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L’omogenitorialità come nuova inchiesta sociale

Uno dei temi sicuramente più scottanti e, per certi versi, pregnanti quando si entra nell’alveo di quella che è la “famiglia arcobaleno” è certamente quello dell’omogenitorialità, che vede schierati da una parte molti pro e dall’altra una legione di contro. Ad essere onesti, tutti noi che ci occupiamo di trattare questo tema così forte e delicato al contempo abbiamo a cuore la salute del bambino.

Eppure, inspiegabilmente, questo slogan è quasi sempre una bandiera riconosciuta unicamente a coloro che parteggiano per la fazione opposta, quasi come se chiunque sostenesse la genitorialità omosessuale fosse disinteressato a tale principio. Fare chiarezza non è semplice, poiché ci troviamo al giorno d’oggi in una società profondamente razionalizzata, dove il valore della scienza, del dato e del numero ha rimpiazzato (non sempre pro bono publico) il buonsenso e l’affettività.

La psicologia, nelle sue numerose branche e declinazioni scientifiche, la psichiatria e la psicoterapia hanno tentato di dare una risposta a questa domanda, con i mezzi attualmente a disposizione: stiamo parlando di un fenomeno umano ancora in corso e nel pieno del suo svolgimento, pertanto le risposte non sono chiare e definitive. Molte ricerche sono state compiute in ambiente anglosassone, dove l’omogenitorialità è presente da molti anni in maniera socialmente accettata, e tali studi non hanno messo in luce nessuna sostanziale differenza nello sviluppo bio-psico-fisico del bambino rispetto a coloro che sono cresciuti in famiglie tradizionali. Alcune ulteriori analisi americane condotte da Regnerus (2012) hanno nondimeno messo in luce come i figli omogenitoriali siano soggetti a un elevatissimo tasso di disadattamento, a smentita di quanto sostenuto dalle ricerche inglesi. Tuttavia, questa presunta confutazione arriva da un ambiente molto vario nella tipologia di approccio al tema (condurre un simile esperimento in Texas, dove è effettivamente stato svolto, o a New York può influenzare grandemente il risultato) e nessuno ha tenuto conto che il background socio-culturale ha il peso principale nello strutturarsi di situazioni di pregiudizio1 e di disadattamento. Questo fenomeno ha matrice esterna alla famiglia e si può risolvere con molta semplicità: il bambino, inserito in una società non discriminante sulla sua situazione famigliare, non vivrebbe il disadattamento sopracitato perché non riceverebbe pressioni sociali e discriminazione. Ne deriva pertanto uno svantaggio che non ha niente a che vedere con le opportunità di crescita e sviluppo che sono offerte dall’ambiente famigliare in sé, ma che è esterno ad esso; risulta pertanto un fattore da considerare a livello di società e non di singolo individuo o di nucleo famigliare.

Concentriamoci ora su approcci diversi, che si sono dedicati allo studio delle dinamiche interne alla famiglia. Molte delle critiche che vengono fatte agli studi favorevoli all’omogenitorialità, come ad esempio quello svolto dall’APA (American Psychological Association) nel 2005, la quale ha definito che anche le coppie diverse da quelle eterosessuali non siano “unfit to be parents”, quindi non siano da reputare inadatte a essere genitori, pongono l’accento sul fatto che essere “non inadatti” non equivale a essere “ottimali”. In termini puramente grammaticali, si può anche essere tentati di lasciarsi cullare da questo splendido uso della lingua; tuttavia, in termini pratici questa critica non sembra cogliere il punto della questione: se stessimo a valutare con esattezza ogni variabile statistica, economica e biologica che rende una coppia “non ottimale”, nessuno riuscirebbe più ad avere l’autorizzazione per avere figli. Definire una famiglia “ottimale” in termini di variabili come se fosse uno studio di funzione matematico lo trovo quantomeno riduttivo e riduzionista.

Altre critiche tra quelle principalmente mosse agli studi interessati all’argomento muovono da motivazioni metodologiche: sostengono esista una non congrua quantità di soggetti analizzati nel campione per sostenere dei risultati attendibili; che vi sia una disomogeneità nella scelta del campione, dettata da una non attenta considerazione delle realtà gay o lesbo; che vi sia una non completamente opportuna scelta nella realtà genitoriale eterosessuale rispetto a quella omosessuale, sostenendo che la difficile scelta omogenitoriale predisponga a una cura più attenta dei figli, mentre nella scelta dei campioni eterosessuali non si sia tenuto conto della condizione socio-culturale e motivazionale.

Alla fine di questa disamina critica, vorrei sollevare una questione: ma a noi davvero interessa valutare, come fosse una gara, chi cresce meglio? E se sì, di che principi stiamo parlando, a cosa facciamo riferimento? Un confronto senza esclusione di colpi tra coppie etero e omogenitoriali che veda la vittoria o la morte? O ci interessa, come detto all’inizio, la corretta e ottimale crescita del bambino?

In conclusione, quello che si può trarre da queste considerazioni è che la formazione di una famiglia e, più di tutto, l’analisi di un nuovo approccio alla genitorialità “altra” o omogenitorialità sono campi che vanno trattati con speciale cura e attenzione. Dalle ricerche citate, appare evidente come i figli omogenitoriali inseriti in un corretto ambiente socio-culturale, e con ciò intendo un background che si dimostra accogliente verso questa tipologia di parenting, non fanno emergere alcuno stato di disagio e di disadattamento in merito all’inserimento sociale e alle pari opportunità offerte a questi bambini, che peraltro risultano inseriti in famiglie profondamente motivate verso l’accudimento del minore. Questo appare inconfutabile anche dalle testimonianze delle numerose famiglie arcobaleno che hanno figli e che li crescono al massimo delle loro capacità e dando loro tutto l’amore che si possa desiderare ricevere. Nelle famiglie omogenitoriali i figli risultano maggiormente educati all’accettazione di ciò che è diverso, al riconoscimento della strutturazione consapevole e reciproca dei rapporti e all’indipendenza dalle pressioni sociali indebite, oltre che alla resistenza al conformismo (J. Laird, 2003). A sostegno di ciò, e forse in virtù del comprendere meglio questa dinamica, c’è da sottolineare come le famiglie con coppia omosessuale non possano contare sulla identità dei ruoli materno-femminile e paterno-maschile. Al contrario tali ruoli vanno negoziati all’interno della coppia e co-costruiti in una quotidianità spesso contraddistinta dalla discriminazione e dal pregiudizio (D. Lasio, 2006). Questa situazione, che si riflette assai probabilmente sulla psiche del bambino, lo predispone alla contrattazione intersoggettiva dei ruoli sociali (e, di conseguenza, alla tolleranza) piuttosto che all’imposizione di tali ruoli anche all’esterno della realtà di coppia.

Quel che trovo certo, e su questa posizione reputo che nessuno possa sentirsi offeso, è che se si concedesse ai genitori meritevoli, omo o eterosessuali che siano, la possibilità di prendersi cura e di donare il loro amore a dei bambini abbandonati, orfani o provenienti da situazioni di disagio famigliare, doneremmo non solo la felicità dell’essere genitori a persone che lo desiderano, ma offriremmo anche un più roseo futuro a questi bambini. La gioia dell’accudimento, del poter essere padri e madri amorevoli e bambini amati può curare molte più ferite, fisiche e psichiche, di quante non possa farne la filosofia perbenista di chi pensa che sia meglio per loro una ben più discreta e sicura permanenza negli orfanotrofi.

Jacopo Stringo

Fonte: Io sono minoranza

1_ Con il termine “pregiudizio”, in questo caso, si intende una serie di atteggiamenti sociali o credenze cognitive squalificanti, che originano da emozioni ingiustificatamente negative, a cui spesso seguono dei comportamenti ostili e/o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo, sia esso etnico, sociale o religioso, per la loro sola appartenenza ad esso (Brown, 1995). Il pregiudizio è pertanto definibile l’esito di un processo che porta a giudicare in maniera negativa un soggetto solamente basandosi sulla sua appartenenza a un gruppo specifico (Voci, Pagotto, 2010).

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