Skip to main content

«I’d rather be a rebel than a slave»: per un nuovo cinema femminista

Suffragette è uno dei tanti film del 2015 ad aver superato il test di Bechdel: ci sono almeno due donne identificate con il proprio nome, le quali parlano tra loro, ma l’argomento della discussione non sono gli uomini. Il rispetto di questi parametri non lo rende in sé un film femminista, e nemmeno un film qualitativamente migliore di altri; ciò che conta è il fatto che in esso vi siano donne presentate come soggetti non dipendenti dalla figura maschile. Suffragette è un film pensato da una donna (Sarah Gavron), basato su una storia femminista e interpretato da personaggi femminili, con i quali lo sguardo della spettatrice si incontra e sulle quali si posa. Fidatevi, non è cosa da poco. Volendo render merito a qualcuno, bisognerà rintracciare un testo del 1975 di Laura Mulvey, fondandmentale per gli studi della Feminist Film Theory: Visual Pleasure and Narrative Cinema. Sono passati quarant’anni, eppure su quelle ricerche si fonda quell’evoluzione del paradigma filmico alla quale abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, cambiamento che inaugura l’apertura alla figura femminile nella visione come soggetto attivo.

La striscia “The Rule” di Alison Bechdel (1985)

La presa di coscienza politica e sociale delle donne protagoniste di Suffragette si verificò nello stesso periodo storico in cui il cinema vedeva la luce. Di questa arte non si parla esplicitamente, sebbene le loro proteste avessero molto a che fare con i media visuali. Basti pensare alla scelta di Emily Davison di sacrificare la propria vita sotto l’occhio di cinque macchine da presa, durante il Derby di Empson del 1913. Far entrare il soggetto femminile all’interno del discorso filmico implica una rivoluzione vera e propria: il cinema è l’arte voyeristica per eccellenza, essa «soddisfa un desiderio primordiale di piacere nel guardare», ma non solo. Il cinema è l’arte in cui la scopofilia (rendere un individuo oggetto e sottoporlo a uno sguardo di controllo) si manifesta nella sua forma più narcisistica, nella quale — come spiegato dalla Mulvey — la donna ha una sola possibilità: quella di porsi come oggetto sessuale, contemplazione erotica per lo sguardo del maschio. Elaborando questa teoria, la Mulvey faceva riferimento al cinema classico hoolywoodiano, che vedeva l’uomo come attivo promotore della storia e la donna come oggetto passivo. Le spettatrici, osservando i personaggi femminili, non facevano altro che adattare il proprio sguardo a quello maschile. Davanti alla cinepresa, la bellezza del soggetto femminile infatti non può far altro che rompere l’unità del racconto, finendo talvolta per diventare un pericolo mortale per l’uomo — si pensi alla femme fatale. Anche nei film “per donne”, le inconsapevoli fruitrici della visione dovevano in realtà confrontarsi con le immagini di dive costruite sul discorso del desiderio dell’uomo (una per tutte: Marilyn Monroe, sulla quale ha scritto Richard Dyer in Heavenly Bodies: Film Stars and Society). E il desiderio femminile in tutto ciò?

Marilyn Monroe in The Seven Year Itch (1955)

Attenzione: questo campo di analisi non aveva nulla a che vedere con il ruolo delle donne all’interno del sistema cinematografico. Nell’epoca d’oro dello Studio System si contava un alto numero di registe donne, come ha infatti ricordato Lee Marshall: «La metà di tutti i film registrati negli elenchi dei diritti d’autore a Hollywood tra il 1911 e il 1925 erano scritti da donne». Egli dimentica però di ricordare come in quel periodo della storia del cinema ogni soggetto partecipante alla realizzazione di un film non fosse nulla più che un semplice ingranaggio del meccanismo di produzione volto al profitto: in fondo, un film è pur sempre una merce. Oggi, il ruolo di una regista è diametralmente opposto, eppure quello che continua a contare è il sistema sociale e politico all’interno del quale si colloca. Da un lato, ancora oggi la figura femminile è determinante per la costruzione dell’immagine filmica, rendendo di fatto il suo corpo un feticcio sul quale posare lo sguardo. Dall’altro è anche vero che i gender studies hanno imposto un nuovo paradigma, che ha scavalcato il concetto stesso di femminismo, arrivando a riconoscere alcuni film come “postgenere” (ad esempio i film di Pedro Almodóvar).


Questo non può essere chiaramente il caso di Suffragette, per evidenti motivi tematici. Esso si situa piuttosto in un ristretto filone di film che, a partire dagli anni Novanta, si sono posti l’obiettivo di scomporre le narrazioni tradizionali, abbattendo gli stereotipi. L’epoca della la signora Laszlo è giunta al termine, dunque ben venga Maud Watts! Un certo cinema si è svegliato e ha capito che la rappresentazione degli stereotipi non rispecchia più la realtà liquida nella quale viviamo e sceglie di proporre una diversità delle immagini, dietro alle quali si cela il pensiero della differenza. È un cinema femminista, che ridefinisce finalmente le relazioni di genere e indica alle donne un’alternativa possibile alle dinamiche del patriarcato.

Protesta delle attiviste Sisters Uncut durante la presentazione di Suffragette al London Film Festival

Roberta Cristofori

Articolo pubblicato originariamente su The Bottom Up.

CHDEL, cinema, cultura, Donna1, FEMINIST FILM THEORY, FEMMINISMO, film, GENDER STUDIES, HOLLYWOOD, MARILYN MONROE, PEDRO ALMODOVAR, ROBERTA CRISTOFORI


The Bottom Up

Web magazine che si occupa di approfondimento di politica, esteri, attualità e cultura. Collaboratore con Pequod Rivista da maggio 2015.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.