Spiriti danzanti dietro le maschere africane
È un afoso pomeriggio di fine Agosto tra le vie di Dakar; mio nipote Ndiaw ed io passeggiamo soprappensiero, divincolandoci tra le bancarelle stipate di donne dalle formosità abbondanti del mercato di HLM e chiacchierando del più e del meno ci gettiamo nel quartiere successivo. Improvvisa boccata d’ossigeno: il caos delle voci di bancarellisti che trattano il prezzo in un infinito waχale s’interrompe e i vicoli tornano a essere percorribili, inaspettatamente quasi deserti.
Faccio appena in tempo a chiedermi dove siano i bambini che riempiono dei loro giochi quasi ogni angolo di quest’immensa città, quando da un vicolo trasversale arriva un allegro e agitato vociare; infilo la testa nella stradina rumorosa e tra il polverone sollevato da decine di piedini scuri che scappano e grida di divertito spavento, vedo una massa di stracci e filamenti di corteccia rossa che si erge al di sopra di tutti quei corpicini vestiti di tuniche bianche. Una mano scura copre i miei occhi e il mio corpo è trascinato lontano; mentre cerco di divincolarmi dalla presa e tornare ad assistere allo spettacolo, una spiegazione giunge alle mie orecchie: non posso partecipare al rituale per almeno due motivi, sono una turista e sono donna.
Conosco bene il nome della maschera che il mio sguardo ha appena intravisto: il kankouran, evocato dalle madri ogni volta che un bambino combina qualche disastro o fa capricci; la versione senegalese del nostro babau, che porta via con sé i monelli di casa. La sua missione per le strade della capitale è però ben diversa, rievocando una tradizione mandinga, ancora forte nelle regioni di Mbur e della Casamance e che accomuna Senegal e Gambia: il kankouran arriva al termine del mese d’isolamento che segue al rito della circoncisione, incarnando l’ordine e le regole sociali ed esorcizzando le paure che accompagnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta; un corteo munito di bastoni, cui si mescolano gli spiriti dei nuovi circoncisi, lo accompagna al ritmo di tamburi sciamanici e nessuno dei membri che lo compongono osa alzare lo sguardo agli occhi del kankouran, che celano antichi segreti.
Di queste tradizioni è ricca l’intera Africa subsahariana, che proprio nel mascheramento riversa buona parte dei più antichi significati spirituali: i travestimenti, infatti, riservati a pochi uomini che godono della forza morale necessaria ad avere il privilegio di vestirsene, servono a evocare spiriti presenti e passati, energie che si celano dietro immagini simboliche; chi li indossa rinuncia alla propria identità, assumendo quella del soggetto o del significante rappresentato dalla maschera posta sul volto.
Numerosissime sono le raffigurazioni di animali, più o meno stilizzate: tra le più maestose, il serpente Bansonyi della Guinea, nato in seno all’etnia Baga, che alto fino a 2 metri, custodisce lo spirito del villaggio, protegge dal male e dona prosperità; le antilopi Bambarà, usate durante le danze tyi-wara in Mali, sono legate invece all’agricoltura, favorita dallo spirito di quest’animale erbivoro; acquatici sono i soggetti delle maschere Ijo, etnia nigeriana stabilizzata sulla costa del delta del Niger, che rappresentano in modo stilizzato teste di pesci; uno degli animali più gettonati, infine, è il bufalo, simbolo di forza virile, rappresentato in tutto il continente e soggetto prediletto delle maschere policrome dei Douala, in Camerun.
Non meno diffuse sono le rappresentazioni astratte o antropomorfe; impossibile non citare come esempio del primo caso le maschere nwantantay dei Bwa del Burkina Faso, che rappresentano in forme puramente astratte gli spiriti volanti e senza volto della foresta, ma anche le maschere a forma di torre degli Idoma di Benue State, in Nigeria. Maschere rappresentanti volti umani si incontrano con stili diversi in tutto il continente: dagli ovali bombati degli Yoruba nigeriani e dei Makondé della Tanzania, alle maschere elmo dei Batetela del Congo, dei Bayaka dello Zaire, dei Bobo del Niger. Molte di queste maschere, si accompagnano a indumenti che celano le fattezze umane e sono utilizzate in danze rituali che accompagnano eventi sociali, momenti della tradizione e riti d’iniziazione.
Molte delle tradizioni dell’Africa ancestrale, si sono perse nella morsa di colonizzazione e decolonizzazione, ma grazie soprattutto all’attenzione rivolta alle maschere africane dal movimento cubista, il valore dell’arte subsahariana è stato rivalutato, sebbene talvolta il significato veicolato sia stato travisato in favore dei gusti di un pubblico si acquirenti. Di contro, la tradizione del carnevale europeo è stata assorbita da questi popoli, già dediti ai festeggiamenti in maschera, e non è forse un caso che la patria del Carnevale più famoso al mondo, Rio de Janeiro, sia caratterizzata da una popolazione nata dalla mescolanza storica di indios, europei e africani.
Nel continente africano non si contano i giorni e i colori delle feste di carnevale introdotte dai coloni: il più maestoso è sicuramente quello di Calabar, in Nigeria, caratterizzato da cortei fastosi e culminante nella premiazione della maschera più bella; mentre tra i più duraturi spiccano quelli delle capitali di Angola, Mozambico e Guinea, che per una settimana si riempiono giorno e notte di acrobati, maschere e giocolieri. In Costa d’Avorio, il Popo Carnaval è stato introdotto da reduci dell’esercito francese; quasi tutte le ex colonie portoghesi organizzano sfilate carnevalesche nei giorni di festa del patrono locale; in Sud Africa, a Città del Capo, il Minstrel Carnival, il giorno dopo la festa di Capodanno, rievoca i festeggiamenti degli schiavi, nell’unico giorno di libertà concesso loro dai padroni bianchi.
In copertina: Maschere antropomorfe Edo, Benin State, Nigeria. [ph. Sailko/CC BY-SA 3.0 Unported]
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