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“Foglio di via”: l’assurda burocrazia dell’espulsione

Risale ormai al 2011 la mia esperienza con Lamine, clandestino di origine senegalese, arrestato per una segnalazione poi rivelatasi infondata, che una sera mi telefonò in panico dalla questura di Bergamo: aveva bisogno che andassi nel suo appartamento per svuotarlo, prima che lo facesse qualcuno meno ben intenzionato, dal momento che la porta era stata sfondata dai Carabinieri. Qualche ora dopo, usciva dalla Questura con un “foglio di via” tra le mani, ossia l’intimazione a lasciare l’Italia entro 15 giorni perché sprovvisto dei documenti necessari a circolare sul territorio europeo; intimazione che varrebbe solo al primo fermo del soggetto e che Lamine invece ripose in una busta, con una ventina di fogli identici.

Bloccata da una burocrazia che prevede norme inattuabili, l’Arma dei Carabinieri spende gran parte delle proprie risorse in questo andirivieni di clandestini, di volta in volta fermati per strada, registrati attraverso le impronte digitali ed espulsi solo sulla carta, quando la normativa vorrebbe un accompagnamento alla frontiera che è spesso un non senso pratico in un paese delimitato da muri di filo spinato e coste marittime affollate di continui sbarchi, che vanno a riversarsi in strutture stipate di ospiti fino alla saturazione.

Quello che lasciò stupita me, all’epoca, non fu tanto l’inefficace intervento delle forze dell’ordine (che per motivi personali accolsi invece con gioia), quanto il modo in cui erano entrati nell’appartamento di Lamine, sprovvisti di qualsivoglia mandato, e il fatto che non si fossero preoccupati di come lui fosse arrivato a occuparlo. Fu lui a dare risposta alle mie perplessità: «Il contratto d’affitto è a nome di un immigrato regolare che conosce l’agenzia: loro abbassano la sua mensilità e in cambio gli intestano l’affitto di una casa grande, che poi suddividono subaffittandola a più clandestini. Gli appartamenti sarebbero troppo piccoli e vecchi per avere contratti regolari e resterebbero vuoti». In questo modo, l’agenzia ha maggiori entrate, mentre la popolazione extracomunitaria, clandestina e non, rimane circoscritta in aree periferiche della città, dove è più semplice scovarli ogni qualvolta ci sia bisogno di un capro espiatorio.

Provvedimenti pratici vengono messi in atto solo in situazioni emergenziali e con modalità che non sempre rispettano gli iter previsti dalla legge: ne è un esempio il telegramma inviato dal Ministero dell’Interno alle Questure, che dispone servizi mirati, da attuarsi tra il 26 gennaio e il 18 febbraio, finalizzati al rintraccio di “sedicenti cittadini nigeriani” per i quali sono riservati 95 posti nei Centri di detenzione ed espulsione. A porre l’allarme sull’illegalità del provvedimento è il vicepresidente Nazionale ARCI, Filippo Miraglia: «Si tratta infatti di una azione di espulsione collettiva, vietata dalla legge, fatta sulla base della nazionalità, quindi discriminatoria, a prescindere, come direbbe Totò, dalle condizioni delle singole persone». Quello posto in evidenza da Miraglia, è un problema profondo: troppo spesso si parla di migranti solo attraverso numeri e statistiche, etichettandoli secondo parametri prestabiliti (nazionalità, sesso, religione), dando e togliendo diritti sulla base di fogli di carta. Bisognerebbe invece ricordarsi che si sta parlando di individui, ognuno con un proprio trascorso e motivazioni che non sempre i documenti spiegano.

Un’immagine della varietà umana che cerca futuro in Europa, mi è data da Olga, operatrice in un Centro di Emergenza Straordinaria, quando le chiedo quali sono secondo lei i motivi che più spingono in mare: «Non saprei davvero dirti quanti scappano da guerre, quanti da carestie, chi da discriminazioni etniche o religiose. Si incontra ogni tipo di storia: dalla donna che fugge da un marito violento, a chi ha perso casa per una calamità naturale, a chi è nato con degli handicap ed è stato messo in viaggio dalla famiglia, nella speranza di dargli un futuro. Emblematico è stato il caso di due transessuali, riportate dall’Olanda in Italia, dove si erano registrate come Paese di primo sbarco: non volevano fermarsi qui, perché sapevano che in questo Paese non c’era per loro futuro, se non nel mondo della prostituzione, da cui già una volta erano fuggite lasciando il Paese d’origine; anche nel Centro, le si faceva dormire vicino agli operatori, per prevenire atteggiamenti omofobi.»

Centro polifunzionale di emergenza (Credits: Progetto 20K)

L’assenza di un apparato capace di dialogare con ognuna di queste identità soggettive è evidente già all’interno delle diverse strutture, che spesso devono far fronte all’impossibilità fisica di rispettare gli spazi personali e privati, oltre alla difficoltà di mettere in dialogo tra loro e far convivere personalità di culture tra loro anche molto distanti. «Con l’arrivo della primavera – spiega ancora Olga – ogni anno si registrano nuovi arrivi, che raramente si riescono a distribuire nei Centri di accoglienza; così allestiamo dei campi provvisori, ma è impossibile separare donne, uomini e bambini all’interno delle tende, che ospitano 100/150 persone. In questi periodi è più facile che nascano tensioni anche tra gli ospiti: ognuno porta con sé il proprio bagaglio di resistenze, appesantito dalla fatica dei numerosi viaggi; è necessario avere la pazienza di mediare per riassorbire i conflitti e creare coesione».

Lo stesso tipo di aggressività occupa spesso le prime pagine di giornali, raccontando di episodi di violenza scoppiati nelle aree ghettizzate dei centri urbani. È un’aggressività che trova radici all’origine stessa dei primi flussi migratori: spostamenti di comunità dettati non dal desiderio di viaggio, ma dalla necessità di abbandonare casa e faticosamente trovare il cammino. È Lamine a spiegarmi la fatica di vivere giorno per giorno, restando sempre esclusi dalla trama sociale: «In ogni momento, puoi essere fermato per mostrare i documenti; se non li hai, passi la notte in Questura. Un amico, ad esempio, è stato prelevato da un ristorante mentre cenava con una ragazza conosciuta da poco; il giorno dopo era di nuovo per strada con un foglio di via, ma la ragazza non l’ha più rivista! Qualsiasi cosa tu voglia fare, poi, hai bisogno di un prestanome, che significa che devi spendere più soldi del previsto: che sia per un contratto d’affitto o per le bollette, per ricevere soldi da casa o anche solo per comprare un numero telefonico, devi trovare ogni volta la persona che offre quel servizio in nero. Tutto ha una tariffa e si può comprare di tutto, anche contratti di lavoro!»

Quando gli chiedo come pensa di uscire da questa situazione, se pensa mai di tornare a casa, Lamine fa spallucce: «Mi piacerebbe fare un po’ di vita regolare qui in Europa, ma senza documenti non posso cercare lavoro, senza lavoro non posso avere i documenti. L’unica possibilità sarebbe sposarmi o avere figli con una persona in regola. A casa penso spesso: mi piacerebbe tornare, ma come compro il biglietto? Non ho soldi per restare, non ho soldi per partire».

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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