Bulli di ieri, vittime di oggi: quello che (non) cambia
Greta ha dodici anni e l’aspetto tipico di un’adolescente: il fisico sottile che lascia intravedere un approccio di forme femminili, la pelle fresca intervallata da qualche punto nero, il sorriso timido decorato da un apparecchio argento. Osservandola, niente fa pensare che possa essere diversa da una qualsiasi altra sua coetanea né che possa essere pensata come una vittima o una minaccia. Eppure nell’ultimo anno, Greta si è vista escludere dal gruppo-classe e diventare bersaglio delle “leader” della classe.
«Tutto è cominciato quando mi sono ammalata e ho dovuto trascorrere molto tempo in ospedale perché i medici non capivano il mio problema: avevo dei forti cali di pressione, quindi non potevo andare a scuola perché rischiavo di svenire in qualsiasi momento. Un po’ alla volta il rapporto con le mie compagne è cambiato: capitava che mi passassero le lezioni sbagliate e quando rientravo a scuola, ero spesso esclusa dai discorsi. All’inizio non ci facevo troppo caso: pensavo che fosse abbastanza normale non essere troppo coinvolta. Non avevo capito che alcune compagne cercavano sempre più di escludermi».
Sguardi maliziosi, risatine soffocate, parole sprezzanti appena sussurrate. Fino a quando la cattiveria gratuita non cerca nemmeno più di mascherarsi.
«Ho avuto la certezza di essere presa di mira durante le vacanze, il giorno della festa di compleanno di Maria. Su WhatsApp una compagna di classe, la “leader”, ha scritto che non potevo andare alla festa perché secondo lei e le sue amiche io ero una persona falsa e bugiarda. Da questo primo messaggio ho scoperto una realtà di cui non mi ero accorta: da quando mi ero ammalata, alcune compagne di classe avevano iniziato a sostenere che in realtà fingevo di svenire e non avevo alcun problema di salute; per sostenere questa tesi, avevano nei mesi inventato una serie di mie fantomatiche bugie, cui il resto della classe aveva creduto. Da quel giorno hanno smesso di tenere la cosa nascosta: per il resto delle vacanze ho ricevuto nella chat di classe ogni tipo di accusa, letto false storie su di me e ricevuto diversi insulti. Tornati a scuola, i compagni semplicemente mi ignoravano, parlavano alle mie spalle usando un soprannome per deridermi».
Quando Stefano e Michele (nomi di fantasia) andavano alle medie WhatsApp non c’era, ma quindici anni fa probabilmente avrebbero fatto parte dei bulli, quelli da cui Greta si sente minacciata. Oggi Stefano lavora in mezzo ai ragazzi, come educatore, e nel tempo libero ama viaggiare e suonare la chitarra. Anche a Michele piace la musica, tanto che ci mostra entusiasta la sua raccolta di vinili mentre cambia disco: «Ecco, questo è il mio preferito, l’ho scovato in un mercatino vintage a Londra»
Loro non conoscono il cyberbullismo, ma ci raccontano di come all’epoca, con la loro “banda”, si sentivano i più forti. «Si prendevano di mira i bersagli facili, i più “sfigati”; in generale le persone più sensibili e deboli, quelle che si consideravano diverse dalle altre perché portavano vestiti fuori moda, per il loro aspetto fisico…». E ci confessano, non senza imbarazzo e senso di colpa, che finivano nel mirino anche i compagni «con la pelle di colore diverso, i ragazzini che ci sembrano più effeminati, addirittura quelli con disabilità fisiche».
Come Stefano e Michele, anche la “leader” della classe di Greta non è un’adolescente “problematica”, con una situazione familiare complicata: «È una ragazza come tante, non è particolarmente bella né ha un’intelligenza superiore alla media; semplicemente ha molto più tempo libero ed è spesso connessa a WhatsApp. Parlava alle mie spalle e mi scriveva messaggi offensivi in chat, ma quando ci incontravamo faceva finta di niente. Piuttosto preferiva istigare gli altri a prendermi in giro: spesso erano i maschi a fare battute su di me in classe».
Un odio sottile, che senza creare troppo scalpore lasciava un segno profondo, in Greta e in tutti gli adolescenti di ieri e di oggi che nel meccanismo spietato del bullismo si ritrovano dalla parte delle vittime. Un gioco crudele che troppo spesso passa inosservato: «A parte qualche strigliata nessuno ha mai dato troppo peso quello che facevamo. Anzi, i rimproveri ci facevano sentire ancora più esaltati, invincibili – ricorda Michele – Addirittura quando facevamo a botte in classe i professori non dicevano nulla».
«I miei genitori però si sono accorti che qualcosa non andava, mentre per me diventava sempre più difficile tornare a scuola ogni mattina – racconta Greta – Hanno controllato il mio telefono e messo in allerta gli insegnanti, finché un giorno la coordinatrice ha sentito un compagno chiedere chi volesse escludermi dall’ennesima attività ed è intervenuta. Uno psicologo è venuto in classe per parlare di quello che stava succedendo, mentre tutta la scuola ha letto un libro sul bullismo e trattato dell’argomento. I miei compagni mi hanno chiesto formalmente scusa e io ora ho molto meno disagio in classe».
I bulli non cambiano, è vero, ma forse intorno a loro qualcosa inizia a muoversi. Una sensibilità diversa che da qualche tempo anima le coscienze degli insegnanti, sempre più attenti al benessere emotivo degli alunni, a volte anche privilegiando la loro felicità al mero profitto.
Questa attenzione si è rivelata fondamentale per Giada: «È stato utile per me, per risolvere la mia personale situazione. Però non credo che abbia avuto efficacia nel prevenire comportamenti di bullismo perché non ho visto cambiare l’atteggiamento delle mie compagne: hanno smesso di prendere me di mira, ma di fatto continuano a cercare vittime su cui rivalersi».
Anche Stefano riconosce che oggi c’è maggiore consapevolezza del problema, che non riguarda solo chi lo subisce, ma anche e soprattutto chi con prepotenza si accanisce contro i più deboli. Per Michele addirittura «non si riuscirà mai ad estirpare del tutto il bullismo, è un processo naturale della crescita. Ci sarà sempre il più forte così come ci sarà sempre il più debole». Le sue sono riflessioni disilluse, arrivate tanti anni dopo quei giorni in cui quella prepotenza era la normalità, in cui a pensarci non c’era nulla di sbagliato nel prendersela con qualcuno senza motivo.
La musica è finita, il giradischi s’è fermato. E nel silenzio dei suoi ricordi, Michele conclude: «Pensandoci adesso odio questa cosa».
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