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Per uno stato che non tortura

Sotto la pioggia quell’agente mi raccontava di qualcuno che non somigliava a mio fratello. Continuava a ripetermi che si era lasciato andare. Ed io continuavo a non capire. Ho fatto due tre domande, evidentemente troppe, visto che lui alla fine con aria infastidita mi ha detto: “Comunque controllate le carte, sono a posto”. Le “carte” che ti fanno sentire ancora più sola.
E cosa c’entrano le carte con la morte di mio fratello?
In un istante la disperazione è scomparsa.
In un istante è arrivato il senso di solitudine.
In un istante ho capito che se volevo trovare risposte alle mie domande avrei dovuto rimboccarmi le maniche. Ed essere forte.
Ilaria Cucchi

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Questa settimana in cui parliamo di opposizione al potere nell’anniversario della morte di Boris Nemcov, avversario politico di Putin, il tema della repressione e dei morti di Stato grida vendetta. L’incredulità e la rabbia per la morte di Giulio Regeni ancora bruciano e riportano la pratica della tortura al centro del dibattito. Reato che in Italia non esiste e che ci catapulta sullo stesso livello oscuro di una dittatura poliziesca come l’Egitto di oggi, in cui la tortura di Stato è utilizzata con gli oppositori o sospettati tali, sempre più frequentemente. L’Onu, la corte Europea dei diritti Umani, le famiglie delle vittime, Amnesty International e altre centinaia tra associazioni, ONG e una società civile sempre più cosciente chiedono che l’impunità abbia finalmente fine. Dopo timidi tentativi al ribasso, da mesi il ddl sull’introduzione del reato di tortura è fermo al Senato e si è smesso di parlare dell’argomento, secondo un copione che è sempre lo stesso. Rimandare la questione  a quando sarà più conveniente per i sondaggi o, meglio, non discuterla mai. Renzi, piuttosto che affrontare il tema pubblicamente e in parlamento, ha preferito proporre di pagare per intero il risarcimento alle vittime della Diaz chiedendogli però di ritirare i ricorsi a Strasburgo. La posizione del governo è chiara, meglio dimenticare alla svelta questa brutta storia annullando le sentenze in arrivo dalla Corte Europea lasciando il vuoto giuridico che continua a proteggere chi tortura e ha torturato. Chi di questo, invece, ne parla e non si lascia intimidire dalle difficoltà nell’affrontare pubblicamente e politicamente il tema sono i curatori del libro Per uno Stato che non tortura di Caterina Peroni e Simone Santorso.

«Il libro è un primo tentativo e l’unico finora in Italia di provare a ricomporre una serie di discorsi di ambiti disciplinari e esperienze diverse intorno agli abusi in divisa per costruire un nuovo paradigma di lettura. E’ un tentativo organico di rivedere la questione della tortura e degli abusi istituzionali, al di là degli episodi. Abbiamo tentato di fare ciò perché queste violenze rappresentano una brutale normalità che ha già fatto troppe vittime. E’ un fenomeno radicato all’interno delle istituzioni. Non stiamo parlando “solo” di abusi di polizia, dobbiamo ricordarci che di divise ce ne sono tante» ci ricorda Caterina durante una chiacchierata negli spazi del BiosLab a Padova.
«Quando oggi nominiamo i morti di Stato subito capiamo di cosa stiamo parlando. Questo accade perché qualcuno è riuscito a nominarlo e a farlo emergere come problema strutturale. Non una denuncia episodica, non eccezioni o mele marce ma pratiche intrise d’odio e fascismo. E’ solo grazie ai familiari dei morti ammazzati nelle caserme o durante fermi che oggi riusciamo a ricomporre queste violenze in un discorso strutturale. Grazie a loro si è riuscirti ad agire la denuncia in maniera politica e non solo giudiziale e vittimistica.
Ilaria Cucchi, che per me è un mito, è riuscita a esporsi per anni chiedendo la verità occultata sulla morte del fratello e a fare in modo che altri casi venissero ricondotti allo stesso frame. Lei e Patrizia (madre di Aldrovandi) si sono messe d’accordo e si sono unite per dare visibilità a altri casi simili ai loro creando ricomposizione».

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Il libro è diviso in tre sezioni. La prima parte riguarda il diritto e quindi il dibattito intorno alla legge che non c’è. Dibattito interessante e controverso riguardo di quale legge abbiamo veramente bisogno e come sviluppare in essa il concetto di tortura. Reato che non può essere commesso da chiunque ma è messo in atto da chi ha il potere per diritto. Esso è un reato specifico delle istituzioni argomenta Mosconi, è un reato messo in atto da chi dispone dei corpi per diritto. Esistono altri reati per giudicare violenze, lesioni, omicidi ma è diverso e più grave se un poliziotto o un medico fa violenze su chi è sottoposto alla loro tutela.
Gli autori tentano inoltre di uscire dal concetto di tortura visto “solo” come estorsione di informazioni derivato dal diritto di Guantanamo e della guerra al terrorismo. Il nuovo paradigma securitario produce infatti soggetti di serie B, nel libro chiamati “gli infami”, che hanno meno diritti dei normali cittadini. Soggetti che vengono declassati che hanno meno diritto alla vita perché migranti, tossici, barboni.. E’ in atto una rappresentazione denigratoria di questi soggetti devianti che finiscono per essere considerati corpi sacrificabili.
Altro punto di discussione riguarda il connotato della reiterazione che una violenza dovrebbe avere per essere considerata tortura. Essa dovrebbe essere composta da una serie di atti reiterati per essere definita tale. Si cerca di smontare quindi questa raffigurazione al ribasso del reato nonché tentativo di svuotare il concetto di tortura paragonandolo a un reato comune. Se avviene un waterboarding una volta ha bisogno di essere ripetuto per essere considerato tortura?

La seconda sezione empirica e di ricerca affronta tutte le forme di tortura messe in atto dall’autorità che tiene qualcuno privo della libertà e che quindi dispone dei corpi dei soggetti che tiene in custodia. E’ un discorso ampio che riguarda tutte le figure istituzionali. A partire dai Cie con l’assurda detenzione amministrativa, agli OPG e tutti i discorsi sulla contenzione. La sezione sulla violenza inizio con un saggio di Salvatore Palidda che sviluppa un discorso sulla polizia. Tortura e violenza della polizia entrano nel quadro della postmodernità liberista della guerra permanente e nella guerra portata a casa.
Altro tema che viene snocciolato da Santorso riguarda la violenza del carcere come forma di tortura. Misure e condizioni carcerarie disumane che possono essere considerate tortura e per cui in passato Strasburgo ha già condannato l’Italia a risarcire i detenuti.

La terza parte indaga le forme di resistenza nate dall’attivismo di familiari, persone coinvolte e esperienze militanti. Episodi che hanno prodotto processi di soggettivazione, presa di consapevolezza e prodotto una denuncia aperta e dolorosa. E’ grazie a  Ilaria Cucchi, Patrizia Moretti, Lucia Uva che si ha avuto un ricomposizione e oggi si parla di morti di Stato in maniera strutturale e non episodica. Loro, tutte donne, e non è un caso, hanno sollevato la questione della tortura e persino governo e parlamento l’hanno dovuto affrontare per poi affossare le legge. Questa è  anche una questione di genere, di violenze agite sia da uomini che da donne ma che ha radici profonde in una cultura machista e fascista molto forte. Cultura sviluppata negli addestramenti intrisi di violenza autoritaria, umiliazioni, sadismo e forme di prevaricazione come spiega Checchino Antonini nel suo saggio.

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Nella scrittura del libro partecipa anche Acad, Associazione Contro gli Abusi in Divisa, che nasce dalla volontà di dare sostegno alle famiglie delle vittime e a coloro che non hanno accettato una verità giudiziaria che troppe volte garantisce impunità a chi indossa una divisa. Il progetto vuole essere un piccolo ma concreto impegno di lotta a fianco di chi ha subito abusi: dal supporto legale, al divulgare e portare a conoscenza dell’accaduto, ad un numero verde di pronto intervento, perché non si ripeta ciò che è successo già troppe volte.

Perché se la giustizia fosse davvero giusta e davvero uguale per tutti, seguirebbe un percorso dovuto e regolare e soprattutto lo seguirebbe indipendentemente dagli sforzi disumani che invece vengono chiesti a persone che hanno subito un sopruso così grande.
Insomma se in quel preciso istante non avessi deciso di combattere, perché di combattere si trattava e si tratta ancora, mio fratello Stefano sarebbe ufficialmente morto “di suo” come tanti, troppi altri ogni anno nelle nostre carceri, nei commissariati, nei centri di detenzione per migranti.
Invece non è stato così.
Ilaria Cucchi

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Livio Amigoni

Vissuto a Bergamo fino all’età di diciannove anni, mi trasferisco a Padova per studiare Psicologia senza troppe pretese e idee chiare sul futuro. Ispirato da un viaggio in Etiopia e vivendo le travolgenti mobilitazioni universitarie contro la riforma Gelmini mi iscrivo l’anno dopo a Scienze Politiche. Iniziano qui anni di attività politica dentro e fuori l’Università, prima con il collettivo Reality Shock e poi con il nascente Bios lab. Citando Foucault posso dire che l’obiettivo che mi ha guidato in questi anni non è stato quello di “scoprire cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare”. Sempre ispirato dallo stesso, mi sono laureato nell’estate del 2014 con una tesi sulla Parresia e il coraggio della verità riattualizzando i classici Greci. Amo viaggiare e stupirmi, da un anno sono vagabondo fuori dall’Italia e mi piacerebbe riportare qualcosa a casa tramite la nave di Pequod.