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Genova in cerca di graziose e memoria

Stazione Principe. Gennaio.

Due giorni di pellegrinaggio per la città con fare vagabondo di chi è sceso per vita alla fermata casuale, sapendo poco nulla del paesaggio ospite. Solo due intenti prefissati:

-girare le zone d’ombra, ispezionarne ogni vicolo, per una maturata idolatria verso la sensibilità di un Fabrizio passatoci;

-ripercorrere ritualmente le strade che fecero da scenario alle giornate del Luglio 2001; testarne l’empatica ferita.

Imbocco la prima via, random, cinque minuti di “tonnara” di passanti e trovo una scalinata;

il primo bacio lo ricevo qui.

Da un pulpito, dalla tribuna elevata frequento il tramonto esaltato dalla caoticità con cui i palazzi hanno deciso di fondere in un tutt’uno la Casa di Genova, la città che scende nell’arancione indistinto di mare e vespro.

Attraverso quartieri. Tante chiese, belle, con apice nella cattedrale semi-gotica di S. Lorenzo.

Ma non è il principale interesse del momento: cerco forni.

Predo specialità in più d’un panificio con curiosità culinaria e sentenzio:

“I Genovesi sono esosi & la focaccia cui siam abituati è un succedaneo scarsino.”

È masticando e con le papille gustative sorridenti che penetro i vicoli in notturna: dal patrimonio mondiale dell’umanità dei palazzi dei Rolli al genuino e brulicante degrado dei carruggi.

Fortezze dei “fuoricasta”, le venature del dedalo ospitano laboratori artigianali, piccoli magazzini, negozietti regolari e non, carne e lussuria e, là dove le vie s’allargano, market e pub.

Ricerco il mio ostello nella zona alta, su per le scalinate (le famose creuze); dagli usci spande sgraziata musica latina; i corpi delle donne ritmati da una cinica, innocente cecità.

Non c’è alcuna graziosa in Via del Campo.

La mattina discendo la città obliqua: sulle banchine e nell’odore forte di pescato, più che in ogni altro scorcio, sta l’anima d’una città portuale. Potresti camminare tutto il giorno lungo gli approdi e Genova e il suo mare continuerebbero a raccontarti una storia intima.

Lasciando le acque e la tavolozza dei condomini svolto a palazzo S. Giorgio (calderone architettonico dove 800 anni di storia convivono) per addentrarmi nel centro nevralgico.

Piazza de Ferrari si apre nel suo eclettismo e neoclassicismo dove gli edifici suggeriscono, con le loro sinuosità, l’incanalarsi nelle fughe di Via Dante e Via XX Settembre.

Da qui divento Genovese. Vado come fossi nella mia città: vedo le piccolezze, le aiuole, i passanti, il “normale”.

Corso Torino: le scritte sui muri aumentano, rievocano nubi bianche, detriti.

Via Montevideo: la fantasia galoppa. Indietro di una dozzina d’anni. Persone piegate, grondanti.

Una giovane mi passa appresso. Me ne innamoro.

Piazza Alimonda: ritorno all’attuale (sono infastidito da idiozie opposte).

È come il passeggiare in un cimitero per un ateo: qui lo spirito interroga la sua natura.

Faccio su un tabacco e penso che a Fabrizio la sua città avrebbe dato ancora tanti spunti di scrittura.

Ho il treno tra due ore e un’ultima tappa.

È architettura fascista, non ci avevo fatto caso prima. Un bel bagno di sole la coccola tutta ma nemmeno una targa a scopo informativo, nessun monito da far scintillare.

Due studenti sembrano divertiti dalla presenza di un “turista” davanti alla loro scuola, sghignazzano verso il mio look fricchettone. Non ricordano dove stanno.

Ma ha senso che lo ricordino?

E poi come potrebbero?

Tutto è stato lavato via.

 

 

In copertina: Facciata del Duomo di San Lorenzo [ph. Yoggysot CCA-SA 3.0]

1101, creuze, Deandre1, Fabrizio De André, featured, Genova, via del campo


Davide Tacchini

Classe '89, nato in provincia bergamasca, vivo i ¾ dell'anno in un piccolo paesino rurale nella maremma toscana dove mi occupo di orticoltura, giardinaggio e agriturismo. Negli ultimi anni ho viaggiato parecchio nel centro-sud Italia vagabondando e ricercando luoghi non comuni fino a convincermi che paesaggisticamente questo paese natale offre bellezza per una vita intera. Così mi intrufolo in Pequod con l'intento di condividere il bagaglio accumulato e razionalizzare l'esperienza del mio muovere.