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Vecchi e nuovi continenti, vecchi e nuovi schiavi

La rivolta dello schiavo nero Nut Turner nella Contea di Southampton, in Virginia, che ha ispirato la settimana di Pequod, in occasione dell’anniversario del suo arresto, avvenuto il 30 Novembre 1831, è stato quest’anno al centro delle conversazioni della critica cinematografica. Premiato dal pubblico e dalla giuria nella sezione U.S. Dramatic al Sudance Film Festival e accolto con una standing ovation al Toronto International Film Festival, The Birth of a Nation, il film scritto, diretto e interpretato da Nate Parker, sarà nei cinema italiani a partire da gennaio 2017.

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Nate Parker, regista di “The Birth of a Nation” (gettyimages)

La trama ripercorre la vita del protagonista dalla nascita come schiavo, alla fanciullezza in cui riceve un’educazione eccezionale in virtù della singolare intelligenza, dalla lettura della Bibbia e l’opera di predicatore, alla fuga e poi all’insurrezione del 1831. Nut Turner si pose alla guida di una cinquantina di schiavi neri, in marcia per conquistare la libertà; una strada difficile e più che sanguinosa, di cui Parker non risparmia i particolari più cruenti tanto quando mette in scena la folle marcia verso le Paludi della Morte, dove rifugiarsi distanti dalla città, trasformatasi in un bagno di sangue per l’uccisione di 55 bianchi, onde evitare il divagare di notizie sulla fuga; quanto al momento della cattura e poi dell’impiccagione di Turner, insieme a sedici compagni, mentre si dichiara fiero degli atti compiuti per liberare la propria gente.

«Potevo andare avanti leggendo sceneggiature in cui la gente di colore viene rappresentata in base ai soliti stereotipi, oppure potevo scegliere di lanciarmi in un progetto che avesse la forza di cambiare il tono del dibattito, creando opportunità per lasciare un segno sulla realtà» dichiara Parker, che provocatoriamente riprende il titolo del film muto di Griffith del 1916, accusato di istigazione all’odio razziale per la promozione di un’idea del Klu Klux Klan come principale agente d’ordine nel Sud scosso dalla guerra civile. Che abbia effettivamente superato questi stereotipi è messo in dubbio dalla critica: musiche pompose, alternarsi di scene pregne d’azioni a stacchi dal pathos pesante, ritratti stereotipati dell’America dell’Ottocento non convincono gli spettatori; certo è che ha lasciato un segno sulla realtà, mettendo in luce la straordinaria figura storica di Nut Turner.

Altro lungometraggio interessante, distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi a giugno 2016, è il lavoro scritto e diretto da Gary Gross, Free State of Jones, che apre nuove prospettive rompendo il classico bipolarismo delle guerre e soprattutto della visione politica statunitense, divisa prima tra nordisti e sudisti, oggi tra democratici e repubblicani. Si tratta ancora una volta di una biografia storica: protagonista è Newton Knight, contadino bianco del Mississippi che organizzò una ribellione nella contea di Jones insieme ad alcuni schiavi neri, tra cui la moglie Rachel, e compagni d’armi sudisti, fondando la prima comunità multietnica del dopoguerra.

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Gary Ross, regista di “Free State of Jones” (craveonline)

Nonostante nel film non manchino apologia e lodi della bandiera a stelle e strisce cui il cinema statunitense ci ha abituati, evidente è la sincerità con cui è delineato il ritratto del protagonista, di fronte ai cui ideali pacifisti le posizioni di patriottismo americano si sgretolano, lasciando posto ai diritti e alle necessità di un popolo, fatto ormai per lo più di vedove private dalla guerra anche degli ultimi averi. Un pensiero del tutto nuovo quello di Knight, che sogna un’America fatta solo di uomini liberi, indipendentemente dal colore della pelle; un pensiero precorritore dei tempi, in un’America degli anni ’50 immersa nel razzismo e nelle sue espressioni violente, largamente concesse e istituzionalmente riconosciute.

«Nessun uomo deve essere un negro (nigger, inteso come schiavo, sfruttato) per qualche altro uomo» proclama Knight all’atto di fondazione della Contea Libera di Jones, stabilendo il principio cardine della comunità. Esprime così un’utopia, un sogno mai completamente realizzatosi in America, in quell’isola idealmente felice che sono gli USA, abitata di uomini divisi fra sogno e realtà, fra speranza e disperazione, fra l’essere nigger o avere diritto alla libertà. Le idee di Knight erano straordinariamente moderne a fine ‘800, quando fondò la Contea Libera di Jones, e sono straordinariamente moderne oggi, di fronte a politici che ancora istigano all’odio razziale; a Gary Gross il merito di avergli dato voce.

Anche il cinema italiano quest’anno si è rivolto al tema della schiavitù, riletto in chiave doverosamente nostrana: è uscito nelle sale a maggio 2016 l’ultimo lavoro del documentarista Andrea D’Ambrosio, dal titolo Due euro l’ora, che racconta una delle numerose tragedie che periodicamente sconvolgono la penisola, da imputarsi all’omertà che ruota attorno al caporalato.

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Andrea D’Ambrosio, regista di “Due euro l’ora” (Italia2Tv)

L’opera è liberamente ispirata a una vicenda di cronaca risalente al 5 luglio 2006, quando in un incendio scoppiato in un materassificio abusivo nel comune di Montesano della Macellana, in Campania, videro la morte le operaie Annamaria Marcadante, 49 anni, e Giovanna Curcio, 16 anni. D’Ambrosio dedica alle due donne il suo lavoro, che rilegge in chiave romanzata la vita di queste due vittime di un fenomeno che da sempre ferisce il Mezzogiorno: la diciassettenne Rosa, innamorata di un uomo più grande migrato in Svizzera, orfana di madre e in conflitto con il padre spesso distante per lavoro, trascura gli studi di cui non riesce a cogliere l’utilità e cerca di trovare la via per la propria emancipazione in una fabbrica clandestina di tessuti. Qui in contra Gladys, di rientro dal Venezuela, costretta dal mero fatto di essere una migrante, poco consapevole dei diritti che dovrebbero esserle riconosciuti e inserita in un ambiente che non emancipa e non educa a un pensiero civile, ad accettare il lavoro di cucitura per due euro l’ora.

Scena madre del film di D’Ambrosio è quella che vede l’ingresso dei carabinieri all’interno della fabbrica, non dichiarata al fisco e estranea a qualsiasi norma di sicurezza; le forze dell’ordine finiscono col fermarsi a bere un caffè, chiacchierando con il proprietario dell’azienda. È una scena di forte denuncia, ma che dista poco dalla realtà: «Il lavoro gliel’aveva trovato non un caporale, bensì l’allora sindaco di Casalbuono, Santino Barone» ha dichiarato a Internazionale Pasquale Curzio, padre di Giovanna.

In copertina: scena tratta dal film “The Birth of a Nation”.

Articolo di Sara Ferrari e Andrea Turchi

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