Skip to main content

Da Shirakawa a Carpineti: un viaggio di 10000 km tra usi e costumi assolutamente identici

Arrivare nella cittadina di Shirakawa non è facile: posizionata a 500 metri di altitudine, è situata nella prefettura di Gifu, in una zona del Giappone poco popolosa poiché impervia a causa dell’abbondanza della vegetazione e delle precipitazioni che, nei mesi invernali, si tramutano in neve, la quale, scendendo copiosa, attacca al terreno fino a raggiungere un’altezza di tre metri.

E allora perché andarci? La storia potrebbe aiutarmi a rispondere alla lecita domanda: insediamento databile, presumibilmente, all’8000 a.C., non se ne sa nulla fino al XII sec. d.C. quando Kanenbo Zenshun, discepolo del monaco buddhista Shinran, vi introdusse tale religione. La sua storia continua dunque sulle orme di una normale cittadina di campagna fino a quando, dopo la guerra nel Pacifico, a seguito dello sviluppo economico, il villaggio di Shirakawa fu letteralmente assalito da una serie di lavori per la costruzione di dighe: fu per questo che gli edifici in stile Gassho divennero rinomati e cominciarono a essere venduti in tutto il Giappone, tanto che, con la costruzione di edifici contemporanei, le autorità locali chiesero il trasferimenti delle antiche case nel villaggio Gassho di Shirakawa.

Correva l’anno 1972. Non passò molto tempo prima che il villaggio fosse designato come un’area di conservazione per un gruppo di importanti edifici storici, divenendo, nel 1976, patrimonio Unesco.

Ma cosa sono le case in stile Gassho?

Per capirlo è necessaria una precisazione: la cittadina di Shirakawa è gemellata con quella di Alberobello. Il motivo è dato dal fatto che, come in Italia, anche in Giappone queste case hanno un tetto molto particolare che, al posto dei mattoni pugliesi, assembla giunchi di bambù per creare un tetto resistente alla pioggia e ai terremoti. L’azione del montaggio, poi, viene fatta in giornata da una squadra di circa 50 uomini che, in una divisione comunitaria del lavoro detta “yui” permette di rimuovere la vecchia copertura e posizionare quella nuova nel giro di una giornata.

All’interno, invece, i tetti sono sorretti da travi annodate (e non bloccate) tra di loro per permettere una maggiore oscillazione e flessione della copertura durante i terremoti. Le travi della soffitta, poi, sono compattate tra di loro dalla fuliggine che sale dal fuoco posizionato a piano terra, attraverso una serie di piani sovrapposti in cui si trovano il dormitorio, la cucina e l’essiccatoio, fino al sottotetto.

Un accorgimento intelligente ma non unico al mondo: la mia fida compagna di viaggio, la nonna, mi fa notare che anche al suo paesino d’origine, sulle colline reggiane, i “metati” per essiccare le castagne erano fatti allo stesso modo.

E, strada facendo, le cose in comune tra due Paesi così diversi si fanno sempre più numerose. Dalla “vasura” che, nel dialetto emiliano, indica quell’oggetto che anche in Giappone viene usato per dividere il frutto della castagna dalla sua buccia; alla “mina”, unità di misura prestabilita per conteggiare la quantità esatta di prodotti quali riso, farro, avena.

E che dire del rito del té, vera a propria filosofia di public relation? Come ogni emiliano che si rispetti, nel paese della nonna tale rito non si compie tuttavia col te ma con l’alcol: a Natale e alle festività è infatti uso offrire il vino o il liquore locale Sassolino ad amici e parenti in giro per le case.

Una forma di rispetto reciproco che si manifesta anche nel rapporto con gli animali: per il Giappone è il manzo che, durante la sua vita, viene accudito a base di birra e massaggi con l’intento di produrre una carne sopraffina, mentre per l’Emilia Romagna è il maiale che, alimentato con prodotti di alta qualità, viene usato davvero per tutto, al fine di non buttarne via niente. Un tuffo nel passato, insomma, durante il quale la nonna mi ha pazientemente spiegato usi e costumi di Carpineti, tanto vicino a Shirakawa nonostante i 10000 km che separano i due paesi.

carpineti, gassho, Giappone, gifu, shirikawa, unesco, viaggio


Clara Amodeo

Classe 1989, nasco a Milano dove frequento il Liceo Classico Parini. Forse con la benedizione del mio ben più noto predecessore compagno di scuola, Walter Tobagi, intraprendo la sua stessa strada lavorativa iniziando a collaborare con una testata giornalistica di Sesto San Giovanni, proprio quando, nel 2008, mi iscrivo al corso di laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali. Da quattro anni sono pubblicista all’Ordine dei Giornalisti di Lombardia, e, per non farmi mancare nulla, conseguo anche la laurea magistrale nel corso in Storia e Critica dell’Arte nel 2014. Attualmente frequento la Scuola di Giornalismo Walter Tobagi di Milano, forte di un’esperienza non solo redazionale ma anche direttiva: sono infatti vicedirettrice del sito Pequod rivista.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.