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Intervista’l’musicista: il percussionista mutante

Una valigia di percussioni e tanta sensibilità musicale: il giovane bergamasco Andrea Greco si svela per noi. Un percussionista a tutto tondo che si è sempre meno identificato nel ruolo di batterista “duro e puro”, andando in cerca della musica nella sua totalità.

Consiglio di lettura: accendete dell’incenso, sedetevi su un tappeto e mettete in sottofondo i consigli musicali che Andrea ci ha lasciato – Avishai Choen, Seven Seas e/o Anoushka Shankar, Traveller (trovate i video a fine articolo).

  

Ciao Andrea, parlami del tuo percorso musicale. Quello che più ti ha influenzato, le musicassette, il primo cd che hai comprato, le band del liceo, tutto quello che ha contribuito alla tua formazione musicale.

Ho iniziato a studiare batteria a sette anni alla banda (forse perché ero un bambino iperattivo: era il modo migliore per incanalare la mia tensione).

Tralascerei le musicassette: le uniche che avevo erano quelle di Fiorello, gli 883, una musicassetta di musica celtica e una di Jimi Hendrix; sono servite più che altro a capire cosa non mi sarebbe mai piaciuto. Il primo cd l’ho comprato con la paghetta dei sette anni ed è stato In Rock dei Deep Purple, seguito da Secret Story di Pat Methney.

Per sette anni ho continuato a studiare batteria alla banda (dove le mie Etnis rosse stonavano sempre con la divisa); sono stati anni preziosi di formazione musicale, dove ho imparato i principi di condivisione e d’ascolto della musica d’insieme. Dopodiché ho cambiato maestro: Federico Duende mi ha introdotto (forse prematuramente) al linguaggio del jazz, mentre riuscivo finalmente a comprare il tanto desiderato Iron Cobra (un doppio pedale per batteria)! Così, venivo inevitabilmente traviato dal groove dei Pantera, passando per i Led Zeppelin.

E fu così che mi ritrovai a suonare nei Morningrise. Facevamo trash-metal e suonavamo alle tristi e spoglie feste liceali di fine anno; un tuffo nel death-metal e un po’ di borchie dopo, passai bruscamente a suonare in una cover band di De Andrè. Ed è qui che iniziai a interessarmi ad altri tipi di linguaggio musicale, più affini alla mia personalità. Ciò coincise anche con l’avvicinamento alla musica elettronica (un momento, per me, importantissimo e fondamentale).

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A diciotto anni feci un viaggio in Africa come percussionista di un gruppo folk: è stata un’esperienza importante in cui ho potuto integrare le percussioni in un gruppo musicale. Inoltre, l’incontro con dei musicisti africani ha fatto scoccare le scintilla tra me e la musica etnica.

Successivamente, mi staccai temporaneamente dalla batteria per dedicarmi totalmente alla Millennium Marching Band (e quindi alla tecnica sul rullante). Con loro ho scoperto il potenziale del lavoro di gruppo, dell’allineamento fisico e sonoro, la forza del sincronismo e dell’unità musicale, dove nessuno prevale: non si abbatte la personalità dell’individuo ma la si valorizza per arrivare all’uniformità.

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Più recentemente (risedendomi sullo sgabello della batteria) ho ottenuto il diploma all’Accademia del suono di Milano, dove ho studiato con Max Furian e Marco Fadda (il quale mi ha dato un imput verso il mono delle percussioni). Inoltre, sto portando avanti una collaborazione con il collettivo di Kind of Bass come dj.

E per non farmi mancare nulla, suono nei Barabba Gulasch, un gruppo di musica italo-balkan in cui abbiamo un’interazione diretta con il pubblico: tutto quello che creiamo nei nostri spettacoli è incentrato sul donare un sorriso al pubblico. Ciò sintetizza al massimo quello che secondo me è il valore terapeutico che la musica racchiude in sé.

 

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Quali sono state, o quali sono le percussioni su cui ti sei maggiormente concentrato?

Principalmente la darbouka e il cajon. Con quest’ultimo ho iniziato anche un’esperienza di costruzione, in cui sono riuscito a innamorarmi e capire a fondo lo strumento. Da qui, la mia grandissima passione e connessione con il flamenco, nonché la decisione di fare un viaggio in Andalusia per capirne i linguaggi musicali, i volti, la tradizione da cui poi si sviluppa questo genere. Quello che più mi ha colpito è l’infinita gamma di persone differenti, le diverse forme musicali che lo compongono, originate da svariate culture.

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Uno strumento musicale che avresti voluto imparare a suonare, il tuo “rimpianto musicale”?

Assolutamente, il trombone a coulisse.

Lasciami un pensiero musicale per salutare i nostri lettori.

“Io voglio fare musica per mia nonna” Ellade Bandini. E aggiungo che non bisogna aver paura di fare schifo, non bisogna mai smettere di volersi sentire un’entità multiforme e pluralista; non bisogna mai smettere di assorbire dalle subculture contemporanee e dai loro immensi valori.

Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?

Seven Seas, Avishai Choen

Traveller, Anoushka Shankar

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Sara Alberti

Nata sulle colline bergamasche nel 1989, percuoto dall’età di otto anni, quando ho iniziato a studiare batteria e percussioni da orchestra nel Corpo Musicale Pietro Pelliccioli di Ranica (W la banda!). Dopo essermi barcamenata tra le varie arti, la Musica ha avuto la meglio e mi è valsa una laurea in Musicologia. Profondamente affascinata dal vecchio e dall’antico, continuo a danzare e suonare nella Compagnia per la ricerca e le tradizioni popolari “Gli Zanni” e per il mio grande amore balcanico Caravan Orkestar. Su questa nave di pirati sono la responsabile della sezione Nuove Premesse, della cambusa e della rubrica musicale.

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