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Distruggiamo Dublino, costruiamo l’Europa

 

Ma quale crisi.

We’ll create a new legal situation at the borders so it will be given more strict than it was and that could be a good answer at the fear of the people in Hungary and in Europe. We are defending not just the Hungarian border, we are defending the out-side border of Schengen which means that we’ll defend Europe”. Queste le parole chiare e nette del primo ministro ungherese Victor Orban in una conferenza stampa a Bruxelles a fianco del presidente del Consiglio Europeo Donal Tusk, esattamente un mese fa. Cinica e chiara appare quale sarà la politica che l’Ungheria ha deciso di mettere in campo avallata dall’Unione Europea. L’Europa non si farà carico dell’accoglienza dei profughi che scappano dalla guerra in Siria. In contemporanea, parte la macchina mediatica della dis-informazione mainstream che parla di crisi dei rifugiati, di invasione e di una possibile islamizzazione dell’Europa. Inizia così un’insopportabile retorica che parla incessantemente di CRISI. “E’ giusto che l’Europa si faccia carico di ciò? Perché non stanno nei paesi limitrofi? Non possiamo accogliere tutti, non c’è lavoro neanche per noi..” e via di seguito. Se andiamo a vedere i numeri di ciò che sta accadendo (fonti UNHCR, 1 Ottobre), capiamo come queste retoriche non siano altro che schizofreniche bugie utili a qualcuno e forse a più di qualcuno.

Dall’inizio del conflitto in Siria, 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case, 8 milioni sono sfollati interni e 4 milioni sono ora fuori dal Paese. Di questi quasi 2 milioni in Turchia, 629 mila in Giordania, 110 mila in Libano, 250 mila in Iraq, 130 mila in Egitto, 24 mila in Libia e 348 mila hanno chiesto asilo in Europa. Numeri alla mano constatiamo come meno del 3% del totale di persone che hanno lasciato le loro case stanno cercando asilo politico in Europa. Se poi paragoniamo il numero di persone che gli stati Europei devono affrontare rispetto agli stati limitrofi alla Siria, capiamo come parlare di Crisi Europea dell’accoglienza non abbia alcun senso. In più dobbiamo considerare che non tutte le persone arrivate vorranno fermarsi in Europa a conflitto cessato.

BUDAPEST, HUNGARY - SEPTEMBER 02 : Migrants protest outside Keleti station which remains closed to them in central Budapest on September 2, 2015 in Budapest, Hungary. Hundreds of migrants protest in front of Budapest's Keleti Railway Terminus for a second straight day on September 2, 2015 demanding to be let onto trains bound for Germany from a station that has been currently closed to them. (Photo by Arpad Kurucz/Anadolu Agency/Getty Images)
BUDAPEST, HUNGARY – SEPTEMBER 02 : Migrants protest outside Keleti station which remains closed to them in central Budapest on September 2, 2015 in Budapest, Hungary. Hundreds of migrants protest in front of Budapest’s Keleti Railway Terminus for a second straight day on September 2, 2015 demanding to be let onto trains bound for Germany from a station that has been currently closed to them. (Photo by Arpad Kurucz/Anadolu Agency/Getty Images)

Se proprio vogliamo parlare di crisi dovremmo parlare di crisi di umanità e di crisi di solidarietà. Interroghiamoci su chi la sta causando questa crisi e perché migliaia di persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa. Possiamo dirlo chiaramente: il regolamento di Dublino causa la crisi, le barriere e i fili spinati causano la crisi, le politiche che rifiutano l’accoglienza sono la crisi. Se consideriamo poi che tra il 2007 e il 2014 l’Europa ha speso 2 miliardi di euro in difese, tecnologica di sicurezza all’avanguardia e pattugliamento di confine capiamo quanto i presupposti andassero in tutt’altro verso rispetto all’accoglienza. Ci sarebbero state le possibilità economiche per affrontare l’emergenza in maniera diversa e salvare migliaia di vite.

Keleti Station.

Ritorniamo al discorso iniziale di Orban e notiamo come nonostante i tentativi intimidatori del governo Ungherese e in contemporanea i pattugliamenti dell’esercito al confine, migliaia di persone continuarono nella loro impresa eroica. Raggiungere l’Ungheria, entrare nell’area Schengen e poi muoversi verso paesi che gli avrebbero garantito migliori condizioni di vita. La criminale legislazione mostrò tutte le sue contraddizioni e si trasformò nella viva metafora delle inefficaci politiche europee a Keleti Station. Migliaia di persone, passato il confine, arrivarono alla stazione per prendere un treno che li portasse in Austria, in Germania o ovunque in Europa. Il governo decise di sospendere i treni e chiudere le frontiere e la situazione divenne esplosiva. In mille partirono in marcia verso l’Austria, attirando l’attenzione mondiale e costringendo così il governo ungherese a cedere momentaneamente. La sensazione era che molti non sapessero esattamente dove andare ma chiara e travolgente era la speranza di trovare aiuto, di trovare un futuro di pace per se stessi, i propri figli, fratelli o amici.

Bastava passarci una mezz’ora per capire che quel posto era speciale, nella sua disperazione e nelle sue contraddizioni si è trasformato in qualcosa di magico. Come sempre, quando avviene un nuovo incontro, un nuovo scambio, una nuova relazione nasce qualcosa che il biopotere non è in grado di catturare o codificare. E’ qualcosa che oltrepassa le logiche ciniche e inumane di una politica che parla di statistiche e si dimentica dei suoi doveri. Una politica che si dimentica delle persone, delle loro relazioni, dei loro desideri, delle loro emozioni e necessità. In molti si saranno chiesti perché in tanti vogliano andare proprio in Germania e non si fermino in Turchia o in Serbia o in Ungheria. Immaginate, per un attimo, di essere una madre con due figli piccoli e di essere stati due anni in un campo profughi in Turchia senza la possibilità di mandare i propri figli a scuola e di venire a sapere che in Germania, nei campi profughi, vengono organizzate classi e momenti ludici per i bambini, voi cosa fareste? Non stiamo parlando di volere il meglio, ma di diritti inalienabili che ognuno vorrebbe per i propri figli.

Ritorniamo a Keleti Station e a quello stupendo clima di solidarietà e complicità che i cittadini di Budapest, le ong indipendenti e alcuni attivisti internazionali sono riusciti a creare in quel microcosmo. Ci troviamo al piano inferiore della stazione centrale di Budapest, scendendo la grande scalinata antistante il frontone della stazione si viene subito immersi in un via vai di persone indaffarate, lingue diverse, facce spaesate e stanche.

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Il colpo d’occhio è forte, tutto l’atrio è cosparso di tende, c’è un punto ristoro al centro dove vengono distribuiti pasti caldi, e vettovaglie varie ad ogni ora del giorno e della notte. Proseguendo sulla destra c’è un ospedale da campo dove medici e infermieri prestano servizi di primo soccorso e distribuiscono medicine a chi ne ha bisogno. Subito dopo un ufficio legale in cui si cerca di chiarire i differenti status legali e i diritti a cui ognuno può appellarsi. Poco distante un magazzino a cielo aperto con tutti i materiali per allestire il campo, tende, materassi, corde, gazebo, scorte di cibo e acqua. Sulla sinistra tre gazebo pieni di vestiti che la cittadinanza ha donato. Una vera e propria montagna di abiti che i volontari hanno provveduto a dividere per età e genere. Ciò per facilitare la ricerca di chi aveva bisogno di un giubbotto piuttosto che un paio di jeans o voleva avere una camicia nuova per arrivare ben vestito una volta arrivato in Germania. Poco distante un punto ludico per i più piccoli con materiali per disegnare, bambole, giocattoli vari e libri illustrati. L’isola di Keleti, così mi piace ricordarla, finiva con due tendoni sempre affollati e rumorosi: l’Internet point! Ad ogni ora del giorno e della notte c’era qualcuno che tentava, con il proprio smartphone, di comunicare con la famiglia, con gli amici o con chi è rimasto indietro. Tra una sigaretta e l’altra alcuni ci raccontano la loro vita prima, il loro viaggio, ci si scambia informazioni utili e si discutono i progetti futuri. La voglia di raccontare la propria storia personale è inarrestabile, di testimoniare l’assurdità di quello che stanno vivendo con video e foto. Tutt’attorno scorre la vita della città, c’è chi passa e butta un’occhiata, chi scatta una foto, chi si ferma a chiedere se serve una mano. Lo sciame di giornalisti, televisioni e fotoreporter è sempre presente e si aggira per la stazione alla ricerca di una nuova storia o della foto più commovente.

Ogni giorno centinaia di persone arrivavano, ricaricavano le batterie, e nei giorni successivi ripartivano in treno. Grazie alla solidarietà di molti, si è riuscito a comprare i biglietti del treno per chi non aveva abbastanza soldi e garantito ad ognuno un altro piccolo pezzo del coraggioso viaggio. Dopo la chiusura definitiva della frontiera, Keleti si è rapidamente svuotata e ora rimangono solo le scritte fatte sui muri a ricordare quello che fu un magnifico esperimento di solidarietà.

Costruiamo l’accoglienza.

Facciamo un passo avanti ora e proviamo a capire cosa può e deve essere fatto per far sì che queste situazioni smettano di causare morti e profughi. Innanzitutto è fondamentale che cessi il conflitto in Siria e, anche se l’Europa non ha una una grossa influenza nella zona, è importante che prenda una posizione netta sulla cessazione immediata dei combattimenti. Nostro compito è nel frattempo fare pressioni sulle istituzioni europee perché si istituiscano canali umanitari che permettano arrivi sicuri. E’ fondamentale far sì che cessino le insopportabili stragi in mare e in terra. Chiedere rotte sicure che permettano ai richiedenti asilo di scappare dalla guerra e presentare le domande nei vari stati senza dover rischiare la vita un’altra volta. Come ci ha magistralmente mostrato Luther Blisset, nella formula della design fiction, basta poco per immaginare il nuovo, per dare forma al possibile che ancora non c’è. La bufala di RyanFair, infatti, ci mette di fronte alla banale e cruda realtà di come si potrebbero far volare delle persone senza dover aspettare di dover rivede il diritto d’asilo europeo. “ Se qualche ong si facesse carico dei rischi insieme a una compagnia, qualche spazio si potrebbe aprire. E’ un umanitario concreto, uno scenario che si va aprendo. A livello di politica istituzionale invece non ci aspettavamo nulla e nulla è successo” commenta Luther Blisset sul Manifesto. Concentrare quindi gli sforzi in questo ambizioso programma invece di rafforzare le barriere e chiuderci nella ipocrita fortezza Europa.foto 7 https1.ibtimes.comsiteswww.ibtimes.comfilesstylesv2_article_largepublic20150908img_1375_0.jpg

Uccidere poi definitivamente il regolamento di Dublino e questa folle legislazione che obbliga i migranti a chiedere asilo nel primo Paese in cui arrivano. Creare quindi una legislazione europea comune per i richiedenti asilo, che permetta loro di presentare le domande in uno stato membro e poi di godere degli stessi diritti anche negli altri. Diritto all’assistenza, diritto al lavoro, diritto alla residenza, diritto alla circolazione e così via. Avere un progetto comune su come gestire l’accoglienza nel rispetto della dignità e dei diritti di ognuno.

Tutt’altra cosa rispetto al sospendere Dublino per due settimane, come fece la Merkel, dichiarando di accogliere ogni migrante proveniente dalla Siria, per riscattare un po’ la propria immagine dopo il quasi assassinio della Grecia, e subito dopo richiudere le frontiere e iniziare i pattugliamenti armati. Non è parlare di fredde e assurde quote per ogni stato membro senza calcolare cosa i rifugiati pensano sia meglio per loro.

Piuttosto è dare nuovo smalto e mantenere in vita Schengen per quello di buono che ha. Aprire le porte della fortezza e dare vita ad una accoglienza degna che possa dare nuova linfa a un’Europa sempre più in declino. Allo stesso tempo, è isolare e sopprimere le spinte nazionaliste che cercano di accrescere i loro consensi a spese della vita dei rifugiati. Il diritto dei migranti è il nostro destino. Costruiamo l’accoglienza.

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Livio Amigoni

Vissuto a Bergamo fino all’età di diciannove anni, mi trasferisco a Padova per studiare Psicologia senza troppe pretese e idee chiare sul futuro. Ispirato da un viaggio in Etiopia e vivendo le travolgenti mobilitazioni universitarie contro la riforma Gelmini mi iscrivo l’anno dopo a Scienze Politiche. Iniziano qui anni di attività politica dentro e fuori l’Università, prima con il collettivo Reality Shock e poi con il nascente Bios lab. Citando Foucault posso dire che l’obiettivo che mi ha guidato in questi anni non è stato quello di “scoprire cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare”. Sempre ispirato dallo stesso, mi sono laureato nell’estate del 2014 con una tesi sulla Parresia e il coraggio della verità riattualizzando i classici Greci. Amo viaggiare e stupirmi, da un anno sono vagabondo fuori dall’Italia e mi piacerebbe riportare qualcosa a casa tramite la nave di Pequod.