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Provincia mia, ti lascio e vado via (o forse no)

La provincia, croce e delizia. Vivere lontani dalle grandi città, nella dimensione placida e rassicurante dei paesi e delle cittadine italiane, ha sicuramente un che di poetico e rétro. Parlando con gli anziani della città lombarda di provincia in cui sono cresciuta, il tipico luogo cosiddetto “a misura d’uomo”, mi accorgo che nel loro immaginario Milano è dipinta come un gigante di cemento e palazzoni pronto ad ingoiare le ingenue creature provenienti dai rassicuranti paesi della provincia. Capisco che la grande città incuta soggezione a chi ha sempre vissuto in un contesto diverso, provinciale. Del resto, si teme ciò che non si conosce, o ciò che si conosce per sentito dire.

Il discorso è un po’ diverso per i più giovani. Oggi i ragazzi di provincia si abituano a conoscere la città fin da piccoli, imparano che spesso quello che non trovano nel loro paese lo potranno facilmente reperire in città. Nel mio piccolo, quando ero più giovane e gli acquisti online non li faceva nessuno, andavo mensilmente in pellegrinaggio a Milano per comprare gli album dei miei cantanti preferiti, che nella mia città non vendevano da nessuna parte. Che fortuna, pensavo, potersi comprare i cd sotto casa! Poi si cresce e la consapevolezza delle possibilità offerte al di fuori del microcosmo provinciale aumenta: le università delle grandi città offrono più indirizzi, più corsi. Gli sbocchi lavorativi in città sono nettamente superiori a quelli nel paesello, così come gli stimoli culturali e le occasioni di conoscere nuova gente. Io stessa mi sono spesso trovata ad invidiare lo stile di vita dei miei coetanei che si sono trasferiti in città e a non capirne le lamentele quando si dicono stressati dal traffico, dalla gente, dalle cose da fare. In cuor mio qualche volta mi sono detta che chi si lamenta delle grandi città non si merita di viverci e di avere tutte quelle opportunità; l’abusatissima citazione di Samuel Johnson when a man is tired of London, he is tired of life riecheggia nella mia mente rafforzando la mia convinzione sul primato della città. Poi, però, quando la sera esco nel mio tranquillo capoluogo di provincia e per raggiungere i miei amici dall’altra parte della città impiego dieci minuti, confesso che la mia fierezza da wannabe-cittadina vacilla. Dove riesco a vedermi davvero realizzata e nel contesto adatto ad una persona della mia età?

Ho deciso di confrontarmi con chi un’idea chiara sul luogo della sua vita ce l’ha per comprendere davvero il significato che noi giovani attribuiamo alla difficile scelta fra città e provincia. Cristian ha trent’anni, di cui ventisette trascorsi in un paese della provincia bergamasca. Da tre anni si è trasferito a Milano e mi racconta il perché della sua scelta. «Avevo ventisette anni e attraversavo un periodo un po’ di passaggio, ero insoddisfatto e volevo riprendere in mano la mia vita. Nonostante avessi già una casa di proprietà e un contratto a tempo indeterminato, non ero più così sicuro di trovarmi nel posto giusto per me. L’illuminazione è arrivata all’improvviso, in una serata estiva: stavo guidando in autostrada e a un certo punto mi sono detto che era ora di cambiare aria. Impulsivo come sono, in poco più di tre mesi ho organizzato tutto e traslocato la mia vita». E nonostante Milano sia a poche decine di chilometri dal suo paese d’origine, la vita di Cristian è cambiata radicalmente, a detta sua in meglio. Quando gli chiedo cosa apprezza in particolare della vita nella metropoli, Cristian mi spiega che a Milano è tutto a portata di mano.

Vista dal vecchio appartamento milanese di Cristian. Fotografia per gentile concessione di Cristian

Cerco di capire se il suo amore per la vita cittadina si contrapponga ad una sorta di disprezzo verso la provincia che ha scelto di abbandonare. Rispondere non è facile per Cristian, che non riesce ad elencarmi qualcosa che davvero odiasse della sua vita precedente: «Faccio una fatica enorme a ripensare in modo razionale al luogo in cui sono cresciuto. Il cambiamento mi ha travolto in modo talmente intenso e soddisfacente che, quando cerco di fare un confronto tra il mio passato e il mio presente, mi rendo conto di essere davvero ingeneroso nei confronti di quelle che sono e rimarranno le mie radici e il mio punto di partenza. Credo che ciascuno abbia una dimensione ideale e, semplicemente, la mia non era lì».

C’è chi invece ha la fortuna di sapere fin dall’inizio dove sia la propria dimensione ideale: Adriano, ventisettenne della provincia bergamasca, riesce a dedicarmi qualche minuto di tempo nella sua frenetica vita di provincia per raccontarmi il suo percorso. Dopo diciotto anni trascorsi serenamente in provincia e senza alcun desiderio represso di cambiare aria, decide di iscriversi al Politecnico di Milano: «Io, in realtà, non volevo uscire dalla valle in cui sono cresciuto. Sono andato a Milano contro me stesso, per sfidare i miei limiti. Ho fatto anche esperienze di studio in America e in Sudafrica. Ho voluto aprire i miei orizzonti». Dopo la laurea in Ingegneria Gestionale arriva la proposta, un contratto da ingegnere informatico. In quel momento avviene la decisione, la conferma che Adriano conosce bene quale sia il suo luogo della vita: rifiuta il lavoro e inizia a seminare un ettaro di mais spinato di Gandino, una varietà antica di granoturco. «Volevo qualcosa che mi tenesse legato alla mia terra, ho cercato il modo di valorizzare il mio territorio e, partendo da questo forte desiderio, ho costruito la mia azienda agricola».

Adriano al lavoro nella sua azienda agricola. Fotografia per gentile concessione di Adriano (www.agrigal.com)

La forza del progetto di Adriano è proprio il luogo da cui proviene e il legame viscerale con il suo paese, con la sua provincia. E la fedeltà alla sua terra lo ha ripagato: oggi la sua azienda vende in tutta Italia e la sua esperienza è talmente riconosciuta da essere oggetto di convegni specialistici e laboratori didattici. Adriano non nega che le esperienze fatte a Milano o all’estero siano state fondamentali, ma ora l’obiettivo è sempre quello di rafforzare ancora di più il rapporto con la sua provincia.

Due storie diverse quelle di Cristian e Adriano, ma con un aspetto in comune: la convinzione di avere preso la decisione giusta, di aver trovato la propria dimensione. E dalle loro parole quello che percepisco è che forse non ci sono luoghi più giusti o più sbagliati di altri, ma che probabilmente il luogo che cerchiamo, città e provincia che sia, è quello che davvero ci rappresenta.

 

In copertina: uffici a San Donato Milanese (ph. Marcuscalabresus CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons).

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Margherita Ravelli

Nata nel 1989 ad ovest della cortina di ferro, dalla mia cameretta della provincia di Bergamo ho sempre guardato con curiosità verso est, terra dei gloriosi popoli slavi. Dopo aver vagabondato fra Russia, Ucraina e Polonia ho conseguito la laurea magistrale in lingua e letteratura russa, con una tesi sul multilinguismo e sulla multiculturalità nella repubblica russa del Tatarstan. Sono responsabile della sezione Internazionale di Pequod, oltre che redattrice occasionale per attualità, cultura e viaggi.

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