Musicoterapia è ascoltare il silenzio dell’altro
Alessandra e Clara sono due diplomande in musicoterapia presso il Centro Artiterapie di Lecco e dal 2012 hanno iniziato un proprio percorso personale nel mondo della musicoterapia. Molte le esperienze con pazienti affetti da autismo: dal tirocinio presso lo Spazio Autismo di Bergamo, al ruolo di assistenti educatrici e laboratori di musica proposti alle scuole.
Mi parlano di una terapia “attiva”, di un dialogo anche avviene attraverso suoni e parole, un dialogo sonoro in cui non necessariamente è presente l’elemento melodico o armonico: il raggiungimento della bellezza sonora, in questo tipo di terapia, è uno dei livelli a cui si può arrivare e la presenza di uno o più strumenti suonanti è un mero supporto per accompagnare il dialogo. Continuano: «quello che caratterizza questo tipo di terapia, l’elemento musicoterapico per eccellenza, è il linguaggio non verbale così come avviene nelle artiterapie in generale – come la danzaterapia e l’arteterapia. Il canale musicale è quello che viene favorito. Nel dialogo tra terapeuta e paziente si lavora sulla relazione e sull’empatia, attraverso quelle che vengono chiamate sintonizzazioni affettive».
Riprendendo le parole di Wolfgang Fasser, l’attenzione si sposta sul ruolo fondamentale che ha il silenzio in questo tipo di terapia: quando, ad esempio, il terapista e il paziente stanno in silenzio è perché, di fatto, il terapista sta studiando la sua terapia, sta entrando il contatto con il paziente stando sul suo stesso livello di silenzio. Essenziali quindi gli sguardi e il linguaggio non verbale, o verbale ma non nel senso convenzionale del termine: nella musicoterapia le parole vengono utilizzate con suoni, come musica; è solo mettendoti allo stesso livello di linguaggio non verbale dell’altro che si riesce a far emergere la sua luce interiore.
È questo uno dei motivi per cui i musicoterapisti preferiscono avere dei tempi particolarmente lunghi, mi spiegano: «Pianificare una terapia di dieci incontri non serve a nulla, i risultati arrivano dopo un lungo periodo (parliamo di anni). Non bisogna spaventarsi di queste tempistiche molto dilatate e soprattutto non farsi spaventare dalle reazioni e dalle aspettative di genitori, dirigenti, ecc… Con il fatto che sei tu, musicoterapista, a dover aspettare, non ti aspetti nulla perché non devi far dire qualcosa alla persona che hai in cura e l’attesa porta a quello che il paziente vuole esprimere e dire. Può anche non far nulla perché poi, quello che fanno di loro spontanea volontà è davvero ciò che il paziente vuole comunicare».
Setting: è l’ambiente in cui si svolge l’intervento, cioè l’incontro dell’altro e, in teoria, dovrebbe essere il più neutro possibile. Pareti bianche, privo di stimoli per permettere di sentirsi il più liberi possibili senza connotazioni particolari imposte. Serve anche, e soprattutto, per far sentire a proprio agio chi entra. «A volte però capiti in alcune scuole o spazi dove è difficile trovare stanze così, occorre fare i conti con le strutture attuali. Con i pazienti autistici tutto deve essere pensato e simile da una seduta all’altra e gli spostamenti che decidi di apportare all’interno del setting devono essere simili alla situazione di partenza o giustificati dal percorso che hai deciso di seguire. A volte è capitato di dover togliere degli strumenti, o di inserire oggetti piano piano e in modo studiato: non è proprio così facile. Quali strumenti inserire e la loro disposizione nel setting, sono decisioni che devono avvenire in modo graduale e con senso».
Quindi più che degli obbiettivi, occorre individuare un percorso (anche perché non è detto che la musicoterapia faccia bene a tutti i tipi di pazienti), si cerca una direzione ma senza individuare un punto finale a cui pretendi di arrivare: in quel caso vuol dire che qualcosa verrà forzato. In questo senso, l’improvvisazione è un elemento abbastanza fondamentale nella musicoterapia: occorre improvvisare nella relazione, andando incontro agli stimoli dei pazienti.
Alessandra e Clara ricordano le loro prime esperienze: «Parlando di improvvisazioni con la voce, sicuramente le prime volte ti senti un po’ imbecille ma poi ti rendi conto che è uno dei canali perfetti per questa terapia. Anche attraverso l’imitazione dei versi prodotti dai ragazzi con cui lavoravamo: capiscono che tu gli hai capiti e poi da lì parte tutto e a quel punto non è più solo imitazione. Questa è una delle prime cose che ti dicono, quanto meno nella formazione che abbiamo avuto noi: se lui usa legnetti, tu rispondi usando dei legnetti, ma questa cosa forse implica dei vincoli… Più avanti puoi decidere di cambiare le sonorità e gli strumenti ma è sempre qualcosa di graduale che avviene durante il percorso. All’inizio abbiamo lavorato anche con dei ragazzi molto gravi che spesso arrivavano alle sedute sotto effetto di farmaci, come stabilizzatori dell’umore o psicofarmaci: questi provocavano in loro degli stati completamente catatonici, quindi era quasi impossibile lavorare; successivamente e lentamente si riusciva a trovare una via per fare un bell’incontro: l’emozione della paura a volte subentra, ma è qualcosa che con il tempo si riesce a gestire e ciò che rimane alla fine sono tante belle emozioni inaspettate».
Rispetto della tempistica del paziente: l’importante è il presente e non il costruire. Esistono due tipi di musicoterapia che vengono scelti in fase di anamnesi e osservazioni preliminari: la musicoterapia attiva e la musicoterapia ricettiva. Quest’ultima si può fare in gruppo o individualmente e che è d’ascolto; è una terapia in cui c’è bisogno anche del linguaggio verbale quindi con gli autistici si fa quella e attiva: viso a viso, con improvvisazione musicale, anche per placare l’ansia e costruire una specie di rituale iniziale, centrale e finale. Mi spiegano: «le sedute a volte durano tanto e a volte poco, hanno una durata non fissa. Uno dei momenti più importanti è quello del saluto, così come quello finale che prevede il riordino degli strumenti o una fase di rilassamento. Molto importanti perché c’è il ragazzo che sta 15 minuti e quello che sta un’ora e mezza, soprattutto se hai un paziente consecutivo all’altro. Sono riti che fai tu con il paziente e che contribuiscono a creare una relazione».
Concludiamo la chiaccherata con delle tenere considerazioni delle due ragazze: «il fatto di non usare il verbale ti manda in un altra dimensione, è come se fosse inizi a rodarti e la voce ti rimane dentro, rimane uno strumento che diventa tuo. Mi sento facilitata da questi rapporti perché riesci a sviluppare dei modi diversi per comunicare attraverso le espressioni del viso e i gesti. Perfezioni dei modi di comunicare su cui di solito non ti concentri: percepisci più cose anche quando poi ti relazioni con le persone “normali” e non ti scappa nulla, ciò ti aiuta ad acquisire una migliore capacità di osservazione. Imitare i versi funziona anche con bambini normodotati perché è come se tu dai valore a quello che ha fatto, e da qui inizia la sintonizzazione affettiva. Con gli autistici, come dicevamo, non si hanno risultati immediati, sei alla ricerca di cose minuscole, come uno sguardo dritto negli occhi o una spalla sfiorata».
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