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Aborto, le tragedie e la commedia

Tante le opere filmiche che non solo si sono interrogate sul diritto all’aborto, ma che sono state in grado di denunciare le pessime condizioni igieniche di interventi clandestini, le torture fisiche e le umiliazioni subite da donne decise a interrompere una gravidanza. Il viaggio per fotogrammi di Pequod fa tappa su tre pellicole che indagano gli aspetti più crudi e toccano con leggerezza un tema tanto delicato e attuale.

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Il secondo lungometraggio del rumeno Cristian Mungiu, 4 settimane, 3 mesi, 2 giorni, ritrae la dura strada della giovane Găbița verso l’interruzione di gravidanza, negli ultimi anni del regime di Ceaușescu. Un’opera cruda e spietata, premiata con la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 2007. Qui, il letto di un sordido hotel è palcoscenico e testimone di abusi che annichiliscono e si accumulano alle torture psicologiche di donne costrette a piegarsi a tutto, pur di veder rispettate le proprie volontà.

Nel 2014, Myroslav Slaboshpytskiy è autore di una straordinaria opera che, pur mantenendosi fedele alla struttura narrativa, stupisce per la capacità di sperimentare con il linguaggio.

Un linguaggio che non c’è. O meglio, che lo spettatore – almeno inizialmente – non è capace di concepire come convenzionale. The tribe, vincitore della penultima edizione di Milano Film Festival, è infatti interamente interpretato da attori sordomuti nel linguaggio dei segni. Tra i tanti atti di (spesso insensata) violenza all’interno di un istituto per sordomuti in Ucraina, non manca la fuga di una giovanissima ragazza nello squallido bagno di un appartamento privato, dove si consuma la durissima pratica degli aborti in clandestinità.

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Un’asse di legno appoggiata a una vasca e un silenzio rotto da una rabbia che parla, una rabbia cinica nei confronti di un universo pervaso di violenza, in cui forse la scelta di una vita negata senza ripensamento alcuno è la miglior risposta al peggiore dei mondi possibili.

Presentata al Sundance Film Festival nello stesso anno, l’opera prima di Gillian Robespierre, Obvious Child, viene proposta al pubblico come una commedia sull’aborto.

La giovane Donna, stand-up comedian costantemente sull’orlo del lastrico e intrappolata in una sorta di eterna adolescenza, scopre di essere rimasta incinta in seguito al rapporto di una notte con uno sconosciuto da cui è sgusciata via, con imbarazzo, il mattino dopo.

«Vorrei abortire, per favore. So che suona molto insensibile, come se stessi ordinando da mangiare in un drive-through. Ma vorrei abortire, per favore».

 

Con Obvious child – tradotto in Italia con Il bambino che è in me e (ancora) non distribuito nelle sale – la Robespierre cala lo spettatore nella quotidianità e nella mente di una donna che, benché in costante fuga dalle proprie responsabilità di adulta-modello, è fermamente determinata a non voler diventare madre.

È una commedia che affronta il tema dell’interruzione di gravidanza con coraggio e un’estrema leggerezza, volgendo le spalle a decenni di cinema che, troppo spesso, riportavano un’immagine distorta della donna costretta a confrontarsi con il disagio e l’umiliazione di questa dura decisione.

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Sviluppato a partire dagli spunti di un precedente cortometraggio, su Obvious child la stessa regista dichiara: «Volevo realizzare un film che fosse in grado di de-stigmatizzare il tema dell’aborto, rappresentando una donna capace di interrompere una gravidanza senza pentirsi della sua scelta».

Un inno alla vera emancipazione, fatta di coraggio e autodeterminazione al femminile; un soffio di libertà capace di allontanarci – fosse anche solo per un’ora e mezza, o per un istante – da una cronaca che ancora riporta una contemporaneità fatta di clandestinità e diritti negati.

 

In copertina: fotogramma da una locandina di The Tribe di Myroslav Slaboshpytskiy.

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Lara Casirati

Nata a Milano, di origini (parzialmente) polacche e con un futuro che guarda (spero) al Nord Europa, mi imbarco negli studi filosofici per aprire poi gli occhi sul cinema. Nel 2009 inizio a lavorare per Milano Film Festival, occupandomi prima di programmazione e poi di selezione film, per poi collaborare con altri festival cinematografici milanesi. Il cinema resta la passione primaria, a cui si aggiungono la letteratura (ah, i russi!), quintali di cibo cinese, la musica (hardcore, ma anche altre cose prive di dignità che preferisco non menzionare), il buio che cala presto nei freddi inverni nordeuropei, tè caldo e vodka. Alcuni tra i miei tanti tormenti? Viaggiare molto meno di quanto vorrei e non saper fotografare. Lungo il viaggio con Pequod, scriverò di cinema.

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