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Intervista’l’musicista: Jonathan, il chitarrista del Giovedì

La crescita personale di un musicista da sempre autodidatta che sfocia nella realizzazione di un disco è la storia che io e Jonathan Locatelli vi raccontiamo oggi. Chitarrista di nascita, polistrumentista per passione, classe 1988 e nativo della valle Imagna (BG): «Dico sempre di aver iniziato a suonare a dodici anni anche se ho sempre ascoltato tantissima musica, l’ho sempre amata sin da bambino grazie ai miei genitori».

Consiglio di lettura: accomodatevi in un prato scintillante, respiratene il profumo e mettete in sottofondo i consigli musicali di Jonathan che trovate a fine articolo –  Third Ear Band, Earth e Comus, Diana.

FOTO1 (1)       Foto di Monelle Chiti (link)

Quali sono state le tue prime passioni musicali: le musicassette e i cd che hai consumato?

Sicuramente Tracy Chapman! L’ascoltavo quando ero piccolissimo, a sei anni ed era una cassetta che era proprio mia: me la mangiavo con il mio walkman. Così come Legend di Bob Marley.

Parlami del tuo percorso musicale: quando hai iniziato a suonare, le band del liceo, le esperienze che ti hanno fatto crescere come musicista e che ti hanno portato alla realizzazione di Giovedì con i Rich Apes.

Sono un autodidatta: mio zio Claudio Iacchetti (il disco è dedicato a lui!) fu il primo a mostrarmi i primi accordi; quando iniziava a suonare la sua chitarra rimanevo completamente affascinato. Già alle superiori mi mettevo in mostra suonando per affascinare le ragazze– non serviva, ero troppo sfigato! A diciassette anni ho iniziato a suonare in un tributo molto “grezzo”  a Jimi Hendrix, fu un’esperienza bella e suonammo davvero tanto. Poi con i Violaspinto (link), per circa un anno. Diventai più disciplinato: ero un “cane sciolto”, molto chitarristico, egocentrico e con loro ho imparato la dimensione di gruppo: “sacrificare” il proprio strumento per incastrarsi con gli altri e puntare al bene del risultato finale. Successivamente con Sakee Sed (link) ho provato per la prima volta l’ebbrezza di un tour (penso di aver perso tre anni di vita per colpa, o grazie a loro).

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Ora sei approdato in questo nuovo progetto tutto tuo, con un nuovo gruppo.

Si, è qualcosa che avevo dentro da tantissimo tempo ma che ho sempre rimandato perché non mi sentivo pronto. Il gruppo si chiama Rich Apes (Scimmie Ricche): è la definizione dell’essere umano, una scimmia con i soldi. L’album s’intitola Giovedì, il giorno dei matti (link).

I brani sono stati tutti composti da te?

Sì. In primis ho registrato, con Luca Mazzola alla batteria. Successivamente sono stati aggiunti i bassi, gli arrangiamenti e le voci.

Ci sono anche strumenti abbastanza inusuali per una “classica” band.

Sì, abbiamo avuto Matteo Muscas alle launeddas, Stefano Armati al contrabbasso e Jacopo Moriggi al didgeridoo, ma sempre sotto il mio indice vigile (sono molto zappiano e autoritario, geloso dei miei brani).

Esiste un filo conduttore all’interno del disco?

No! È musicalmente incoerente, poliedrico, non ricorda nulla in particolare ma tante cose diverse; credo rispecchi la mia formazione musicale e il modo in cui ho imparato a suonare: non prendendo lezioni da qualcuno ma “rubando” da ciò che ho ascoltato. Diciassette brani: nove cantati in italiano e otto strumentali – alcuni sono dei “caroselli” – dei ponti musicali tra un brano e l’altro – brani cortissimi, alcuni di questi cantati con un linguaggio inventato che ricorda il Grammelot.

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Come è avvenuta la scelta dei musicisti per questo progetto?

Ho registrato tutto insieme a Luca. Suoniamo insieme da molto tempo, soprattutto in loop, ma non mi sentivo più di usare questa tecnica: troppo meccanica, con troppe difficoltà anche nel gestire la linea vocale. Volevo avere più libertà d’interpretazione. Da qui l’idea di chiedere ad altri musicisti e allargare il progetto a Gabriele Ferreri, un amico con cui si è creata sin da subito una bella sintonia musicale e non solo. Poi, ad un concerto degli Attribution ho visto il chitarrista Marco Pasinetti suonare e ho pensato “Oh! Finalmente qualcuno che sa suonare e che suona!”.  Questo perché noto che spesso i musicisti investono tempo, soldi ed energia in cose che non riguardano la musica in sé, ma va bene! Perché anche l’ufficio stampa, le recensioni, i curriculum sono importanti, questo però deve portarti su un palco e se la parte suonata viene meno all’aspettativa che hai creato è triste; va bene l’attitudine ma il punk è finito! Bisogna saper suonare.

Uno strumento che avresti voluto imparare a suonare? Un tuo “rimpianto musicale”?

Da piccolo volevo suonare la batteria ma i miei genitori non volevano fracasso. Rimpiango di non aver iniziato prima a cantare, perché è diverso da qualsiasi strumento e occorre avere una buona base tecnica.

Lasciami un tuo pensiero musicale.

Ho capito che la chiave è il ritmo. Hai una chitarra, ti si spaccano cinque corde e te ne rimane una? Puoi comunque creare musica se ti avvali del ritmo.

Un consiglio d’ascolto per i nostri lettori?

Earth, dei third ear band

Diana dei Comus

 

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Sara Alberti

Nata sulle colline bergamasche nel 1989, percuoto dall’età di otto anni, quando ho iniziato a studiare batteria e percussioni da orchestra nel Corpo Musicale Pietro Pelliccioli di Ranica (W la banda!). Dopo essermi barcamenata tra le varie arti, la Musica ha avuto la meglio e mi è valsa una laurea in Musicologia. Profondamente affascinata dal vecchio e dall’antico, continuo a danzare e suonare nella Compagnia per la ricerca e le tradizioni popolari “Gli Zanni” e per il mio grande amore balcanico Caravan Orkestar. Su questa nave di pirati sono la responsabile della sezione Nuove Premesse, della cambusa e della rubrica musicale.