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Incontrare la fragilità: la danza contemporanea in carcere

Nella casa di reclusione di Brescia Verziano l’associazione Compagnia Lyria svolge un laboratorio di danza contemporanea per detenuti e liberi cittadini. Giulia Gussago, direttrice artistica del progetto, ci parla dell’evoluzione e degli esiti di un lavoro che unisce scoperta di sé e incontro con l’altro.

Come nasce progetto Verziano?

Ho iniziato a pensare a un progetto in carcere nel 2010 e con Compagnia Lyria abbiamo iniziato nell’ottobre 2011 la prima esperienza rivolta alla sezione femminile. Dal 2012 l’attività è rivolta anche alla sezione maschile, creando un momento d’incontro molto importante tra uomini e donne. All’inizio lo spettacolo finale era dato esclusivamente nella struttura, poi abbiamo pensato di offrire alla cittadinanza l’occasione di osservare gli esiti del lavoro. L’anno scorso lo spettacolo è stato ospitato dal Teatro Sociale di Brescia con un tutto esaurito e i detenuti hanno avuto l’occasione di uscire dal carcere per incontrare finalmente un pubblico diverso. Così per il percorso: prima rivolto solo ai detenuti, nel tempo ho ritenuto utile far sì che questi potessero incontrare i cittadini e viceversa, in un percorso di valore a doppio senso.

Sul sito spiegate che il vostro obiettivo è quello di sensibilizzare il pubblico all’ “integrazione tra realtà carceraria e società civile”, sottolineando la necessità di un processo reciproco…

Credo sia impossibile immaginare una “rieducazione” dei detenuti senza un lavoro di sensibilizzazione di chi poi dovrà accoglierli: dare la possibilità ai cittadini di conoscere le persone che sono dentro è un modo necessario per far sì che si cambi il punto di vista, e quindi eventualmente il pregiudizio. Per i detenuti tutto ciò crea fiducia in una società che in futuro potrà accoglierli. In questa relazione e scambio, può avvenire una trasformazione. Esporsi, prendere un rischio: senza questo il resto è solo teoria, piani inapplicabili nella vita delle persone.

Ha detto che l’ultimo spettacolo ha fatto il tutto esaurito, la risposta al vostro lavoro sembra  dunque positiva…

In questi sei anni abbiamo creato occasioni di presentazione dello spettacolo, conferenze, video e riviste: abbiamo cercato di creare curiosità e la risposta che abbiamo avuto ha dato ragione del percorso che abbiamo fatto. I cittadini e i detenuti che partecipano al lavoro sono i veicoli più importanti: molti hanno portato parenti e amici, alcune persone sono venute da molto lontano per assistere. Tre anni fa con lo spettacolo eravamo in un chiostro, il pubblico era disposto per terra su dei cuscini, a pochi metri di distanza. Una persona che usciva dopo molti anni di detenzione mi disse: «Quando si sono accese le luci e ho visto il pubblico così vicino che applaudiva, mi sono sentito orgoglioso di questo percorso, di aver dimostrato che anch’io posso fare qualcosa di buono».

Crede che osservare questi risultati spinga le istituzioni a ripensare la detenzione in un’ottica di valorizzazione dell’individuo, piuttosto che di pena o rieducazione?

Il tema delle istituzioni è sempre un po’ scivoloso: c’è l’istituzione e ci sono le persone che la dirigono. Durante il nostro primo incontro la dottoressa Lucrezi [Paola Lucrezi, direttrice di Verziano, ndr] mi disse: «Io credo che la cultura e l’arte siano gli strumenti da usare per il recupero di queste persone alla socialità». Tutti i passi che sono stati fatti – far accedere decine di cittadini durante i laboratori nel carcere e duecentocinquanta persone agli spettacoli, organizzare insieme alla polizia penitenziaria la scorta per coloro che non possono uscire autonomamente per le prove dello spettacolo al teatro stabile, programmare i turni degli agenti… è un lavoro veramente grande e chiede una vera convinzione dal parte del direttore del carcere e di tutti i collaboratori. Sono davvero felice di aver avuto questo fortunatissimo incontro e che ci sia questa istituzione nella nostra città.

Quali strumenti particolari offre la danza contemporanea per il vostro lavoro?

Io uso i principi del metodo Feldenkrais, che trovo estremamente utili per dare alle persone la possibilità di sentirsi nel movimento e collegare l’esperienza artistica alla quotidianità. Trovo che la danza contemporanea sia uno strumento ottimo per rendere la persona capace di ascoltarsi, e di conseguenza rendersi sensibile al mondo. C’è tanto bisogno di raccontarsi, tra i detenuti e non solo: il mio lavoro è quello di creare il contesto, lanciare dei sassolini e vedere cosa torna indietro in termini di materiale artistico, per poi comporlo, ricomporlo o scomporlo e creare un prodotto piacevole da vedere. Questa è la mia idea di utilizzo di danza, che sconfina dove è necessario: abbiamo fatto lavori di scrittura, o con il colore; non escludo nulla. A volte a chi prende coraggio nello scrivere, mentre si sente impacciato nel muoversi, chiedo di esprimere il testo con un movimento: dopo che ne ha fatto uno può farne due, dieci, mille… non c’è più problema.

Quindi il suo ruolo è quello di scoprire le “aperture” di ogni persona?

Si, il mio specifico ruolo è questo: insegnare come si allunga un braccio o si solleva una gamba da terra è del tutto marginale. Il percorso del far esprimere ai partecipanti quello che c’è ed elaborarlo rende meraviglioso anche un piccolo gesto se vissuto dalla persona che lo fa con presenza, convinzione. Per me questa è la potenza dell’atto artistico. Troppo spesso vado a vedere spettacoli in grandi teatri con compagnie di fantastici danzatori e mi manca qualcosa quando esco, e mi chiedo: che cosa aggiunge questo alla vita di tutti noi che abbiamo messo a disposizione un’ora della nostra esistenza? A me parla invece di più una persona curva o con la pancia che però è convinta di fare quel gesto, è tutta lì…

Parliamo quindi di fragilità, una qualità che fa paura, ma anche una risorsa importante…

La fragilità ci rimanda all’idea di qualcosa che si può rompere rapidamente o a cui è necessario dare una cura particolare perché altrimenti ci può distruggere. Penso alla fragilità che si prova durante la convalescenza dopo una malattia, quando sappiamo che stiamo andando verso la guarigione ma non l’abbiamo conquistata completamente: è una fase meravigliosa perché si hanno illuminazioni, comprensioni riguardo alla fortuna di esser in salute e si vivono gioie molto profonde per cose banali. Passando dalla fragilità si trova una vera e profonda potenza, un potere: se le resistiamo non riusciamo ad accedere ad un’esperienza che ci possa spingere più in là. Einstein diceva: «Devo essere disposto a smettere di essere ciò che sono per poter diventare ciò che sarò»: in questo la fragilità può aiutarci.

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Sara Gvero

Nata in Jugoslavia nel 1989, a due anni mi trasferisco in Italia con i miei genitori, decisi a non farsi risucchiare dal conflitto etnico alle porte. Migrante in tenera età, divento da subito sensibile alle tematiche culturali, politiche e sociali su cui si orienteranno i miei studi successivi ed il mio lavoro. A diciotto anni mi trasferisco dalle Marche a Roma, dove mi laureo in Letterature, Linguaggi e Comunicazione Culturale. Qui approfondisco la mia passione per tutto ciò che riguarda la cultura, l’arte e la letteratura, e nasce un nuovo amore per le teorie sociali e culturali critiche, in particolare quelle di genere. Nel 2011 entro a far parte del laboratorio di studi femministi Sguardi Sulle Differenze dell’Università La Sapienza e nel 2014 completo un Master in Genere, Media e Cultura a Londra. Concluso quest’ultimo inizio a far volontariato e poi a lavorare per il Women and Girls Network, organizzazione che si occupa di contrastare la violenza di genere. Nel tempo libero mi nutro di mostre d’arte e lettura, passeggiate lungo il Tamigi e visite ad amici e parenti sparsi per l’Europa. Per Pequod mi occuperò soprattutto di questioni di genere per Attualità ed Internazionale, contribuendo alle altre sezioni su temi di politica, società e cultura.

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