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Farsa musicale: in scena i lavoratori e la questione popolare

Siamo all’inizio dell’Ottocento e come tutte le arti di questo periodo, anche la musica vede un proprio avvicinamento al reale, una propria via d’uscita dall’ estetica del “bello ideale” e dai codici di riferimento formale e compositivo, rigidi e stilizzati, derivati dallo stile e dal gusto musicale del Settecento.

Il “ben composto” (l’insieme dei caratteri tecnico/compositivi delle norme formali e convenzionali riconosciute dalla tradizione) non basta più: si vuole vedere il reale, soffrire ed emozionarsi e a questo scopo la composizione musicale assume dei tratti nuovi, narrativi, descrittivi e prosastici. In questa direzione ho condotto un lavoro di ricerca musicologica, selezionando quattro esempi tratti da quattro farse veneziane diverse, collocabili in un arco di tempo che va dal 1800 al 1811, tentando capire come, concretamente, questo fenomeno abbia influito sulla musica d’arte e in particolare nella farsa musicale.

Ho scartabellato tra libretti e partiture originali per portare alla luce esempi di lavori e caratteri popolari che per la prima volta facevano capolino sui famosi palchi veneziani della musica d’arte: ho cercato il popolo, il contesto quotidiano e i lavoratori più umili.

Il carretto del venditore d’aceto, farsa giocosa per musica.

Rappresentata nell’ estate del 1800 al teatro S. Angelo a Venezia, su libretto di Giuseppe Foppa e musica di Johann Simon Mayr. La canzone che ho preso in considerazione è quella di Prospero, il venditore d’aceto, che troviamo nell’ ultima scena di questa farsa in un atto, nella quale viene ricreata la situazione tipica del venditore ambulante: «Prospero allegrissimo dalla porta dond’è partito, esce conducendo un piccolo barile sopra un Carretto da Venditore d’aceto con una ruota, facendone più giri per la Scena. Gli altri vanno schermandosi da lui, e mostrano stupore e paura; infine Flaminio».

Chi vuole aceto forte,/ Col mio baril son qua./ È affè ‘l miglior piccante/ Per fare le salsette:/ Miglior corroborante/ Di questo non si dà. […]/ È buon per le signore/ Che vanno in convulsione:/ Ha un certo pizzicore,/ Che in su saltar le fa./ Chi vuole aceto forte/ Col mio baril son qua. […] Per ogni mal cattivo,/ Che fa camminar storti,/ Ha un certo correttivo/ Che in su drizzar li fa./ Chi vuole aceto forte,/ Col mio baril son qua.

In questo pezzo è molto interessante l’introduzione dei violini, proprio nelle primissime battute: eseguono un inciso che richiama in modo evidente gli squilli di quelle trombette che i venditori ambulanti suonavano per richiamare l’attenzione. Questo dei violini è un inciso ricorrente nel brano e funge da intermezzo, ma probabilmente la sua principale funzione è di richiamare musicalmente il motivo del venditore ambulante e della sua trombetta. Altro elemento interessante è questa sorta di ritornello sui versi: “Chi vuol aceto forte,/Col mio baril son quà”, che viene ripetuto in ogni strofa (anche musicalmente è identico ogni volta che viene ripreso). Inoltre, proprio sull’ inizio di questa domanda, Mayr inserisce una corona lasciando la voce da sola, sempre per una questione di richiamo a quello che era il contesto di realtà dei venditori ambulanti. 

L’Amor Conjugale, dramma di sentimento

Il testo è scritto da Gaetano Rossi e la musica di J.S. Mayr; rappresentato nell’autunno del 1808 al teatro Giustiniani in San Moisè.  La fonte letteraria è Léonore, ou L’amour conjugal di Jean-Nicolas Bouilly, scritto nel 1798 (fonte che starà successivamente alla base del Fidelio di Beethoven).

In questa farsa la canzone che ho voluto prendere in considerazione è quella di Cristina, che canta nella prima scena, proprio in apertura allo spettacolo:

«Cristina filando a un molinello, poi Frillo/ Gira, gira, molinello,/ (Cri. Filando canta/ Non ti stare a attorcigliar:/ Questo lino/ Fino fino/ Con piacere sto a filar./ Per Malvino,/ Pel mio bello/ Le camicie voglio far./ (mostra dell’inquietudine, guarderà alla porta di mezzo, come aspettando alcuno/ E il mio ben non vien ancora?/ (ripiglia il lavoro e canta/ Gira, gira, molinello,/ Non ti star attorcigliar:/ Gira lesto,/ Forse presto/ Io m’avriò a maritar./ Presto attorno/ Per quel giorno/ Voglio preparar./ Han picchiato … m’ho ingannato/ (va allo sportello e guarda: ritorna smaniosa./ E non torna.»

La melodia di questa canzone (mi riferisco alla parte del primo violino) riconduce a un movimento circolare e ripetitivo, dato proprio da una scala che sale e scende; non solo i primi violini conducono questa scala di sedicesimi, ma anche il fagotto e le viole: un probabile richiamo al movimento meccanico, costante e rotatorio dell’arcolaio. I secondi violini e il violoncello conducono invece un ostinato ritmico; anch’esso, a mio avviso, potrebbe ricondurre al movimento regolare del pedale che viene usato per azionare la ruota dell’arcolaio. Tutto quest’andamento piuttosto movimentato cambia dopo la corona, in coincidenza con il verso “Per Malvino/ Pel mio bello”: proprio in questo punto, quando il canto ricomincia dopo la corona, notiamo un cambio ritmico che rallenta l’andamento della canzone. Tutto ciò avviene per via di un’analisi più riflessiva nelle parole di Cristina, che culmina con un passaggio da 2/4 a 4/4: “E il mio ben non viene/ Non si vede? Che farà?”, il tempo e la melodia cambiano sulla preoccupazione del personaggio, con il suo cambiare d’umore; ciò coincide inoltre con una sorta di svuotamento per cui Cristina rimane sola nel canto, senza più alcuno strumento. A questo ponte, segue una ripresa melodica che ritorna alla parte iniziale; anche il testo riparte con i versi: “Gira, gira molinello/Non ti star a attorcigliar” e la musica con il ritmo più deciso e quel movimento riconducibile all’ arcolaio.

Elisa, dramma sentimentale in un atto per musica

Venne messo in scena al teatro “nobilissimo” Venier in S. Benedetto a Venezia, nella primavera del 1804. In questa farsa troviamo una canzone con uno dei temi che forse rimanda subito all’estetica del caratteristico e alla tradizione del canto popolare in generale: quello del vino e dei canti di osteria, nonché alle canzoni di montagna tipiche delle zone alpine. La canzone Fermiamoci, amici, beviamo uniti un po’ si trova proprio in apertura alla quarta scena dell’atto unico in cui «Savojardi, Savojarde, portano seco i loro fardelli, suonano delle Lire, e Triangoli: Jonas è con essi».

Savojardi intesi come abitanti della Savoia, regione delle Alpi Occidentali: nel periodo storico che teniamo in considerazione, precisamente nel settembre del 1972, dopo l’ingresso delle truppe d’oltralpe, la provincia venne inclusa nel territorio della Repubblica Francese con il nome di “Dipartimento del Monte Bianco”. La lingua della cultura in Savoia è sempre stata il francese, elevata a lingua ufficiale dopo il passaggio alla Francia, ma la popolazione montana parlava soprattutto in dialetto savoiardo – un dialetto francoprovenzale- e in piemontese. La religione ufficiale di questa contea era il cattolicesimo, ma da non trascurare erano le minoranze valdesi ed ebraiche: nella farsa qui presa in considerazione e in particolare nella canzone che verrà analizzata, è presente il personaggio di Jonas, probabilmente ebreo, che segue e canta con il gruppo di savoiardi.

La scena parte con una lunga introduzione strumentale, in cui abbiamo un bel pedale di accompagnamento eseguito dai bassi (dal violoncello e dalle viole con sordina) che finisce con una corona, dopo la quale inizia il coro dei savoiardi.

«Fermiamoci, amici,/ Beviamo uniti un po’:/ Mentre tocchiamo, / Tutti gridiamo/ Viva il buon Vino, chi l’inventò!/ Ton. (con bicchiere alla mano.)/ Questo è il ristoro, il balsamo/ Del pover galantuomo,/ Corrobora, Vivifica,/ Fa stare in sanità,/ Soldati, Villani,/ Poeti, Artigiani,/ I Ricchi, i Pitocchi,/ I Savj, gli allocchi,/ Sia bianco, sia nero,/ Nostran Forestiero,/ Han tutti bisogno/ Di fare glù, glù./ Coro (bevendo) Evviva il buon Vino!/ Facciamo glù glù.»

Nella partitura manoscritta da J.S. Mayr, in coincidenza della fine dei primi due versi c’è una corona e così anche con i versi successivi della prima strofa: probabilmente (come notiamo anche dall’indicazione del libretto di Rossi) per lasciar tempo ai personaggi di brindare tra loro. Notiamo anche che la parte melodica cantata dal coro, dopo la corona viene ripresa solo strumentalmente: c’è alternanza tra la parte corale e quella strumentale, elemento che riconduce alla canzone popolare in cui questa pratica è molto usata. Questo schema cambia nella parte finale, quando inizia a cantare anche il personaggio di Jonas: il coro dei savoiardi diventa sfasato e delle figurazioni ritmiche si susseguono quasi a canone, forse a richiamo proprio dei canti alpini, anche se questa struttura potrebbe benissimo voler ricreare quelle situazioni da osteria in cui il ritmo e la sbronza spesso non coincidono.

Canto alpino…
…o ebbrezza da vino?

Cecchina suonatrice di ghironda, melo-dramma comico in un atto

Rappresentata durante il Carnevale del 1811 nel teatro Giustiniani San Moisè, a Venezia. Una farsa in cui il libretto è di Gaetano Rossi e la musica di Pietro Generali. Dico, Giannetta, Tu allegra tanto ognora è la canzone di Cecchina:

«Cec. (prende la sua Ghironda, e siede, e accompagnandosi, canta la seguente canzonetta:/ Dico, Giannetta,/ Tu allegra tanto ognora,/ Dov’è il tuo buon umor!/ Ah; poveretta!/ Qualcuno t’innamora;/ E’ fatta pel tuo cuor …/ Stà in guardia, veh, Giannetta,/ Stà in guardia dall’amor…/ (Il Consigliere, e Andrea, che tratto tratto applaudiranno a Cecchina, alfine alzano il bicchiere, e ripetono maliziosamente l’ultima strofa./ Stà in guardia, veh, Giannetta,/ Stà in guardia dall’amor…/ Cecchina ripiglia il canto, e concentrandosi, con passione)/ Io l’ho provato,/ Non ti fidar d’amor,/ Noja, dolor ci dà,/ Se gli dai retta/ Ti burla, poveretta,/ E’ fatta pel tuo cor,/ Stà in guardia, veh, Giannetta;/ Stà in guardia dall’amor…/ (il Consiglere e Andrea come sopra ripetono/ Stà in guardia, veh, Giannetta;/ Stà in guardia dall’amor…/ Cecchina và astraendosi, canta macchinalmente; la musica và cessando, e ripete senza accorgersene./ Stà in guardia dall’amor!../ Oh! Povero mio cor!..»

La canzone è in 6/8 a Tempo Giusto Pastorale, a Tempo andante di canzone Pastorale e già con questi pochi elementi c’è un forte richiamo all’ambito della musica popolare per quello che riveste il tempo in 6/8 in sé e a tutta una sfera musicale a cui è legato: è un tempo usato molto nella musica per danza e in generale nella canzone popolare perché favorisce la memorizzazione della melodia e rende più chiara e semplice la percezione del ritmo. L’accompagnamento, nelle prime otto battute circa, presenta una sorta di ostinati ritmici, per un tipo di scrittura che non sembra avere delle voci troppo polifoniche: è un accompagnamento abbastanza semplice; il canto della parte di Cecchina e il primo violino, che conducono la parte melodica principale, procedono per terze parallele.

L’effetto-ghironda

L’organico previsto per questo pezzo è composto dai violini (primo e secondo), le viole, flauto, oboe, clarinetti, corni, trombe, fagotto e violoncello; per riprodurre il suono della ghironda con questi strumenti era necessaria una “preparazione” di alcuni archi: tra le corde venivano inserite delle carte da gioco per far sì che frizionando con l’archetto uscisse un suono che imitasse il tipico ronzio della ghironda. Accanto, l’ utilizzo “muto” di alcuni legni che dovevano emettere le note solo con le chiavette per imitare il rumore prodotto dai tasti della ghironda.

In conclusione, possiamo quindi osservare come tutti i grandi cambiamenti storico-politici e sociali di questi anni abbiano influenzato la musica: nasce, nell’epoca del grande successo del romanzo, una concezione completamente mutata dell’opera musicale che è ora proiettata al superamento delle stilizzazioni strutturali e foniche per un’assunzione e trattazione frontale, cruda e realistica dei temi che vengono affrontati. Sul palco si vuole la realtà e tutte le figure che la compongono e la caratterizzano tentano di farla aderire il più possibile alle polverose e antiche norme della musica d’arte. 

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Sara Alberti

Nata sulle colline bergamasche nel 1989, percuoto dall’età di otto anni, quando ho iniziato a studiare batteria e percussioni da orchestra nel Corpo Musicale Pietro Pelliccioli di Ranica (W la banda!). Dopo essermi barcamenata tra le varie arti, la Musica ha avuto la meglio e mi è valsa una laurea in Musicologia. Profondamente affascinata dal vecchio e dall’antico, continuo a danzare e suonare nella Compagnia per la ricerca e le tradizioni popolari “Gli Zanni” e per il mio grande amore balcanico Caravan Orkestar. Su questa nave di pirati sono la responsabile della sezione Nuove Premesse, della cambusa e della rubrica musicale.