Demolire la cultura
Immaginate una gomma da cancellare che si accanisce sul disegno al quale ha lavorato un artista del passato: così potremmo descrivere lo scempio che i militanti dell’Isis stanno portando avanti negli ultimi anni.
Poche volte nella storia si è visto un tale disprezzo nei confronti del patrimonio culturale. Non si tratta di conquistatori che rimuovono i simboli di un popolo sottomesso, né di un regime dittatoriale che vuole sbarazzarsi di una corrente anticonformista: ci troviamo di fronte alla distruzione sistematica di beni comuni ad opera di fanatici che non annoverano la memoria storica tra i propri valori.
L’Isis non conserva, distrugge, e lo fa trovando motivazione nell’avversione per le immagini, predicata dall’Islam e più in generale dalla cultura araba più radicale. Il fanatismo, d’altronde, è la peggiore minaccia alla cultura: chi vede il mondo con i paraocchi non fa che perseguire il suo obbiettivo, a qualsiasi costo, e nulla può fargli cambiare idea.
Ma qual è la “cultura” che l’Isis sta distruggendo? Si tratta dell’insieme delle tradizioni e delle testimonianze che si sono sedimentate nel corso del tempo nei territori da loro occupati; è parte della stessa cultura che ci impegniamo a tramandare in quanto patrimonio della collettività; non solo patrimonio materiale ma un concetto universale, che ogni civiltà ha diritto a veder riconosciuto e valorizzato.
Innegabile che il primo pensiero vada alle popolazioni assediate dalla violenza quotidiana e costrette a fuggire: la vita umana vale più di ogni cosa, ma è anche vero che combattere etnie o minoranze religiose è un altro modo per cancellare il passato e quindi la cultura di un luogo. Assieme alle persone, allora, a rischiare la vita sono le vestigia del passato.
Palmira è uno dei simboli di questo dramma. Da splendido fiore all’occhiello della cultura siriana a mera pedina strategica e propagandistica nella trattativa tra esercito nazionale e terroristi: ai barbari dell’autoproclamato Stato Islamico poco importa che qui si siano succeduti Greci, Parti o Romani, lasciando ammirevoli esempi architettonici come traccia del loro passaggio; ciò che conta è rimuovere dalla memoria del mondo tutto ciò che non sia frutto e manifesto della loro idea di Islam.
Se non possiamo recuperare quello che è stato distrutto (certo non mancano illustri ricostruzioni post-belliche, come il monastero di Montecassino o il nordico centro storico di Dresda), possiamo rimediare in parte a quanto accaduto attraverso il ricordo: le mura di Ninive, le monumentali sculture leonine di Raqqa e anche le stesse moschee demolite dallo Stato Islamico sono “martiri” che non possono sparire dalla memoria collettiva.
Come ci siamo indignati di fronte ai talebani che col tritolo demolivano le grandiose statue di Buddha, così siamo rimasti inorriditi di fronte alla brutale esecuzione di Khaled al-Asaad, ex direttore dei servizi archeologici di Palmira, e al conseguente saccheggio dei reperti museali, venduti al mercato nero per far cassa – perché ovviamente va bene essere estremisti, ma quando si tratta del dio Denaro non c’è fede che tenga.
Anche l’Occidente ha fatto errori in passato in nome della religione: abbiamo cancellato culture considerate “primitive” per imporre quella del dominatore, popolazioni intere sono state sterminate in nome della superiorità dell’uomo bianco, ma ora, consci di quanto sia assurdo negare il diverso, si fa sempre più forte il dovere morale di non dimenticare le antiche bellezze distrutte né di voltare le spalle a quella parte di umanità e di storia che fuggono per non morire e svanire.
1803, featured, Iraq, ISIS, Khaled al Asaad, Ninive, Palmira, Raqqa