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Viaggio in una raccolta di trip in LSD

Avete presente quando la mattina vi svegliate e nella testa vi rotolano scenari onirici che vi trattengono nel sonno? Quando ancora vi formicolano sottopelle le sensazioni che le immagini notturne hanno suscitato, eppure quelle immagini sfuggono, emergono da ombre indefinite e si susseguono lungo una parabola (a)temporale; voi vorreste raccontarle ma sembra si divincolino da qualsiasi griglia razionale?

La differenza tra un trip e un sogno è molto sottile, fine quanto la distanza tra l’esser svegli o addormentati. E se vi sembra che sia una distanza netta e marcata, date allora una dimostrazione razionale, un’inconfutabile prova del vostro attuale stato di veglia! Per anni i filosofi scettici ci han perso le notti… Qualche chimico nel frattempo si preoccupava di spezzare definitivamente la sottile linea di demarcazione e qualche ragazzo entrava in un mondo fatto di sogni ad occhi aperti.

Condividerli non è facile: situazioni percepite e sensazioni di reazione si slegano e sconnettono, spazio e tempo si deformano, la realtà si frammenta in attimi episodici. Il mio esperimento oggi pomeriggio sarà di viaggiare attraverso i viaggi: riascolto una registrazione dei migliori trip di un gruppo di amici e tento di farne un racconto “logico”.

Ma dove trovare la logica nella più illogica somma di racconti?  Lo chiedo direttamente all’LSD: lecco il mio piccolo francobollo e mi appresto a viaggiare.

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Cala la sera dentro i miei occhi.

Orario d’aperitivo; mi preparo rapidamente e mi avvio sul lungo lago. Gli amici ordinano un giro di martini, seduti ai tavolini retrò dove arriva il richiamo del fiato della risacca che dondola le barche addormentate sull’acqua.

Forse non tutte dormono: dal molo, movimenti veloci di operai al lavoro che scaricano grandi macchine da presa e installano un binario per il dolly. Mi volto; lo scenario è pronto: tutto ha assunto un antiquato color seppia, attori e comparse indossano gli abiti di scena, le facciate che si specchiano nella baia danno vita a un paesaggio settecentesco.

D’un tratto mi ricordo che oggi è il giorno delle riprese! Mi ritrovo avvolta in un abito di raso e pizzo scadenti, camuffata tra i boccoli sintetici di una parrucca bianca e un cappello dalla tesa assurdamente ampia. Guardo il regista, appostato dietro un enorme cono sulla vetta di una scala che sembra infinita, e scoppio in una risata: «Mi dispiace, non ho studiato le battute!».

Le comparse che passeggiano sul lungo lago scoppiano a ridere con me. Qualcuno mi sussurra all’orecchio che è meglio andarsene.

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Vogliamo toccare l’acqua e ci avviciniamo alla banchina. Tra noi e lo spazio riservato alla balneazione, una distesa d’erba in cui ci immergiamo a piedi nudi: nessun sogno tra le nuvole ha mai reso una sensazione così dolce di sofficità e leggerezza. Gli steli verdi sfiorano gli interstizi tra le dita; le terminazioni nervose raccolgono carezze e candore lungo tutta la pianta del piede.

Poi umidità, sassi scivolosi e alghe spesse. Dentro l’acqua, il corpo inizia ad essere un tutt’uno con la spazio attorno a sé, a farsi lago. Sento qualcosa crescere lungo il dorso dei miei piedi: minuscole cuticole biondo-castano sbucano dall’epidermide; rapidamente i bulbi si rafforzano, la corteccia s’inspessisce e il midollo si estende. I peli ricoprono la pelle lungo tutto il metatarso e ancora si allungano fino a diventare morbidi capelli. Osservo stupefatta la bellezza dei movimenti che l’acqua imprime alle mie due chiome, fiera della sinuosità delle loro pose, della femminilità della loro danza. Il tempo s’interrompe in questa contemplazione estetica, nel sottile godimento di micro sensazioni pilifere.

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Devo andare al bagno. Mi sposto in un locale e tento di usare i servizi al piano primo interrato. Salgo e scendo centinaia di scale, contando il numero dei gradini sulle dita dei clienti del locale, finché finalmente e un po’ per caso m’imbatto nell’anelata scritta toilette. Vorrei usare il water, ma lui non sembra voler collaborare e cambia posizione ogni volta che riapro la porta nella speranza di trovarlo ancorato al pavimento. Un pappagallo impagliato osserva la scena da un trespolo posto vicino ai lavandini; insieme costatiamo che una turca sarebbe stata sicuramente più beneducata.

È probabilmente lo stimolo suscitato dal racconto che mi spinge ad aprire gli occhi. Mentre vado al bagno, guardo l’orologio: 17.00. Ancora un paio d’ore, prima dell’aperitivo.

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Sara Ferrari

Nata e cresciuta nelle valli bergamasche a fine anni 80, con una gran voglia di viaggiare, ma poca possibilità di farlo, ho cercato il modo di incontrare il mondo anche stando a casa mia. La mia grande passione per la letteratura, mi ha insegnato che ci sono viaggi che si possono percorrere anche attraverso gli occhi e le parole degli altri; in Pequod faccio sì che anche voi possiate incontrare i mille volti che popolano la mia piccola multietnica realtà, intervistandoli per internazionale. Nel frattempo cerco di laurearmi in filosofia, cucino aperitivi e stuzzichini serali in un bar e coltivo un matrimonio interrazziale con uno splendido senegalese.

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