universal ed è arrivata in Italia a presentare il suo primo album Born to die, ci ha premiato con un live e una lunga intervista in esclusiva!

Da Babylon (18/9) ti riporto le parole di Henry Giroux: “Il capitalismo attorno alla cultura è un assassinio; elimina la magia, la qualità, tutto ciò che stimola l’immaginazione e impedisce al vero talento di emergere” – sei d’accordo?
In parte è sicuramente vero, ma non tutto il male viene per nuocere: se la musica non fosse un business, gli artisti sarebbero costretti a fare altri lavori per mantenersi e non avrebbero tempo per dedicarsi alla propria creatività. L’importante è che la cultura prevalga sempre sulla questione economica.

Qualche nome che tieni a citare in questo inizio di ottobre 2016 per Pequod?

Per non fare un elenco lunghissimo, di musicista ne scelgo uno solo: la rivelazione del 2016 per me è e resta Anderson.Paak, che tra l’altro sta per uscire con un progetto in collaborazione con il producer Knwxledge dal titolo NxWorries. A Babylon ne siamo tutti innamorati.

Anderson Paak

Viaggiar per frequenze: pregi e difetti dell’autoradio

È passato un paio d’anni dall’incontro con la mia Ford Ka. Un incontro non programmato né voluto: abbandonata improvvisamente dalla mia precedente automobile, sono stata costretta a cercare la migliore offerta tra i rivenditori di usato. La migliore offerta era lei, la Ford Ka. Ci siamo capitate, non certo scelte e in comune avevamo ben poco: lei con le sue curve femminili, diligentemente ricoperte di strass dalla precedente proprietaria; io già preoccupata delle sue ridotte dimensioni. Il più imperdonabile dei difetti della Ka non stava però nelle sue misure, facilmente dimenticabili in virtù dei parcheggi improbabili che è capace di occupare; il più imperdonabile dei difetti era per me l’autoradio incorporata con mangianastri.

Benché io sia nata appena in tempo per veder finire gli anni ’80 e abbia nella mia infanzia consumato centimetri su centimetri di nastro magnetico, sopravvivere della musica delle mie vecchie cassette era alquanto improbabile: tralasciando l’imbarazzo di riascoltare i gusti musicali della mia adolescenza, il problema insormontabile è la scarsa resistenza dei nastri all’usura, per cui i già ridotti minuti registrabili sul supporto svaniscono col tempo e le sbobinature. Non mi restava che imparare a conoscere e usufruire delle frequenze radio.

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La prima sensazione era di esser stata incatenata a un passato senza tecnologia. Rivedevo mia nonna svegliarsi la mattina e accendere la sua radiolina, cercando ogni volta di ottimizzare la ricezione e come lei mi vedevo scorrere le frequenze alla ricerca di una stazione stabile. Abitare in alta valle non aiuta; le curve della strada e i rilievi montuosi rappresentano un ostacolo che ben poche onde riescono a sormontare per un tempo dignitoso, perciò si è costretti a saltellare da una frequenza all’altra, sfidando disturbi e interferenze. Eppure ci sono stazioni che riescono a raggiungerti sempre, sebbene tu non le abbia mai cercate! Con assoluta disinvoltura si intrufolano tra i segnali in ricezione e in toni pacati tentano di indurre all’ascolto di riflessioni religiose, di litanie sgranate sui rosari, di messe celebrate altrove. Non c’è ricerca tra le frequenze di un’autoradio che non includa almeno per pochi istanti anche quelle di qualche radio cattolica.

Come non bastasse, i miei gusti in fatto di musica sono abbastanza difficili e assecondarli con melodie che possano piacere anche al resto degli ascoltatori non è cosa né semplice né diffusa. Me ne hanno dato prova fin da subito le stazioni già memorizzate nella Ka: una rassegna di frequenze captanti suoni sempre più rapidi ed elettrici, voci femminili urlanti, testi sdolcinati volti a portare al limite della malinconia, il tutto intervallato da discussioni sempre più futili e vuote di senso. La totale democrazia dei canali radio apre finestre sulla quotidianità delle persone e ci spinge a scoprirla, anche qualora non fossimo per nulla intenzionati a guardarvi dentro; ed è così un fiorire di programmi che invitano a parlare delle proprie più piccole abitudini, a condividere ogni pensiero, a opinare sul nulla. È pur vero che anche a me è successo di veder stuzzicata la mia empatia dalle telefonate dei radioascoltatori; sentirsi un po’ meno folli, un po’ meno avulsi, un po’ meno tonti è una reazione inevitabile, ma bastano già le mie stranezze a riempire le giornate, senza bisogno d’includere nei miei pensieri quelle altrui. Invece la radio t’imbroglia proprio così: trovi finalmente quella canzone che incontra il tuo piacere, già iniziata ovviamente, ma che importa? Inizi a canticchiare il ritornello, ripassando nella mente i versi della seconda strofa… ma no! Le ultime note scompaiono in un decrescendo di volume e le voci dei presentatori tornano a riempire l’abitacolo, quando addirittura non lasciano spazio agli interminabili tempi pubblicitari, che attraverso i segnali radio sembrano essere ancora più penetranti e persistenti.

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Eppure dopo due anni di convivenza, anche io e la Ka abbiamo imparato ad andare d’accordo: lei sostituendo ai suoi brillantini il mio ciarpame etnico, io imparando ad apprezzare le risorse dei canali radiofonici. Dopo i primi mesi di estenuante ricerca di audiocassette presso amici e parenti, ho presto scoperto che il ventaglio di onde che potevo captare, una volta memorizzata la localizzazione geografica delle diverse possibilità di ricezione, offre una varietà di generi tale che è ancora più semplice conciliare i miei ascolti ai suoni trasmessi, che non rovistare tra i gusti degli amici. Le mie stesse orecchie ne hanno tratto giovamento: estenuate nel tempo dai miei ascolti monotoni di musiche giamaicane, hanno infatti riscoperto il piacere di generi il cui eco giaceva inascoltato sul fondo dei miei ricordi. Dal cantautorato italiano di cui mia madre riempiva la casa, alla musica anni ’90 della mia giovinezza; dai suoni in bianco e nero delle canzoni dei miei nonni, ai primi rock’n roll ascoltati nell’auto di mio fratello maggiore; senza dover rinunciare all’ascolto tanto delle novità, quanto dei miei amati suoni etnici dal retaggio tribale. Sormontando l’impressione iniziale di una totale assenza d’organizzazione nel funzionamento della ricezione radiofonica, si impara a scandire i propri spostamenti al ritmo dei programmi, a regolarsi al momento giusto sulla frequenza gusta.

Uno dei piaceri ormai irrinunciabili per me e la Ka è ad esempio il giornale radio della sera, che senza richiedere lo sforzo di ricerca e lettura di articoli giornalistici, mi evita i notiziari televisivi, di cui non sono mai stata amante. Eliminato l’elemento di distrazione rappresentato dalle immagini spesso fuorvianti e ridotti i tempi di trasmissione, le informazioni sono riportate nella loro essenza, in modo chiaro e conciso, senza sfruttare le notizie per trasformarle in temi di gossip mediatico. La politica soprattutto trova spazi d’espressione che in tv non sempre sono così ben delineati, permettendo l’approfondimento su aspetti lasciati in ombra o addirittura facendo spazio a fatti che non ne trovano nelle trasmissioni video. Un piacere tutto da tifosa atipica, di quelle che seguono il calcio solo attraverso commenti e repliche dei momenti salienti, è poi quello della radiocronaca sportiva, soprattutto se edulcorata dei momenti morti di gioco.

Per godere del più poetico dei piaceri regalati dalla radio, è però necessario uscire dal proprio raggio di frequenze e avviarsi ad attraversare il Paese: di regione in regione le onde portano con sé le sfumature dialettali degli accenti dei presentatori, accogliendoci con il suono delle voci di chi vive nei luoghi in cui viaggiamo.

Il bello della radio? De Gustibus! Intervista a Federico Vozzi

Se qualcuno di voi, in questa settimana che Pequod dedica alla nascita e alla presenza della radio oggi, pensasse ancora che la radio è morta, o “si è spenta”, dovrà ricredersi: abbiamo intervistato Federico Vozzi, autore televisivo e radiofonico, che con Davide D’Addato e Luca Restivo conduce De Gustibus, programma di Radio Popolare ripartito alla grande lunedì 3 ottobre, guadagnando il posto d’onore in prima serata. Ogni settimana De Gustibus posa il suo sguardo ironico e anzitutto autoironico sulle cose del mondo, dai fatti di attualità alle novità di costume.

Questo stile dissacrante e canzonatorio passa anche attraverso la scelta di foto e di testi scritti che accompagnano il lancio delle puntate sui social: «il» Facebook e «il» Twitter non sembrano solo degli strumenti promozionali, ma delle diramazioni “visive” di un programma radiofonico che si interfaccia con l’audience sfruttando le opportunità comunicative dei social, identificando con essi le sue peculiarità. E così un testo può invitare all’ascolto strappando una risata sul finale e una foto può essere l’esilarante commento alla notizia del giorno.

Che stiate pigiando a caso i tasti della vostra autoradio, imbottigliati nel traffico in città, o che stiate cercando sul vostro smartphone un diversivo discreto a una conversazione noiosa, facendo scorrere pagine e link sullo schermo, riconoscerete il tocco di De Gustibus.

Noi ci abbiamo provato a fare un’intervista semiseria, ma presto abbiamo ceduto: sintonizzatevi sulle nostre frequenze con leggerezza, buona lettura!

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Presentatevi ai lettori di Pequod Rivista!

«Siamo in tre. C’è Davide, che viene dalla Bovisa e ha frequentato l’università della strada (o il contrario, non si ricorda bene). Luca che viene dalla Romagna con furore ed è quello che dei tre “ha studiato”. Infine Federico, che approfitta della situazione per salutare caramente la sua prof. di greco, se è ancora viva. Ci distingui anche perché Luca è quello alto, Davide è quello bello, e Federico è quello grasso, o almeno così dicevano le nostre mamme».

Quali aneddoti rocamboleschi ruotano intorno alla nascita di De Gustibus?

«De Gustibus nasce 4 o 5 anni fa dalla mente di tre geni. Noi eravamo seduti al tavolino di fianco e abbiamo origliato, prendendo appunti. Dopo circa due anni di continui colpi di scena, alla fine Radio Popolare si è accorta di avere nella pila delle proposte l’uovo di Colombo dei programmi radiofonici italiani (vorrei dire mondiali, ma forse è esagerato, forse no).

Potremmo parlare dell’aneddoto di quando un nostro ospite ci ha raccontato di aver incontrato un vip in un sexy shop, e poi quel vip era l’ospite subito dopo in scaletta, ma forse non fa così ridere».

Ma davvero «è bello ciò che è brutto», come diceva il vostro motto agli esordi del programma? Ossia, perché parlare del brutto che ci circonda in ogni contesto della nostra vita, dagli oggetti di design più trash alle pizze peggiori mai mangiate?

«Quello che è brutto è brutto, ci fa schifo e come tutto quello che fa schifo, un po’ anche ci attrae, ma soprattutto intorno a noi ci sono moltissime cose brutte, e se ti poni l’obiettivo di parlare di qualcosa per un’ora a settimana, mica è tanto facile farlo limitandosi alle poche cose belle della vita. Davide vorrebbe anche dire che, essendo quello bello, chi se non lui può parlare di cose brutte? Ad ogni modo, la vera verità è che questa cosa di parlare del brutto si è un po’ persa nel corso delle puntate e ora facciamo soprattutto quello che ci pare…».

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Parliamo di cose serie. Cosa ne pensi del ruolo della radio oggi? Cosa può offrire di più o di diverso dagli altri media e come la radio può sfruttare positivamente la presenza degli altri media senza eclissarsi?

«Di sicuro la radio è molto orizzontale, quindi, per esempio, è molto più capace della televisione di coinvolgere il pubblico attraverso i nuovi media E questo è senz’altro vero perché lo abbiamo sentito dire da uno dei nostri maestri, Luca Bottura. Noi, per esempio, che a parte Davide siamo brutte persone, ci divertiamo a pescare e citare dall’internet le cose che ci fanno ridere».

Cosa vedi nel futuro della radio?

«Il futuro della radio è radioso (scusa, ci è uscito così… non volevamo fare un orribile gioco di parole). La radio sta benone e sopravviverà anche al nostro tentativo di sabotarla dall’interno proprio perché coinvolge il pubblico e valorizza quello che ognuno quotidianamente produce sui social. Anzi, probabilmente se la passa anche meglio di tanti altri mezzi di comunicazione ben più quotati, tipo la televisione, i giornali e il telegrafo».

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Parliamo di cose serie (ancora): il presente e il futuro di De Gustibus! La collocazione in prima serata segna un passo in avanti?

«Siamo molto contenti della nuova collocazione nel palinsesto di Radio Popolare. Siamo in onda alle 20.30, a ridosso del drive time, che è la prima serata delle radio, cioè quando tu, stanco, esci dal lavoro e ti metti al volante, ascoltando La zanzara De Gustibus. Siamo contenti anche perché questo nuovo orario ci permettere di essere in diretta e di poter dialogare con il nostro pubblico».

Avete delle novità per i vostri ascoltatori?

«Intanto sarebbe già una novità avere degli ascoltatori… comunque, probabilmente nelle prossime puntate cambieremo la sigla, abbandonando quella dell’Armata Rossa che dovevamo utilizzare solo nella prima puntata e invece ci accompagna da due anni. Poi proveremo ad organizzare qualche altro piccolo evento, come la serata con le Ragazze del porno, al Milano Film Festival, o quella dello scorso Bookpride. Siamo anche a disposizione per matrimonio, funerali e battesimi, se uno volesse…».

A lunedì prossimo, allora; e chi non ascolta De Gustibus

«Chi non ascolta De Gustibus fa benissimo e ha tutto il nostro rispetto, a meno che non sia sordo… in tal caso non è che puoi scegliere e allora non ascoltarci diventa più una contingenza che una scelta ponderata, quindi cari amici sordi, il nostro rispetto ve lo dovete guadagnare in un altro modo».

Lo strano caso di Radio Ferrara: 70 anni fa la prima vera radio libera in Italia

La storia che oggi vi proponiamo è d’attualità perché consiste nella celebrazione di un anniversario, e come ogni ricorrenza è nel presente per ricordarci quello che è stato e soprattutto insegnarci qualcosa su quello che sarà. 70 anni fa, nel 1946, nasceva infatti Radio Ferrara, la prima radio libera italiana. Raccontare Radio Ferrara è come immergersi in un’altra storia ferrarese, quella de “Il giardino dei Finzi-Contini”, celebre romanzo di Giorgio Bassani. Coloro che lo hanno letto sapranno che in realtà questo giardino non esiste, se non nella fantasia dell’autore, così come questa è la storia di una radio che c’è stata, ma di cui non c’è traccia, quasi un luogo mitico, quasi un giardino fantastico.

Dopo che le truppe alleate riuscirono a liberare Ferrara dall’invasione nazi-fascista nel 1945, la città, come tutta Italia si presentava come un cumulo di macerie e di strumenti bellici abbandonati. E’ questo il panorama che deve essersi trovato davanti il protagonista della nostra storia: Franco Moretti. Pioniere di tutti i radioamatori italiani, Moretti, classe 1920, alla giovane età di 25 anni decise di mettere in pratica una passione profonda e viscerale: quella per la radio. Davanti al desolato panorama di apparecchi e mezzi abbandonati nella campagna ferrarese dalle truppe alleate e nemiche, il giovane vide la possibilità di ricavare utili strumenti per la costruzione di una propria radio. Così come la fenice dalle ceneri, dallo sconcertante panorama post-bellico nascerà una radio, la prima radio libera italiana.

Articolo su Radio Ferrara de “Il resto del Carlino” (maggio 1946).

Piano piano, dal collage di parti diverse prendeva forma una vera e propria stazione radio. A questo punto, passato lo stupore per l’ingegno di quello che sembra lo Steve Jobs italiano, se non altro per l’inventiva e il genio della creazione “in casa”, la domanda sorge spontanea: perché tutto questo? A che pro costruire una stazione radio se non per trasmettere qualcosa? In funzione di quale messaggio costruire un mezzo  di comunicazione?

E’ qui che la storia offre il fianco all’iniziativa individuale e il giovane ferrarese seppe farsi trovare preparato davanti alle circostanze. Alla fine del 1945 iniziarono a Ferrara alcuni processi politici agli esponenti del regime fascista e Moretti ne approfittò per chiedere alle autorità di installare una stazione radio nei locali del tribunale, e permettere così al pubblico di seguire le fasi dei dibattimenti. Era l’occasione per i radioamatori di contribuire alle funzioni di pubblica utilità.

L’autorizzazione a procedere non fu concessa poiché le trasmissioni radio erano monopolio dello Stato che lo esercitava tramite la RAI. Tuttavia, poco prima che iniziasse il primo processo, il prefetto di Ferrara, dott. Hirsh, acconsentì comunque ad installare la trasmittente nella sala vicina a quella delle udienze. Il processo durò tre giorni, ma l’iniziativa del Moretti ebbe un tale successo che fu preparata una seconda trasmittente più potente per seguire anche il processo all’ex-prefetto di Ferrara Altini nell’Aprile del 1946.

Nacque così una vera e propria stazione radio denominata Radio Ferrara. Il servizio del tribunale provvide addirittura a fare un foro nella parete dell’aula per permettere al conduttore di osservare l’interno durante la trasmissione. Durante il processo, ai microfoni della radio si alternarono vari giornalisti e il cappellano militare dell’VIII armata inglese Don Bedeschi, che parlò delle vicende legate al conflitto.

La stazione radio al tribunale durante il processo Altini (1946).
La stazione radio al tribunale durante il processo Altini (1946).

Il problema è che erano stati fatti i conti senza l’oste: lo Stato. La radio infatti, anche se autorizzata dal prefetto, stava compiendo un’iniziativa illegale, poiché la possibilità di trasmissione radiofonica era riservata alla RAI. Se durante il processo Moretti poté contare su due carabinieri che erano stati messi a protezione della radio, quando questo si si concluse il 15 aprile 1945, polizia, carabinieri, finanza e RAI si presentarono alla sede convinti di trovarvi una stazione radio funzionante per poterne decretare il sequestro. Tuttavia, tutto ciò che restava della suddetta era stato smontato nella notte e riposto in una scatola. Moretti se la cavò quindi con la semplice firma di un verbale.

Si concluse così una delle più controverse vicende nella storia della comunicazione radiofonica. Una realtà che è esistita, ma della quale non è rimasto traccia, una radio libera, ma in parte permessa dalle autorità, un apparato di pubblica utilità, ma “fuorilegge”. Quella di radio Ferrara ha assunto i toni di una realtà surreale, di un puzzle a metà fra reale e onirico, come il giardino dei Finzi-Contini.

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La stazione radio di Radio Ferrara conservata nell’abitazione di Moretti (maggio 2001).

Radio Ferrara, nata clandestinamente grazie all’assemblaggio di rottami e pezzi auto-fabbricati, non sembra troppo lontana dalle esperienze di web radio che dilagano a partire dai garage. Non esiste ancora una stima ufficiale che quantifichi le radio italiane online, ma si può dire che ne esistano senza dubbio più di mille. Una realtà eterogenea, dove convivono esperimenti amatoriali e dilettantistici con altri più professionali, come ad esempio Venice Radio, che è nella top 50 delle web radio mondiali, o Golden Radio Italia, vero e proprio canale di musica italiana anni ‘80. Non dobbiamo vedere nella web radio una moda giovanile, in quanto il suo futuro è legato alla qualità della connettività a Internet in movimento che è in continua crescita. C’è ancora moltissimo da lavorare su questo, ma la strada è tracciata. Il punto quindi è un altro: i canali di comunicazione odierni sono numerosi, ma è necessario riflettere sul modo in cui si usano. In che maniera si ha il coraggio di fare “obiezione civile” rimanendo nell’utilità pubblica come fece Radio Ferrara? In che modo si osa ancora fare qualcosa di clandestino, di fuorilegge, ma che sia in grado di cambiare la realtà nella quale siamo immersi? Ma soprattutto, come distinguersi dalla concorrenza nel vasto panorama odierno e farlo con coraggio e con obiettivi eticamente rilevanti? E’ possibile essere pirati nell’oceano della comunicazione radiofonica?

Uno, dieci, cento voucher

Negli ultimi anni i giovani lavoratori hanno imparato a conoscere bene i voucher, come abbiamo detto qui. Soprattutto dal 2012, quando l’estensione del loro utilizzo a svariati settori li ha resi dei veri e propri sostituti di contratti di lavoro a tempo determinato. Certo, spesso questa formula è più vantaggiosa per il datore di lavoro che per il lavoratore, tuttavia nel concreto i voucher rappresentano la tanto attesa retribuzione, denaro vero ricevuto in cambio del proprio lavoro.

Abbiamo chiesto ad un po’ di ragazzi in quali occasioni hanno ricevuto dei voucher; ci hanno raccontato che spesso si trattava di lavori occasionali, come servizio hostess a fiere ed eventi per le ragazze e distribuzione di volantini per i ragazzi. Altre volte ancora ad essere retribuiti tramite voucher sono stati però lavori fissi, seppure a tempo determinato: camerieri, assistenti alla poltrona in studi medici, segretarie… Seppure scontenti della formula di contratto, o meglio, di non contratto, tutti sono stati d’accordo sul fatto che almeno i voucher rappresentavano un compenso assicurato: 10 euro lordi, 7,50 euro netti per ciascun buono elargito dal datore di lavoro. E quando finalmente avete riscosso quanto vi spetta e trasformato i voucher in contanti realmente spendibili, cosa potete acquistare? Ecco qualche suggerimento…

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Fate l’amore, non fate lo stage. Intervista a Repubblica degli stagisti

Ormai è risaputo: il mondo del lavoro è diventato un po’ strano, soprattutto per i giovani. Peggio se appena usciti da un’università e con una sudatissima laurea in mano. Strane sono diventate le aziende, i vari datori di lavoro e strani sono diventati i contratti proposti. Sia chiaro, non è possibile avere il posto fisso se prima non si impara un po’ il mestiere – con “imparare il mestiere” si intende lavorare otto ore al giorno (anche di più se contiamo gli straordinari) per cinque, sei ma anche sette giorni su sette a settimana e con una paga da fame.

Sì, stiamo parlando dei fantomatici STAGE, tipologie contrattuali che spesso i datori di lavoro propongono a ragazzi con poca esperienza in ambito lavorativo e che dovrebbero (necessario l’uso del condizionale) consentire un primo inserimento nell’azienda in vista di una futura assunzione. Come sempre più spesso accade, però, non va tutto secondo i piani. Lo stage si rivela un modo per assumere dipendenti nuovi quasi a costo zero, con l’unico scopo di sfruttarli fino all’osso per poi non riassumerli a fine contratto. È in questo contesto che nasce il giornale online Repubblica degli stagisti il cui scopo è quello di approfondire la tematica dello stage in Italia e dare voce agli stagisti come si evince dal loro sito.

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«Repubblica degli stagisti è nata nel 2007 come blog e dopo due anni si è trasformata nella testata che è oggi», spiega Eleonora Voltolina creatrice e direttrice della webzine. «Offriamo uno strumento attraverso cui i giovani possano informarsi sulle novità del mercato del lavoro ma dedichiamo anche una sezione alle aziende informandole su come possano rivolgersi al meglio ai giovani in vista di un’assunzione», continua Eleonora. Tutto ciò è frutto di una grande intuizione giornalistica e sociale: «prima di dar vita alla Repubblica degli stagisti ero reduce da ben cinque stage, così intorno ai 27-28 anni ho deciso di dar vita a questo progetto, anche perché mi sono accorta che il mio non era un caso isolato».

Per il futuro sono previste alcune novità: quella più importante, sicuramente, è il target internazionale che la testata sta progettando di darsi. A parlare è ancora Eleonora Voltolina: «l’internazionalità è un tema che ci sta molto a cuore, infatti nei prossimi anni speriamo di riuscire a rivolgerci anche a giovani non italiani, magari con articoli in inglese, proprio perché la disoccupazione è un problema che riguarda moltissimi Paesi avanzati, non solo l’Italia». Interessante è anche l’idea di poter entrare in contatto con le scuole superiori, in modo da poter intercettare i giovani che sono in procinto di terminare gli studi così da orientarli verso la scelta di una facoltà universitaria.

Alla luce dei fatti si può tranquillamente dire che il progetto ha colpito perfettamente nel segno: con più di 12.000 ‘’Mi piace’’ su Facebook e circa 100.000 lettori giornalieri, Repubblica degli stagisti è diventato un ottimo network su cui informarsi per quanto riguarda il mercato del lavoro, soprattutto quello giovanile.

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Ma come si pone Repubblica degli stagisti di fronte alle varie riforme del lavoro che si sono susseguite negli ultimi anni? Specifichiamo: come ci ha spiegato Eleonora Repubblica degli stagisti non si è mai sottratta al dialogo, anzi, negli anni ha dato voce alle varie critiche accompagnate da proposte alternative di miglioramento. Il succo della questione è che il lavoratore va sempre tutelato: «a una riforma radicale del mercato del lavoro e l’istituzione di tipologie contrattuali meno stabili, deve sempre corrispondere una riforma del welfare che aiuti il lavoratore che avesse perso il lavoro in una nuova ricerca dello stesso sostenendolo il più possibile» ci ha illustrato Eleonora. Ciò genera il problema, ad esempio, che molto spesso i giovani italiani “escano di casa” ma siano costretti a rientrare a causa delle difficoltà economiche dovute alla scarsa stabilità economica. Da questo punto di vista, l’attenzione all’abuso di tipologie contrattuali deboli inerenti la stabilità è un altro punto forte della testata.

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Quindi giovane lavoratore e posto fisso è un connubio impossibile? Bella domanda. La risposta è incerta così come incerto è il mercato del lavoro in questi ultimi anni. Forse le generazioni future saranno più fortunate di noi. Si spera. Intanto rimaniamo in balìa del nostro burrascoso presente.