Poesie di autostrade ed altro sull’autostop
Per uscire da Milano in direzione Bologna basta prendere la gialla fino a Rogoredo e poi con la navetta gratuita farsi portare all’Ikea di San Donato. Da lì bisogna camminare fino alla vicina entrata della tangenziale ed esporsi alla vista degli automobilisti. Si tenga presente che a un’automobile serve un po’ di spazio per fermarsi agevolmente.
Più difficile dirigersi verso Torino: metro rossa fino a QT8 e una decina di minuti di cammino costeggiando il parco Monte Stella. Da lì, solita storia: pollice alzato e cartello in bella mostra.
Per andare verso Genova conviene, da Famagosta, camminare verso nord paralleli al ponte da cui parte la A7 e piazzarsi o al semaforo o all’entrata del distributore di benzina.
Per abbandonare la città sforzesca e dirigersi verso il Veneto invece, occorre, dal capolinea della verde Cologno Nord, raggiungere il ponte che immette sulla Milano–Venezia e camminare per qualche minuto lungo l’erbetta che costeggia l’autostrada sino a raggiungere una piccola stazione di servizio. Una volta lì il gioco è fatto: «Scusi, vado verso Brescia, devo arrivare a Budapest in autostop e se riuscisse a lasciarmi qualche autogrill più in là, sarebbe più facile».
Viaggiare gratis quarant’anni dopo il tempo degli hippy è possibile e pare che i nostalgici, gli squattrinati e i cacciatori di avventure che alzano il dito siano ancora assai numerosi. Numerosi e organizzati, tanto da aver creato hitchwiki.org: una piattaforma virtuale ispirata a wikipedia (il nome stesso è una fusione dell’enciclopedia libera con il verbo inglese “to hitch-hike”, fare autostop. Il sito, di cui non esiste una versione in lingua italiana, oltre a suggerire i miglior posti dove mettersi a cercar passaggi, raccoglie consigli, testimonianze, norme di comportamento in caso di incontri ravvicinati con la polizia e in alcuni casi persino suggerimenti su dove trovare alloggio qualora la tappa in una data città dovesse rivelarsi più lunga del previsto. Si segnalano anche, quando non banali, gli accorgimenti rivolti a viaggiatrici solitarie, disabili in carrozzina e autostoppisti con cani o bambini.
Una delle più vive preoccupazioni legate a questa modalità di viaggio è quella della sicurezza. Presunte leggende metropolitane si sbizzarriscono nel dipingere ritratti di autostrade tempestate di pazzi omicidi e assetati di sesso. Esiste una letteratura in merito, così come casi più o meno celebri di tragici epiloghi (il più famoso è quello di Pippa Bacca, l’artista nipote di Piero Manzoni che nel 2008 è stata uccisa in Turchia durante la performance itinerante che la vedeva attraversare undici Paesi in abito da sposa).
Per quante se ne raccontino, non è possibile stabilire se surfare per stazioni di servizio sia più o meno pericoloso che prendere un aereo. Bisogna decidere a chi dare la propria fiducia e per quanto cinico e riduttivo possa sembrare questo concetto, non c’è molto altro da aggiungere: il bello e il brutto del viaggio in modalità beat generation è che si decide di affidarsi agli eventi e alle persone. Si sceglie di esporsi al mondo in una condizione di totale impotenza: trovarsi per puro caso al posto giusto nel momento giusto permette di apprezzare una chiacchierata con un trasportatore polacco a cavallo dei comodi sedili del suo camion, ma un simile fortuito incontro può avvenire dopo ore trascorse al freddo in una strada poco trafficata di una località sconosciuta. Un viaggio rilassato di qualche centinaia di km può concludersi in piena notte nell’ultima stazione di servizio prima dalla destinazione finale, il che significa che si devono perdere ore prima di trovare qualcuno che si fermi, accetti di dare un passaggio ed esca alla prima uscita facendo sì che si giunga davvero a destinazione.
C’è però nell’autostop un risvolto romantico che non può essere taciuto. Il bisogno di risparmiare due soldi non può essere il solo motivo che spinge centinaia di viaggiatori a cacciarsi in situazioni insolite e a farsi bollare come incoscienti: ci deve essere dell’altro. Forse quest’altro è la sensazione di vivere sentendo il tempo che passa senza poterlo in alcun modo gestire o dominare. Intraprendere un lungo viaggio a pollice alzato costringe a tuffarsi in un presente che diventa importantissimo. L’autostoppista può pensare all’arrivo ma non lo può vedere e di conseguenza si lega a quello che si trova davanti, l’unica certezza che può possedere: autostrade, stazioni di servizio, sudore, nuvole, inquinamento, monotonia.
Quando si arriva in posti come La Jonquera, prima città spagnola oltre la frontiera francese, località di pochi abitanti costruita soprattutto per gente di passaggio, con i suoi negozi di sigarette e di souvenir, con il campo da calcio e la signora che esce a far pisciare il cane in mezzo a paesaggi fatti di camion, si ha la sensazione di vivere con maggiore intensità la sete, il freddo, la gioia, la fame, il sonno.
Per parlare davvero di autostop bisognerebbe ascoltare l’abruzzese che vive a Roma e ha voglia di raccontare di sua sorella che suona l’arpa, o la gentile francese che da Montpellier va a Lione a trovare i genitori e lungo il tragitto ascolta musica trash a volume alto e fuma sigarette senza dire una parola; bisognerebbe scrivere di tutti i tasselli di viaggi di cui non rimangono che le testimonianze e dare voce a quelli che sono stati importantissimi attimi presenti e che ora aspettano solo di essere dimenticati come la polvere ai lati delle strade su cui già cammina un ennesimo anonimo in cerca di un passaggio.
Nella speranza che queste parole che puzzano di spiritualità new age non sembrino l’ultimo discorso di un radical chic che gioca a fare l’illuminato.
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