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Nuova legge sul caporalato: un buon primo passo, ma non basta

Martedì 18 ottobre è stata approvata in via definitiva la nuova legge contro il caporalato, che modifica in maniera sostanziale l’articolo 603 bis introdotto nel codice penale nel 2011. Il disegno di legge, approvato dalla Camera con 336 voti a favore, nessun contrario e 25 astenuti (Forza Italia e Lega), ha ottenuto il plauso di molti esponenti politici e dei sindacati, che l’hanno definita “una legge buona e giusta” (Susanna Camusso) e la realizzazione di “un obiettivo che da sempre caratterizza le battaglie della sinistra” (ministro della giustizia Orlando).
Sicuramente un provvedimento per arginare il fenomeno era urgente e necessario e il nuovo ddl rappresenta un primo passo nella giusta direzione. Il caporalato è infatti un fenomeno profondamente radicato nella province agricole italiane tanto che viene considerato un normale modus operandi nel settore. Consiste nel reclutamento di manodopera a basso costo da parte di un mediatore illegale – il caporale appunto – per conto di proprietari terrieri e società agricole. Le cifre sono da capogiro: i lavoratori irregolari in agricoltura e dunque potenziali vittime di caporalato ammontano a più di 400.000. Le vittime del fenomeno sono per lo più persone in grande difficoltà economica o immigrati irregolari senza permesso di soggiorno, che per una paga che va dai 22 e i 30 euro al giorno devono lavorare tra le 8 e le 12 ore, spesso in pessime condizioni igieniche e di sicurezza. Il 60% dei braccianti non ha infatti accesso ad acqua e servizi igienici. I lavoratori, inoltre, devono versare un compenso al caporale anche per il trasporto al luogo di lavoro (mediamente 5 euro) e spesso viene loro imposto un alloggio – di solito fatiscente e a prezzi molto alti – il cui affitto viene nuovamente intascato dal caporale e dai suoi collaboratori.
In questo modo i braccianti sono completamente dipendenti dai loro sfruttatori, che hanno il controllo su molteplici aspetti della loro vita, dal lavoro alla famiglia e alla casa. In alcuni casi tale controllo si estende anche al corpo, come esposto in un’inchiesta dell’Espresso del 2015 sui casi di violenza sessuale da parte di caporali e datori di lavoro nei confronti di braccianti rumene nella provincia di Ragusa.

Raccoglitori di pomodori in provincia di Foggia (Altreconomia).
Raccoglitori di pomodori in provincia di Foggia (Altreconomia).

Il reato di caporalato era già regolato dal 2011 dall’articolo 603-bis del codice penale, che prevedeva sanzioni severe per i caporali, inclusa la reclusione da 5 a 8 anni. Tuttavia, la legge conteneva specifiche che ne complicavano l’attuazione. Per dimostrare il reato, infatti, occorreva identificare una vera e propria società di intermediazione e individuare delle specifiche condotte di sfruttamento basate su comportamenti violenti.
La nuova legge semplifica invece l’individuazione del caporalato ampliando la sua definizione a una modalità di sfruttamento che “prescinde da comportamenti violenti, minacciosi o intimidatori”, caratteristiche che erano invece essenziali nella precedente formulazione del reato.
In secondo luogo, il ddl prevede l’introduzione di sanzioni più severe anche per i datori di lavoro e non più solo per i caporali, in modo da disincentivare le aziende a servirsi di intermediari illegali. Parificare le responsabilità di datori di lavoro e caporali è un enorme passo avanti. Finora le grandi aziende sostenevano di non sapere cosa succede ai livelli più bassi della filiera, mentre quelle piccole si difendevano con la cosiddetta “necessità dello sfruttamento”.
Per ridurre la dipendenza di immigrati e soggetti deboli dai caporali, inoltre, il ddl delinea un piano interventi per l’accoglienza dei lavoratori agricoli e prevede degli indennizzi per le vittime.
Si tratta quindi di una legge certamente essenziale per ridurre il fenomeno del caporalato in maniera significativa, ma non sufficiente a eliminarlo definitivamente.
Innanzitutto perché, come sostiene il direttore dell’associazione “Terra!” Fabio Ciconte, non fornisce valide alternative né ai lavoratori né ai datori di lavoro. Nelle province agricole italiane gli uffici di collocamento sono del tutto inefficaci, inadatti a rispondere al bisogno reale del settore di manodopera bracciantile. I lavoratori si rivolgono quindi a persone della comunità per ottenere il lavoro – i caporali. Il caporalato è certamente una forma di sfruttamento da cui gli operatori traggono guadagni illeciti, ma nella visione di chi lo pratica e ne fa uso è un normale meccanismo di intermediazione lavorativa, in cui l’organizzatore è l’interfaccia tra le squadre di lavoratori e l’imprenditore agricolo.
Non offrendo la legge risposte valide e legali a questo bisogno, la pratica dell’intermediazione illecita continuerà ad essere portata avanti dai caporali e il fenomeno non scomparirà mai definitivamente.
La nuova legge quindi prevede in larga parte misure repressive che, per quanto giuste e importanti, sono finalizzate a punire i responsabili a fatto avvenuto, ma non agiscono in via preventiva.

Il logo della campagna #FilieraSporca.
Il logo della campagna #FilieraSporca.

Una soluzione, proposta dalla campagna #FilieraSporca lanciata da Terra! in collaborazione con altre associazioni, sarebbe quella di promuovere un’etichetta narrante che spieghi la vita del prodotto, rendendo pubblici i nomi dei fornitori, e permettendo così ai consumatori di essere informati e scegliere un prodotto frutto di una filiera sostenibile. In questo modo gli operatori agricoli che finora vivono nell’ombra al riparo da ogni responsabilità, sarebbero costretti a cambiare i propri metodi e renderli trasparenti per avere accesso al mercato.
È essenziale tenere a mente che il caporalato e lo sfruttamento sono la conseguenza di una filiera poco trasparente, non la causa. Solo facendo pressione sugli anelli successivi della grande distribuzione organizzata affinché promuovano prodotti forniti da aziende sostenibili sarà possibile limitare davvero lo sfruttamento agricolo.

In copertina: Un’azienda agricola in provincia di Foggia, 2016. (Internazionale/Mario Poeta)

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Lucia Ghezzi

Classe ’89, nata in un paesino di una valle bergamasca, fin da piccola sento il bisogno di attraversare i confini, percependoli allo stesso tempo come limite e sfida. Nel corso di 5 anni di liceo linguistico sviluppo una curiosa ossessione verso i Paesi dal passato/presente comunista, cercando di capire cosa fosse andato storto. Questo e la mia costante spinta verso “l’altro” mi portano prima a studiare cinese all’Università Ca’ Foscari a Venezia e poi direttamente in Cina, a Pechino e Shanghai. Qui passerò in tutto due anni intensi e appassionanti, fatti di lunghi viaggi in treni sovraffollati, chiacchierate con i taxisti, smog proibitivo e impieghi bizzarri. Tornata in patria per lavoro, Pequod è per me l’occasione di continuare a raccontare e a vivere la Cina e trovare nuovi confini da attraversare. Sono attualmente responsabile della sezione di Attualità, ma scrivo anche per Internazionale.