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Mese: Settembre 2015

Elmando: come rendere più umani gli immigrati

Molto spesso i media parlano di “immigrati”, di “clandestini”, usano termini che accomunano varie persone, diversissime tra loro per vari motivi, in un’unica accozzaglia informe, ma questo “ammasso” in realtà è costituito da centinaia di migliaia di piccole storie, ognuna diversa: se si tiene a mente questo, forse è più facile riuscire a vedere l’umanità in queste persone, la stessa umanità che è dentro di noi.

Bisogna riuscire a scorgere le persone nella marea umana per capire che i migranti non sono solo una “una massa che ci invade”.

Sandro Joyeux ha scritto un bellissimo pezzo che racconta la storia di Elmando, un immigrato africano incontrato pochi anni fa, che ora ha quasi cinquant’anni; una canzone che dà un volto a chi spesso viene gettato a forza in “quell’ammasso informe”.

Noi di Pequod abbiamo fatto qualche domanda ad Antonio Octavian, animatore e regista dal talento cristallino del videoclip di Elmando, realizzato con il Patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).

Perché hai scelto di realizzare il video di una storia che parla di immigrazione?

«Non ho davvero scelto una storia che parla di immigrazione, ho scelto la storia di un uomo con un tragico destino che cerca di resistere. Ho ascoltato la canzone e ho amato il ritmo africano, mi è piaciuta la storia raccontata da Sandro, i versi sono epici, ricchi di azione ma cantati con molto cuore, è una confusa combinazione tra un ritmo allegro e una storia davvero triste».

Pensi che il tuo lavoro possa cambiare la percezione dei migranti?

«Forse; penso che la musica e il cinema abbiano la grande abilità di cambiare la percezione delle cose, ma quello che il pubblico ricorda e impara per il futuro lo ignoro. Forse il vero cambiamento avverrà negli anni a venire a partire da adesso».

Hai detto che Elmando è racconta una storia vera. Ti è mai capitato di conoscere qualcuno come il protagonista?

«La storia di Elmando è universale! È la storia di una inarrestabile ricerca della propria identità e di un luogo da poter chiamare casa. Ovunque nel mondo ci sono persone che cercano queste cose, anche se al momento non lo stanno facendo a causa della guerra, o a causa di gravi problemi di salute o economici. Noi tutti siamo alla ricerca di una vita migliore, ma alcuni di noi devono avere uno straordinario destino, quindi in sostanza ho conosciuto persone come Elmando».

Quali sono i tuoi progetti futuri?

«Sto lavorando al lancio del mio studio di animazione e a un nuovo corto, un’altra storia che parla di ricerca con una miscela di dolce e di amaro».

Le storie delle persone come Elmando possono sembrare molto distanti nel tempo e nello spazio, ma se l’umanità che ci lega è la stessa, quanto sono davvero distanti? Complimenti a Sandro Joyeux per aver raccontato questa bella storia, ma soprattutto ad Anton Octavian, che ha contribuito a renderla un piccolo capolavoro.

Muri che mordono: il ruggito di Turbosafary

 

Rompiamo i cordoni rossi che ci separano dalle tele appese, viaggiamo tra forme spigolose, andiamo a conoscere la ciurma di Tubosafary! Parliamo di un collettivo formato da cinque giovani talenti del graffito urbano che durante l’estate appena trascorsa hanno conosciuto la calce dei muri di tutta Italia, loro sono Cripsta, Dilen, Tybet, Acca ed Est Her.

Amicizia e affiatamento da circa tre anni sono il collante che lega i cinque nomadi, che solo da quest’anno avranno sede a Milano. Si ispirano a Matisse e credono nell’idea di non limitare né la fantasia, né il campo d’azione, fondendo insieme i gusti e la creatività di ogni singolo componente del gruppo, ottenendo un armonioso cocktail geometrico e cromatico. Conosciamoli meglio!

 

Se dico Tubosafary, voi cosa dite?

«Turbosafary è una folle corsa in stile Mad Max, solo che le vetture sono guidate da animali selvaggi. Dopo un infinito brainstorming abbiamo scelto il nome, suonava bene, era unico e ci rappresentava, racchiudeva la nostra voglia di fare e il nostro spirito un po’ tribale. Quando abbiamo finito ci siamo accorti che era solo quello che volevamo diventare. Ci unisce davvero una profonda amicizia e un’incredibile voglia di sperimentare, prendere ciò che di buono ciascuno di noi può dare per imparare e creare qualcosa di nuovo e di bello».


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 L’arte oggi: passione o professione?

«Ci ritroviamo spesso a chiederci, se quello che facciamo sia arte, forse è solo una piccola sfaccettatura, ma intanto proviamo a trasformare le nostre passioni in un lavoro.

I due ambiti possono di certo essere in contatto, ma non crediamo sia giusto vendersi e perdere di vista il proprio stile e la propria ricerca per ricavarne un profitto».

Qual è il marchio di fabbrica inconfondibile? 

«Lo stile Turbosafary è composto da elementi grafici dalla tinta piatta, con colori pastellosi e brillanti, bilanciati da altre forme più aggressive e taglienti, rendendo l’opera finale un gioco armonioso di strutture disarmoniche e apparentemente discordanti.

Vorremmo trasmettere l’essenza di ciò che siamo e di come vediamo il mondo: un equilibrio di elementi diversi che insieme danno vita a qualcosa di fresco, distante dall’accademico. Turbosafary è probabilmente prima un modo di essere, che poi prende vita nei nostri lavori».

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L’estate 2015 è stata ricca di opportunità creative, cosa avete realizzato sotto il sole della bell’Italia?

«E’ stata una bella avventura, nel giro di venticinque giorni abbiamo girato Puglia, Calabria, Sicilia, Abruzzo e Marche a bordo del nostro furgone. In questo viaggio abbiamo avuto la conferma della bellezza del nostro paese, di quanto possa essere ispirante e ricco di persone e luoghi splendidi.

Abbiamo, inoltre, conosciuto molte realtà che operano per lo sviluppo artistico urbano nel sud e centro Italia. Ovviamente abbiamo lasciato, quando abbiamo potuto, un segno del nostro passaggio».

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Per due anni avete collaborato con il Pop up! Festival, quali progetti avete organizzato e cosa vi hanno lasciato?

«La nostra prima collaborazione con il Pop up! Festival risale al 2013, quando ci è stato chiesto di realizzare un progetto di street art con i bambini della scuola

Serendipità, un casolare immerso nella campagna di Osimo e trasformato in una scuola materna libertaria. Abbiamo realizzato un workshop per i bambini, in cui abbiamo raccontato la ‘Storia dell’isola di Ö’, un luogo magico, abitato da personaggi fantastici. Questa fase di lavoro ha permesso di coinvolgere completamente i bambini, rendendoli partecipi della fase progettuale e compositiva. Il passo successivo è stato la riproduzione dei personaggi sui muri della loro scuola! Un progetto davvero ricco e interessante.

La seconda collaborazione con il festival è avvenuta quest’anno e siamo stati chiamati a dipingere la stazione ferroviaria di Castelplanio, nei Colli Esini marchigiani. Siamo molto grati all’associazione MAC per queste due opportunità che ci ha offerto».

 

 

When moving abroad is not a choice

Many people don’t choose to live an international life: moving abroad isn’t a choice, it’s a necessity. In order to survive, to earn some money or to reconnect with the family some people are forced to adapt to a new world, which is not always so welcoming. Moussa’s story tells us this and much more…

Your name, age, nationality, where are you from? Where do you live now? Which is your current occupation?

I’m Moussa, 28 years old. I’m from Mombasa, Kenya and now I live in Bergamo, Italy. I work as an express-courier.

Why did you decide to leave your country?

I left Kenya to join my family: my dad was already living in Italy.

Why did you choose Italy?

I couldn’t decide, I had to come here.

How is your life in Italy?

I have to get up early in the morning because I distribute milk and fresh food to cafes and supermarkets; usuallyI have to start around 3 am, until 10, sometimes 11 am.

Life has never been easy because I have no guarantees about my job and some weeks I work only for a few days, also the pay is not that much… I’m quite grateful though, as my father manages to take care of me financially.

My social life is not so full: I’m not much talkative, but I like reggae music and I got somefriends, both Italian and African, with whom I go to reggae sessions or festivals.

How is living in Italy different than living in your country?

Sometimes with my friends we discuss about the fact of being strangers in a foreign country. Most of us are from Africa, but not from the same country, but living in Europe makes us see the big differences between life in our continent and European life.

I think that the most important difference is that here it’s really hard to mingle with the locals: when I arrived in Italy, I didn’t know anyone and had to realize that most Italians are social only after knowing you well. Definitely not the best attitude to meet new people. In Kenya social life is completely different: people are talkative, mostly if they’ve never met you before; Kenyans are used to tourists and like to discover new countries and cultures.

Which is the biggest challenge of moving to a new country? Have you had any regrets so far? What do you miss the most?

The biggest challenge is to adapt yourself at the rhythm of the society you are moving to: it’s not so easy to meet people, to find a job and to be independent; but moving to a new country is a great experience ‘cause you have to restart from zero.

I’ve not regrets, but of course I miss my homeland.

What does Europe mean for you? Do you perceive the existence of Europe as a community?

Europe exists, that’s geographically and financially evident. But I don’t feel that European identity is something real, as countries are completely different one from each other and natioanl languages are the most striking evidence: if you travel around Europe, you can listen a huge variety of strange sounds!

Italy & Kenya. Use three words to describe each of the previous.

Kenya: nature (mountains and animals), Swahili (mother language), Masai (the guardians)

Italy: social, mafia e pasta …:)

What would you say to someone to convince him to move abroad? What’s the best thing you’ve got/you’ve learnt by your experience abroad?

I don’t think that I will convince someone to move to Italy for living, maybe just for tourism; but travelling is important: you can discover a new world and that’s always a great experience!

Labour, da Red Flag ai Blur e ritorno

Anno di grazia 1983. Micheal Foot, candidato premier laburista, è appena stato travolto dal ciclone Margaret Thatcher, perdendo le elezioni con ben cinque milioni di voti di distacco e scongiurando in extremis l’umiliante sorpasso del terzo incomodo liberale.

Anno di grazia 2015. Ed Milliband, candidato premier laburista, esce con le ossa rotte dallo scontro elettorale con David Cameron, in quello che, nelle aspettative di molti, avrebbe invece dovuto configurarsi come un testa a testa all’ultima scheda.

Torniamo indietro: anno di grazia 1983. Neil Kinnock diventa segretario di un Partito Laburista ridotto ai minimi termini, i cui tratti identitari, per non parlare delle strategie comunicative, vengono diffusamente percepiti come anacronistici. Kinnock allora, in notevole ritardo rispetto ai Tories, si affida a due professionisti provenienti dal mondo delle pubblicità, Peter Mandelson e Philip Gould, al fine di svecchiare l’immagine del partito.
Non avendo licenza di agire sulla proposta politica, i due noti spin-doctor si dedicano al piano simbolico, ed il primo sacrificio sull’altare della modernità diviene la Bandiera Rossa.
In occasione del congresso del 1985, infatti, lo storico simbolo del Labour viene sostituito da una rosa rossa, mutuata dal patrimonio iconografico della socialdemocrazia scandinava.
Non potendo essere altrettanto drastico con il tradizionale inno Red Flag, che ancora scaldava gli animi degli iscritti, “Mandelson […] fece in modo che le riprese televisive si dissolvessero prima dell’inno, che scompariva, così, dalla visione dei telespettatori”, senza per questo scomparire dalle orecchie dei militanti. (Grandi, Vaccari 2013, 70-71).

Anno di grazia 1985. Kinnock tiene a battesimo “Red Wedge”, un’organizzazione collaterale al partito fortemente voluta da due storici cantautori inglesi: Paul Weller e Billy Bragg. Ricorda Bragg: “Non puoi fare cose del genere nel vuoto ideologico. Red Wedge successe perché ci incontravamo costantemente – le solite band su palchi diversi, per diverse questioni: i minatori, il Nicaragua, anti-apartheid, antirazzismo. Era sempre la stessa gente” (Harris 2003, 151).
Tutti quegli artisti furono impegnati attivamente nella campagna elettorale del Labour in vista delle elezioni del 1987, tenendo concerti particolarmente sentiti in decine di distretti elettorali.
Un indubbio passo avanti dal punto di vista del marketing politico, certamente. Eppure, in un epoca in cui i cosiddetti New Romantics, dai Duran Duran agli Spandau Ballet, dominavano le classifiche, quali elettori potevano entusiasmarsi ascoltando versi quali “Come take a walk upon these hills / And see how monetarism kills / Whole communities, even families / There’s nothing left, so they’ve all gone away” (da “All Gone Away” dei Paul Weller’s Style Council, 1985)?

Anno di grazia 1987. I Laburisti di Kinnock subiscono la terza sconfitta consecutiva per mano della Lady di Ferro: evidentemente ai concerti di Red Wedge avevano partecipato solo vecchi arnesi del Labour

Anno di grazia 1994. Due anni prima era giunta la quarta sconfitta del Partito Laburista: dimissioni di Kinnock, uscito perdente anche dallo scontro con John Major. John Smith lo avvicenda alla guida del partito, ma muore soltanto due anni dopo: nel 1994 appunto.
Arriva il rampante Tony Blair e la musica cambia. Non solo politicamente, con la teorizzazione di una terza via ben distante dal rigore ideologico dei predecessori. Non solo mediaticamente, grazie al famigerato stratega Alastair Campbell.
Letteralmente, è la musica che cambia. Basta ai Paul Weller, ai Billy Bragg e ad altri consunti cantautori di sinistra così inesorabilmente di nicchia: sono gli anni del Britpop, di Blur e Oasis in vetta alle chart e in copertina su tabloid e quotidiani.
Le storie parallele di Blair, Gallagher, Albarn meriterebbero pagine e pagine di studio, ma non è questa la sede. Basterà considerare che gli spin-doctor di Blair fecero sì, con assidui corteggiamenti e reciproche invasioni di campo, che i protagonisti della rinascita del pop inglese fossero associati al giovane leader ed alla rinascita che egli prospettava per il paese. Valga ad esempio la testimonianza di Alex James, bassista dei Blur, che ricorda come si volesse che essi fossero “associati al New Labour, così che il New Labour sembrasse trendy. […] Proprio come se la Camel mi inviasse sigarette gratis o ricevessi vestiti gratis da Prada. E’ il modo più veloce per vendere un prodotto: associarlo a persone che sono considerate di successo e un tantino sexy. E, ovviamente, funzionò” (Harris 2003, 200).

Anno di grazia 2015. I fasti del New Labour sono lontani. E’ lontano Blair, e altrettanto lo sono i sodali dell’epoca, da Gordon Brown a Alastair Campbell. C’è, come anticipato, un partito stordito da una sconfitta elettorale cocente, un leader dimissionario – Ed Milliband – e una nuovo segretario da eleggere.
Come siano andate le cose è risaputo: Jeremy Corbyn, sessantacinquenne esponente della sinistra del partito (di cui The Bottom Up aveva parlato qui), da outsider, candidato “di testimonianza” quale era ritenuto in partenza, ha conquistato la nomination a segretario di un Labour che senza ombra di dubbio non definiremo più “New”.
Una reazione emotiva alla recente sconfitta? Un ritorno alle radici e agli orizzonti ideologici del partito? O invece il doveroso e atteso ritorno nelle cronache politiche di valori di giustizia sociale mai troppo vecchi, specie di fronte all’uscita diseguale dalla crisi a Londra?
Numerosi commentatori, in questi giorni immediatamente successivi al primo discorso pubblico del neo-eletto Corbyn, si stanno dilettando nella soluzione di questi interrogativi.

Non molti però hanno notato un uomo brizzolato salire sul palco del comizio di Corbyn, stendere un pugno chiuso al cielo e intonare questi versi: “So raise the scarlet standard high / Beneath its folds we’ll live and die / Though cowards flinch and traitors sneer / We’ll keep the red flag flying here”.
Guardate questo video.
Di chi si tratta?
Ma di Billy Bragg, naturalmente: il fondatore di Red Wedge è tornato, trent’anni dopo.
Sì, mentre gli Oasis si sono sciolti e i Blur registrano dischi a Hong Kong, quei cantautori di sinistra che Blair aveva (si può dire?) rottamato sembrano pronti a scendere nuovamente in campo al fianco di un nuovo, vecchio leader.

Il fugace riaccendersi di una vecchia fiamma? Lo verificheremo nei prossimi mesi. Ad oggi pare che Billy Bragg abbia ritrovato, almeno in parte, l’entusiasmo e quella “pienezza” ideologica che egli stesso ricordava a proposito di Red Wedge.
Eppure, se già trent’anni fa Bragg e compagni affrontavano tournée così felicemente “di minoranza”, possiamo attenderci esiti diversi oggi, nell’anno di grazia 2015?
Ci auguriamo, per Corbyn, per il Labour, e per noi di sì.
Quello che conta al momento è che Red Flag, proprio quell’inno che Mandelson e Gould avevano vietato di trasmettere in televisione per modernizzare l’immagine del Labour tre decenni fa, torna ad essere cantata. E fa un certo effetto.

Andrea Zoboli

Teranga: i miei venti giorni in Senegal

In wolof esiste una parola che indica il senso di ospitalità, di accoglienza e di rispetto verso l’ospite, una delle virtù fondamentali della cultura senegalese. Ne ho sentito parlare solo pochi giorni prima del mio rientro in Italia, e così ho potuto dare un nome alla sensazione che per i venti giorni che ho passato in Senegal mi ha accompagnato in ogni luogo e in ogni situazione: teranga.

Sono partita senza aspettarmi nulla, cercando di avere la mente sgombra da ogni immaginario preconcetto sull’Africa e la sua gente per riempirla della mia esperienza.

Ora il Senegal per me è l’odore speziato dell’aria, i tetti bianchi, le corse in taxi e le piogge torrenziali; è i rumori del traffico, i richiami del minareto e i versi degli animali; è i baobab di Mbour, le spiagge immense di Yoff, le conchiglie di Joal Fadiouth e i colori di Gorée; è la musicalità del wolof, le strette di mano e i colori dei vestiti delle donne, elegantissime; è il riso mangiato insieme da un unico piatto, il sapore forte dell’ataya (tè alla menta) ogni sera e delle guerté bou toy (arachidi tostate nella sabbia) sulla spiaggia, guardando il sole, grandissimo, tuffarsi nell’oceano.

Ma più di tutto il Senegal per me è teranga, e di come mi abbia fatto sentire a casa fin dal primo giorno.

 

Grazielliadi, le olimpiadi delle Grazielle

“I graziellisti in città rimangono di due categorie: anziani, a cui l’età impedisce l’utilizzo di bici alte, e ragazzini tra gli 11 e i 14 anni, troppo giovani per il motorino ma già autonomi per girare le strade a cavallo di quelle che all’apparenza sono motorini senza motore. Per questi ultimi la Graziella ha due fondamentali qualità. Grazie al robusto portapacchi integrato nel telaio è possibile accogliere e trasportare un passeggero in piedi dietro alla schiena, amico o prima morosa che sia; la seconda grandiosa scoperta è che la Graziella impenna come pochi altri mezzi di trasporto, la postura arretrata, il manubrio alto, le ruote piccole e il rapporto molto agile creano una combinazione perfetta per sollevare la ruota anteriore e farsi belli per decine di metri in acrobazia davanti agli amici e alle ragazze”.

Al di là di questi usi quotidiani, da ormai sette anni a Bergamo si svolgono le famigerate Grazielliadi, uno degli appuntamenti fissi di fine estate.

Pequod ha incontrato in una mattinata piovosa i ragazzi di Pedalopolis (link), l’associazione che oltre a proporre questa esilarante manifestazione, si occupa di incentivare e sensibilizzare i cittadini all’uso della bicicletta.

Tutto ebbe inizio a Roma quando i nostri eroi parteciparono alla Ciemmona: una delle critical mass più imponenti e partecipate; una volta arrivati nei pressi del Circo Massimo ci fu questo momento in cui numerosi ciclisti muniti di Graziella iniziarono una rocambolesca gara di velocità intorno al circo romano. Da qui lo spunto per creare qualcosa che vertesse intorno alla mitica Graziella anche in terra bergamasca.

12047115_1140879512592433_9147297762093616022_nFoto di Luca Facheris

Le prime edizioni delle Grazielliadi si svolsero all’interno della festa del parco di Loreto (BG): una manifestazione pensata come un momento di puro e sano divertimento per tutte le età, con prove esilarati e una non trascurabile attenzione per l’estetica di partecipanti mascherati e Grazielle pimpate.

Le sfide tendono essere sempre diverse di anno in anno, anche se per amore dei partecipanti, ogni tanto rimangono comunque degli evergreen come il Rest’in pè, una gara di “lentezza” in cui bisogna sfoggiare tutto il proprio equilibrio e la propria calma, il limbo (qui se ne vedono sempre delle belle: sono incredibili le pose che si possono assumere a cavallo di una Graziella), la gara di velocità singola e a staffetta “tu porti me e io porto te”. Non c’è divisione di categoria: le gare sono impegnative ma affrontabili a qualsiasi età – i bambini rimangono comunque gli avversari più temibili.

12027506_1140879462592438_8959952461864447326_nFoto di Luca Facheris
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11206950_1140880929258958_1581062734408209787_nFoto di Luca Facheris

La caratteristica di questa manifestazione è quella di cambiare location ogni anno, coinvolgendo inevitabilmente diversi punti della città e rendendo le competizioni ogni volta nuove e intriganti, con percorsi diversi, terreni impervi e incuriositi (o increduli) spettatori e passanti.

Che dire, avete circa un anno esatto per frugare nella cantina della prozia, rispolverare la vecchia Graziella, pimparla come si deve e allenarvi per le prossime edizioni delle Grazielliadi.

 

Rick and Morty

Quest’estate ci eravamo lasciati con la serie targata Netflix Bojack Horseman (link). Ho deciso di riprendere la rubrica parlando di Rick and Morty, anche questa, come avrete intuito dall’immagine di copertina, una serie d’animazione e ho voluto farlo principalmente per due motivi. Il primo è che siamo nel pieno della seconda stagione, che ha preso il via il 26 luglio. Il secondo e più importante deriva dal desiderio di dare ulteriore importanza alle serie animate, una categoria spesso bistrattata ma che, oggi più che mai, è quella che sta aprendo nuovi scenari nel panorama televisivo, con alti livelli di creatività e innovazione.

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Rick and Morty non risponde proprio ai canoni della tv a cui siete abituati. A cominciare dalla rete via cavo che la trasmette: Adult Swim, nata nel 2001 come programmazione serale per adulti di Cartoon Network, si contraddistingue per i suoi contenuti spinti, non ortodossi e spesso bizzarri, in forte contrasto con la tv tradizionale, con temi a sfondo sessuale, nudità, linguaggio forte e violenza gratuita, e le serie comedy al suo interno sono spesso esteticamente sperimentali, trasgressive, improvvisate e a tratti surreali. Insomma, roba per palati sopraffini. Ecco, Rick and Morty risponde alla perfezione all’identikit appena stilato ma, come leggerete, non si limita a questo.

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I creatori sono il geniale Dan Harmon, la mente dietro a Community (NBC), e il folle Justin Roiland, la cui voce esilarante dà vita a Rick, Morty e a una serie personaggi secondari. La sfrenatezza, la fantasia degenerata e l’inesauribile immaginazione di Roiland vengono filtrate dalla pluriennale esperienza con la tv nazionale di Harmon, che qui si occupa della parte per così dire “emotiva” e dello spessore psicologico dei personaggi, per rendere la serie “guardabile” anche per un pubblico più ampio. Un mix micidiale il cui risultato è uno degli show meglio scritti da un po’ di anni a questa parte. Ed è proprio qui che entrano in gioco le infinite possibilità offerte dall’animazione, ma prima di approfondire questo punto concentriamoci sulla trama.

Una trama relativamente semplice, tra l’alto: Rick, un geniale scienziato pazzo e alcolizzato, dopo anni di assenza, decide di andare a vivere con la sua famiglia, composta da sua figlia, Beth, dal marito di lei, il tremendamente insicuro Jerry,  e dai due nipoti: l’adolescente con problemi da adolescente, Summer, e Morty, che nonostante sia privo della genialità del nonno, viene regolarmente trascinato da Rick nelle sue sconsiderate avventure intergalattiche e interdimensionali. La struttura delle puntate è duplice: la storia A comprende le avventure di Rick e Morty (occasionalmente accompagnati da Summer), mentre la storia B (solitamente) si concentra sul disastroso rapporto coniugale tra Beth e Jerry.

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Come ci insegna Stephen Hawking ci sono infiniti universi e di conseguenza, infinite possibilità, tutte potenzialmente rappresentabili grazie al potere dell’animazione, il cui unico limite è la creatività degli autori. Siamo nel paradiso nerd della fantascienza e della comicità demenziale. E’ una serie episodica, quindi, di base, ogni puntata è apprezzabile singolarmente, senza aver visto quelle precedenti. Ma questo solo a una prima occhiata, infatti gli episodi vengono disseminati di personaggi, luoghi e di storie potenziali, che nel prosieguo delle stagioni potranno essere riprese e approfondite.

In più, se anche la storia non evolve, a farlo sono gli stessi protagonisti che, affrontando puntata dopo puntata una forte crescita personale, spesso infliggono sferzate dritte al cuore e all’apparato lacrimale. E ciò avviene all’improvviso, in maniera tragicamente inaspettata: sei perso nell’estasi comica, in viaggio tra gli universi più ridicoli e strabilianti e di colpo BAM!, ti trovi a confrontarti con problemi reali di persone reali.

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Rick and Morty e Bojack Horseman hanno dato vita a un nuovo genere, diventato riconoscibile ora che entrambe sono giunte alla loro seconda stagione: serie animate che nascondono una forte componente emotiva dietro a uno spesso strato di dark comedy e a un nichilismo estremo.

Mi fermo qui, prima di esagerare.

P.s.: se siete alla ricerca di una scusa per non studiare o non avete niente da fare sparatevi la prima stagione in binge-watching, oppure guardatevi un episodio qui per capire se è una serie che vi può interessare o meno (personalmente consiglio Total Rickall o Rixty Minutes).

 

Project Simba : a students contribution to young African children

Young, motivated , and willing to change the world : these are the main aspects of five Tilburg University students who have decided to start a new project in South Africa, in the local municipality of Emfuleni more precisely in the area of Sebokeng and Vanderbijlpark. The non-profit organization they created is called Lend a Hand (facebook page) and the project which has taken place this  summer is called  project Simba.simbaLet’s meet the members of such a great NGO!ImmagineName: Walter M. Pasquarelli
Education: BA Liberal Arts & Sciences: Law Major, Tilburg University/ Instituto Técnologico de Monterrey
Future projects : Expand Lend A Hand and make it a permanent institution by providing project on annual basis and empowering new members to join the mission
c
Name : Livia Kaiser.
Education : BSc International Business Administration.
Future projects : Keep on working for Lend a hand NGO.cName : Maximilian de Vreeze.
Education: BA Liberal arts and Sciences, Major: Law in Europe exchange: Sciences Po Paris
Future projects: Expand “Lend a Hand” and further develop it into a sustainable and international NGO.
cName: Berry Sonnenschein
Education: Tilburg University – Bachelor in Liberal Arts & Sciences. Majoring in International & European Law.
Future projects:
African proverb – “If you want to go quickly, go alone. If     you want to go far, go together.”At this present moment, I have not given much thought on future products I would like to conduct in the same manner as I have dedicated much of my attention to Lend A Hand. Any project which I could possibly be a member of in the future will be joined in respect of the African proverb.cName: Doreen Verbakel
Education: BA Liberal Arts & Sciences: Humanities Major
Future projects: Contributing to the development of Lend A Hand to make a difference for adolescents in South Africa.  In addition to this I would like to invite other people to get involved in this initiative to put in their own personal contribution.

Explain Pequod’s readers which were the most important aspects about Project Simba.

The most important aspects about Project Simba were the promotion of social inclusion and economic development, organizing activities, and inspiring adolescents to grow over themselves to build a better future. The main thought that we had in conducting our project was “we cannot change where somebody is coming from; but we can try to influence their final destination”. In addition to this we used our time in South Africa to network with local organizations. Our central aim is not to do a one-edition project, but rather to make it sustainable by having local partners to deploy volunteers at least on annual basis.

An article about Lend a Hand written on a local newspaper in South Africa
Livia, Max, Benny and Walter with young students who were provided new shoes

During your experience in South Africa did you find any cultural obstacles to deal with? Which was the most challenging  part of the project ?

Obviously South Africa is a place completely remote from Europe. Cultural differences are present in almost every aspect of everyday life. A notable difference was for example the concept of “African-time”. If you arrange a meeting at 2pm, you shouldn’t be totally surprised if in fact the meeting starts at 3.30pm. The philosophy in this case is not “I am late” but rather “I have been delayed”. Of course being foreigners and thus guests it is something we adapted to very quickly.

How  many activities did you organize over the period spent in South Africa?

Over the time we were in South Africa our schedule was dived mainly in two parts, during the morning we had meeting with children from various schools, we also had several motivational speeches in front of 40/50 students in each school. The main aim of these meetings was to  persuade them that primary education and University is the only way to improve their future. Moreover, we tried to establish new networks with local businesses and organizations in order to build new possible partnerships. The activities we arranged in the schools ranged from inspirational speeches to judo- dance- and soccer training. The afternoon, however, was entirely dedicated to the children of the Emfuleni Shelter House, which is an orphanage we decided to work with. Besides physical activities, our aim was to share with the kids some of our values and ideas but also to give them an image of how life can be from the countries we come from. We tried to bring this close to them by providing interactive lectures mainly focused on multiculturalism, sustainability and human rights.

Motivational speech in front of more than 40 students
Motivational speech in front of more than 40 students

Are you satisfied with the results you achieved with your first project in South Africa?

Yes, we are totally satisfied especially because of the enthusiasm shared by the young students during the majority of the activities we organized. Secondly, as our main aim is to make the Project Simba as sustainable as possible we had several meetings with organizations and companies in order to look for financings and subsidies. For instance, a company specialized in engineer training supported us to buy shoes and uniforms. In the end, thanks to their help we were able to provide new shoes to five schools and uniforms for all the children in the orphanage. During the last day we also had a meeting with two different local associations, respectively, SEEDS and NOT FORGOTTEN. Both associations work for the whole year in South Africa, they teach to young students and children different tasks and skills in order to learn specific types of job. With them we have established a partnership, as a matter of fact next year there will be an exchange of partners, we will send 4/5 volunteers there.  The aim is to send more volunteers and strengthen this partnership in order to enlarge networks there and give more support which will be composed on local support combined with  our European support.

Discovery: Metropolis di Fritz Lang

«There can be no understanding between the hand and the brain unless the heart acts as mediator».

10 gennaio 1927, all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino ha luogo la proiezione di un film  visionario, caposaldo del cinema espressionista e precursore del cinema di fantascienza moderno, destinato ad avere un impatto inesauribile sull’intera storia del cinema a venire.

Capolavoro indiscusso sui generis, Metropolis del regista austriaco Fritz Lang è tornato lo scorso 20 Settembre, per il ciclo Discovery, al Teatro degli Arcimboldi di Milano in una rimusicazione dal vivo ad opera della Filarmonica della Scala guidata dalla bacchetta del direttore Frank Strobel.

 

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Una proiezione che avviene in occasione di un nuovo e inedito restauro a seguito del ritrovamento, nell’agosto del 2008 a Buenos Aires (presso il Museo del Cine), di un negativo 16 mm in formato sonoro. Il lavoro di restauro della pellicola è stato realizzato a opera di Friedrich-Wilhelm-MurnauStiftung, Deutsche Kinemathek con la collaborazione della Cineteca di Bologna, che lo scorso marzo ne ha curato la proiezione in 70 sale italiane.

La stessa componente sonora, firmata da Gottfried Huppertz, ha subito un rimaneggiamento a opera di Frank Strobel, che ha saputo rimodernizzare l’opera mantenendo le sfumature cromatiche e la ricercatezza armonica che caratterizzarono lo stile di Huppertz.

Un universo distopico dalle geometrie surreali, dominato da due mondi antitetici: nelle profondità della terra il mondo claustrofobico della forza lavoro, in superficie la futuristica e viziosa città del potere. Lang elaborò e creò tali realtà sulle stesse immagini della propria esperienza personale, più combattuta nella Repubblica di Weimar, più onirica e immaginaria nello skyline di New York e del Nuovo Mondo.

 

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Contrapposizione, ma anche lotta tra due mondi, che rendono Metropolis un’opera dagli stilemi fantascientifici, impregnata da visioni apocalittiche al limite del profetico, speranze messianiche e spunti per una rigenerazione sociale (o nazionalsocialista se pensiamo all’orientamento politico di Thea von Harbou, autrice del romanzo da cui il film e tratto e, all’epoca, moglie del regista Lang).

Un dualismo tra due realtà contrapposte, eppur inevitabilmente dipendenti l’una dall’altra. Pensatori e Lavoratori, Mente e Braccio. Ma come ci ricorda la compassionevole Maria: «non vi sarà alcuna comprensione tra Mente e Braccio, fintanto che il Cuore non agirà da Mediatore».

 

Luchamos para crear, creamos para vencer

Ci troviamo nel Sud-Ovest dell’America Latina, nel lembo di terra che si estende dal 17° parallelo fino alle terre antartiche. Ci troviamo in Cile, un paese complesso, ricco di storia dura e di bellezze. Un paese che fino ai recenti anni Novanta ha vissuto il peso di una delle dittature più violente e assassine. Dopo il golpe al governo socialista Allende, venne trasformato da Pinochet nell’esperimento neoliberale dell’America Latina. Un Paese, nelle cui vene scorre ancora il sangue dei morti, dei desaparecidos e degli esiliati.
In Cile l’eredità del governo militare si vive, è presente nella Costituzione degli anni ’80, modificata negli anni ma mai abrogata. È presente in quei diritti sociali non pienamente garantiti, ma lasciati alla feroce logica della democrazia di mercato.FOTO2

Il diritto allo studio è uno di questi. Studiare nelle università statali in Cile significa indebitarsi. Una carriera quinquennale, equivalente al nostro diploma di laurea, può costare dai 10.000 euro ai 32.500; cifre, queste, che variano a seconda della città e del tipo di facoltà e percorso di studio. Il sistema di borse di studio vigente lascia fuori la stragrande maggioranza di studenti, pertanto l’unica scelta della gioventù cilena per accedere all’educazione universitaria è quella di contrarre debiti. La “questione studentesca” è un tema molto delicato e discusso, il movimiento estudiantil resta attivo nelle lotte e, quest’anno, ha invaso le università con domande di democratizzazione e gratuità dell’istruzione. Da Arica a Punta Arenas, più di 26 università hanno sperimentato lo sciopero generale e l’occupazione come forme di lotta per riaprire ed accelerare il dialogo con le rettorie.
Ci troviamo a Iquique, nel Norte Grande. Le spinte centraliste il più delle volte mettono sotto riflettori ciò che accade nella Regione Metropolitana di Santiago, oscurando tutte le altre zone del Paese. Iquique ha una forte coscienza studentesca: nel 2006, anno del movimento dei pingüinos, gli studenti medi che riempirono le piazza e le strade ottennero, oltre alla riduzione delle tasse d’iscrizione, la creazione di un Consiglio per la qualità dell’educazione; nel 2011, anno che rappresentò una vera e propria sfida per il movimento studentesco, le università iquiquegne restarono in “toma” per ben otto mesi, lottando contro un sistema educativo statale finanziato soltanto al 25% dalle casse dello Stato e per il restante 75% dagli studenti. Iquique visse da città protagonista entrambi i movimenti e anche quest’anno gli studenti sono tornati a manifestare per un reale diritto allo studio. Qui, sono due le università statali che hanno resisistito in “toma” per diversi mesi.

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In prima linea i ragazzi dell’Arturo Prat, organizzati nel Bloque Social, nato nel 2011 nelle facoltà di Trabajo Social, Psicologia e Sociologia e riformatosi quest’anno con un’adesione trasversale. La nuova ondata di protesta segue due filoni di lotta paralleli: da un lato la democratizzazione delle università a livello nazionale, dall’altro una serie di proposte per migliorare il sistema educativo a livello locale. Il primo ha a che vedere con una più egualitaria partecipazione degli studenti nel dibattito per costruire la riforma per una istruzione pubblica (Reforma de la Educación Pública). Si chiede che l’abrogazione del decreto DFL 2, retaggio della dittatura militare e avvenuta soltanto lo scorso anno, diventi effettiva e che consenta, così, agli studenti e ai funzionari amministrativi di partecipare alla votazione delle istituzioni universitarie secondo il metodo della triestamentalidad. Nel concreto, si esige l’istituzione di un tavolo di discussione in cui siano presenti al 33,33% professori, studenti e personale amministrativo in egual misura. La funzione di tale organo è discutere e informare sul regolamento interno, sugli organi di rappresentanza e sul finanziamento dell’università.
Dall’altro lato, durante l’ occupazione, si è redatta una petizione per migliorare l’insegnamento e le condizioni di vita studentesca dell’università Arturo Prat. Ci racconta Diego, 21 anni al terzo anno di Farmacia, di come l’occupazione sia nata da un’esigenza degli studenti di contrastare le misure della riforma riguardanti la carriera docente. “Il progetto di legge del governo prevede che ogni corso universitario cileno possa tenere un solo esame che abiliti gli studenti all’insegnamento”, spiega Diego, “ svalutando del tutto la Facoltà di Pedagogia, atta alla preparazione di professori qualificati, creando così una nuova classe di professori impreparati e non formati adeguatamente. Abbiamo bisgono di professori preparati e che vegano formati in una facoltà specifica”. Dall’urgenza di queste istanze, iniziano le prime mobilitazioni tra aprile e maggio. La prima facoltà a scegliere la via dell’occupazione fu Scienze Umane. Da qui iniziarono le prime trattative con il rettore e delle vere e proprie simulazioni di votazioni degli organi interni alla facoltà secondo il metodo della triestamentalidad, proposto a livello nazionale. Sulla scia della facoltà di Scienze Umane, si mossero nelle settimane successive gli altri studenti che, a fine maggio, dopo due giorni di sciopero generale, decisero di riappropriarsi degli spazi dell’università. Tutto questo per aprire opportunità di informazione, dialogo e discussione con gli altri studenti.

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Nei mesi di toma si organizzano workshop, incontri, proiezioni, giornate di autoformazione in cui partecipano studenti e professori vicini al movimiento. La vita in toma ha un sapore speciale, si fanno turni per cucinare, per pulire gli spazi e organizzare le attività. Si vivono giornate intense, di interesse partecipato e condiviso. Alcuni studenti partecipano alle riunioni con la Rettoria una volta a settimana. Si scrivono su carta le proposte nate dalla condivisione di idee e si preparano tre temi di negoziazione: la democratizzazione dei processi interni, la gratuità dell’istruzione a livello nazionale (così com’era garantita nel governo Allende) e la petizione interna. La motivazione degli studenti é forte e ció li porta a continuare la lotta fino ad ottenere ció che chiedono a voce alta. “Crediamo che l’istruzione non sia un bene individuale, bensí collettivo”, continua Diego “Quando uno stato ha una buona educazione pubblica e gratuita, la societá ottiene un valore aggiunto che va a beneficio di tutti. É cosí che piú persone possono contribuire, con la loro conoscenza, allo sviluppo del Paese. É per questo che continueremo a lottare per garantirci un futuro”.
Dopo quattro mesi di occupazione, ottenute gran parte delle condizioni richieste nella petizione interna, gli studenti decidono di tornare a lezione. Dai mesi di lotta si ottengono, tra le varie cose, più pasti gratuiti, asili nido gratuiti per i figli degli studenti dell’ateneo, un sistema di connessione a internet efficiente, un progetto per finanziare il trasporto degli studenti residenti nelle città limitrofe e l’apertura di un tavolo di discussione in cui parteciperanno i rappresentanti del movimiento estudiantil. Si festeggia, gli studenti si dicono vittoriosi ed entusiasti della lotta. Ma consapevoli che nel secondo semestre li aspetterà un compito ancora più difficile: mantenere vivo il dialogo democratico e la partecipazione nei processi decisionali.

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Per le vie di Camogli – Mare, cultura e colori

A una settimana dal Festival della Comunicazione nella cittadina di Camogli, è giunto il momento di portarvi nei luoghi che hanno fatto da sfondo alla diretta della ciurma di Pequod.

Il colore è il protagonista indiscusso del panorama camogliese e i palazzi variopinti che si specchiano nel golfo antistante ne sono la prova più immediata. Nella storia della cittadina ligure, i palazzi colorati hanno spesso svolto un ruolo importante, essendo contornati da linee più chiare, aiutavano i pescatori a individuare più facilmente la propria casa nelle ore buie di ritorno dal mare.

Camogli si trova quasi a picco sul mare, aspetto che la avvicina alle altre città liguri, e si inerpica lungo viette strette e suggestive, lungo le quali non è difficile incontrare intere facciate di edifici dipinte con la tecnica del trompe-l’œil che crea chiaroscuri e decorazioni davvero interessanti.

Di particolare interesse è stata la presenza sulla spiaggia di un’istallazione, opera del biologo marino Maurizio Wurtz, dal nome Salviamo il Mediterraneo. Durante i giorni del Festival infatti sono stati posizionati sulla spiaggia di Camogli e nello specchio di mare antistante una decina di modelli di cetacei in scala 1:1 in modo da simulare uno spiaggiamento di massa. I modelli rappresentano fedelmente una specie di delfino presente nelle acque liguri il cui spiaggiamento è spesso causato dall’inquinamento acustico.

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#MilanoFilmFest: Song of the sea

Nei giorni in cui tutti sembrano celebrare il ritorno della Pixar con Inside out, arriva al Milano Film Festival una delicata e altrettanto suggestiva animazione che proprio con le emozioni ha molto a che fare.

Song of the sea, secondo lungometraggio del regista irlandese Tomm Moore, è semplicemente un capolavoro. La storia è quella di  Saoirse, tenera bambina orfana di madre che vive insieme al fratello e al padre su un isolotto lontano dal mondo, dove la vita scorre lenta e monotona.

Saorise non sa parlare e vive le giornate chiusa in se stessa, isolata dal fratello che imputa alla sua nascita la morte della madre. Ma nel destino della piccola c’è qualcosa di più; lei, discendente delle selchidh, esseri magici legati al mare, è la sola che con il suo canto può sconfiggere la strega dei gufi e riportare alla vita tutti coloro che perdendo le loro emozioni sono stati tramutati in pietra.

Candidato all’Oscar, proprio come il precedente lavoro di Moore (The Secret of Kells – 2009), Song of the sea mostra tutto il talento dell’animazione europea. Se l’animazione americana cresce ormai – dall’avvento della CGI – solo di tecnica, e ogni sua sperimentazione è principalmente di ingegneria informatica, altra è la strada degli studi europei che i mezzi della Disney e della Dreamworks non hanno mai avuti.

Qui la sperimentazione è in senso artistico, come alla Cartoon Saloon di Moore, dove il disegno in 2D incontra il digitale in una fusione di tecniche e stili così fluida da lasciare una sensazione di puro incanto. Song of the sea è semplicemente incanto. E se la grafica, la musica e gli incredibili giochi di luce fanno la magia del film è anche vero che il regista non cede mai all’estetica fine a se stessa di molti altri lungometraggi.

Song of the sea è potente perché è prima di tutto una bella storia. La sceneggiatura originale di Will Collins tiene incollati allo schermo; avvincente quanto intelligente trascina con sé tutto il resto del film riuscendo a stupire un pubblico di adulti e bambini.

Difficile immaginare un lungometraggio d’animazione più meritevole dell’Oscar – specie se a portarlo a casa davvero sono prodotti come Big Hero 6 – ma in termini di potere l’animazione europea sarà sempre inferiore a quella d’oltreoceano. Rammarico insignificante, comunque, finché i lavori restano di questo livello.

Nascondino World Championship: tana libera tutti!

Prendete il gioco più amato dai bambini di tutto il mondo, aggiungeteci un immenso parco a disposizione per poterci giocare, un pizzico di sano agonismo e 10 giocatori di football pronti a placcarvi a vista. Mescolate il tutto e avrete la ricetta perfetta per il Nascondino World Championship! (link)

Sabato 12 settembre si sono affrontate nello spazio bergamasco del Parco di Loreto a suon di “Tana per me!” 160 persone per disputare la VI edizione dei campionati mondiali del gioco più conosciuto e più giocato al mondo: nascondino. L’idea, tutta italiana, nasce nel 2010 dall’iniziativa di CTRL magazine, che in quell’anno si occupava di promuovere un calendario denso di attività che spingessero i cittadini ad uscire e godersi ciò che la loro città aveva da offrire.

Anche il nascondino può essere visto sotto questo punto di vista come un invito ad uscire allo scoperto tutto l’anno per nascondersi soltanto nelle date e nel luogo della competizione. Gli organizzatori non mancano di evidenziarne l’importante aspetto culturale presente insieme all’aspetto puramente ludico: «Non esiste infatti un ideatore o una data di creazione del nascondino, è diffuso in tutto il mondo come se il nascondersi fosse un atto insito nell’animo umano».

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Il regolamento è stato leggermente modificato in modo da permetterne una maggiore giocabilità: le 32 squadre presenti, composte ognuna da 5 giocatori, hanno gareggiato in manche da 15 giocatori ciascuna.

I partecipanti si sono nascosti in 60 secondi, passati i quali sono stati cercati, inseguiti e placcati da una squadra di “seekers”, che, malauguratamente per chi è stato preso, era formata dalla squadra bergamasca di football americano, i Lions.

Chi invece è riuscito a sfuggire alle potenti braccia dei cercatori si è “liberato” buttandosi su un grosso materasso gonfiabile con la funzione di “tana”. Oltre ad alberi e cespugli sono stati aggiunti nel parco nascondigli artificiali come armadi o vasche da bagno, per evidenziare ancora di più l’aspetto ludico della competizione.

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In palio per la squadra vincitrice c’era la Foglia di Fico d’Oro, biblico emblema dell’atto del nascondere e del celare. Ad aggiudicarsela è stata la squadra dei “Piccoli Pinocchietti”, bergamaschi della zona Isola.

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Quella di portare il nascondino ad un livello sportivo agonistico su scala mondiale non è un’idea così azzardata. Già Yasuo Hazaki, docente giapponese di Scienza dello Sport, cogliendo l’occasione dell’assegnazione delle olimpiadi 2020 alla città di Tokyo, ha lanciato al comitato organizzatore la proposta di includere nella competizione il nascondino.

E a chi obietta che il nascondino non rientri in nessuna categoria di sport il professore risponde: «Bisogna saper correre, mantenere un equilibrio e spesso un’immobilità assoluta mentre ci si nasconde, richiede intuito, agilità e gioco di squadra, è uno sport eccome. Inoltre, diversamente da tanti sport odierni che richiedono eccezionali prestazioni fisiche per essere giocati, il nascondino può essere giocato praticamente da tutti, a qualunque età, e in qualunque luogo».

Elav Indie Festival all’ex cartiera Pigna: un foglio bianco tutto da scrivere

In questo fermento festivaliero Pequod non poteva lasciarsi sfuggire la quarta edizione dell’Elav Indie Festival (link). Come ogni anno il birrificio indipendente di Comun Nuovo (BG) si attornia di grandi artisti e grandi progetti assolutamente in linea con l’etica e lo spirito di Elav, e quest’anno si è scelta una cornice mozzafiato: lo Spazio FaSe (che coincide con l’ex cartiera Pigna di Alzano Lombardo).
Tenetevi pronti perché proprio da oggi sarà un susseguirsi di esposizioni, proiezioni, live painting e concerti che faranno rivivere uno stupendo esempio di archeologia industriale creando un’atmosfera dal sapore internazionale, alternativo e un po’ indie.
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In questo irresistibile guazzabuglio artistico e indipendente procederemo con ordine (alfabetico):

B di Birra. Essendo il festival organizzato dal Birrificio Indipendente Elav (link) non mancheranno le loro birre artigianali, ma non solo! Saranno presenti anche vari birrifici italiani tra cui il Birrificio Amiata di Grosseto, il Birrificio Pontino di Latina e una selezione di birre belghe curata da Einmass Pub di Montello (BG).

C di Cinema. Biografilm Festival di Bologna  (link) è ormai un partner consolidato di Elav e non poteva assolutamente mancare! Cancellate i vostri impegni (che tanto la domenica pomeriggio non si sa mai cosa fare) e godetevi la proiezione del film Sugar Man del regista svedese Malik Bendjellove, sulla storia del cantautore statunitense Sixto Rodriguez – un film da Oscar 2013, come miglior film documentario. Un ottimo modo per celebrare il cinema indipendente, sorseggiando magari una gustosa birra indipendente.

E di Editoria. Bolo Paper  (link) coordinerà un ampio spazio dedicato ai fumetti e alla micro editoria indipendente. In una ex cartiera di stampo industriale potrete sfogliare pubblicazioni uniche, artigianali e curate nei dettagli, nei materiali innovativi e nell’attenzione per il design.

M di Musica. E adesso Wow! Una succulenta selezione di artisti italiani e internazionali si alterneranno in questo fine settimana. È la prima volta che dei musicisti si esibiranno negli ampi spazi vuoti della vecchia fabbrica, tra questi: la cantautrice Cristina Donà, Humulus ovvero il gruppo stoner “che si tuffa nella Elav Humulus Black Stoner IPA, una birra scura della quale i tre musicisti sono co-autori e con la quale sono i protagonisti del loro ultimo video”, un pizzico di psichedelia metallica trevigiana dei Bleeding Eyes, l’inclassificabile libertà musicale di Rich Apes, del buon vecchio e avvolgente reggae di Raphael & Eazy Skankers + Sistah Awa ed infine del folk un po’ psichedelico, un po’ londinese di Helsinki e quello più indie e australiano di Steve Smyth.

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S di Street Art. Immancabile è Pigmenti (link), il Laboratorio di Arte Urbana di Bergamo, che realizzerà diverse opere durante il festival e presenterà il nuovo progetto Time Specific per la rivalutazione di diverse zone urbane, ma soprattutto d’incontro e partecipazione sul territorio bergamasco.

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Ci sono tutti gli ingredienti giusti per quattro giorni di arte, musica e performance di grande qualità, di birre artigianali e tanta gente sorridente.

#MilanoFilmFest: Intervista a Sarah Saidan, le donne in Iran e l’animazione

Sarah Saidan è una giovane e promettente animatrice e regista: quest’anno ha presentato un cortometraggio al Milano Film Festival dal nome Beach Flags – Une épreuve de sauvetage, con cui ha già partecipato al Festival di Cannes, al Sundance Film Festival e ha vinto il Premio Amnesty al Giffoni Film Festival.

In Beach Flags Sarah racconta la storia di Vida, una giovane bagnina iraniana, che vuole partecipare a una competizione internazionale in Australia. Quando Sareh si unisce alla squadra delle bagnine, le cose iniziano a cambiare per entrambe.

Pequod ha intervistato in esclusiva Sarah, per sapere qualcosa di più sulla sua vita e sul suo piccolo e curatissimo capolavoro.

 

Sarah, quando hai iniziato ad amare l’animazione?

«Amo l’animazione sin da quando sono bambina, come tutti a quell’età, ma non avrei mai pensato che un giorno avrei potuto far parte di questo mondo! Così, quando studiavo Graphic Design, ho frequentato un corso di animazione, ma dal momento in cui ho visto i miei disegni muoversi non ho avuto più dubbi: ho deciso che sarei diventata un animatore, anche se a quel tempo pensavo che non sarebbe stato facile.

Dopo circa dieci anni, grazie a Sacrebleu Productions, ho finalmente avuto la possibilità di avere il giusto budget e un vero team per realizzare il mio primo cortometraggio professionale, che è stato per l’appunto Beach Flags nel 2013. Tutto quello che ho fatto prima sono stati piccoli corti senza budget e quasi senza alcuna diffusione».

Quando e perché hai deciso di raccontare la storia di Vida?

«La situazione delle donne atlete in Iran mi ha sempre interessato. Vivono in una condizione difficile, specialmente le nuotatrici: ho parlato molte volte con loro e mi hanno raccontato di come non possono essere viste in costumi da bagno in luoghi pubblici e di come non possano prendere parte a competizioni internazionali, perché a loro non è permesso. Questo, per me, è oltraggioso.

Un’amica, un giorno, mi ha raccontato che sorprendentemente le bagnine iraniane avevano vinto in una specie di competizione per guardaspiaggia. Non riuscivo a capire come fosse stato possibile, ma dopo qualche domanda ho scoperto che in queste competizioni per bagnine ci sono molti giochi, e uno in particolare è chiamato Beach Flags: una corsa di 20 metri sulla sabbia per raccogliere delle bandierine. Siccome la competizione non ha luogo in acqua, le ragazze possono partecipare con il velo e completamente coperte.

Questa era una buona notizia, ma allo stesso tempo ho avuto in mente quest’immagine ironica delle nuotatrici, che corrono sulla spiaggia ma non posso partecipare alle competizioni di nuoto… Dovevo fare qualcosa con quest’immagine che non avrebbe lasciato la mia mente».

 

 

Con quale dei tuoi personaggi di Beach Flags ti identifichi di più? Con Sareh o con Vida?

Non so, penso con entrambe. Vida è assorta nel pensiero della vittoria, è molto competitiva e ha grandi sogni: corre per vincere. Sareh ha enormi difficoltà nella vita, lei sta scappando, non ha letteralmente altra possibilità. Alla fine queste due ragazze scoprono che entrambe corrono per la stessa causa, la quale le porta a qualcosa di significativo per entrambe.

 

 

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Al momento sto lavorando a un cortometraggio per TED-ED, ma allo stesso tempo anche alla storia e al copione del mio prossimo film, che tratterà ancora di una donna e del suo vissuto.

Non ci resta che augurare buona fortuna a Sarah Saidan per il suo lavoro, perché di questa talentuosa ragazza sentiremo parlare ancora in futuro! Chissà… Oggi su Pequod, domani agli Oscar!

#MFF – Linea Gialla, una fotografia di Milano che cambia

In occasione dei suoi sessanta anni, MM (Metropolitana Milanese) in collaborazione con il Milano Film Festival, presenta Linea Gialla, quattro proiezioni, tre lungometraggi e una serie di cortometraggi dove Milano e il genere noir/giallo sono il filo conduttore.

Con la scelta di queste pellicole hanno costruito una fotografia di Milano che mostrata la trasformazione che nel corso degli anni la città ha vissuto. Linea Gialla si apre con Milano Nera di Gian Rocco e Pino Serpi, film-caso dei primi anni sessanta, lo sceneggiatore, che era Pier Paolo Pasolini, ritrattò poi il suo contributo per apparire solo come collaboratore. Il Film conserva però lo “sguardo” di Pasolini, perfetto per inquadrare i margini della società milanese mentre il boom rilevava le sue contraddizioni.

Vermisát di Mario Brenta, è invece un disperato ritratto di un ex contadino senza fissa dimora e senza lavoro che per vivere raccoglie vermi nei fossati del milanese per venderli come esche ai pescatori. Si ammala ma non si fida degli ospedali e delle loro medicine, si affida alle cure di un ciarlatano, il Medicon, che gli fornisce delle medicine, fasulle, in cambio di sangue.

La città che sale, una serie di cortometraggi di autori milanesi sulla città: scorci di vite vissute e in divenire, e di luoghi familiari.
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Ieri sera è stata la volta, invece, di  A casa nostra, in ordine cronologico si può considerare come ultimo film di questo percorso; del 2006, è diretto da Francesca Comencini con Valeria Golino, Luca Zingaretti, Giuseppe Battiston, Laura Chiatti e Luca Argentero. È una fotografia spietata di una Milano degli anni duemila, dove se hai il denaro, di conseguenza, hai il potere, e ogni personaggio raccontato ha una propria ossessione.

Racconta diverse storie, vite parallele che non s’incroceranno mai, e il denaro protagonista di tutto; denaro per acquistare oggetti, sentimenti, vite, favori, potere. Nel finale invece tutte le micro-storie si incrociano. Il potere e il denaro subiscono una sconfitta, l’amore e la giustizia, ottengono un parziale riscatto.

Il personaggio di Valeria Golino, Rita, nella scena del primo confronto faccia a faccia con Ugo (Zingaretti), dice una frase che nell’arco di nove anni non è diventata vecchia e rappresenta la voce di molte persone: «No, voi, come vi permettete! Pensate di fare come vi pare, eh? Ma questo paese è anche casa nostra».

Linea Gialla racconta perfettamente con l’uso delle storie raccontate nei vari film, il cambiamento che Milano ha vissuto e che tuttora è in corso.

GoCambio: not only language skills

GoCambio is not only about exchanging language skills. Any skill or art can be traded, as did Biru, a 21-year-old Sound Engineer from Washington DC. He helped his hosts setting up a recording studio and he got the chance to visit many English cities. Read his interview below.

How did you find out about GoCambio?

I was studying in Dublin, Ireland this past year and my roommate was from the country. He had invited some people over for a get together and I started talking to one of them. I had told her how I had just finished backpacking Europe the summer before and we bonded over how much we love seeing new places. She was one of the GoCambio test-runners and she said that I would love the site. So I looked it up, signed up, and took a chance with a family in Leeds and it was amazing!Cambio 2Can you describe the passages one has to do before setting off? Would you describe it as easy?

The online meeting process was a breeze. I just had to get a few personal recommendations for them, then the site and we had a Skype call so we could put the names to the faces.

 So, you were a Guest, which means that you were hosted for free and in exchange you had to help your host with learning and improving a language, your language. What did you do, precisely? Can you describe your day while on “cambio”?

My Cambio was a special one. The Hosts were actually looking for a Spanish tutor, but found me instead. I Cambio’d for my skills as a Music Producer and Sound Engineer. I helped the family set up their studio, learn how to use the software’s and recorded a radio show (My Name is Bill: An Evening with an Alcoholic). This is why GoCambio is great: it can be used for much more than just language. Any sort of trade can be a selling point, I just happened to be the first one that did anything like that for GoCambio.

A normal day started around 10:00. We would have breakfast and then go work for a few hours. Around 13:00 we had a break for lunch, then when we finished it was back to work. We’d finish up whenever we wanted to, usually around 18:00, as this was dinnertime. After dinner we’d watch some television and then head off to bed. All the work I did was my trade, so I enjoyed it and it never felt like work.
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Did you like your host?

My hosts and the family were great! I had an amazing time with them and we still keep in touch via email.

Would you say that you had time enough to enjoy the city and your trip? Is the “cambio” way demanding in any way or not?

I had plenty of time to travel around as well as work with the hosts. I got to visit Leeds, Bradford, as well as Harrogate. The Cambio was very organized and relaxed.

Is there a moment that you especially enjoyed and would like to share with us? Anything nice or particular that happened with your host?

The family took me out to dinner at an Indian restaurant, Akbar’s, in Bradford. This was amazing because I am part Indian so it felt like a home meal! Naan is amazing.Cambio 3Did this experience with GOCambio influence your idea of Europe in any way? Was it significant in terms of belongin to a larger community?

GoCambio helped me fill out more of the world in my head. It’s so hard to be in one area knowing that the world is so big. We’re all different and we all live life in different ways. Even though the Cambio was in another English speaking country, everything operated differently than Ireland, or even America did. Living with a family in a foreign city is a more immersive and, in my opinion, more desirable way of traveling than staying in hostels.

#FestivalCom – Chiusura anticipata a Camogli. Ma il Festival piace, parola di Rosangela Bonsignorio

Si dice che una sposa bagnata sia una sposa fortunata. Ci auguriamo che lo stesso valga anche per il Festival della Comunicazione di Camogli che oggi, a causa dell’allerta meteo di livello 2 emessa dalla protezione civile, ha dovuto chiudere i battenti con un giorno di anticipo. Sono così saltati gli interventi dello youtuber Daniele doesn’t matter, del giornalista (e amico pequodiano) Beppe Severgnini, del regista Enrico Ghezzi. Per non parlare di Umberto Eco, che avrebbe dovuto chiudere il Festival con l’intervento “Tu, lei, la memoria e l’insulto”.

Ma nonostante la poca fortuna con il tempo, la kermesse ha dimostrato di essere ancora un apprezzato luogo di incontro tra esperti della comunicazione:  91 relatori per 55 conferenze, quattro spettacoli, un reading musicale, laboratori, mostre ed escursioni per adulti e bambini, per un totale di 80 eventi gratuiti, dedicati al linguaggio e ai suoi cambiamenti. Non sono poi mancati i visitatori, tanti anche per quest’anno: “C’è stata una bellissima atmosfera – ci spiega Rosangela Bonsignorio, direttrice del Festival della Comunicazione intervistata in esclusiva per Pequod – e lo si percepiva nell’aria. Oltre agli adulti ci sono stati tanti bambini e turisti che, complici il luogo, hanno passato volentieri qualche giornata al mare”.

Merito del nuovo programma, diviso in quattro aree tematiche “Abbiamo voluto dare spazio all’informazione scientifica – prosegue la Bonsignorio – invitando i ricercatori dell’IIT. Ai bambini abbiamo dedicato i laboratori, mentre per i turisti sono state pensate alcune escursioni nell’entroterra”.

Un po’ assenti i giovani, sui quali Rosangela Bonsignorio ci ha però rassicurati: “C’è ancora tanto lavoro da fare. Ora rilassiamoci e tiriamo un bel respiro, abbiamo tutto il tempo di pensare al prossimo anno”.

#FestivalCom – Le ultime ore di Cristo raccontate da Augias

E’ con uno sguardo dichiaratamente limitato all’aspetto storico e fattuale delle ultime 18 ore della vita di Gesù quello con il quale Corrado Augias si è presento alla conferenza da lui tenuta la sera del terzo giorno del Festival camogliese. Cercando di sintetizzare decenni di studi sugli ultimi, convulsi momenti della vita di Cristo inizia analizzando la figura di Giuda. Proprio questo personaggio, passato alla storia come il traditore per eccellenza, viene rivalutato alla luce del Vangelo di Giuda, elevandolo, e riconoscendolo forse come vittima predestinata di un disegno divino: questo infatti dice che, affinché si compisse la visione divina, il profeta, Gesù, doveva morire. Cristo chiese, infatti, a Giuda di «Spogliarlo della sua veste di carne», quindi di liberare il suo spirito con la morte, com’è scritto nel Vangelo apocrifo di Giuda.

Vi è poi la controversa scena del processo, in cui Pilato disse la famosa frase: «Io non vedo colpa in quest’uomo», ma Augias evidenzia la stranezza di una dichiarazione di questo tipo: un governatore romano, rozzo come Pilato, nella sua superbia non avrebbe mai chiesto alla folla un consiglio su come agire. Matteo riporta poi le parole del popolo quando a esso si rivolge Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Quest’ultima è una frase sicuramente interpolata in seguito, infatti l’evangelista la inserisce perché «Tutto il popolo» rappresenta un’esagerazione voluta, per attirare la benevolenza dei romani scaricando la colpa sugli ebrei.

Infine il supplizio finale: la croce. Era un supplizio terribile e i Vangeli ne parlano in modi diversi : Marco fa pronunciare a Gesù le parole: «Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?» e muore urlando come un uomo qualunque. Il solo grido è in sé una tragedia. Luca gli fa pronunciare come ultime parole quelle del Salmo XXI di Isaia. Giovanni è il più elusivo, perché per lui Gesù nel momento finale dice: «È tutto compiuto». Con il passare degli anni da un testo all’altro la morte viene resa più aderente a una morta cercata, dandole la veste della visione provvidenziale che la religione voleva mettere in rilievo.

 

Ph. Andrea Pellegrini [CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

#FestivalCom: Natalia Aspesi, l’amore ai tempi della rubrica del cuore

Su carta intestata o per mail, uomini e donne, tutti gli amanti, almeno una volta nella vita, hanno scritto alla rubrica “Questioni di cuore” di Natalia Aspesi. La giornalista, complice l’età, ha letto migliaia e migliaia di storie d’amore nella sua vita: dapprima scritte a penna e oggi anche per mail. Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: nell’era del “Fidanzamento ufficiale” di facebookiana memoria, non si rischia di travisare e disgregare i sentimenti? “Non proprio – dice la Aspesi – piuttosto porta a trovare fidanzati aleatori, che prima o poi si dissolveranno quasi sempre in silenzio. Il che non è un male: con la rete le relazioni si concludono in modo “soft”, evitando litigate e, in extremis, la violenza contro le donne”.

 

E a proposito di donne la Aspesi dice: “Le donne hanno sempre saputo che gli uomini non servono a nulla se non per il mantenimento”. Purtroppo però col marito che tradisce non se la prendono mai, se la prendono con la “zoccola”: “Attente donne – ammonisce la Aspesi – perchè io credo che il tradimento sia l’unica cosa che mantiene vivo il matrimonio”. Ma chi tradisce di più, l’uomo o la donna? “Le donne sono furbe: non fanno sapere nulla, cucinano una buona polenta e quindi il marito è contento. Per gli uomini..beh, alla mia età ormai non lo so più!”. Una simpatia travolgente unita a lucide considerazioni: “L’uomo è sempre più fragile: ha un attaccamento alla famiglia molto più forte di quello che può avere la donna, cerca l’amore”

 

Un’esperienza lunghissima, accumulata, come dice la Aspesi, “dalla barba di avere letto mille e mille lettere tutte uguali a se stesse. All’inizio mi scrivevano i maniaci, quelli che vedevano la mamma (o la nonna!) sotto la doccia: ma io non rispondevo e così hanno smesso. Da lì è iniziata una lunga sequela di amori perduti, calpestati, ma anche nuovi e travolgenti”. Mille storie, che però sono sempre molto simili a sé stesse perché l’amore è sempre quello fin dall’inizio dei tempi: a cambiare è piuttosto il modo, individuale, di affrontarli.

 

Ph. Chiara Pasqualini via artapartofculture

#FestivalCom Gad Lerner: come il presente diventerà il futuro

L’informazione italiana? Si comporta come il medico pietoso che non dice chiaramente al paziente che malattia ha.

Questa per Gad Lerner è la metafora che rende in modo chiaro il concetto di un’informazione non reale e poco oggettiva. La ‘colpa’ è principalmente degli esperti di marketing, che seguono i numeri e ciò che fa audience, lasciando così sullo sfondo tutte le vicende più scomode degli ultimi tempi accadute nel Mediterraneo e in Europa.

Credo che questi problemi, che riguardano il nostro futuro, dovrebbero essere al centro nella nostra informazione – spiega il giornalista – ma non sono una priorità, purtroppo. C’è un limite culturale: l’età elevata della media di lettori e spettatori preferisce infatti guardare in casa propria e fare polemica su faccende domestiche: ho il timore che questa ‘non comunicazione’ in tempo di guerra possa avere effetti secondari indesiderati”.

Per rendere meglio l’idea, Lerner riprende un fatto avvenuto pochi giorni fa: “In Siria – prosegue – si è da poco scatenata la più grande tempesta di sabbia che si ricordi. Di fronte a questo fenomeno senza precedenti i meteorologi hanno sostenuto che l’assenza di colture nel terreno ne sia stata la causa. D’altra parte non sono mancate osservazioni di altro tipo, quasi messianico, che si tratti cioè di un messaggio religioso e apocalittico, dell’avvento di un mondo nuovo che faccia tabula rasa di quello che abbiamo vissuto”.

Un’apocalisse che sembra avvicinarsi, dunque, se non in Italia almeno in Europa: proprio qui, infatti, sono state compiute le recenti stragi terroristiche. Opera di lupi solitari, figli di seconda o terza generazione allo sbando, che di colpo vivono una nuova conversione: sono giovani pronti a immolarsi mossi da idee medievali e con mezzi puramente occidentali, che tra passato e presente giocano al feroce Saladino, che brandisce le vecchie scimitarre ma che per combattere la guerra vera usa armi moderne.

Prima o poi toccherà anche a noi capire quello che sta accadendo”.

Il governo italiano, i servizi segreti, le forze armate devono così dirimere interrogativi cruciali sulla sorte del nostro popolo ma, soprattutto, sulla vita dei prossimi anni. Quando ancora saremo di fronte a una bufera che, purtroppo, non è di sabbia.

Ph. Giacomo Maestri

#festivalCom: Il bosone di Higgs in parole povere

Marco Delmastro è un fisico delle particelle facente parte del team del CERN di Ginevra che il 4 luglio del 2012 ha scoperto il bosone di Higgs,  uno degli eventi scientifici più seguiti dai media negli ultimi anni.

Come spiegare ai non addetti ai lavori che cos’è?

Un giornalista pigro ha usato la metafora della “particella di Dio” e c’è chi, come Il NewYork Times, ha fatto uno sforzo maggiore per spiegarlo: con dei disegni ha mostrato che c’è un campo innevato, a rappresentare il campo di Higgs, in cui gli esploratori, ovvero le particelle, vagano a velocità diversa, mentre in cielo volano degli uccelli (altre particelle molto veloci). I fiocchi di neve che cadono, sono i bosoni di Higgs.

Metafore che comunque non spiegano completamente il valore della scoperta.

Una famosa metafora è quella della festa dei fisici: i fisici che riempiono la sala rappresentano il campo di higgs, quando a un certo punto arriva un esattore delle tasse che viene ignorato (una particella con cui non interagiscono le altre), mentre quando arriva Peter Higgs, una particella pesante, fa fatica a muoversi perché tutti vogliono incontrarlo.

Quindi cosa è il bosone? È il pettegolezzo che stia per arrivare Higgs, quella cosa che fa aggregare in capannelli i fisici. Questi esempio migliora un po’ la situazione, ma lascia ancora qualche dubbio.

Come spiega Marco Dalmastro questa fondamentale scoperta?

Lui usa la metafora dei mattoncini di lego: tutto quello che ci circonda è costituito da un certo numero di “mattoncini” elementari di materia chiamati quark, che si compongono e legano tra loro grazie all’aiuto di altri mattoncini chiamati gluoni. Partendo da questi componenti fondamentali, si può costruire tutto.

Ci sono voluti più di 100 anni per scoprire tutte queste particelle elementari.

L’equazione lagrangiana del modello standard descrive come mettere insieme tutti gli elementi fondamentali della materia, ma si è potuta completare dopo la scoperta di tutte le componenti stesse.

Il bosone di Higgs è quella particella prodotta da una teoria del 1964, che ha permesso di spiegare oggi come le particelle elementari interagiscano: questo forse è il modo più interessante di raccontarlo.

Nel 1970 le equazioni ci dicevano come interagivano le particelle, oggi invece grazie ad Higgs sappiamo di più sulle loro masse.

«La conoscenza è incompleta e ci richiama continuamente a rientrare nella danza del metodo», dice alla fine Marco.

Vecchie teorie possono ancora diventare un modo nuovo per raccontare la realtà.

 

Ph. Eetwartti [CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

#FestivalCom – Giornalismo e Media: opportunità o rischio?

E’ sulla risoluzione della crisi nel mondo del giornalismo che Carola Frediani costruisce il suo intervento nella terza giornata al Festival della Comunicazione a Camogli. “Il giornalismo è ormai in crisi da tempo”, dice, “ma c’è una possibilità di risalita, di riscatto. Le testate sono costrette ad andare dove ci sono gli utenti, non è più possibile il monolitismo dei giornali cartacei” pur rilevando l’importanza per un giornale che si muove sui social network di mantenere la propria identità di non adattarsi sempre e solo alle leggerezze che fanno likes, alle leggerezze che possono attirare visualizzazioni, ma di concentrarsi anche sulla ricerca di giornalismo serio, di cui spesso i giornali non riescono a soddisfarne la ricerca.

La stragrande maggioranza degli utenti su internet accede alle notizie tramite facebook, ma i giornali hanno capito che non basta fermarsi all’“ecosistema facebook”. Bisogna dunque sviluppare altri metodi per avvicinare gli utenti, ad esempio la BBC nel 2014 ha fatto un servizio di notizie in tempo reale sull’emergenza Ebola con whatsapp, con il quale ogni utente che decideva di usufruirne ogni tot ore riceveva degli aggiornamenti direttamente sul proprio telefono.

I giornali devono inoltre costruire, sulla base delle esigenze degli utenti, una comunità, aprendo ad esempio la possibilità di commentare i propri articoli, ma solo su notizie locali e non quelle su scala nazionale perché è sulle notizie locali che si può creare una discussione costruttiva.

Un altro problema evidenziato dalla Frediani è la velocità di diffusioni delle notizie che i media devono saper affrontare e gestire. Molti siti d’informazione riportano, infatti, notizie non verificate ma “copia-incolla” da altri trasformando l’informazione in disinformazione. Ciò è deleterio. Gli altri giornali devono smontare le bufale, dando un titolo accattivante per dare un segno forte contro questo fenomeno.

Il giornalismo serio di un giornale è un giornalismo di indagine e richiede molto tempo. Anche pubblicare il giornalismo serio, presenta le sue difficoltà, bisogna fare in modo che i lettori riescano a seguire tutto l’articolo senza mai perdersi. “Bisogna ripartire dal servizio al e per il lettore”.

 

Ph. Alexmar983 [CC BY-SA 4.0/Wikimedia Commons]

#FestivalCom – Marco Tullio Giordana il suo cinema fatto di fuochi e scintille

Piazza Battistoni gremita di gente per il cinque volte vincitore del David di Donatello, regista, Marco Tullio Giordana intervistato da David Parenzo.

Parliamo degli anni 70 e come viene vissuta la coscienza civile dai suoi film, Parenzo si ricollega a una citazione di Giordana «il cinema non deve spiegare, ma raccontare» portando il discorso sul cinema e il suo poter contribuire a cambiarla, qui Giordana, storce un po’ il naso e spiega che ogni regista è permeato dalle sue ossessioni (le sue sarebbero la musica, gli amici e le vecchie macchine), intriso di esse, cerca di raccontare la persona, senza partire dalla politica e tutte le sue illusioni più o meno credibili.

Parenzo incalza cercando di trovare l’attore chiave per il regista, parlando di Lo Cascio paragonandolo al ruolo di Mastroianni per Felini, indebitamente secondo Giordana, che rovescia la situazione tirando fuori il ruolo femminile («anche se non sono un femministo, con la o»), portando l’attenzione sulla maggiore sensibilità che le sue interpreti porgono alla centralità del “viaggio” più che al “destino” a cui arrivare, identificandosi lui stesso in esse.

Dopo aver raccontato le genesi del La Meglio Gioventù, il regista inizia una riflessione sulle parole recitate da un professore nel film, «l’Italia è un posto bello e inutile, destinato a morire» ma inutile perché? Perché non si sa come usarlo, per cui bisogna andarsene da un paese fuori controllo.

Un paese che è stato sconvolto dal terrorismo, periodo erroneamente additato come rivoluzionario, dato che in fondo si parla sempre di un piccolo gruppo militare, non si può neanche nominare come rivoluzione mancata, non c’era rivoluzione ma solo gente piccola e ben poco straordinaria.

Passiamo alla rottamazione, millantata da Parenzo, ma il regista appassionato del mondo dell’automobile la prende con l’accezione di buttare via dei vecchi catorci ma non il patrimonio storico, che va conservato. La politica non porta rottamazione ma a un lento oblio.

Chiudendo la conferenza sul tema dell’immigrazione, Quando sei nato non puoi più nasconderti, parla di una migrazione sempre attuale, non ebbe successo, semplicemente perché tratta un problema che non vuole essere affrontato dalla gente.

Alla fine, ci saluta Marco Tullio Giordana, insieme al suo cinema fatto di fuochi con scintille che narrano una storia.

 

Ph. Yasu [CC BY-SA 3.0/Wikimedia Commons]

#FestivalCom – (Ab)uso di potere. Furio Colombo e il linguaggio della politica

La prima cosa che viene in mente quando si parla di parole sulla politica deve essere il discorso fatto poco tempo fa dal sindaco di Venezia, Brugnato. Gli era stato ricordato che ricorreva l’anniversario di una rappresaglia tedesca contro gli italiani dove furono uccisi sette cittadini veneziani per la morte di un soldato tedesco, annegato ubriaco nei canali. Brugnato, recatosi sul posto, ha detto, in dialetto veneziano, che non era il caso di rinvangare queste storie di guerra civile, quello che contava era il consumo del turismo a Venezia e poiché quel consumo non era aumentato durante l’estate, il suo unico impegno da sindaco era quello di aumentare questa produttività, il resto non importava.

Quando la politica si presenta così, bisogna ricordare e tenere a mente certe cose, perché dito medio per dito medio, vaffanculo per vaffanculo, continueremo a credere che siano solo episodi e che non sia ormai invece la normalità. E’ in realtà un quadro deprimente che va discusso e denunciato perché non diventi l’abitudine e non si dica ‘si è fatto sempre così’. Casi del genere non solo sono di malaffare, ma di malalingua: come direbbe una mamma, è questione di buone maniereFurio Colombo perentorio condanna e senza problemi dice nomi, fatti e colpe.

Quando un intervento del genere è fatto da un politico, diventa abuso di potere”.

La sua non è certo da interpretare come anti-politica, ma come una grande nostalgia per un mondo che in realtà non esiste, né per quanto riguarda la politica, né i media, né l’opinione pubblica che non s’indigna e non si scandalizza perché certe cose continuano ad accadere.

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Bisogna distinguere tra l’uso e l’abuso di potere”.

Il linguaggio della politica è destabilizzato dalla scarsa credibilità degli appartenenti al mondo della politica, che è screditata dalla mancanza di conseguenze serie per chi lo usa ed è sottostante al linguaggio giornalistico: continua a domandarsi qual è la cosa giusta da dire, non qual è la cosa da dire.

La rete in questo senso ha portato delle novità: il cambiamento dei tempi e la possibilità democratica di dire tutto e subito, ma il tweet del politico è un abuso di potere, perché utilizzando la rete, la sua voce sovrasta quella degli altri, ruba ai cittadini lo spazio che gli spetta di esprimersi mentre lui agisce”.

Ringraziamo il Festival della Comunicazione per l’immagine.