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Muoversi tra i suoni di Dakar: un racconto di multilinguismo africano

In partenza per Dakar, ancora una volta ripongo nel bagaglio a mano, come ancora di salvezza, i miei libri per imparare lo wolof, pur sapendo che il mio è soltanto un piccolo gesto scaramantico di fronte allo straordinario plurilinguismo del Senegal, che non si esaurisce certo nell’incontro tra l’ormai lingua ufficiale di stato e quella coloniale, il francese.

Ancora una volta, riempiendo lo zaino, alleno la mia mente a passare attraverso idiomi diversi, fiduciosa della comprensione che riceverò dal popolo del Paese dell’Accoglienza, come i senegalesi chiamano la loro terra.

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Già in aeroporto, sono travolta dai suoni della folla che cerca di richiamare l’attenzione del mio viso pallido sulle merci in vendita e i taxi in attesa: «Madame! Madame!» «Señora! Señora!» «Miss! Miss!».

Oltre il rumore, riconosco la voce di mio nipote Ndiaw; mi chiama nel suo tono “francesemente” dolce, ”africanamente” basso.

Scopro che la modulazione delle frasi che caratterizza i senegalesi è tra le cose che più mi sono mancate. Lo scopro ascoltando mia cognata Ndeye che in inglese mi indica dove mettere le valigie; è laureata e conosce la lingua dagli anni del liceo; non la parla con scioltezza, ma le nostre conoscenze sono bastate a stabilire tra noi una complicità. Con lei ho attraversato il mercato del quartiere, conosciuto le abitudini delle donne africane, scoperto i segreti di sapori e tessuti; e l’ho fatta ridere ascoltandomi scherzare con i due negozianti della zona che parlano spagnolo, convinti che sia italiano, perché hanno lavorato alle dipendenze di un portoghese.

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Con mio marito abbiamo incontrato anche alcuni senegalesi che l’italiano lo parlano davvero, pur non avendo mai messo piede fuori dal loro paese; mi stupisco del fatto che tutti mi diano la stessa spiegazione: «L’italiano è facile da imparare: basta leggere un libro e cercare di capire il senso comparandolo al francese. Parlare è semplice: si dice così come si scrive.»

Ho toccato con mano la facilità con cui questo popolo apprende nuove lingue: dopo pochi giorni trascorsi in famiglia, mia nipote Sanou, di sette anni, indicando il piatto da cui mangio, chiede: «È buono? Dafa neeχna?», prima in italiano, poi in wolof; spiegando e comprendendo allo stesso tempo. Ha semplicemente ascoltato mio marito tradurre per me nei precedenti pranzi.

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Con mia suocera è stato meno semplice: non parla wolof ma serere, la lingua del villaggio in cui è nata e dell’etnia cui appartiene tutta la famiglia; abbiamo passato molto tempo assieme, io imparando a riconoscere il modularsi della sua voce, lei ripetendo ritualmente le stesse espressioni e riempiendo i silenzi di rosari di buoni auguri, cui io possa rispondere con un internazionale: «Amine». È una lezione che più volte mi è tornata utile di fronte ad anziani che si esprimevano in una delle sei lingue nazionali del Senegal, tra cui la wolof è maggioritaria.

Mia suocera mi accoglie sempre nella lingua madre, con un dolce: «Nam fio? Soob a khamo sama goro, kam khalato gong rek!». (Come stai? Sei mancata mia nuora, ti ho pensato tanto!) Non sapendo rispondere in serere, ripiego sull’arabo, che è la lingua della preghiera e in Senegal, come in molti paesi a maggioranza musulmana, entra a far parte di diversi momenti e riti quotidiani: «Alhamdulillah! Ringraziando Dio!».

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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