Da Abidjian al Piemonte per fuggire la guerra
Seduto al tavolo esterno del bar dove mi aspetta, Moussa, sigaretta nelle labbra e cellulare tra le dita, impone la mole della sua muscolatura scura e definita sull’intonaco bianco della facciata. Da lontano, la sua immagine è una fotografia rappresentativa d’una virilità moderna: forte e impegnato, sicuro e attivo. Ciò di cui si appresta a raccontarmi, del resto, richiede tutta la forza d’un uomo per essere vissuto, sebbene lui fosse solo un ragazzo quando la guerra ha bussato alla sua porta e a quella di tanti suoi compatrioti, anche più giovani di lui. La guerra ha bussato e gli ha chiesto di fare una scelta; Moussa ha lasciato la casa cui quella porta era infissa.
Nato negli anni ’80 ad Abidjian, capitale della Costa d’Avorio, e figlio di un imam, Moussa mi racconta di un’infanzia semplice e spensierata; di una famiglia numerosa alla maniera islamica, con tre madri e un folto gruppo di fratelli delle più disparate età; di un quartiere multiculturale, multietnico e multireligioso, aggregato dall’appartenenza a una comunità ormai consolidata da anni di rispetto reciproco.
«Anche se non eravamo uno stato economicamente stabile, vivevamo in pace. Nel 2000, tutto cambiò. Alle elezioni statali erano stati commessi dei brogli per non fare eleggere Ouattara; i suoi oppositori sostenevano non fosse ivoriano perché il padre era originario del Burkina Faso, offendendo i cittadini discendenti dei numerosi migranti dei paesi vicini. Da un giorno all’altro scoppiò la guerra e il paese si divise. Da un giorno all’altro le persone si riconoscevano in base a religione ed etnia. Da un giorno all’altro io fui, prima di tutto, musulmano e djoula.»
Lo sguardo di Moussa si fa docile e vago, mentre mi racconta dei pochi mesi di guerra civile che ha vissuto: «Ci si muoveva sempre con prudenza e di soppiatto, come i gatti. Di ogni rumore cercavamo di capire l’origine; non potevamo più fidarci di nessuno ed io, avendo sempre frequentato ragazzi cristiani, mi ritrovai senza amici.»
Un episodio notturno ha spinto Moussa a partire: svegliandosi, una pistola puntava la sua fronte. «Era l’arma che di notte tenevo sotto il cuscino, in caso qualcuno entrasse in casa. In quel momento mi resi conto che avrei dovuto fare una scelta: per i musulmani, avrei dovuto riconoscere il mio sangue djoula e uccidere il nemico cristiano; per i cristiani, avrei sempre rappresentato un pericolo. Scelsi di non uccidere e di partire per l’Europa.»
Grazie alle conoscenze del padre, a vent’anni Moussa prese l’aereo che gli garantì di avere salva la vita; atterrò nel nord d’Italia e venne rifugiato in un paese sulle montagne del Piemonte. «L’organizzazione del viaggio fu rapida; solo quando l’aereo decollò, mi fermai realmente a pensare a ciò che stavo facendo: lasciavo il mio paese, la mia famiglia, la mia vita. Chissà chi avrei potuto rivedere, chi non avrei rivisto mai più. Sapevo che non avrei più riavuto l’armonia e la serenità della mia adolescenza. Atterrando, il freddo penetrante del vento europeo, l’orizzonte chiuso dalle montagne, il cielo così opaco; mi sarebbe mancata la mia terra, il suo sole, il calore della sua gente.»
Oggi, la vita di Moussa si è stabilizzata in Italia: lavora come falegname e condivide un appartamento con due compatrioti; la Costa d’Avorio è uscita dalla guerra, ma ancora non può definirsi un paese del tutto stabile. «Ho imparato ad amare la terra in cui vivo, il vento fresco d’estate e il modo in cui la società è organizzata. Potrei tornare in Africa, ma ho perso molto di quello che avevo a casa; non sono la stessa persona che è partita e il mio paese non è lo stesso che ho lasciato. Ma certo un giorno vorrò rivederlo.»
In copertina: vista aerea del quartiere Plateau di Abidijan, Costa d’Avorio [particolare dalla fotografia di Marku1988 CCA-SA 3.0 by Wikimedia Commons].
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