Beat generation, dizionario minimo di una controcultura
Era la fine degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti stavano prosperando dopo essersi lasciati alle spalle la seconda guerra Mondiale. Perbenismo e consumismo nell’aria, c’era voglia di calma e sicurezze, ma non tutti la pensavano così: nelle poco entusiasmanti lezioni della Columbia University, alcuni giovani sentivano che la vita non poteva essere solo quella.
Fu così che, sulle note di Charlie Parker, furono Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Lucien Carr e poi Neal Cassady e Lawrence Ferlinghetti a porre le basi della più importante controcultura del Novecento: la Beat generation. Un movimento culturale senza il quale, per alcuni studiosi, gran parte delle risonanze degli anni Sessanta non sarebbero state così forti da segnare il nostro tempo.
Perché “beat”? Due sono le versioni parzialmente accreditate di questa scelta linguistica. La prima, letterale, sembra tradurre l’aggettivo “sconfitto”, “battuto”, “escluso” o “emarginato”, traducendo quindi la disposizione dell’individuo che condivide lo spirito della Beat generation come contrasto e negazione della cultura in cui viveva – sostanzialmente, quella della borghesia americana degli anni Cinquanta. L’altra versione, opposta, è documentata da una frase di Jack Kerouac (autore di uno dei testi capitali di quel tempo, Sulla strada) secondo cui beat abbrevia “beatific”, assimilabile a “beatitudine”. Lo stato d’animo che, attraverso nuove esperienze, si cercava di raggiungere.
Per capire quanto importante sia stato questo “movimento” – o meglio, vera e propria controcultura, nuova tendenza che professava visioni opposte alla cultura allora dominante – possiamo fare un giro attraverso alcune parole chiave che ne riassumono bene i concetti.
La strada. Oltre ad essere il nome del romanzo-simbolo della Beat generation, è il luogo dove tutto comincia. È il posto dove ci si illude di cancellare la noia e la morte. Rappresenta il viaggio, la fuga, l’avventura, il selvaggio, la ricerca. Insomma, la vita, direbbe Kerouac.
Cosmopolitismo. Lo spirito è viaggiare, senza una meta precisa, ma solo per riempirsi gli occhi di più cose possibili e fare tutte le esperienze che il mondo permette. Dunque al bando qualsiasi nazionalismo, ciò che unisce è il desiderio di fare le stesse esperienze e la voglia di considerarsi e incontrarsi come “cittadini del mondo”.
Spirituale. La ricerca è in direzione di tutto ciò che aiuta a superare il tangibile e porta in un’altra dimensione (compresi gli eccessi di droghe e alcol).
Rivoluzione. Si viaggia perché si vuole cambiare un mondo che sta stretto, ci si mette in strada per sperimentare la solidarietà e assecondare il desiderio di rivolta verso la generazione precedente. Ci si dà alle droghe, si sperimentano la promiscuità e le prime forme di libertà sessuale, si va contro qualsiasi istituzione abbia imposto delle regole fino a quel momento.
Poesia. Sebbene molti non fossero scrittori o intellettuali, tutti scrivevano poesie. Era urgente il bisogno di comunicare, di urlare quello che si stava vivendo, perché era diverso e incontrollabile quello che si provava, come racconta il manifesto in versi della Beat generation:
Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia, affamate, nude isteriche
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa
hipster dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste
con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua
fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz […]
(Incipit di URLO di Allen Ginsberg)
E in Italia? Se l’Italia ha conosciuto le “urla” di questo movimento è in gran parte merito di Fernanda Pivano, che con le sue traduzioni dall’inglese delle maggiori opere ha contribuito a farle conoscere nel nostro Paese. La Pivano curò anche un’antologia di poesia della “beat generation italiana”, ma ne abbandonò l’edizione senza che questa fosse mai pubblicata. L’episodio italiano della beat generation si colloca tra il 1964 e il 1973. Per farvene un’idea, vi consigliamo il libro di Alessandro Manca, I figli dello stupore: La beat generation italiana: completo ed esaustivo per capire che cosa ha significato quel periodo e come (o se) è stato reinterpretato nell’Italia di sessant’anni fa.
In copertina: Allen Ginsberg.
Alessandro Manca, Allen Ginsberg, Beat Generation, featured, Fernanda Pivano, Jack Kerouac, Stati Uniti