Il monastero buddhista Yonghegong: scrigno di spiritualità nella capitale
Incoscienti pedoni che camminano a testa bassa sugli smartphone, indelicate spintonate in metropolitana, lotte senza quartiere per un taxi libero nell’ora di punta, è questo il pane quotidiano di un occidentale residente a Pechino. Lungi dall’aspettarsi la compostezza confuciana del mandarino in una metropoli moderna, è pur vero che il rapporto con la popolazione locale può risultare spesso impersonale, quando non distaccato e conflittuale.
Approcciare alla più intima essenza del popolo cinese è tuttavia possibile visitando luoghi ancora permeati della sensibilità autoctona, espressione di una spiritualità millenaria, altrove intorpidita dai dettami di una società freneticamente mutevole come quella cinese.
Uno di questi luoghi è il monastero Yonghegong, o Lama Temple, nel distretto di Dongcheng.
Costruito nel 1694 dall’imperatore Kangxi, deve al suo successore Yongzheng la conversione da corte imperiale a monastero buddhista lamaista e ospita tuttora una comunità di monaci tibetani.
Consta di cinque cortili sui quali si affacciano diversi edifici, ciascuno contenente diverse opere sacre buddhiste, tra le quali spiccano la scultura del Buddha Sakyamuni predicante con i discepoli Ananda e Kasyapa, le statue di bronzo dei Buddha delle Tre Ere e la statua del Buddha Maitreya, alta ventisei metri di cui otto sottoterra, ricavata da un unico tronco di sandalo.
Qualunque approccio occidentale nel visitare questo luogo allontanerebbe il visitatore dal percepire la peculiare atmosfera del Yonghegong. Piuttosto che macchina fotografica e audio guida, è preferibile dotarsi di una discreta arrendevolezza al lento fluire dei visitatori locali e del tempo.
Conseguentemente, verrà naturale partecipare al rituale dell’accensione dell’incenso prima dell’ingresso in ciascuno dei diversi edifici del monastero, al fine di purificarsi prima dell’accesso ai diversi tesori buddhisti. Una fragranza, quella dell’incenso, che arricchisce il silenzio sovrano tra le mura del monastero, che sebbene siano alte pochi metri, ne preservano l’atmosfera sacrale.
All’interno del monastero, è difficile non perdersi nell’osservare i rituali dei visitatori locali, come le ripetute prostrazioni davanti alle sculture votive, effettuate con lo stesso dignitoso raccoglimento da giovani e anziani, eleganti uomini di affari e modeste famigliole. O ancora, l’incedere lento e misurato, scandito dal gorgogliare delle preghiere dei monaci tibetani, avvolti nelle caratteristiche tuniche color ocra. Senza dimenticare l’usanza della messa in movimento delle ruote di preghiera tibetane, o la benedizione di piccoli oggetti votivi, ultimo passaggio prima di varcare le porte del monastero e immergersi nuovamente nel mondo esterno.
Una realtà esterna frenetica e convulsa, che pare riesca solo a lambire questo scrigno di spiritualità incastonato nella capitale. Il paradosso è come sempre dietro l’angolo: l’accesso alla avveniristica metropolitana e la giungla cittadina di cui è espressione sono a pochi passi dall’ingresso del monastero.
In copertina ph. The Erica Chang [CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]
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