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Seconde generazioni LGBT – le bambole, la moschea, l’amore

Identificarsi, parlare di sé, scoprirsi. Sperimentare, valutare, sopravvivere. Cambiare, o almeno provarci, accettarsi. Ho provato spesso a comprendere la sottile linea che mi lega a ciò che sono, ma molte volte sono crollato giù, come un uomo da circo che perde l’equilibrio, e cade nell’oblio della dimenticanza, dell’errore, dei sensi di colpa. Quando affiora la curiosità, tu non puoi rifiutarla, puoi solo accettarla. Accetti il tuo essere in scoperta, in esplorazione, tra impulsi primordiali ed occhi che cercano una scusa a quelle strane sensazioni che provi.

Naturale o innaturale? Giusto o sbagliato? Chi sono io per giudicare me stesso, quando posso aspettare che siano gli altri a costruire quel che sono? Mille domande cercano di disarmarti, di renderti umano e nudo davanti a ciò che non puoi controllare: il tuo essere che avanza. Il mio nome è altro, è opposto, ma è anche profetico. Mohamed, profeta in cerca di risposte.

Sono cresciuto in una famiglia a maggioranza musulmana. Mio padre si è sempre identificato come musulmano, nei limiti della accezione occidentale, mentre mia madre ha sempre girato nel vortice di una spiritualità a metà tra cristianesimo, islam e amore per i suoi figli. Amare, secondo lei, è una religione che in pochi sanno professare. I parenti tunisini, luogo di nascita di mio padre, giocano a nascondino da quando ero piccolo, o forse hanno cambiato gioco.

Non sono mai stato legato alla mia terra di origine – parlando in termini arcaici di sangue e nazione – forse a causa del mio amore verso il cibo italiano, o forse perché non mi sentivo bene in quel posto che mio padre appellava come mio vero luogo di nascita. Il sangue rappresentava l’unico legame con quella terra piena di sabbia e ricordi tristi, ma mai dimenticati. In ogni viaggio mi annullavo, regredivo ad una fase embrionale dove mia madre rappresentava la sicurezza di casa, e mio padre il tiranno che tanto voleva fossi legato a quella terra che lui chiamava casa.

I parenti si mostravano, spesso ridevano di me tra di loro. Per loro ero troppo effeminato, e ne facevano presente a mio padre che con un tono arrogante ma scherzoso sottolineava la mia passione per la poesia. Deriso, non compreso, può un padre accettare una derisione piuttosto di una verità?. La mia costruzione, il mio essere in progressione silenziosa ha radici molto lontane.

A sei anni ho scoperto l’amore per le bambole, ma ciò che mi interessava di più era farle volare in aria, quasi distruggerle. Distruggevo qualcosa che non andava, di poco professionale. La professionalità di un bambino educato alla religione musulmana.

Amavo anche mangiare, ma fin qui nessun problema. Potevo prendere peso, ingrassare, ma mio padre continuava ad essere fiero di me: un piccolo ma futuro grande “maestro di moschea”. Con un nome come il mio hai delle responsabilità da rispettare, non puoi essere fuorviante, devi rispettare chi sei, o chi devi essere.

Amavo le bambole, amavo mangiare, ma amavo anche mio padre. Le bambole non gli andavano giù, per questo le ho abbandonate. Ho detto addio alle bambole di mia cugina con certo malincuore, ricordo ancora il loro profumo di fragole. Quel profumo fu sostituito dalla polvere arida e visibile della moschea di città, un luogo angusto per un bambino, silenzioso ma ricco di dettagli artistici. Può la religione considerarsi arte?

Per me, sin da piccolo, la religione era un rompicapo complesso, più cercavo di comprenderla e più mi mordeva la testa. In quei giorni di preghiera fissavo spesso il muro e mi chiedevo come mai fosse vietato giocare con le bambole. Il maestro di moschea parlava spesso di uomo e donna, di unione religiosa, ma mai di bambole. Nella moschea imparavo la religione, cercavo di prenderla tra le mani, ma non ci riuscivo. La cercavo inginocchiato sul tappeto, mentre muovevo le dita cercando una risposta, o quando sorridevo a mio padre che non poteva che essere fiero di un figlio tanto predisposto alla religione. Si può essere predisposti a qualcosa verso cui non si prova particolare interesse?

A 12 anni le bambole erano un lontano ricordo, a quell’età non potevo che pensare ai primi peli, alla voce più rauca, a quelle strane sensazioni che sperimentavo di notte, tra indignazione, curiosità, strepito e vergogna. Provavo simpatia verso i miei compagni di classe, nonostante mi chiamassero “finocchio” tutto il tempo. Forse non era simpatia se ci penso bene, ma sperimentavo una certa dipendenza nei loro confronti. Avevo bisogno dell’idea di loro per reprimere quelle strane sensazioni che non mi facevano dormire di notte. In moschea cercavo le risposte fissando il muro bianco, ma quel muro era invisibile e non vedevo altro che strani pensieri. Non è corretto, non va bene, non è giusto, non si può.

Qualche anno più tardi, a 17 anni, ho provato per la prima volta l’esperienza di un volo a capofitto. Mi sono gettato in quelle strane sensazioni che provavo e che mi facevano tremare le mani. Finalmente avevo capito. Avevo preso le mie responsabilità e mi sono lasciato andare.

La libertà è anche responsabilità verso se stessi. Avevo assunto il ruolo di giudice e di imputato, mi infliggevo colpe e le accettavo, ma non mi interessavano. Mi definivo gay, bisessuale, asessuato. Mi guardavo allo specchio, sorridevo, poi diventavo triste. Cercavo nello specchio la vergogna del mio essere, ma ormai c’era solo sicurezza. Provavo, studiavo e mi abbandonavo al mio corpo, a quello altrui, all’amore e alla sincerità dei sensi. Mi scoprivo per l’ultima volta, dicendo addio al rancore di non poter essere me stesso, alle paure che nessun corpo nudo può levarti, ai ricordi di un passato da ciclista che corre la sua corsa verso la verità, ma senso il casco di sicurezza.

Quella sicurezza è nata in me nel momento in cui ho imparato a dire sì. Sono diverso? Sì. Ma la diversità non è altro che scoperta di un mondo dove ogni cosa funziona al contrario, dove realtà ed immaginazione si incontrano, dove il bene ed il male sono discorsi troppo impegnativi, dove l’amore vince su tutto.

L’amore, in fin dei conti, non l’ho mai dovuto scoprire. È stato un dono offerto da mia madre, si è metabolizzato in me prima ancora che scoprissi il piacere delle bambole. Mi ha amato ancor di più il giorno in cui le ho lasciato una lettera in cui a cuore aperto le rivelavo l’effetto che l’amore aveva fatto su di me. Mio padre mi amava, ma amava di più l’idea di me. Aspetta ancora il giorno in cui sposerò mia cugina. Io mi sono amato, odiato ed ancora amato.

Quando condividi l’amore, lo fai perché è un gesto spontaneo, di natura. Perché allora siamo cosi innaturali agli occhi altrui? Si parla di amore come un sentimento altruista, non di egoismo sensazionale. Ho scoperto me stesso molto tardi, ma ho imparato ad amare presto. Rupaul sostiene: “Se non ami te stesso, come diavolo puoi amare qualcun altro?”. Ed è questo il coming out più duro da fare: dichiarare il proprio amore verso gli altri, e verso se stessi.

Scritto da Mohamed

Fonte: Il Grande Colibrì

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